20 maggio 2022

ANNA MARIA ORTESE, Dialogo sull'appartenenza

 

Anna Maria Ortese in un ritratto di Paola Agosti

Dialogo sulla appartenenza
di ANNA MARIA ORTESE
("Lo Straniero", anno I - n. 1 - estate 1997)

Dai tuoi libri - e da uno recentemente - si direbbe che tu non ami moltissimo l'Italia. E' così?
Al contrario, l'amo moltissimo: non mi piace molto quello che c'è dentro.
Gli italiani?
Si.
Che cosa hanno che ti dispiace?
Nulla. Mi dispiacciono proprio per questo: che sono perfetti come italiani. Ma anche in altri paesi, la perfezione - l'attendibilità assoluta dei contenuti umani - non si può definire incoraggiante.
Fai un esempio.
Non vorrei che qualcuno si offendesse. Ma l'America, per dirne una, è forse - dico forse - un po' troppo americana. E' pura, giovane e molto felice, insomma. Così di altri paesi. Sono assolutamente quello che uno si aspetta di trovare in loro, appartengono completamente a se stessi. L'appartenenza quasi totale alle loro qualità nazionali è quanto mi sembra una imperfezione... ma io giudico da non appartenente a niente, questo non dà valore - anzi lo toglie - alle mie opinioni.
Stando a queste premesse, tutti gli abitanti - i nativi per essere precisi - di un paese o un altro, antico o moderno, avrebbero troppi difetti per incontrare il tuo gusto.
Per la verità, non sono difetti. Sono la normalità. Ciascuno si sforza di somigliare il più possibile al paese a cui appartiene - di uniformarsi al modello tradizionale - e questa è certamente una virtù. In qualche modo, è anche un confine... un muro molto alto, lo ammetto.
Tornando agli italiani. La loro perfezione, in quanto italiani, ti sembra forse eccessiva... un difetto, praticamente... li vorresti meno simili a se stessi?
Direi che da qualche tempo presentano un modello del tutto vincente. La loro libertà - rispetto alle comuni strettoie della comunità - si direbbe assoluta. Inoltre, sono un po' indecisi tra le due grandi strade: il pensiero americano e quello albanese. Esiste infatti anche un pensiero albanese. La felicità prima di tutto, è naturalmente la comune sostanza di questo pensiero. Chiaramente su due livelli ben distinti, quelli del potere e del non potere: secondo il reddito nazionale. A causa di qualche carenza economica, il pensiero albanese sembra per noi il più attuabile. Ma quello americano non ha perduto ancora il suo fascino.
Vorrei pregarti, se possibile, di essere un po' meno cauta, meno riguardosa, diciamo, nell'esprimere la tua opinione sul normale stato delle cose, oggi, su quello che ti sembra il lato meno confortante della normalità, dell'appartenenza, come tu dici, a un paese o a un altro.
Hai ragione, meno cauta... Ma il rischio di incorrere in un errore, di calzare una certa arroganza, è forte. La non-appartenenza, confesso, mi appare condizione inevitabile per una certa libertà. Resta il fatto che tale libertà non è per tutti, nel senso che non tutti la prediligono, e allora, raccomandare la non-appartenenza può sembrare eresia. Anzi, è eresia. Tutti, infatti, appartengono, o desiderano follemente di appartenere. All'amore (per così dire), al successo, alla gloria - anche soltanto a una moda - , in tutti i paesi si sogna di appartenere. Poi, sull'onda della comune forza di appartenenza, inseguire il pensiero nazionale, o nativo. Voglio - Posso -Sono. Non si conosce altro dio al di fuori di questo.
E per te, invece, c'è un altro Dio?
Dico solo perché la non-appartenenza a un pensiero nazionale, sembra spesso eresia bella e buona. E' sospetta. Viene giudicata molto, molto cattiva. Rovinosa come esempio ai giovani, e, a un certo punto, quasi una sorte di eversione, di attacco - come si dice - allo Stato.
Non vorrai scherzare.
Parlo per assurdo, s'intende. Ma dimmi cos'è l'America senza la fede nella felicità. Senza quel: Voglio - Posso - Dunque sono. - Oppure (prendo le debite distanze) cos'è un paese fondato su una religione (o anche una politica) "rivelata" (esistono altre religioni non rivelate, sono altra cosa). Vive di sacrifici, umani o animali, è fondato sul culto del sangue, del dolore, o strazio, del più piccolo, inteso come purificazione, deificazione, del più grande, del più forte. Del migliore, insomma: cioè, l'uomo.
Tu non pensi, dunque, che l'uomo sia il "migliore"?
Non dico questo, per quanto sono ammessi dei dubbi. Dico soltanto che le altre specie (anche le masse dei devoti quando non intendono nulla, sono "specie") meritano il medesimo riguardo, quando si parla di dolore, che si elargisce ai puri, ai sommi, ai capi. Non solo l'uomo - o l'uomo della appartenenza a una nazione, a una comunità, a una religione - ha diritto alla tutela, a tenere per sé il suo respiro, ma anche gli individui delle altre specie lo hanno. Ricordo la Volpicina del deserto, di cui accenna la Tamaro nel suo ultimo libro, che parlava con gli occhi lucenti e diceva, a che le stava di fronte - un armato - : "Non sono pronta, aspetta". Non era pronta a morire! Nessuna creatura, in genere, lo è, perché l'appartenenza alla vita, al Respiro - è l'appartenenza più vera e rispettabile di tutte le altre appartenenze. Ma l'uomo - di un paese o di un altro, appartenente esclusivamente alla propria nazione, o fede, o teologia - non ascolta quella protesta, o preghiera. Il Sacrificio è necessario. Ferire o annientare una vita - di bambino, di agnello, di uomo caduto (o colpevole) - è necessario, anzi è indispensabile (per purificarsi) ai figli dell'appartenenza. Dovrei dire: la Sacra Appartenenza! Perché, a due passi dalla Beatitudine Assoluta, quale possiamo intravedere nella meravigliosa felicità americana, vi sono città sotterranee, case e cunicoli di acciaio, stanze, celle di acciaio, dove uomini che hanno peccato contro la Felicità della nazione attendono da anni di essere uccisi. E inutilmente sognano il sole, l'erba dei prati, e si raccomandano, implorano di non essere uccisi. La famosa Sedia di acciaio, la Sedia che fuma, è sempre più vicina. E un'alba, arriva.
Si tratta, però, devi ammetterlo, di individui che hanno molto peccato. Contro la civiltà umana.
Questo è vero. Ma non si deve dimenticare che la civiltà è fondata quasi interamente sul peccato. Perciò, questa non mi sembra una buona ragione per bruciare un peccatore non vincente su una sedia che fuma. Mi sembra inoltre incredibile che a pochi passi da un uomo comune - quale in genere è il peccatore in attesa di essere ucciso - altri uomini comuni, però fortunati, siano immersi in sogni di vita, di gioia. Questo è un mistero, il mistero del più grande peccato: giudicare secondo il risultato delle azioni, ignorando caso e fortuna che le rendono vincenti o no. Vi sono tuttavia fenomeni, molto più imponenti, di crimine dettato dalla presunzione dell'appartenenza - e si registrano nella infelice Africa. Un tempo l'Africa era naturalmente libera e felice. Ora è prescelta per la Salvezza. Quindi, sanguina. Quale peccato pretendere la salvezza (di un individuo, di un popolo) attraverso il suo sangue! Ma la presunzione umana, la famosa Appartenenza, decide che la Salvezza di un povero popolo vale bene una Messa - cioè il suo continuo soffrire e morire, quando basterebbe il Soccorso! In realtà, solo il Soccorso è peccato! Solo la Grazia è proibita! A questo punto, vedo ancora la Volpicina - proprio la Volpicina del deserto - come il simbolo della disperata preghiera, della sacra debolezza terrestre: "Non sono pronta, aspetta!".
E l'Appartenenza, come tu dici, invece non aspetta. L'appartenenza, che è del più forte, è anzi la forza stessa - non aspetta. Ha i suoi altari da infiorare.
Naturalmente. Trovo perciò doveroso non-appartenere. Per quanto mi riguarda, la cosa è irrilevante. Ma è così: ho l'eresia in cuore.
Rapallo, 16 maggio 1997



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