02 ottobre 2023

H. MARCUSE PADRE DELL' ECO-MARXISMO

 


MARCUSE NELL’ANTROPOCENE. ALCUNE NOTE SU GUERRA, ECOLOGIA E RIVOLUZIONE

Luca Mandara

  

se non ci lavorate fin da ora, non avrà luogo fra 75 anni, non avrà luogo tra 100 anni, non avrà luogo affatto 

(Marcuse, Lezioni parigine del 1974)

 

1. Padre dell’Eco-Marxismo

 

Sfatato da qualche anno il “mito” di un capitalismo green capace di conciliare la crescita del PIL con la sostenibilità ambientale, il movimento ecologico sembra orientarsi sui temi della “giustizia climatica”, legando questione ambientale e questione sociale e scontrandosi con quei governi che fino a pochi anni fa non disdegnavano di cooptarne i leader alle famigerate Conferences of Parties sul clima (COP)[i].

Mi sembra lecito ipotizzare che buona parte dell’incredibile successo riscosso dall’eco-marxista Kohei Saito sia dovuto anche allo sviluppo di una maggiore coscienza socialista nel mainstream ecologista, così come, a sua volta, la maggiore coscienza ecologica sta contribuendo a sdoganare la proposta di un Degrowth Communism, impensabile fino a qualche anno fa.

 

Si è creata un’atmosfera positiva, insomma, anche per ritornare su autori del passato che, precorrendo i tempi, nel bel mezzo del consenso bipartisan verso il «modernismo tecnologico» osavano criticarlo. È il caso di Herbert Marcuse, a cui viene attribuita una delle prime «critiche ecologiche del capitalismo» per le sue radicali prese di posizione contro il produttivismo di entrambi i blocchi e per il concetto di natura come una «non-identità»[ii], limite ultimo ai fini di appropriazione.

Marcuse ha infatti dedicato diversi interventi al nascente movimento ambientale negli anni Settanta ed anche prima si era occupato, sulla scia dei colleghi Horkheimer e Adorno, dell’assoggettamento violento della natura al “principio di prestazione”. Si è però sottovalutato il fatto che il suo interesse ecologico va ben oltre il tema dello sfruttamento della natura esterna nell’accumulazione di profitti, ambito privilegiato dall’eco-socialismo, e si volge anche verso le implicazioni che questo stesso sistema ha su quel mondo di impulsi, bisogni, immagini, che freudianamente costituiscono la “natura interna” degli uomini. Credo che in verità sia questo il principale punto di caduta della teoria “ecologica” di Marcuse e ciò che essa può aggiungere al dibattito contemporaneo.

 

In seguito, cercherò di mostrare quelli che ritengo gli aspetti principali della sua ecologia politica: nel §2, mi occuperò del concetto di “produzione distruttiva” che accomuna gli interventi e i diversi piani su cui Marcuse gioca il suo discorso ecologico; nel §3, passerò al suo giudizio sul valore politico del movimento ambientale e, nel §4, ad alcune conclusioni circa l’attualità o inattualità del suo eco-socialismo.

 

2. Guerra alla e liberazione della natura

 

Diversi autori sono concordi nel collegare l’accumulazione “illimitata” di capitale (originaria e non), la nascita di una divisione internazionale gerarchizzata tra paesi iper-sviluppati e paesi sottosviluppati, e crisi ambientale[iii]. Questa sorta di triangolazione tra produttivismo, colonialismo/imperialismo/neo-imperialismo, distruzione ambientale mi pare costituire anche la trama fondamentale dell’ecologia politica di Marcuse.

I suoi interventi tematici seguono lo scoppio della guerra in Vietnam, un evento decisivo nella sua teoria, perché  contribuì a correggere l’ipotesi, da lui stesso avanzata in L’uomo a una dimensione, che il capitalismo riuscisse a contenere in maniera strutturale la contraddizione fondamentale tra tendenza ad aumentare la produttività del lavoro per aumentare i profitti, da un lato, e caduta degli stessi dovuta alla minore quantità di lavoro vivo, fonte unica del plusvalore, dall’altro lato, volgendo l’incredibile produttività raggiunta in una distruttività sprecona e “oscena”. Per convertire il tempo liberato dalla meccanizzazione in nuovo tempo di lavoro alienato da sfruttare, spiega più volte Marcuse, il sistema genera una penuria artificiale di beni e servizi: manipolando coscienza e desiderio degli individui attraverso il management scientifico; sprecando risorse e pianificando l’obsolescenza delle merci; espandendo l’industria di morte grazie al sostegno del Warfare di Stato. La distruttività diventa così produttiva e permette di stabilizzare la contraddizione: garantisce “piena” occupazione, un tenore di vita elevato e un immaginario condiviso tra capitale e lavoro, capitalismo e comunismo, legato alla “magia” di una crescita illimitata assunta come “neutra” e quindi valida “universalmente” per il progresso dell’Uomo, al di qua di ogni differenza “politica”.

 

Il Vietnam provava, però, che la capacità del capitalismo di integrare dentro il sistema anche le classi lavoratrici, si fondava sulla creazione di un fuori su cui scaricare la distruttività accumulata dal centro. Queste “alterità”, nel lavoro su Ecologia e Rivoluzione del 1972, vengono individuate nel popolo vietnamita e nella natura. Quella della «controrivoluzione globale», scrive Marcuse, è una fase in cui «il capitalismo monopolistico» muove «guerra contro la natura – tanto esterna quanto umana»[iv].

Innanzitutto, Marcuse individua una «contraddizione interna» tra quel modello di sviluppo e la natura esterna. L’abbondanza di prodotti e di servizi con cui alimentare occupazione e consumi, richiede una «domanda crescente di sfruttamento» che «riduce ed esaurisce progressivamente le risorse: più aumenta la produttività capitalistica, più diventa distruttiva». «La legge dell’accumulazione allargata di capitale», che fonda sulla «necessità di perpetuare il lavoro alienato e lo sfruttamento», quindi, «entra in conflitto con la natura stessa» e genera una «contraddizione assoluta tra ricchezza sociale e il suo uso distruttivo». Si badi, questo non è un accidente: è piuttosto il fatto che «la logica ecologica è puramente e semplicemente la negazione della logica capitalistica».

 

Nella misura in cui buona parte di queste risorse è tratta da paesi di “periferia”, anche quella che apparentemente non sembra una guerra imperialistica – non erano immediatamente coinvolti investimenti diretti americani nel Vietnam – lo diventa per prevenire la diffusione di una ribellione che potrebbe minacciare il motore nascosto di quell’immenso apparato distruttivo, cioè l’estorsione di pluslavoro e di risorse all’estero. Ancor di più quando lo sviluppo di questi paesi dipende solo da una riforma agraria che intacca gli interessi delle classi locali dei latifondisti, che diventano gli unici referenti possibili per gli USA. La «levigata, confortevole, ragionevole, democratica non-libertà» della «civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico»[v] richiede quindi colpi di Stato di stampo autoritario-fascista nel mondo.

L’unità di progresso distruttivo, distruzione ambientale e distruzione umana si manifesta nell’uso del Napalm. L’«ecocidio»[vi] che «intacca le fonti e le risorse della stessa vita» diventa una strategia di «guerra genocida», visto che «bruciare e avvelenare la terra, deforestare, far saltare in aria le dighe» permette di prevenire che non solo i «viventi di oggi, ma anche chi non è ancora nato» si possano ribellare alla gerarchia globale usando in maniera autonoma le proprie risorse naturali. Il dominio sulla natura diventa così lo strumento madre per rinsaldare il dominio sull’uomo minacciato dalla ribellione. Come «la Terra non può essere salvata all’interno del capitalismo», così, conclude Marcuse, «il Terzo Mondo non può svilupparsi secondo il modello del capitalismo».

 

Questo è però solo un lato della questione, quello attinente, se vogliamo, ai rapporti sociali esterni tra gli esseri umani e tra questi e la natura non-umana. La teoria critica di Marcuse, però, aveva già ampliato il suo raggio a quel mondo della “natura interna” freudianamente descritto in termini di pulsioni fondamentali – Eros e Thanatos, pulsione di vita e pulsione di distruzione –, di principio di piacere e principio di realtà, di rapporti tra l’Io e l’Es e il Super-io. I due piani non sono affatto scollegati: per Marcuse il «mondo della natura» è un «mondo storico, sociale»[vii], sia nel senso che l’umanità, mediante il lavoro sociale, trasforma la natura esterna, sia nel senso che così facendo, trasforma la sua natura interna, la soggettività degli individui, costituendo natura interna ed esterna una totalità dialettica. Ed è proprio lo sviluppo del capitalismo più avanzato a dimostrarlo.

Rispetto alle fasi iniziali della società di mercato, in cui sopravviveva una natura «al di là del lavoro», nello stadio monopolistico il capitalismo «riduce sempre più gli ultimi spazi naturali rimasti al di fuori del lavoro e dello svago organizzato e manipolato». Non si tratta solo di un processo economico, ammonisce Marcuse, ma anche di un «processo politico». La natura al di là dell’alienazione è anche «la fonte e il locus delle pulsioni di vita che lottano contro le pulsioni dell’aggressività e della distruzione», cioè contro quelle pulsioni che la società repressiva ha bisogno di liberare per adattare gli individui fin alla loro «radice» al suo orizzonte competitivo, prestazionale, sprecone, bellicoso. La «dimensione profonda della società» viene perciò segnalata per Marcuse da «eventi simbolici» quali «l’incremento crescente nella spesa militare» e la «proliferazione delle installazioni nucleari, il generale avvelenamento e inquinamento del nostro ambiente vitale»[viii].

 

Una natura inquinata, sfruttata, assoggettata al consumo, fa sì che nella natura esterna gli individui trovino soltanto «una ripetizione della sua stessa società», impedendo preventivamente lo sviluppo di una struttura caratteriale, pulsionale, antagonistica a quella dominante. La guerra contro la natura esterna è perciò uno degli strumenti di dominio di quel progetto capitalistico che, nutrendosi dello sfruttamento del lavoro altrui, fin dalla prima età moderna ha avuto bisogno di «assoggettare il principio di piacere al principio di realtà e trasformare l’uomo in uno strumento di un lavoro sempre più alienato»[ix], innanzitutto nel corpo. Essa abitua a trattare la propria corporeità e quella esterna come mero strumento di lavoro per altri altro piuttosto che come strumento di piacere. La distruzione della natura, così, rientra nella «tendenza totalitaria del capitalismo monopolistico» che deve chiudere «una dimensione pericolosa di fuga e di contestazione», una fonte di ispirazione di bisogni e valori alternativi a quelli socialmente dominanti. Un locus in cui la liberazione sociale dal lavoro alienato possa diventare bisogno, obiettivo “naturale” delle pulsioni di vita:

 

«L’inquinamento e l’avvelenamento sono processi tanto mentali quanto fisici, tanto soggettivi quanto oggettivi […] Quando le persone non sono più capaci di distinguere tra bellezza e bruttezza, tra serenità e cacofonia, non sono più capaci di comprendere la qualità essenziale della libertà, della felicità. Nella misura in cui è diventata il territorio del capitale piuttosto che dell’uomo, la natura serve a rafforzare la servitù umana. Queste condizioni sono radicate nelle istituzioni fondamentali della società costituita, per la quale la natura è innanzitutto un oggetto di sfruttamento per il profitto. Questo è l’insormontabile limite interno di qualsivoglia ecologia capitalistica»[x].

 

Tuttavia, il sorgere del movimento ecologico, al pari della resistenza corporea dei vietnamiti alla macchina super-tecnologica della distruzione americana, viene a provare che la dimensione naturale dell’Eros resta ciò che si era prospettato fin dalle pagine di Eros e civiltà, e che in L’uomo a una dimensione pareva essere stato definitivamente assoggettato: la base fondamentale del “Grande Rifiuto” contro le forme di vita e gli obiettivi fondamentali oggettivati nelle istituzioni sociali del lavoro alienato, del profitto, dello Stato amministrato.

 

Sia quella vietnamita, che quella dei giovani nelle metropoli, diventa quindi una rivolta che, mobilitando la dimensione soggettiva nel profondo, minaccia alle radici la civiltà di dominio e quindi la sua forma storica specifica, quella del capitalismo e del socialismo della prestazione. Ciò che li accomuna, e che spiega la solidarietà tra i giovani della società “opulenta” e il popolo vietnamita, nonché dei ghetti neri, prima ancora che un comune interesse di classe sono «impulsi e bisogni comuni». Si tratta in entrambi i casi di una «ribellione della natura ridotta a oggetto»[xi]. Ciò a cui «ci troviamo di fronte», commenta Marcuse, è «una politicizzazione dell’energia erotica»: i movimenti radicali, prima ancora che «lotta di classe in senso tradizionale […] costituiscono delle rivolte esistenziali contro un principio di realtà obsoleto» in cui «l’intero organismo, l’anima stessa dell’essere umano, si fa politico. È una rivolta delle pulsioni di vita contro la distruzione organizzata e socializzata»[xii] generata non solo in reazione a quest’ultima, ma anche a causa dell’inedita possibilità di liberazione dischiusa dallo sviluppo sociale:

 

«Nella società classista la rivoluzione è “investita” dall’impulso erotico alla liberazione da una repressione addizionale […] Le rivendicazioni essenziali della rivoluzione, quali l’abolizione del lavoro alienato, uguali possibilità di autodeterminazione, la pacificazione della natura, la solidarietà, hanno, così, nella soggettività, una base erotica – come il fascismo ha la propria nel carattere distruttivo. La società e la liberazione in quanto processo storico-sociale coinvolgono lo stesso Eros – a differenza di quanto avviene con la sessualità e la soddisfazione sessuale, che può consumarsi anche nell’abito della società di classe. Il dispiegamento delle pulsioni di vita, l’Eros, ha bisogno del mutamento sociale, della rivoluzione; la rivoluzione ha bisogno di una base pulsionale»[xiii].

 

Per un verso, la guerra in Indocina è la «risposta capitalistica al tentativo di una liberazione ecologica rivoluzionaria: le bombe devono impedire [prevent] che la popolazione del Nord Vietnam riabiliti socialmente ed economicamente la terra»[xiv]. Esso appare come il Nemico che va annichilito per difendere la civiltà tout court perché la sua resistenza è rottura dell’immaginario dell’unità tra crescita illimitata e progresso umano. È prova della possibilità di «vincere la povertà mediante una riconversione, più che un aumento della produzione, mediante l’eliminazione della produttività dai campi dello spreco socialmente necessario, dell’obsolescenza pianificata, degli armamenti, della pubblicità, della manipolazione»[xv].

 

Per l’altro verso, «la rivolta dei giovani (studenti, lavoratori, donne)» sorge, ancor prima che da una teoria consapevole, da «un sentimento, un riconoscimento, che non è più necessario esistere come uno strumento di lavoro e svago alienati […] che il benessere non dipende da una crescita perenne nella produzione»[xvi]. È una rivolta che perciò «attacca tutti i valori che governano il sistema capitalistico», che in taluni casi si orienta «verso l’obiettivo di un ambiente tecnico e naturale radicalmente differente» e che sperimenta già ora pratiche di vita in comune e in comunione con la natura. Il movimento ecologico è quindi «un movimento di liberazione politico» e insieme «psicologico»[xvii]: politico, in quanto sottrae la natura allo sfruttamento capitalistico, e perciò «si oppone al potere compatto del grande capitale»; psicologico, poiché mobilita l’Eros alla rivolta, «perché la pacificazione della natura esterna, la protezione dell’ambiente vitale, pacificherebbe anche la natura interna degli uomini e delle donne. Se avesse successo, l’ambientalismo subordinerà, all’interno degli stessi individui, l’energia distruttiva all’energia erotica».

 

3. Prassi politica o idea regolativa?

 

Se la dinamica di accumulazione di capitale è l’origine sia della distruzione che della possibilità di liberare la natura esterna e interna dallo sfruttamento, Marcuse non può che ritenere una «cooptazione da parte dell’establishment» quelle riforme locali promosse dal movimento ecologico volte ad «abbellire l’ambiente, renderlo più piacevole, meno brutto, più salutare e quindi più tollerabile». Esse bloccano lo sviluppo di un «ecologismo autentico» verso una «lotta militante socialista che attacchi il sistema alle sue radici»[xviii]. È questa la più chiara formulazione marcusiana del suo eco-socialismo politico.

Tuttavia, non è la sua ultima parola sul tema. Nel 1979, infatti, mostra tutto il suo scetticismo sulla confluenza dell’ecologismo in un movimento fondato su delle masse ancora integrate nel sistema dei bisogni dominante. Piuttosto che disperarsi per la propria «inefficacia politica», però, i radicali dovevano vedere nel proprio isolamento dalle organizzazioni di massa (partito e sindacato) un «segno della loro autenticità»[xix].

 

Si tratta di un cambio di prospettiva?

Va detto che persino in pieno Maggio parigino, Marcuse ha sempre tenuto a precisare che una “rivolta” non è “rivoluzione”, che una “rivoluzione culturale” non è una “rivoluzione sociale”, poiché quest’ultima richiede la mobilitazione della classe dei lavoratori. Molti lettori, anche contemporanei, gli hanno imputato un’identificazione ancora troppo ortodossa e troppo immediata tra forma partito-sindacato, organizzazione, e la base della classe. La delusione per l’accondiscendenza delle organizzazioni diventa in lui uno scetticismo per il ruolo rivoluzionario della classe dei lavoratori che però, restando per lui l’unico soggetto oggettivamente rivoluzionario, getta ombre anche sulle proposte della Nuova Sinistra, relegata al rango di mero “catalizzatore” di una rivolta più ampia. Il fatto che piuttosto che catalizzare e radicalizzare l’opposizione sociale il Sessantotto fosse stato sconfitto dalla nuova stabilizzazione controrivoluzionaria, può spiegare lo scetticismo verso una confluenza tra movimento ambientale e partiti tradizionali alla fine degli anni Settanta.

 

D’altronde, Marcuse non è estraneo ad una tendenza ad opporre in maniera piuttosto a-dialettica bisogni particolari e bisogni universali, bisogni falsi e bisogni veri, forse proprio a causa della sua critica alle forme tradizionali di organizzazione, identificate però con l’organizzazione tout-court della classe. Piuttosto che considerare il fatto che la lotta, soprattutto quando organizzata, è ciò che porta effettivamente a maturazione i primi nei secondi e, ad esempio, volge una lotta per il diritto di parola in una singola università in una lotta generale per la riforma del sistema di istruzione[xx], egli fa appello all’Eros come radice immediata di bisogni veri e universali. Così anche il tardo ecologismo può essere “autentico” nella misura in cui non si radica sul terreno oggettivo della prassi politica, ma trova le sue fondamenta sul piano di una soggettività “interna” e “naturalmente” disposta alla ribellione.

 

È anche vero, però, che Marcuse – spinto probabilmente dalle critiche – proprio in quegli anni definiva meglio la dialettica tra sviluppo della produzione verso servizi e beni sempre più legati alla creatività, all’affettività, all’autonomia nel lavoro, da un lato, e impossibilità di soddisfare queste esigenze all’interno del lavoro alienato, dall’altro lato; e tra questa negazione e la conseguente politicizzazione di quei bisogni “veri” nei nuovi movimenti femministi, ambientalisti, operai. In Ecology and Revolution, ad esempio, scrive: «esigenze economiche e tecniche sono trascese in un movimento di rivolta che sfida il modo stesso di produzione e il modello di consumo»[xxi].

Grazie a questa nuova teoria della produzione e della politica, Marcuse insiste che nella fase della controrivoluzione non «si gioca a fare la rivoluzione», ma compito del movimento è elaborare una nuova forma di organizzazione per non perdere la politicizzazione generata negli anni Sessanta. Una forma organizzativa capace di tenere insieme, ma al contempo di tenere distinti, l’esigenza di liberazione personale e di liberazione sociale ed evitare tanto la burocratizzazione dell’organizzazione e della teoria, quanto  un «problematico culto dell’immediatezza»[xxii] in cui era scaduto anche il movimento ambientale quando promuoveva una «evasione» verso una natura “buona” in sé ed opposta astrattamente ad una civiltà cattiva. In verità, spiegava Marcuse, la natura è «erotica, quanto distruttiva»; base, ma anche «limite della liberazione»; qualcosa da reprimere e da cui liberarsi, non solo da liberare e lasciar “sfogare”.

 

Sono anni in cui Marcuse torna più volta sul rapporto tra personale e politico, tra pratiche di autoformazione e la necessità che esse, conservando la loro autonomia, pure non si limitassero ad esse, perché era nella lotta politica, di cui il movimento ambientale più sincero era espressione, che l’Eros doveva essere liberato. È «qui», precisa Marcuse, che la natura si fa «forza della dinamica sociale come soggetto-oggetto»; e ancora: «i limiti naturali del capitalismo vengono alla luce nei movimenti di protesta; qui la natura diviene una forza potenziale della trasformazione della società, concreto contraltare al suo ingabbiamento nel processo capitalistico di produzione»[xxiii]. Tuttavia, la mediazione della politica impone una generalizzazione in cui qualcosa del personale e del “naturale” va perduto: c’è bisogno di conquistare il consenso delle masse, c’è bisogno di teoria, di ragione, non di immediatezza, non di sfogo di emozioni personali.

 

Ne viene una diversa valutazione tanto della cooptazione “green”, quanto del valore politico delle sperimentazioni più radicali.

«Per essere chiari» non ci si deve nascondere che riforme locali possono fare il gioco della cooptazione. Tuttavia, nel lungo periodo, quando la cooptazione è una risposta ad una lotta per riforme radicali, essa non può non avere anche degli aspetti «progressivi»: proprio abbellendo l’ambiente non può che contribuire alla diffusione «di bisogni e aspirazioni» che modificano «il comportamento, delle persone, l’esperienza e l’atteggiamento verso il loro lavoro»[xxiv]. In un certo senso, le riforme radicali preparano il terreno oggettivo, empirico, materiale, su cui sempre più individui possono sviluppare una soggettività qualitativamente diversa, anche dentro il centro capitalistico.

 

Ridefinita la strategia, almeno nei paesi avanzati, in una “lunga marcia nelle istituzioni”, l’inefficacia politica come «segno» di autenticità dei radicali, va intesa come la «qualità iniziale di gruppi e individui che hanno sostenuto diritti e obiettivi propri dell’uomo, al di là dei cosiddetti obiettivi realistici»[xxv]. Ma è solo l’inizio, non la fine del processo di liberazione, né l’unico mezzo. «Finché, tuttavia, persiste la divisione sociale del lavoro costituita, una simile emancipazione rimane nel quadro dell’educazione personale, psicologica»[xxvi]. È incolmabile, ad esempio, l’abisso che separa le campagne “utopistiche” «sul “vegetarianesimo universale”» e la necessità politica di stabilire «solidarietà» tra uomo e uomo che resta la «priorità» rispetto alla pacificazione della lotta tra uomo e natura[xxvii]. Eppure, come quel “mito” orfico non è falsa illusione se viene concepito come «idea regolativa» per una «riduzione» del conflitto con la natura, così anche le sperimentazioni “autentiche” e radicali non sono del tutto inutili “piccole utopie”, almeno fin tanto che si pensano come limitate per dimensione e compito: rinunciano a generalizzarsi ora, e si impegnano a prefigurare e anticipare, nell’autonomia limitata a piccoli gruppi, forme di vita che possono diventare quelle generali in un domani da costruire su più dimensioni: personale e istituzionale, individuale e sociale. Il che non significa rassegnarsi all’impossibilità della Rivoluzione, ma lavorarci su piani, temporalità, dimensioni diversi.

 

4. Tra passato e presente: Marcuse nell’Antropocene

 

È forse inutile sottolineare quanto le condizioni oggettive e soggettive siano profondamente mutate rispetto agli anni in cui Marcuse scriveva e a partire dai quali aveva elaborato la sua riflessione politica ed ecologica. Il nuovo ordine controrivoluzionario del neoliberismo – intuito da lui nella sua fase embrionale – ha acuito le disuguaglianze anche in Occidente, squarciando da sé il “velo tecnologico” di una società inclusiva grazie alla crescita costante. Persino le classi dominanti ora parlano apertamente di “decrescita”; l’URSS non c’è più; la crisi ambientale e lo sfruttamento della natura hanno assunto forme e dinamiche molto più gravi rispetto al mero depauperamento delle risorse che Marcuse poteva vedere[xxviii].

Di fronte all’urgenza, la “lunga marcia nelle istituzioni” sembra dover lasciare il posto alla loro immediata abolizione: che non sia possibile alcuna transizione ecologica senza una transizione ad una società post-capitalistica, e viceversa, appare chiaro a sempre più Reds Greens.

 

Eppure, proprio su questo il discorso marcusiano può tornare di lucida attualità. Quando, a 77 anni suonati, egli ricordava ai giovani universitari che qualcosa come il Sessantotto «SI PUO’ ANCORA FARE»[xxix], lo faceva per ammonire a non fare dell’urgenza, del bisogno, della sofferenza, né un utopismo del “tutto e subito”, né un realismo catastrofista del “there is no alternative”: entrambi sono buoni solo alla conservazione dello status quo perché è nelle fedi verso gli assoluti che si annida il rischio di cocente disillusione, di disfattismo e depoliticizzazione. Che bisogni cambiare il mondo, e subito, ce lo ricordano incendi, alluvioni, scioglimento dei ghiacciai, estinzioni di specie, migrazioni di popoli, carestie, guerre. Come fare, resta compito del “lavoro del concetto” – determinarlo – e della prassi – sperimentarlo. Per determinarlo ci vuole una buona dose di utopia e di immaginazione, perché senza un nuovo immaginario non è possibile una società autenticamente eco-socialista. Ma ci vuole anche un sano realismo della ragione e una disciplina della prassi per riconoscere quei limiti storici e ambientali irriducibili tanto ai wishful, quanto ai dreadful thinkings[xxx].

 

Note

 

L’articolo riassume una più ampia introduzione agli scritti “ecologici” di Herbert Marcuse in corso di pubblicazione, prodotto di una ricerca nell’ambito di una borsa di post-dottorato presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.

 

[i] Basta scorrere le prime pagine di G. Thunberg, The Climate Book, Milano, Mondadori, 2022, per avvertire la coscienza del legame tra disastro ambientale, disuguaglianza sociale e inefficacia delle politiche governative. Per una breve disamina storica sui recenti mutamenti nel rapporto tra movimento ecologico e governi, rimando all’articolo La metamorfosi della giustizia climatica di Emanuele Leonardi e Paola Imperatore pubblicato su questo blog il 26 luglio 2023 [https://www.leparoleelecose.it/?p=47374].

[ii] Per alcune valutazioni dell’eco-marxismo sull’opera ecologica di Marcuse, cfr. P. Burkett, J.B. Foster, Marx and The Earth. An Anti-critique, Brill, 2016, p. 2, p. 37, p. 55, p. 232 e K. Saito, Marx in the Anthropocene. Towards the idea of Degrowth Communism, Cambridge, Cambridge University Press, 2023, p. 70, nota 12. Su quest’ultimo, si veda la recensione di Jacopo Bergamo, pubblicata su questo blog il 28 marzo 2023 [https://www.leparoleelecose.it/?p=46483].

[iii] Cfr. il già citato Marx in the Anthropocene di K. Saito; A. Malm, Fossil capital. The Rise of Steam Engine and the roots of Global Warming, London, Verso, 2016, su globalizzazione degli anni Novanta, accumulazione originaria in Cina e uso del carbone; S. Barca, Forze di riproduzione, Milano, Edizioni Ambiente, 2023, sulle figure salariate e non-salariate (donne, comunità afroamericane e indigene, natura extra-umana) che hanno subito, a costo di morti e violenze inaudite, la cosiddetta ascesa dell’uomo a “forza geologica” celebrata nella master-narrative dell’Antropocene.

[iv] H. Marcuse, Ecology and Revolution, in Id., Ecology and the Critique of Society Today, ed. by S. Surak, P-E. Jansen, C. Reitz, Santa Barbara, University of California Santa Barbara, 2019, p. 2. Per le prossime citazioni, ivi, pp. 2-4.

[v] Id., L’uomo a una dimensione, tr.it. di L. Gallino e T.G. Gallino, Torino, Einaudi, 1999, p. 15. Cfr. anche Id., Sul Vietnam, in Id., Oltre l’uomo a una dimensione. Scritti e interventi di Herbert Marcuse, vol. I, tr.it di S. Bomura e L. Garzone, a cura di R. Laudani, Roma, Manifestolibri 2006, pp. 47-69.

[vi] Id., Ecology and Revolution, cit., pp. 1-2.

[vii] Ivi, p. 3.

[viii] Id., Ecologia e critica della società moderna, in Id., Marxismo e Nuova SinistraScritti e interventi di Herbert Marcuse, vol. II, tr.it. di L. Scafoglio, a cura di R. Laudani, 2007, p. 166.

[ix] H. Marcuse, Ecology and Revolution, cit., p. 2. Da una prospettiva femminista, attenta anche alla conquista del Nuovo Mondo, anche S. Federici, Il Calibano e la Strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Milano, Mimesis, 2020, p. 203, parla della necessità capitalistica di trasformare la «vis erotica» in «vis lavorativa». Da segnalare che, al pari dell’autrice, anche H. Marcuse, Eros e civiltà, tr. it. di L. Bassi, Einaudi, Torino, 2001, p. 109, fa riferimento all’«eccidio crudele e organizzato dei Catari, degli Albigesi, degli Anabattisti, degli schiavi, dei contadini e dei poveri» e «al rogo delle streghe» per disciplinare il “corpo ribelle”, le facoltà “riproduttive” ed erotiche al diktat della prestazione capitalistica, ma anche come «l’irruzione di forze pulsionali inconsce nel mondo razionale e razionalizzato» in cui «i carnefici e le loro bande combattevano lo spettro di una liberazione che desideravano, ma che erano costretti a rifiutare».

[x] H. Marcuse, Ecology and Revolution, cit., p. 5.

[xi] Id., Protosocialismo e tardocapitalismo. Verso una sintesi teorica a partire da Rudolph Bahro, in Id., Marxismo e nuova Sinistra, cit., p. 269.

[xii] Id., Ecologia e critica della società moderna, cit., p.

[xiii] Id., Bahro, cit., p. 267.

[xiv] Id., Ecology and revolution, cit., p. 2.

[xv] Id., Individuo nella grande società, in Id., La società industriale avanzata. Scritti e interventi di Herbert Marcuse, vol. III, tr.it. di L. Scafoglio, a cura di R. Laudani, Roma, Manifestolibri, 2008, p. 183.

[xvi] Id., Ecology and revolution, cit., p. 3.

[xvii] Id., Ecologia e critica della società moderna, cit., pp. 173-174 (tr. leggermente modificata).

[xviii] Id., Ecology and revolution, cit., p. 5.

[xix] Ivi, p. 175.

[xx] Cfr. H. Draper, La Rivolta di Berkeley. Il movimento studentesco negli Stati Uniti, tr.it. di R. Giammanco, Torino, Einaudi, 1968.

[xxi] H. Marcuse, Ecology and Revolution, cit., p. 4.

[xxii] Id., Bahro, cit., p. 269.

[xxiii] Ivi, pp. 268-269.

[xxiv] Id., Ecology and Revolution, cit., p. 4.

[xxv] Id., Ecologia e critica della società moderna, cit., p. 175.

[xxvi] Id., Oltre il marxismo cattivo, in Id., Marxismo e Nuova Sinistra, cit., p. 279.

[xxvii] Id., Counterrevolution and revolt, Boston, Beacon Press, 1972, p. 68 (tr. it. mia). In questo capitolo su Nature and Revolution, Marcuse discute della possibilità che la natura possa diventare un “alleato nella Rivoluzione” – «anche la natura aspetta la rivoluzione!», scrive in ivi, p. 74 – attraverso la filosofia di Kant, per il concetto di estetica come capacità della sensibilità di dare forma apriori all’esperienza, da un lato; ed il pensiero di Hegel e Marx, per la concezione storico, sociale e pratica di siffatta formazione sensibile, dall’altro lato. Il capitolo è stato pubblicato su questo blog da Davide Nota il 31 Luglio 2020 [https://leparoleelecose.it/?p=38986].

[xxviii] L’analisi di Marcuse trova grandi affinità con quelle elaborate negli stessi anni da A. Gorz, Ecologia e libertà, a cura di E. Leonardi, Orthotes, Napoli-Salerno, 2015. Per le nuove forme di sfruttamento capitalistico della natura, cfr. l’opera di E. Leonardi, Lavoro, natura, valore, Napoli-Salerno, Orthotes, 2017 e E. Leonardi, Carbon Trading Dogma. Presupposti teorici e implicazioni pratiche dei mercati globali di emissioni di gas climalteranti, in «Jura Gentium».

[xxix] H. Marcuse, Università e la trasformazione radicale della società, in Id., Lezioni americane (1966-1977), a cura di L. Mandara, Milano, Mimesis, 2022, p. 66.

[xxx] L’ecologismo mi pare giunto a questo “realismo” una volta abbandonato il wishful thinking che la transizione ecologica possa essere semplicemente delegata a dei governi che, senza mobilitazioni dal basso, non possono che difendere tout court gli interessi dominanti del capitale. Si pecca ancora di “utopismo”, però, quando questa consapevolezza non porta a porsi problemi di natura propriamente politica, come la questione del potere e dell’organizzazione di una forza capace di bloccare e riconvertire la produzione, il che implica il problema del consenso e della mobilitazione della forza lavoro globale. Un’ingenuità che traspare, mi pare, nelle recenti prese di posizioni di Greta Thunberg sul nucleare e la guerra in Ucraina, che hanno de facto cancellato decenni di lotte anti-nucleari e anti-militariste che, come visto attraverso l’opera di Marcuse, hanno costituito il nerbo del movimento ambientale almeno fino al crollo dell’Unione Sovietica. Altrettanto ingenuo sarebbe credere che con una Rivoluzione socialista globale il problema ambientale possa essere risolto senza atti “repressivi” e in sostanziale tranquillità: per quanto “falsi”, quelli “consumistici” sono diventati bisogni e desideri diffusi, immaginario condiviso spesso anche da popolazioni povere, e una loro trasformazione richiederà molto probabilmente atti repressivi e dunque, di nuovo, l’esercizio di autorità – senza per questo dover necessariamente risolvere il problema in chiave eco-fascista.


Articolo ripreso da: https://www.leparoleelecose.it/?p=47752




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