10 febbraio 2022

VINCENZO CONSOLO SULL'EMIGRAZIONE SICILIANA NEL MONDO

 



Oggi ripropongo un articolo di Vincenzo Consolo sull'emigrazione siciliana nel mondo comparso sull'Ora il 17 febbraio 1969 (ripreso dal libro intitolato Esercizi di cronaca pubblicato dall'editore Sellerio nel 2012). Di seguito l' acuta analisi di Piero Violante di un altro gran libro dello scrittore di S.Agata di Militello L'olivo e l'olivastro. (fv)


LA MAGGIOR PARTE DEI CONTADINI, DEL POPOLO,

È QUI A MILANO, NELLE FABBRICHE E NEI CANTIERI”

di VINCENZO CONSOLO

L' ORA, 17 febbraio 1969.


Il Cantastorie: «Se io facessi come pretendi tu» urla Busacca (ad Ignazio Buttitta) «perderei il mio pubblico! Per piacere al popolino, io devo mostrare Giuliano come un eroe senza macchia!». Questa battuta la riporta Dominique Fernandez nel suo libro Les événements de Palerme. E questa leggo a Franco Trincale, subito appena ci sediamo nella stanza «buona» della sua casa popolare di via Segneri, al Giambellino


«Il popolino, il popolino» dice Trincale. «È un’invenzione, una scusa. Anch’io cantavo prima per questo popolino, cantavo ’A soggira, ’A cambiali, ’A mala vicina, strappando risate. Ma poi capii che alla gente non bisogna strappare solo lacrime e risate, bisogna strappare anche pensieri. Però quando venni a Milano, a cantare davanti alle fabbriche nell’intervallo di mezzogiorno, all’Alfa Romeo, all’Alemagna, alla Borletti, mi si posero altri problemi. Qui, prima d’ogni cosa, avvertii che non potevo più cantare in dialetto siciliano, gli operai non mi capivano… Dovetti a poco a poco tradurre in italiano e anche in dialetto milanese. Ma non era solo questione di lingua, era questione anche di argomenti. Agli operai interessavano altre cose…».

Mentre Trincale parlava, mi sovveniva di tutti quei discorsi che si facevano qualche anno fa su «lingua e dialetto». Mi sovveniva di Vittorini, che scriveva nel ’60: «I dialetti meridionali sono di per sé poco raccomandabili ai fini di uno sviluppo moderno della lingua e della letteratura. Ricordiamo ch’essi sono tutti legati (dal passo della Futa in giù) a una civiltà di base contadina, e tutti impregnati di una morale tra contadina e mercantile, tutti portatori di inerzia, di rassegnazione, di scetticismo, di disponibilità agli adattamenti corrotti, e di furberia cinica». E questi pensieri mi distraevano in quel momento dal racconto che mi faceva Trincale della sua vita, mi portavano lontano. E allora cercai di smettere. Non prima di constatare che veramente dal «passo della Futa in giù» esiste una grossa spaccatura, un vallo in questa Italia così lunga nel mare, spaccatura che fa due nazioni di quell’una da pochi concepita e volenterosamente fatta cento anni fa. Che una volta passato il vallo, il confine, che una volta qui, insomma, forse si accomuna popolo a popolino, contadini a popolino, proletari a popolino. Che, una volta qui, si è costretti, per poterci stare e vivere, o sopravvivere, per farsi capire e lavorare, a cambiar lingua. A concepire, soprattutto, a pensare e a parlare nel senso industriale. Come Trincale, come Vittorini. «I dialetti che sarebbe desiderabile di veder entrare nelle elaborazioni linguistiche della letteratura dei giovani sono, a mio giudizio, i padani, i settentrionali che già risentono della civiltà in dustriale, e lo straordinario gergo di formazione recente in cui si parlano e s’intendono, nelle grandi città del nord, milanesi ed immigrati meridionali, torinesi ed immigrati meridionali…» scriveva ancora Vittorini. Il quale, forse (ed è duro ammetterlo), oggi più che mai ha ragione. Il Sud, il mondo contadino sono ormai dimensioni perdute, fuori da ogni discorso, fuori dalla storia. La maggior parte dei contadini, del popolo, è qui a Milano, nelle fabbriche e nei cantieri; è in Svizzera, in Germania. E già si è creato il suo gergo, il suo parlato. È per questo che fatti come quelli del terremoto o di Avola danno fastidio, imbarazzo: sono echi di qualcosa fuori dal tempo, motivi «vecchi» che non si vogliono più sentire, non si capiscono. Motivi dialettali. Ed è per questo che la classe dirigente, il governo, si comporta nei confronti di quei motivi, di quei problemi, nel modo più «dialettale», lasciando cioè i terremotati siciliani sotto le tende e le baracche provvisorie, denunziando i braccianti di Avola.

Ma ho lasciato Franco Trincale, il cantastorie siciliano emigrato a Milano, che scrive le sue storie in lingua, che canta della morte di Lorenzo Bandini, dei Kennedy, della contestazione, della pillola… Ma canta anche del terremoto, di Avola, degli emigrati. Ed è il primo, forse, ad essersi inserito (almeno dei siciliani) nel «gergo» indicato da Vittorini, quello con cui comunicano «e s’intendono… milanesi ed immigrati meridionali, torinesi ed immigrati meridionali…», ed a scrivere in questa nuova lingua. Ma bisogna, a questo punto, che cominci dall’inizio per narrare la storia di quest’uomo. «Sono nato» mi dice «a Militello in Val di Catania, trentaquattro anni fa. Mio padre era un generico della compagnia di Giovanni Grasso (testa di lignu, come l’intendevano nell’ambiente). Durante il fascismo, per le sue idee socialiste, lo mandarono al confino per tre anni, alle isole Tremiti. Io, come tutti i carusi siciliani del mio ceto, facevo mezza giornata a scuola e mezza giornata al mastro. E qui, nel salone del barbiere, imparai a suonare il mandolino e la chitarra».

VINCENZO CONSOLO, 17 febbraio 1969.

Ora in V. Consolo, Esercizi di cronaca,Sellerio 2012



LA VIA CRUCIS DI "OLIVO E L’OLIVASTRO"

di PIERO VIOLANTE

In un breve saggio di molti anni addietro "Il disagio del progresso" (1995) ho sostenuto che nella letteratura siciliana vi è una tematizzazione della Krisis, della ratio che critica in anticipo il moderno. Una sensibilità ai costi della modernità che non può essere liquidata come arretratezza e che è comune a molte letterature “periferiche” particolarmente attente alla perdita dei valori comunitari nei processi di accelerata secolarizzazione e in difesa dei quali approntano una strenua e nostalgica” strategia difensiva. La resistenza alla modernità è ben leggibile in opere fondamentali di questo secondo dopoguerra e soprattutto in un capolavoro incompreso come "Orcynus Orca" di Stefano D’Arrigo radicalizzazione novecentesca dei Malavoglia di Verga. Dell’autorappresentazione letteraria siciliana dominata dal disincanto/disagio del moderno "L’olivo e l’olivastro" (1994) di Vincenzo Consola ne è non solo conferma ma si pone come uno snodo essenziale di una letteratura sull’orlo di un di un baratro senza scampo e alla cui radice agisce il disagio del moderno. "L’olivo e l’olivastro" è difatti il riattraversamento di una patria non riconosciuta, una elaborazione non compiuta del lutto, un viaggio come via crucis tra edicole diroccate, smemorate, e cattedrali solitarie di una mitologia moderna che arreca solo danni agli uomini, alla natura. Scrive Consolo: “È in questo tempo per chi scrive un morale rischio tradire il campo, uscire dal racconto, negare la finzione e il miele letterario, riferire di una realtà, di un ritorno amaro, di un viaggio nel disastro”. E "L’Olivo e l’olivastro" è un viaggio nel disastro, alla ricerca di tracce, prove di una storia frantumata, di una civiltà distrutta, di uno stile umano cancellato. Questi gli esiti della modernità che Consolo vive come una ferita lacerante, mentre la tecnica è la grande imputata.

 Certo vi sono delle zone franche scampate alla furia modernizzatrice come l’enclave di Filemone e Bauci nel "Faust" di Goethe: Eloro, l’eremita, la figura di Maria a Caltagirone, ma non bastano per raddrizzare il tempo del disagio. Esistono - come sempre sono esistite - delle risposte-ripiegamenti dinanzi all’orrore, ma non bastano. Vaga Consolo–reduce lungo una via crucis arrossata dalla violenza, Ma in che modo l’artista può risarcire quella violenza, pagare il debito verso chi non c’è più’? Il tempo non ritrovato di Consolo-Ulisse sta a significare l’impotenza ormai a risarcire il danno? La letteratura non basta più? Le accumulazioni accentuative, la scrittura elencale sembra l’ultimo gesto possibile: muretti a secco che non occultano il vuoto ma vi tracciano la strada. Una memoria possibile tra corpi, fiamme, silenzio.

Piero Violante da L'EDIZIONE STRAORDINARIA DE L'ORA 10 febbraio 2022



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