26 settembre 2023

GISELLA BLANCO, La poesia oltre il disincanto

 



LA POESIA OLTRE IL DISINCANTO. PORDENONELEGGE 2023

di Gisella Blanco

Odiare la poesia

La poesia, ancora?, domanda provocatoriamente nel titolo del suo ultimo saggio (Mimesis, 2021) Gian Mario Villalta, il direttore artistico dello storico Festival letterario Pordenonelegge, appena conclusosi nell’omonima cittadina friulana. Un quesito che insinua il dubbio nei cultori del genere, che appare più retorico che suggestivo a chi pensa che i versi siano noiosi, e che continua ad attanagliare le coscienze critiche più insaziabili.

Perché la poesia, ancora? Un gesto artistico apparentemente fine a sé stesso (come tutta l’arte, d’altronde, ma forse persino un po’ più di altre manifestazioni creative) che nell’attraversare il tempo di tutti i tempi e la storia di tutte le storie riunisce fenomeni, percezioni e psiche in una espressione formale che non è più solo autoriale.

Quell’ossessione per il genere letterario che, almeno a certe latitudini, resiste al confronto differenziale con la prosa, anche quando vi si avvicina così tanto da mimetizzarsi con esso (si pensi, per esempio, a Jean Marie Gleize e ai suoi saggi brevi raccolti in Qualche uscita – Postpoesia e dintorni pubblicati da Tic, che rimandano alle prose poetiche di Rimbaud, Baudelaire e Mallarmé), può diventare così insidiosa da trasformarsi in odio. Ma l’odio, si sa, è una forma d’amore inverso (in-verso?) potente e pervasiva.

La poesia intesa come ricerca dell’autentico, nell’impossibilità di identificarlo, non può che condurre nel più profondo horror vacui, nello sgomento semantico, nell’aberrazione ideologica, se si commette l’errore fatale di non considerare quello spiraglio linguistico aperto su un celaniano, microeterno silenzio, capace di parlare a chiunque e in ogni dove, attraverso il trauma dell’esistenza nella parola.

“Dopo molto tempo, la voce dell’uomo/Tace. Era bello parlare e parlare./Si alza. E il mare o bosco diventa/Una via piana che si estende verso la notte e il tuono.//Ma, in effetti, non c’è nessuna notte. Non c’è/Nessun tuono” scrive Allen Grossman, citato nel saggio Odiare la poesia di Ben Lerner (Sellerio, 2017), in cui l’autore afferma: “l’unica cosa che chiedo a quanti odiano la poesia – e neanche a me piace – è di sforzarsi di rendere il loro disprezzo perfetto, e di prendere perfino in considerazione l’ipotesi di usarlo per costruire delle poesie, dove             quel disprezzo non verrà affatto meno, ma si farà più profondo, e forse, creando uno spazio per la possibilità e per le assenze presenti (come melodie mai ascoltate), potrebbe arrivare a somigliare all’amore”.

L’importante, infatti, è che questo odio, reale, radicato o provocatorio che sia, non si riduca a una semplice postura anti-dialettica, a un atteggiamento non argomentato, a un fare nichilistico volto a un passato che non esiste più o a un futuro in cui distopia e utopia coincidono pericolosamente.

Contro le chiacchiere. Il potere del disincanto

“Prima di tutto si raccomanda – a partire dalla più giovane età – di evitare le chiacchiere” scrive Cesare Viviani nel saggio La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che…( Il Melangolo, 2018), in cui ribadisce la regola aurea per cui “chi prova amore per la poesia si tenga ben lontano dalla chiacchiera”.

E proprio contro tutto il brusio vanamente decostruttivo attorno alla poesia, nei molti e ricchi incontri dedicati alla scrittura in versi del fitto palinsesto di Pordenonelegge, sono emerse tematiche comuni e ricorsive tra autori, critici e operatori culturali.

Il disincanto, nei suoi molti significanti e nelle svariate accezioni in cui è contemplato, per accostamento o antitesi, è apparso il topos maggiormente presente nel discorso sulla poesia, rappresentando un fulminante spaccato di una contemporaneità controversa e contrastiva in cui non è più il sogno ad essere espressione di bellezza (e di salvezza).

Non appare, tuttavia, fuori dal coro ciò che afferma nel suo intervento Marco Munaro, editore de Il ponte del sale e autore dell’antologia Un tempo nel tempo. Poesie 1983-2021 (Ladolfi): “La voce della poesia si esprime in un attimo e può dilatarsi in una forma di eternità. La poesia è sempre un ritorno, si parte ma non si sa dove si va. È una forza benigna che ci chiede un azzardo totale, rischioso”. Nel dialogo tra Munaro e Pasquale di Palmo, curatore della collana Gli Insetti per Mc Edizioni e autore del Breviario delle rovine. Poesie 1986-2021 (Medusa), le due antologie messe a confronto hanno permesso di evidenziare come l’autoselezione di testi sia un momento di ri-creazione poetica, ed estetica, e la pubblicazione sia un’azione altamente complessa, nonché di grande responsabilità. E lo sa bene lo stesso Di Palmo per l’esperienza nella sua attività di curatela editoriale: “curare una collana è una scommessa, ci sono tanti elementi che remano contro, serve tempo e passione. Si privilegia la qualità, indipendentemente dalle tendenze stilistiche e dalle mode”.

La ricerca come riabilitazione storica

Altra suggestione ricorrente in questi incontri è il concetto di ricerca, quella ricerca ontologica e linguistica molto prossima alla ragione per cui si scrive. Così, per esempio, è per Antonella Anedda, che ha presentato la sua antologia Tutte le poesie (Garzanti) in un fitto e accorato dialogo con Antonio Riccardi, in cui è emersa la profonda relazione della poetessa con la letteratura internazionale e con l’arte visiva. Il suo sguardo dislocato e, al contempo trasversale, ha potuto radicarsi attraverso il suo bilinguismo, la possibilità di guardare da un’equa distanza i classici italiani e la scrittura straniera, lì dove il termine straniero riacquisisce il suo valore  creativo. Un ritorno all’io che attraversa la dissoluzione, la consapevolezza che l’identità non esiste se non alla fine della parola, forse all’estremo limite del dire, e dell’esistere.

Ancora un’altra necessità di ricerca è emersa dal confronto tra Isabella Leardini e Alessandra Corbetta, a partire da Costellazione Parallela – Poetesse italiane del Novecento, a cura della stessa Leardini per Vallecchi, in cui l’atto della ricontestualizzazione storica, osteggiata dalla rivoluzione mediatica e antitetica alle logiche consumistiche, può mettere in luce da un lato l’assenza di uno sguardo complessivo sulla letteratura (uno degli svariatissimi aspetti su cui l’ottica patriarcale ha inciso negativamente) e, dall’altro lato, la “parallela” presenza di un grave pregiudizio di genere sul canone novecentesco. Se il riferimento perpetuo di quest’antologia è il lavoro immortale sul femminismo di Biancamaria Frabotta, nella lunga introduzione è parso giustamente necessario alla curatrice menzionare le due antologie storiche di riferimento del secolo breve, e cioè Poeti italiani del Novecento a cura di Pier Vincenzo Mengaldo (che menziona solo Amelia Rosselli come poetessa) e Poesia italiana del Novecento di Edoardo Sanguineti (che non annovera alcuna poetessa). Restituire alla letteratura l’essenza dell’immaginario femminile implica l’importante missione di smentire i pregiudizi sulla scrittura delle donne, rendendo obsoleto, finalmente, anche il concetto stesso di “costellazione parallela” delle autrici.

L’osservazione dell’astro esploso

Un altro rilevante lavoro antologico di recente pubblicazione è stato l’oggetto del dialogo tra Tommaso Di Dio, curatore dell’opera già molto diffusa (e discussa), Poesie dell’Italia contemporanea. 1971-2021 (Il Saggiatore), e Roberto Cescon, a partire proprio dalla riflessione sulla crisi dell’antologia che compare negli anni Settanta, quando la poesia inizia a manifestarsi polifonica e irriducibile, un “astro esploso” secondo la definizione coniata da Alfonso Berardinelli. Il lavoro di Di Dio è un “racconto” svolto soprattutto sui testi (collegati per accostamenti, slittamenti e contrasti), e che si muove per paesaggi e approfondimenti. Per ogni scorcio – cinque in totale – sono menzionati i poeti più significativi per il curatore rispetto al periodo di riferimento. La pluralità delle voci, da ostacolo alla comprensione del panorama letterario, può diventare un vero e proprio metodo di ricerca. Ecco che torna ancora la ricerca come antitesi allo stato confusionale di oggi, nel tentativo di affrontare la radicale democratizzazione della poesia contemporanea senza incorrere in pericolosi semplicismi. Di Dio intende esaltare la rete di elementi di continuità tra generazioni, proprio attraverso la riduzione della funzione autoriale rispetto a ogni testo e la centralità dell’esperienza diretta del lettore sulla poesia, in tutta l’irriducibilità del trauma storico-antropologico di cui si fa portavoce l’atto poetico.

Alla mia domanda sulla sua opinione circa le operazioni che mettono in luce un solo particolare aspetto degli autori antologizzati, proprio come il genere, il critico risponde: “Non ho mai pensato all’antologia come a uno strumento di canonizzazione universale. Un genere esplorativo che, attraverso il punto di vista di un curatore, di una equipe o di un’occasione particolare, offre uno scorcio inedito sul panorama. Accolgo di buon augurio ogni tipo di sguardo antologico perché aiuta a focalizzare temi, aspetti e prospettive che sfuggono alla lettura dei libri singoli. Fra gli approcci più diffusi, non amo molto quello per generi, ma è solo un parere personale. Comprendo altresì bene il loro carattere rivendicativo: possono essere strumenti di polemica che fanno luce su determinati aspetti della società che necessitano di approfondimento e onestà intellettuale”.

Il nome della rivolta

“L’essenza profonda della poesia è un sapere metamorfico, un esercizio di trasformazione, di transizione permanente tra le identità”, continua a commentare Tommaso Di Dio. “La portata profonda e rivoluzionaria della poesia stessa, però, non è quella di rafforzare le identità ma di farci vivere le esperienze di identità diverse dalle nostre, nel tempo, nello spazio e nel genere. Per dirla con un motto alla moda, la poesia è da sempre queer: Ovidio che si dedica ai monologhi delle eroine si cala nella dimensione del femminile. La poesia ha sempre saputo oltrepassare le identità, fino all’anonimato con cui ha un legame profondissimo. La cosa più profonda della poesia è essere abitata nelle labbra di un altro”. Tali riflessioni traggono spunto dal dialogo della sera prima avvenuto tra il critico e Stefano Raimondi sull’ultima opera di quest’ultimo, L’Antigone. Recitativo per voce sola (Mimesis), non a caso formata da soliloqui femminili. Come sostiene Di Dio, dire “Antigone” significa indicare un antico problema, un inciampo, un vuoto: tutta la modernità democratica che si affaccia a vivere, si può ritrovare in quel nome tradito a ritroso, nel terrore di una distanza irrecuperabile e di una sorellanza rappresentata dal nome e sepolta nel classico. Dalla voce di un uomo, l’Antigone torna a parlare con l’articolo determinativo anteposto perché nominarla significa convocare le sue apparizioni lungo la storia, significa individuare le sue metamorfosi storico-letterarie. L’Antigone lotta contro le leggi formali della città per difendere la legge interiore del bene familiare, è una ribelle che si oppone ai dettami patriarcali. Questa Antigone appare profondamente sessuata, calata nei suoi desideri, in un corpo radicalmente emotivo e patico. Eppure, quel desiderio non è riproduttivo, è sterile, è teso al seppellimento dei propri morti. Sviluppa il tema del potere in senso oppositivo. Declina l’ispirazione testoriana al sangue, allo sperma, al respiro spiritualizzato e ritualizzato, reso rito e funzione esistenziale, ed è un personaggio che, in forme diverse, ricorre nelle varie opere di Raimondi, proprio a voler significare come il mito, perfettamente simbolizzato nel femminile in opposizione, si rigeneri nella quotidianità di ciascuno e, soprattutto, del poeta (indipendentemente dal genere).

Con un libro non si salva il mondo, ma lo si ama

Quasi tutti questi incontri si sono svolti a fianco della Libreria della Poesia a Palazzo Gregoris, letteralmente accudita nei giorni del Festival dai due librai Linda Del Sarto e Matteo Bianchi, entrambi scrittori e con uno spiccato senso della cura per quella parola poetica tanto bistrattata ma ancora così diffusamente necessaria. I loro due ultimi libri, Canzone nera di Wislawa Szymborska tradotta da Del Sarto per Adelphi e Il lascito lirico di Corrado Govoni – Dai Crepuscolari sul Po agli influssi emiliani di Bianchi per Mimesis erano esposti in una delle molte teche piene di saggi e di raccolte poetiche. Tra le svariate pubblicazioni presenti, spiccavano due saggi appena dati alle stampe, uno di Alberto Bertoni, Voci del grande stile – Poesie e prose fra due secoli (Il Mulino) e l’altro di Roberto Galaverni, Carte correnti – Nove lezioni sul senso della poesia (Fazi).

I due critici, nell’evento a loro dedicato, si sono confrontati sul senso dell’odierna critica poetica, sul ruolo del discorso sull’atto poetico e sulla relazione intensa e controversa tra autore, linguaggio e percezione del mondo. I loro due approcci saggistici sono diversi ma, entrambi, mettono al centro il lascito culturale ed etico dei grandi maestri del Novecento. Le poesie “auto-illustrative” di cui fa cenno Galaverni (anch’egli parte dai testi e non dagli autori) contrastano il fenomeno tanto ricorrente, oggi, delle poesie sulle poesie per riproporre esempi di testi altamente sintomatici dei loro autori, con una funzione paragonabile al correlativo oggettivo di ogni determinata poetica. La realtà rivive nelle parole che sono ben altra cosa, però, dalla realtà stessa (come d’altronde sosteneva lo stesso Giorgio Caproni), e qui si incarna il paradosso antropologicamente centrale della capacità espressiva, particolarmente comprovato dalla poesia. La letteratura non migliora la vita, ma influenza il punto di vista dell’individuo.

Bertoni sostiene l’esistenza di un attuale, grande bisogno di critica. C’è una necessità di analisi formale, poiché un testo è un oggetto linguistico e non si può ignorare la sua tessitura linguistica. Nella poesia c’è questa modalità di scrittura artificiale per cui si va a capo – “versus” – quando lo spazio tipografico non è ancora finito. I versi, da più di un secolo, sono liberi, quindi una cognizione metrico-prosodica è necessaria per comprendere un testo. Tutti hanno scritto troppo: Giudici, Neri, Bacchini sono felici eccezioni ma spesso si pubblicano testi francamente inutili e il critico deve saper fare distinzione tra di essi come atto fondamentale di responsabilità. “Basta con le biografie. Ci vorrebbero, a scapito delle scuole di scrittura, le scuole di letture e di lettura critica” afferma coraggiosamente Bertoni.

È importante che tra scrittore e lettore ci sia una certa intensità di frequenza nel loro dialogo silenzioso, di frequentazione culturale e ideale.

Bertoni, con una buona dose di autocritica, solleva il problema dell’assenza non intenzionale di voci femminili in questa sua ultima opera, pur ritenendo che in Italia le voci femminili siano preponderanti, anche qualitativamente, su quelle maschili. D’altronde, nelle sue precedenti opere saggistiche le donne sono sempre state presenti. Ricorre il ricordo dell’antologia di Mengaldo come esempio di crestomazia a netta maggioranza maschile (come già detto, annovera solo Rosselli come autrice), ed è estremamente interessante poter osservare come i temi ricorrano tra gli eventi in programma e nel discorso sulla poesia in generale. Galaverni ribadisce l’importanza di sostenere la poesia femminile, anche nel senso della revisione del canone del Novecento, affinché si promuova una parità letteraria ancora mai acquisita in modo solido e definitivo.

L’estetica del turbamento

Estremamente intenso il dialogo tra Franco Buffoni e Italo Testa, moderato da Tommaso Di Dio, in cui gli autori hanno mostrato le loro comuni esigenze etiche e letterarie a partire dalle loro ultime pubblicazioni, rispettivamente Invettive e distopie (Interlinea) e Autorizzare la speranza – Giustizia poetica e futuro radicale (Interlinea). La poesia, come ferita sempre aperta, richiede uno sforzo in più, un’attitudine alla contaminazione, una costante interrogazione. La ricerca, ancora una volta.

La scoperta e la formulazione di quelle percezioni che invadono gli spazi non prevedibili del linguaggio e delle relative forme sociali. Per Testa, la poesia appare come quella possibilità di sporgersi nel pensiero attraverso l’impensato e, forse, l’impensabile. Il disincanto, ancora una volta, che chiama a una tensione veritativa e immaginativa ulteriore, richiedendo all’io poetante di sbaragliare i codici dell’intelletto comune che non bastano più. Buffoni, invece, si sofferma sulla necessità di rivalutare la funzione estetica, terzo pilastro del confronto di cui fanno parte critica e poetica, la cui sinergia produce il canone. Il concetto di distopia, oggi, tormenta le coscienze e si è sostituito a quello di utopia, convincendoci alla decentralizzazione dell’uomo e alla crisi del ruolo della poesia, ma è proprio quest’ultima che manifesta l’ineliminabilità dell’orientamento al futuro.

“Da qualche anno Pordenonelegge ha iniziato una collaborazione con la Casa della Musica di Pordenone; la poesia contemporanea, nel suo “disincanto”, si confronta così con le sue origini, con la lingua del canto, della musica, con un pubblico che si emoziona, che è pronto a rivivere, in una lettura che è anche concerto, un rituale collettivo, per portare armonia e luce nelle zone meno confortevoli, più ferite, più temute della nostra esistenza. Così è stato per esempio l’incontro sulla violenza contro le donne a cui ho partecipato leggendo miei testi da Tutti gli occhi che ho aperto (Marcos y Marcos 2020), insieme a Nancy Fiumara (voce) e Giuseppe Parente (piano), che hanno eseguito canzoni d’autore, da La storia di Marinella di Fabrizio De Andrè, a Donna di Mia Martini, a Every breath you take di Sting, in un percorso che, dalle diverse forme e sfumature della violenza, spesso così difficile da riconoscere perché confusa con l’amore, ha portato infine il pubblico nella fiducia e nel sogno, con canzoni come La donna cannone di De Gregori e Imagine di Lennon” racconta Franca Mancinelli a proposito di questo tema così spiazzante.

Eppure, il disincanto si manifesta con preponderanza proprio nelle poetiche dei più giovani. Il Sedicesimo Quaderno Italiano di Poesia Contemporanea, a cura di Franco Buffoni e edito da Marcos Y Marcos, seleziona da molti anni una ristretta rosa di giovani autori che possano rappresentare il panorama letterario, con un comitato di lettura composto da critici e poeti come lo stesso Buffoni, Umberto Fiori, Massimo Gezzi, Fabio Pusterla, Claudia Tarolo e Marco Zapparoli. Quest’anno sono stati selezionati Michele Bordoni, Marilina Ciaco, Alessandra Corbetta, Dimitri Milleri, Stefano Modeo, Noemy Nagy e Antonio Francesco Perozzi, quasi tutti presenti all’evento a loro dedicato a Pordenonelegge. “È proprio il disincanto – specifica Corbetta – che si presenta in questi testi come una postura, una presa di coscienza sulla brusca interruzione del flusso magico nella visione d’insieme”. La realtà appare frammentata e inafferrabile, dominata da una rivoluzione digitale che crea uno scollamento percettivo, una orizzontalizzazione dei fenomeni, una perdurante perdita di illusione. Tale situazione, per Milleri, entra nel linguaggio come condizione dell’indicibilità e solo a partire dall’accettazione dell’impossibilità di comprendere il mondo è possibile ricominciare a indagare l’io e l’ambiente. Nagy concentra la sua attenzione sul corpo, parcellizzato nelle sue singole componenti e claustrofobico, ma ancora aperto alla possibilità di re-incantamento. Modeo individua nel disincanto l’insidia del disimpegno, della passività soggettiva e culturale e della sempre maggiore residualità dei dettami del Novecento, in linea con il nomadismo disperato delle nuove società. Bordoni lascia che il disincanto si confronti con il tempo e mostri un altrove che modifica la prospettiva e riveli un diverso presente, tornando indietro nel tempo e assistendo alla decomposizione dell’io. Attraverso l’immagine, però, è possibile uscire dalla ferita narcisistica e tornare ad abbracciare il mondo.

Sono tutti esempi, molto diversi fra loro eppure congruenti, di come questo topos interpreti una serrata analisi dello status quo non solo letterario ma anche sociale. La presa di distanza (di sicurezza?) dalla stupefazione appare come una rinuncia alla soggettività, perlustrando una realtà iper-realizzata e iperrealistica da cui, però, emerge un senso di rivalsa che non si fonda più sull’idealità ma risiede, forse, più in fondo, nelle coscienze.

La Poesia è una Strega

Non poteva mancare l’evento dedicato al Premio Strega Poesia, la cui premiazione si terrà il 5 ottobre a Roma. Presenti tutti e cinque i finalisti e, cioè, Silvia Bre, Umberto Fiori, Vivian Lamarque, Stefano Simoncelli e Christian Sinicco, sono stati introdotti da Gian Mario Villalta e da Elisa Donzelli che, oltre a riassumere brevemente le poetiche degli autori, hanno descritto le difficoltà e l’importanza del Premio promosso proprio quest’anno dalla Fondazione Bellonci e dal direttore Stefano Petrocchi. A sottolineare la rilevanza della scrittura in versi, è la riflessione sul presunto e percepito decadimento della lingua che descrive, seppur con le dovute differenze generazionali, lo stesso disincanto di cui si è lungamente parlato.

La Poesia è Gialla

A settembre e, in particolare, nei giorni del Festival, come è noto sono date alle stampe i nuovi libri delle famose collane Gialla e Gialla Oro di Pordenonelegge in collaborazione con Samuele Editore.

Roberto Cescon, storico collaboratore del Festival e curatore delle due collane assieme ad Alessandro Canzian, Augusto Pivanti e Gian Mario Villalta, così descrive le nuove opere dei più giovani: “Eucariota di Giuseppe Nibali ci ha colpito per il modo in cui tratta la voce che prende parola nei suoi testi. Siamo spiazzati, perché ogni volta dobbiamo entrare in quella voce e in quel corpo, di volta in volta uomo, donna, animale. Questa commistione di umano e non umano, uomo e animale si rileva nei comportamenti e nel modo di muoversi che nelle sue poesie accomuna appunto uomini e animali, per esempio per la violenza, l’inermità, la giustizia e la colpa, il male.

Clone 2.0 di Vincenzo Della Mea è un testo che farà discutere perché è costruito grazie all’intelligenza artificiale, nel senso che l’autore, che nella vita insegna informatica all’università, ha addestrato secondo particolari criteri una rete neurale caricando migliaia di testi poetici della nostra tradizione letteraria e aggiungendo altri testi afferenti alle neuroscienze e alle reti neurali. Questo libro ci ha colpito non tanto perché il tema dell’intelligenza artificiale è attuale: di fatto, abbiamo forzato i confini della lirica perché quello che leggiamo è il testo uscito da una macchina programmata da un uomo. Chi è io in questo caso? Le parole e il senso presente, nei versi, hanno un vero significato? La macchina ha fatto esperienza del mondo? Si muove? Ha un corpo? Ecco, allora, che quest’opera è come un test di Turing al contrario: attraverso di essa noi vediamo l’umano, l’autore umano riconosce la specialità e la creatività umana rispecchiata negli esiti della macchina. L’umanità artificiale della macchina invera l’umanità nell’uomo.

Terra dei ritorni di Alessandro Anil è un testo secondo noi originale nel panorama poetico dei nostri tempi: il suo verso lungo, che attinge alla tradizione orientale, è un luogo dove germinano continuamente immagini, ripetute e variate, una sull’altra, che conducono una melodia dominante: la sera e l’auspicio dell’incontro. L’incontro è animato dalla sete, altra parola importante che attraversa l’opera, e che ha che fare con la metamorfosi, il movimento, il desiderio di superare la fine, la morte che incombe. E poi c’è quella voce che chiede ripetutamente al tu, che è ora il lettore ora l’amica mia, “lasciami entrare”. La voce presente in quest’opera crea un movimento avvolgente in avanti e indietro, popola lo spazio del verso di presenze”.

Se con la Gialla sembra di entrare nel tempo dell’inquietudine, la Gialla Oro, con le firme di Mario De Santis, Martin Rueff e Tina Volarič, conferma la dislocazione socio-emotiva di questi tempi che è già cominciata da molti anni. Con De Santis in Corpi solubili, titolo ispirato da Antonella Anedda, si fa ingresso in un mondo sempre più periferico e conurbato, gremito anch’esso di sinistri avvertimenti rispetto a una spiazzante (ma forse anche suggestiva) perdita d’orizzonte. È lo sguardo perennemente in viaggio che sembra rimandare a cose sempre nuove, eppure costantemente contenute nello sguardo poetico. Rueff, invece, in Icaro grida in un cielo di creta coglie il nesso profondissimo tra lingua e poesia, accetta di arrivare da lontano, probabilmente da Mallarmé, ma anche di essere contemporaneo. La realtà risulta ricreata dalle parole, la poesia reinterpreta il concetto di anagramma attraverso la figura di un Icaro ucraino figlio dei nostri tempi. Tina Volarič, in Silenzi a più voci, fa emergere il rapporto indissolubile tra disegno e scrittura, in cui la natura, inquietante e umbratile, vive in una continua metamorfosi, avendo luogo nel verso dove l’io si riduce nei sommovimenti dell’ambiente che lo circonda e lo ingloba.

Tra gli eventi che, domenica 17, hanno concluso il Festival, c’è stato il Premio Pordenonelegge Poesia 2023, dedicato ai poeti di vent’anni. La vincitrice è Diletta D’Angelo con la sua opera Defrost, edita da Interno Poesia.

L’interminabile discorso della Poesia

Gian Mario Villalta così ha commentato la presenza centrale della poesia in un Festival di letteratura: “Il bello di Pordenonelegge è che c’è una Libreria della Poesia, con una sala per incontri dedicata solo alla poesia: un posto dove passare, fermarsi, darsi appuntamento, ritornare. E di poesia se n’è ascoltata tanta, interessante, varia, senza limiti ideologici, in nome di una passione che accomuna. E poi non posso dimenticare i sei volumi della Gialla e della Gialla Oro editi in collaborazione con Samuele Editore, frutto di una scelta che mostra la nostra grande attenzione alle sollecitazioni più intense del panorama poetico attuale. Occorre aggiungere l’accoglienza di voci nuove e la costante proposta di iniziative che, pur distribuendosi nell’intero arco dell’anno, nei giorni del festival trovano un loro momento speciale di condivisione”.

Si conclude così un excursus di una lunga serie di eventi sulla poesia concentrati lungo i giorni di un Festival polifonico e in perenne ascolto della società.

Se il disincanto è risultato essere il sentimento predominante fra le poetiche e la critica, una cosa è certa: al di là delle chiacchiere, della paura per il futuro, degli slanci e degli inciampi culturali della nuova estraneità che ciascuno prova rispetto al proprio io, la poesia non è morta, e sprona a un’insopprimibile vita: “Prima di cantare,/prima di fare silenzio,/il poeta deve vivere” suggeriva saggiamente Goethe.

 Pezzo ripreso da  https://www.minimaetmoralia.it/wp/letteratura/la-poesia-oltre-il-disincanto-pordenonelegge-2023/


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