Simona Santoni"
Ho visto acchiappare
in tanti modi ma mai con la legalità", dice Tore suscintando
le risate di tutti i soci della cooperativa ne La nostra
terra. È proprio questa una delle qualità migliori del
nuovo film di Giulio Manfredonia (dal 18 settembre al
cinema): rendere ammaliante e capace di appeal la legalità.
Dopo aver diretto
Antonio Albanese nelle satire politiche Qualunquemente e
Tutto tutto niente niente, il regista romano ritrova i toni felici
di Si può fare (2008) e congiunge comicità e riflessione
nel segno della coralità. Allora al centro del suo racconto
c'erano le cooperative sociali che danno lavoro ai
pazienti dimessi dai manicomi in seguito alla Legge Basaglia. Ora
ci sono un'associazione come Libera, impegnata nella lotta
contro le mafie, e la legge sul riutilizzo sociale dei beni
confiscati ai mafiosi.
Manfredonia, autore
della sceneggiatura insieme a Fabio Bonifacci, sceglie un
punto di vista completamente diverso rispetto a quello di
Francesco Munzi in Anime nere, film che ritaglia uno spaccato
di 'ndrangheta cupo e soffocante e che, dopo gli applausi di
Venezia, arriva in sala nello stesso weekend. La nostra terra opta
per l'umorismo arguto e spassoso e per un afflato di speranza. Una
scelta semplicistica? Di certo sì: il boss Nicola Sansone
(Tommaso Ragno) si becca addosso pomodori di sprezzo e
replica nella maniera più sciocca. Di morti ammazzati c'è solo
l'eco e l'unico rosso sangue che si vede è quello della passata
di pomodoro. Però si esce dal cinema con una stilla di fiducia e
con la voglia di essere più coraggiosi.
Contornato da una
pluralità di voci, è Stefano Accorsi il leader della strampalata
comitiva de La nostra terra (come in Si può fare lo era Claudio
Bisio). È lui Filippo, un uomo che da anni fa
l'antimafia lavorando in un ufficio del Nord,
completamente impreparato ad affrontare la questione sul
campo. Nel Sud Italia il podere del boss Sansoni viene
confiscato dallo Stato e assegnato a una cooperativa, che però ‐
per boicottaggi vari ‐ non riesce ad avviare l'attività. Spetta
a Filippo, il "precisetti della legalità", entrare
finalmente in azione e andare oltre gli ostacoli burocratici
e nascosti.
La cooperativa agraria
che mette in piedi è formata dalla più disparata umanità.
Manfredonia calca le cadenze della commedia, finendo nel
macchiettistico: ci sono la bella e determinata
Rossana (Maria Rosaria Russo), lo psicotico Frullo
(Giovanni Esposito), la coppia gay Salvo (Silvio Laviano) e Piero
(Massimo Cagnina), l'immigrato Wuambua (Michel Leroy), il
contadino Veleno (Nicola Rignanese) le cui terre sono state
avvelenate da scorie tossiche, l'ecologista trasognata ed esaltata
Azzurra (Iaia Forte), il disabile Tore (Giovanni Calcagno).
Soprattutto c'è l'ex fattore del boss, Cosimo, un Sergio
Rubini che dà tonicità, vigore e sfumature, la vera colonna
portante del film.
Non mancano momenti
romantici, alquanto fragili e per fortuna rari. Nel suo roseo
mirare Manfredonia comunque non perde troppo di vista la sporca
realtà dei fatti, sfornando una seconda parte che si macchia
di sospetti e paure. "Studiare conta più di sparare, ma se
non spari che studi a fare", è la triste verità di Cosimo.
Che sollievo dolce però, per una volta, non sentire il
rimbombo dolente di pistole.
Prima dei titoli di
coda scorre il giusto ricordo di Pio La Torre, propomotore di
una legge che introducesse il reato di associazione mafiosa e
di una norma per la confisca dei beni ai mafiosi. Fu
assassinato a Palermo il 30 aprile 1982.
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