07 settembre 2023

OPPENHEIMER AL CINEMA

 



IL PARADIGMA DELLA COMPLESSITÀ IN OPPENHEIMER DI CHRISTOPHER NOLAN

Quando andiamo a vedere un film di Nolan, sappiamo già dall’inizio che non capiremo tutto. Nelle sue opere c’è sempre qualcosa di poco chiaro, di sfasato, di incompleto. O ci propone un’opera di fantascienza che non spiega troppo la parte fantastica, lasciando qualcosa che non funziona bene, che non ci convince fino in fondo. O costruisce un’epica i cui valori sono sporcati da una componente oscura che li rende sospetti, che crea dei cortocircuiti rapidi ma comunque percepibili tra bene e male. O ricorre a un montaggio innaturale, che ci obbliga a uno sforzo importante per ricostruire le relazioni causali, e ci richiede una concentrazione notevole, come se dovessimo leggere un libro al contrario. E così via.

Ma il fatto è che Nolan produce dei film complessi perché è innamorato della complessità, e, in quanto tale, ha sviluppato una poetica della complessità proprio per rappresentarla, e farci almeno avvicinare al suo fascino.

E, in Oppenheimer, la complessità viene declinata sotto aspetti molteplici e inquietanti. Innanzitutto, i vari piani narrativi in cui si articola il film.

Il primo piano narrativo è la storia del progetto Manhattan, che è il filone principale della narrazione cinematografica: una città costruita in mezzo al nulla nella quale decine di scienziati, capeggiati da Robert Oppenheimer e lì radunati insieme alle loro famiglie, lavorano alla costruzione della bomba atomica, e che si conclude con il lancio della bomba stessa in Giappone nell’agosto del 1945.

Il secondo piano narrativo è l’inchiesta del 1954 in cui Oppenheimer – su istigazione di Lewis Strauss, che in passato lo aveva appoggiato in quanto membro della Commissione per l’energia atomica degli Stati Uniti – viene accusato per le sue simpatie nei confronti del Partito Comunista.

Il terzo piano narrativo, infine, è la riunione del senato del 1959, in cui si deve stabilire se lo stesso Lewis Strauss possa essere confermato come Segretario al Commercio degli Stati Uniti d’America.

Le tre narrazioni si accavallano in modo provocatorio, scomposto, irriverente, facendo imbizzarrire letteralmente la linea del tempo, lasciando implodere gli antefatti per screditarli alla luce delle conseguenze, e usando le conseguenze come strumento per disinnescare la forza del presente.

Una parola va dedicata alla lunghezza del film. Non siamo più abituati a vedere film che durano tre ore, e il film dura esattamente 180 minuti. E sembra difficile che la rotondità della cifra sia frutto del caso: è più probabile che Nolan abbia imposto questa lunghezza ai montatori. Il film dura tre ore perché Nolan vuole che sia complesso seguirlo, vuole renderci difficile la vita nel mantenere a lungo un elevato livello di attenzione, nel tentare di ricordare la molteplicità dei personaggi, il loro volto che cambia nel tempo, il loro ruolo nella storia (che spesso muta).

Il mio mal di testa violento, scoppiato alla fine del primo tempo – e che sono riuscito a sedare solo verso mezzanotte, dopo la seconda dose di ibuprofene da 400 mg. –, è stato innescato dallo stesso Nolan con un sofisticato congegno a orologeria: è il suo sistema brutale per non farci distrarre, per farci tenere sempre a mente la complessità dell’universo che sta creando.

Ma alla complessità del discorso cinematografico si aggiungono altre complessità, ben più rilevanti.

Da un punto di vista scientifico, abbiamo l’entusiasmo del giovane Oppenheimer per la fisica quantistica, un argomento che lo scienziato va a studiare in Europa perché gli Stati Uniti sembravano non percepire le enormi potenzialità di questa nuova branca del sapere. Un entusiasmo che evoca speranze di conoscenza e di progresso, conquiste scientifiche in direzione del bene, che a posteriori assumeranno una connotazione perturbante, suggerendo incredulità.

Da un punto di vista storico, la complessità investe lo scopo finale del progetto Manhattan. Dapprima il progetto nasce per mettere a punto un’arma per contrastare il nemico tedesco. Poi ci si rende conto che il possesso di tale arma andrà a turbare l’equilibrio degli armamenti con una nazione alleata, l’Unione Sovietica. Infine, la bomba viene dirottata sul fronte giapponese, sul quale, con uno sforzo bellico leggermente superiore – e sicuramente con un numero molto inferiore di morti –, avrebbe potuto tranquillamente essere evitato.

L’ordigno doveva essere sganciato sulla Germania, ma poiché Hitler era già morto e la Germania si stava arrendendo, Truman non ce la fa a tenersi in tasca il suo nuovo giocattolo costato due miliardi di dollari, e decide di impiegarlo altrove.

Dal punto di vista umano, c’è una complessità che riguarda l’atteggiamento etico di Oppenheimer, un uomo certamente dalla natura controversa, che Nolan sottolinea più volte. Come quando, dopo una discussione con Patrick Blackett, suo responsabile a Cambridge durante i suoi studi di dottorato, inietta del cianuro di potassio nella sua mela, che Blackett non mangia per puro caso, Era dunque in grado di uccidere per un semplice diverbio?

O come quando ci viene svelato il suo debole nei confronti del sesso femminile, che lo porta a intrattenere relazioni con molte donne, tra cui Jean Tatlock, un’esponente del Partito Comunista statunitense, che aveva sviluppato una dipendenza emotiva di natura morbosa da Oppenheimer. Con lei Oppenheimer intrattiene una relazione della quale Nolan mette in evidenza soprattutto la natura carnale (e, se lo ha fatto, evidentemente riteneva che fosse importante: quante scene di sesso riuscite a ricordare nei film di Nolan?). La relazione con Jean va avanti – pur se sporadicamente – anche dopo il matrimonio di Oppenheimer con la biologa Katherine Puening.

Anche questa è una complessità, un rapporto coniugale, articolato come tutti, e, se visto dall’esterno, sicuramente poco pervio, in cui il bene e il male si intrecciano e si confrontano e si mescolano e si respingono, provocando – nel loro piccolo – reazioni capaci di frantumare cuori, spezzare equilibri, accendere focolai di appagamento e di felicità. confondere vite intere.

E infine abbiamo la complessità più grande, che è quella con cui si ha a che fare quando si porta allo scoperto una forza talmente smisurata che è impossibile da governare.

Il fisico torico Edward Teller arriva a ipotizzare che il ciclo di esplosioni a catena innescato dalla bomba possa essere tendenzialmente infinito, tale da arrivare fino all’atmosfera, il che provocherebbe la distruzione del mondo intero.

Quando il generale Groves, il capo militare del progetto, chiede a Oppenheimer quale sia la possibilità che questo accada, Oppenheimer, per tranquillizzarlo, gli dice che la possibilità è quasi pari a zero.

Quel «quasi», quella minuzia, quella trascurabile, infinitesimale possibilità, rappresenta la complessità più oscura di tutto il film.

È la complessità che determina il pensiero e le azioni dell’uomo, che circoscrive senza riuscirci il concetto stesso di responsabilità, che separa l’uomo dalla divinità, la sapienza dalla malvagità, il bene dal male. Ed è una complessità pari quasi a zero, ma che per la sua portata distruttiva è spaventosamente smisurata.

Nella scena finale di Inception, il protagonista lancia una trottola su un tavolo. Se la trottola si fosse fermata, ciò avrebbe significato che si trovava nel mondo reale, in cui l’attrito avrebbe frenato a poco a poco il moto dell’oggetto; e dunque sarebbe stato in salvo, in un mondo semplice, ordinario, controllabile. Se invece la trottola avesse continuato a girare per sempre, ciò avrebbe voluto dire che era ancora prigioniero nel sogno, in cui le leggi della fisica non esistono, o comunque sono alterate dalla dimensione onirica, e stava vivendo una vita non sua, in un tempo rallentato fin quasi all’immobilità, distante solo un passo dalla non esistenza.

Nolan non ci lascia vedere se la trottola si ferma o meno, perché non gli interessa dare certezze. È in realtà il mondo a essere privo di certezze, e dunque ciascuno può interpretare il finale come vuole.

Anche il finale di Oppenheimer ci lascia con un dubbio. Chi è davvero Oppenheimer? Sicuramente è tante cose diverse. È uno scienziato profondamente interessato alle sue teorie scientifiche. È un uomo perfettamente consapevole delle ripercussioni catastrofiche legate alla sua ricerca. È un patriota, che vorrebbe salvare il più possibile le vite dei propri connazionali. È un simpatizzante comunista. È un marito amorevole e fedele. È un donnaiolo e un infedele. È consapevole che la corsa agli armamenti avrebbe determinato una nuova guerra, ancora più infida, ancora più pericolosa. È un uomo pieno di intuizioni geniali e allo stesso tempo terribilmente ingenuo. È un uomo complesso, e come tutte le cose complesse, e contraddittorio e indecifrabile.

Se una trottola avesse vagato nel suo percorso curvilineo lungo tutti questi aspetti della sua vita, probabilmente non si sarebbe fermata mai.

Oppure, se per caso si fosse fermata, lo avrebbe fatto dieci minuti dopo i titoli di coda, con la sala vuota, con le luci spente e i popcorn sparsi sulla moquette.

Nessun commento:

Posta un commento