16 dicembre 2023

LA FORMA MUSEO NELL' EPOCA DELLA GLOBALIZZAZIONE

 


LA FORMA MUSEO NELL’EPOCA DELLA GLOBALIZZAZIONE

Da diversi anni a questa parte, pronunciata con grande enfasi da Presidenti del Consiglio, Ministri della cultura e direttori di giornali, circola una sciocchezza colossale secondo la quale l’Italia possiederebbe la maggior parte del patrimonio culturale mondiale. In genere le percentuali variano a seconda del grado di patriottismo dell’emittente, ma tutti esibiscono lo stesso livello di impermeabilità a qualsiasi confutazione anche di semplice buon senso. Il fatto che un censimento simile non esista e che si stia parlando di cose imparagonabili fra loro non viene preso minimamente in considerazione. Vale più la piramide di Cheope o il Pantheon? L’esercito di terracotta o Pompei? Le ville Palladiane, Angkor Vat o Macchu Picchu?

L’aspetto paradossale è che questa sciocchezza pare sia nata da un rapporto dell’Interpol in cui si denunciava che il 60% dei furti d’arte nel mondo riguarda i Beni culturali italiani, quindi proprio niente di cui vantarsi.

Col tempo i più scafati hanno corretto il tiro appoggiandosi alla nobile lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità dell’UNESCO, che conta 1199 siti di 168 paesi, nella quale occupiamo il primo posto con 59 siti (ergo meno del 5% del totale). Questo primato, seppur fortemente ridimensionato, non deve però far velo sull’obiettivo sbilanciamento eurocentrico dell’elenco, per il quale la metà di tutti i beni risiede nel vecchio continente, molto attento in particolare alla storia greco-romana, non a caso il logo dell’UNESCO è il frontone di un tempio classico.

Antonio Paolucci, ex direttore dei Musei Vaticani e indimenticato Ministro dei Beni Culturali, ha spiegato spesso che il vero carattere distintivo dell’Italia è il c.d. Museo diffuso, cioè la distribuzione capillare delle nostre opere d’arte, che non sono concentrate in pochi luoghi ma disseminate ovunque, tra chiese, musei, palazzi nobiliari e castelli. Come scrisse in un articolo: “da noi il museo esce dai suoi confini, dilaga nelle piazze e nelle strade, occupa le campagne e i paesi, si attesta in ogni piega del territorio”, e infatti “per vedere il Pontormo più bello del mondo non si deve andare agli Uffizi, ma nella chiesa di Santa Felicita a Firenze; e il Tiziano più bello si trova nella Basilica dei Frari, non all’Accademia di Venezia”.

Certo, la diversificazione naturale dell’offerta culturale è un’ottima cosa, soprattutto ora che il bilancio post covid indica una ripresa generalizzata, ma da sola non basta. Nel 2022 infatti, gli incassi totalizzati dai musei italiani indicano una crescita del 177% rispetto all’anno precedente, e parallelamente è aumentato pure il numero dei visitatori, arrivati a 26 milioni nel 2022, più del doppio rispetto al 2021, con un assestamento su valori simili a quelli del 2019, cioè l’ultimo prima della pandemia.

Quello che tace questo bilancio generale è che i dati restano molto a macchia di leopardo, e che persiste un divario enorme fra le solite capolista (gli Uffizi con più di 4 milioni di visitatori e Pompei con quasi tre) e gli altri musei, compresi quelli nazionali e qualcuno di prima fascia (Capodimonte e Palazzo Barberini non raggiungono i duecentomila visitatori annui). Per non parlare delle realtà minori e locali, molto spesso ignorate sia dai grossi flussi turistici che dai residenti.

Gestire un patrimonio culturale immenso composto da 4mila musei, 95mila chiese e cappelle, 40mila castelli e 2mila aree archeologiche non è semplice, ma chi propone di chiudere e accorpare è folle, o utilizza strumenti di analisi vecchi e arrugginiti come gli attrezzi di un museo contadino.

Alla crisi dei musei, denunciata da Jean Clair nel 2007 a causa della globalizzazione della cultura, si può rispondere in molti modi, ma non certo riducendo l’offerta o sfruttando i nomi più prestigiosi come delle griffe (vedi il Louvre di Abu Dhabi). Come recita l’ICOM (International Council of Museums): “Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro al servizio della società, che effettua ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio materiale e immateriale […] offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze”.

Sul lato della piacevolezza dell’esperienza ci sarebbe molto da obiettare, e quando Giorgio Manganelli parlava dei grandi musei italiani come dei “lager di capolavori” alludeva anche alla concezione penitenziale della cultura, che è fatta di obblighi, sofferenza e passività. Chissà che non sia inconsciamente anche per questo che molti spazi adibiti oggi a museo in precedenza erano luoghi di dolore, come il carcere del Bargello o il mattatoio del MACRO Testaccio.

In quest’ottica, e in quella del portafoglio, una soluzione possibile, intrapresa da musei come il MUDEC e la Fondazione Rovati di Milano o il MART di Rovereto, è quella di offrire ai visitatori uno spazio piacevole in cui stare, non solo per la bellezza degli ambienti e delle opere esposte, ma pure per la qualità dei servizi proposti. Troppo spesso l’offerta ristorativa dei nostri musei si limita a soddisfare a caro prezzo le semplici necessità, stile autogrill, come se il cibo non fosse cultura.

Così oggi a Milano esistono ben due ristoranti museali stellati, uno al MUDEC e l’altro alla Fondazione Rovati, dove si può usufruire di vari servizi, dalla sala studio al ricco bookshop, fino al caffè-bistrot con affaccio sul giardino interno e al ristorante esclusivo dell’ultimo piano.

Un’altra soluzione, sempre puntando al maggior coinvolgimento dei visitatori e alla parcellizzazione dell’offerta, è quella delle case museo, che in fondo è l’imprinting di tanti studenti andati in gita scolastica a Recanati o a Gardone Riviera.

Lo scrittore turco Orhan Pamuk fu il primo a sostenere che quelle dimore private rappresentavano il futuro dei musei, parlando di luoghi incantati come la Frick Collection di New York, il Museo Gustave Moreau di Parigi, la casa di Mario Praz a Roma o la Wunderkammer milanese del Poldi Pezzoli, la cui attrattiva principale risiede nella capacità di instaurare una relazione più intima con le opere, oltre ad offrire l’accesso al mondo privato di un collezionista o un artista animato da una grande passione. E in questa categoria rientrano anche musei canonici come il Guggenheim di Venezia, se prendiamo per buono quanto Peggy amava dire di sé, e cioè “Io non sono una collezionista, sono un museo”, dimostrando così che ogni museo è sempre il risultato di un lungo percorso che trova le sue origini nel fenomeno del collezionismo.

Ma di case museo se ne inaugurano di continuo (come la Fondazione Bellonci o casa Moravia a Roma), e la loro popolarità dipende dal fatto che sono luoghi capaci di farci battere il cuore con l’emozione profonda di una storia personale, oltre a darci l’impressione di essere parte integrante dell’opera di chi ci ha vissuto, perché spesso fra quelle mura fu concepita e realizzata. In piccolo è la stessa logica vincente delle One company town, i paesi che s’identificano interamente con un’artista, talvolta fino ad assumerne il nome, come Sansepolcro con Piero della Francesca o Arquà Petrarca.

Sempre sui sentimenti fa leva il Museum of Broken Relationship, che nel 2011 è stato insignito del premio Kenneth Hudson, conferito dal Forum dei Musei Europei per “l’audace e controversa esposizione che sfida la percezione comune del ruolo dei musei nella società”. Aperto nel 2010 a Zagabria da una produttrice cinematografica e da uno scultore croati, questo museo non contiene opere d’arte mirabili ma storie ordinarie. Assecondando il movimento che inaugurò Duchamp un secolo fa nel portare dentro ai musei le cose comuni di tutti i giorni, lì si espone quel che resta degli amori sbagliati, una collezione di oggetti donati dai separati, ognuno col suo carico di dolore e ciascuno accompagnato da un breve testo che spiega il senso di quella fine.

L’unico dettaglio che non convince è il logo, la scritta spezzata, troppo didascalica. Meglio un fazzoletto allora, come quelli delle relazioni a lunga distanza, che si agitano alla stazione e con cui ci si asciugano le lacrime. Quello è il vero simbolo delle separazioni, non per niente è centrale nella storia di Otello e Desdemona, l’amore tragico per eccellenza. Una relazione che non aveva niente di sbagliato e che finì male lo stesso, per un equivoco fatale che portò alla rovina due sposi devoti e fedeli, perfetta immagine dell’inevitabile ambiguità del linguaggio amoroso, che è l’espressione delle persone reciprocamente più vicine ed estranee del mondo: gli innamorati.

Nel 2012 è stata aperta una filiale del Museo a Los Angeles, precisamente sull’Hollywood Boulevard, a due passi dalla fabbrica dei sogni, ma attualmente risulta chiusa con la procedura d’insolvenza del chapter eleven, che è la principale norma fallimentare del Codice civile degli Stati Uniti, quasi un contrappasso per un Museo che commemora i fallimenti sentimentali.

Ancora più audace e radicale è il Teshima Art Museum in Giappone, il grado zero della museologia, uno spazio organico e minimalista impregnato di misticismo zen che sta fra la Rothko Chapel di Houston e 4’33” di John Cage, un museo totalmente vuoto che più che una visita culturale offre un’immersione in sé stessi e un’occasione di raccoglimento.

Resta un mistero il motivo per cui le più stupefacenti architetture museali contemporanee sono indifferenti al loro contenuto e somigliano tutte a dei mostri marini arenati sulla spiaggia, dal granchio del Guggenheim di Bilbao all’ammonite del Guggenheim di New York fino alla medusa del Teshima, riflettendo la loro essenza di splendidi gusci vuoti e inanimati.

Di segno opposto è il problema dell’apparato museale italiano, talmente ricco di opere d’arte da doverne stipare gran parte nei magazzini. La politica culturale del Ministro Gennaro Sangiuliano in questo senso è improntata anche alla riorganizzazione dell’intero sistema museale, e nella sua regione si concentrano alcuni dei progetti più ambiziosi, dal recupero dell’Albergo dei poveri di Napoli, una delle più maggiori costruzioni settecentesche d’Europa, che verrà trasformato in una grande infrastruttura culturale e ospiterà il raddoppio del MANN, una biblioteca e un distaccamento dell’Università Federico II, fino alla riqualificazione dell’ex Spolettificio di Torre Annunziata, dove confluiranno molti tesori di Pompei custoditi nei depositi.

Ma è tutta l’offerta museale nazionale che si amplia, proprio nel solco della tradizione del “Museo diffuso”, infatti è quasi ultimato il raddoppio della Pinacoteca di Brera, poi il Museo della Shoah di Roma ha ottenuto da poco il via libera dal Parlamento, i musei autonomi sono passati da 44 a 60 e in quelli di prima fascia sono stati giustamente inclusi l’Archeologico di Napoli, i Musei Reali di Torino e la Galleria dell’Accademia accorpata ai Musei del Bargello. A questo punto la vera sfida consisterà nel far conoscere le tante realtà minori neglette, per meglio distribuire l’afflusso turistico nell’epoca della globalizzazione, senza cedere alla spettacolarizzazione e al consumo, i mali profondi che minano le fondamenta di queste roccaforti dell’arte.

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