PERCHÉ AMIAMO CATHERINE DENEUVE
di Silvia Ingusci
Nostra Signora della Borghesia Catherine Fabienne Deneuve, al secolo Dorléac, ha compiuto ottant’anni ed è ancora la più grande star francese. E per francese s’intende non una mera provenienza geografica, ma quell’inesprimibile complesso di suggestioni estetiche e posture intellettuali che è alla base di un’attitudine, se mai davvero codificata, almeno istintivamente riconoscibile – i capelli disordinati con eleganza, una sottile coda di eye-liner sopra l’ombretto azzurro, una borsa di Hermes, una certa vaga innocenza sulle cose del mondo. Canonizzata nel pantheon delle donne che hanno prestato il proprio volto a quello di Marianne, la personificazione della République, che, al berrettino frigio indossato nel famoso dipinto di J. L. David La libertà che guida il popolo, preferisce infine la ricercata e voluminosa messa in piega della nostra biondissima – su cui spicca, in un contrasto drammatico, un fiocco di velluto nero, il correlativo oggettivo indiscusso di ogni femme fatale –, tutti i volti che la sua infaticabile carriera ha conosciuto riconducono in fondo a uno statuto di “madonna erotica”, il viso di un angelo a dissipare i sospetti di una carica sessuale ancora oggi rivoluzionaria e quindi intrinsecamente femminista.
All’inizio degli anni sessanta, Catherine è l’icona di una rivoluzione sessuale che muove i primi passi non tanto negli ambienti proletari e studenteschi, come avverrà nel futuro autunno caldo, quanto piuttosto nella cerchia intellettuale interna alla borghesia, il cui fascino discreto subiva in quegli anni le prime operazioni di decostruzione sul piano storico e socio-economico. Catherine è la jeune fille destinata a rappresentare (non solo al cinema) questa nuova sensibilità inquieta e a guidare come una novella Giovanna d’Arco l’attacco non frontale, ma endogeno, ai sani valori borghesi di ordine, rispettabilità e decoro; è l’ambasciatrice di una sessualità a-storica, a-morale, freudianamente inconscia e, in questo senso, totalmente anarchica.
Lo scandalo che suscita come protagonista del film diretto dal maestro del surrealismo Luis Bunuel, Belle du jour (1967), è quello che può provocare una giovane donna elegante e ricca che rifiuta di andare a letto col marito e decide di prostituirsi in una casa d’appuntamenti nei sobborghi di Parigi, dove si reca quotidianamente avvolta in un impareggiabile guardaroba Yves Saint Laurent. Per François Truffaut è la che donna s’innamora di un giovane attore mentre il marito ebreo si nasconde dalle persecuzioni naziste in L’ultimo Metro (1980), per Polanski è invece algida e desiderosa di una purezza monastica (Repulsion, 1965); nell’omonimo film di Jean Aurel (1968), interpreta Manon, che si serve del proprio “capitale sessuale” per concedersi una vita lussuosa fatta di bei vestiti e vacanze in côte d’azur, essendo intanto innamorata di François, un giornalista squattrinato che continua a chiedere anticipi sullo stipendio per comprarle regali. Ancora, ne La cagna (Marco Ferreri, 1972), tratto dalla novella di Ennio Flaiano, il personaggio di Catherine abbandona la crociera in barca a vela con gli amici e il fidanzato per stare con Giorgio (Mastroianni), che vive come un selvaggio su un’isola disabitata con l’unica compagnia del suo cane: gelosa delle attenzioni che l’uomo riserva all’animale, crudelmente ne provoca la morte facendolo smarrire in mare e assume poi l’atteggiamento di sottomissione, appunto, di una cagna.
Ruoli femminili come quelli interpretati da Catherine Deneuve, disturbanti senza mai essere gratuitamente pruriginosi, non sarebbero nemmeno lontanamente immaginabili nella grammatica contemporanea del cinema mainstream. I personaggi a cui Catherine presta il volto, decadenti, viziosi, annoiati, intrappolati in un paradigma sociale borghese da cui non possono liberarsi se non per dei folli, circoscritti, momenti di sovversione, sono intrisi di un dramma umano inconoscibile e disperato e provano a dare voce a un inconscio animalesco e terrificante sepolto sotto strati di sovrastrutture sociali e giacche Chanel.
Mi sembra invece che il linguaggio cinematografico più recente, salvo alcuni sporadici casi (ad esempio il piccolo capolavoro camp che è Please baby please, disponibile su Mubi) abbia rinunciato del tutto all’esplorazione dei meandri psicologici connessi alla sessualità femminile, da cui tuttavia non può prescindere una riflessione completa sulle dinamiche di forza di derivazione patriarcale. Il desiderio femminile viene oggi trattato con un generale sentimento di decenza, assestandosi su un femminismo di maniera e woke, che finisce per essere non inclusivo verso le forme più scomode e disturbanti di autodeterminazione, come quelle vissute da alcuni dei personaggi di Catherine Deneuve. Genera, piuttosto, una sorta di empowerment apollineo, eteronormato per essere positivo, o consolatorio o quanto meno educativo, di cui il grande successo di Barbie di Greta Gerwing sembra essere la prova più eclatante.
Una riflessione di questo tipo è d’obbligo non perché si debba necessariamente considerare Catherine un’icona femminista, ma perché più volte si è esposta sul tema della libertà di scelta delle donne, dal Manifesto delle 343 a sostegno dell’aborto (scritto da Simone de Beauvoir) fino alla contestatissima lettera aperta a “Le Monde” del 2018, dove insieme ad altre 99 attrici francesi rivendicava il suo diritto ad autodeterminarsi come oggetto di attrazione maschile e denunciava la deriva puritana e proibizionista che stava assumendo il MeToo accusando indiscriminatamente di stupro tutti gli uomini che avessero in qualche modo manifestato delle avance a una donna. La shitstorm a cui fu sottoposta allora, tra le cui voci spiccava quella di Asia Argento che su Twitter le diede esplicitamente della lobotomizzata, evidenziò il fatto che la quarta ondata del femminismo internazionale aveva già raggiunto vette parossistiche in cui il MeToo, dalle sacrosante sponde da cui era partito, pareva fosse giunto a teorizzare che qualsiasi esperienza di relazione con l’altro diventava un atto più o meno violento di oppressione tra un uomo-orco e una donna-vittima.
Questo rivelò che il movimento non era abbastanza maturo da essere espressione di una reale sorellanza tra esperienze e vissuti diversi, e costituisce forse uno dei motivi per cui la sua popolarità non è durata che qualche anno (nonostante le donne siano ancora ampiamente molestate e ricattate sessualmente). Come scrive giustamente Elisa Cuter in un articolo apparso su Not, e più estesamente nel suo saggio Ripartire dal desiderio (Minimum Fax, 2021), è molto pericoloso avallare il sillogismo per cui le donne sono intrinsecamente una vittime del desiderio maschile, e identificarle così in modo aprioristico, perché questo le confina a un ruolo immancabilmente subalterno, passivo, la incastra in una perenne e insanabile condizione infantile, alla quale o soccombere cedendo al ricatto sessuale oppure opporsi eroicamente come una novella Lucrezia, che preferisce la morte allo stupro.
Di certo, la rappresentazione delle donne come vittime dell’atteggiamento naturalmente predatorio del maschio non aiuta la causa dell’emancipazione sessuale e dell’autodeterminazione femminile. Amiamo Catherine perché ci consente davvero di ripartire dal desiderio. È figlia di un tempo in cui la contestazione all’establishment passava attraverso forme artistiche realmente significative e “scomode”, profondamente disturbanti e, per questo, intrinsecamente sovversive. La rivoluzione sessuale iniziata proprio in Francia negli anni sessanta non è l’antecedete storico dell’attuale temperie femminista, ma per certi versi, come dice Ida Dominijanni, il suo opposto. Il cinema di Catherine Deneuve, ancora oggi perturbante e sovversivo, ci offre un contraltare necessario alla narrazione femminista contemporanea.
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