28 febbraio 2024

IL PESO DI CARLO LEVI NELLA STORIA DEL 900 ITALIANO

 


Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi 

 GIUSEPPE MURACA

 

Con la pubblicazione del libro Cristo si è fermato ad Eboli Carlo Levi salì nell’immediato dopoguerra alla ribalta nazionale e internazionale provocando un vivace dibattito politico e letterario. Nato a Torino nel 1902 in un ambiente familiare di origine ebraica e influenzato dalle idee liberal-socialiste (la madre Maria Treves era sorella del dirigente socialista Claudio Treves), egli nel 1918 conobbe Piero Gobetti con cui strinse una profonda amicizia: infatti collaborò alle sue riviste «Energie nuove» e la «Rivoluzione liberale». Il libro venne scritto a Firenze fra il mese di dicembre del 1943 e il mese di luglio dell’anno seguente durante la sua clandestinità di sorvegliato speciale del regime nazi-fascista e pubblicato nel 1945; quindi è un’opera che non è nata dal nulla, bensì dopo più di un ventennio di attività pittorica, letteraria e politica da parte dell’autore come oppositore politico del regime fascista e un processo di riflessione sul destino dell’uomo e del mondo.

Cristo si è fermato ad Eboli, che venne accolto con grande favore da un ampio pubblico di lettori e successivamente tradotto in molte lingue, è un libro molto complesso, difficilmente catalogabile, che testimonia del legame profondo che si è istituito fra l’autore e il mondo contadino durante i mesi del confino in Lucania, un’opera autobiografica che trae ispirazione dalla sua esperienza soggettiva. Diciamo che si tratta di una via di mezzo fra l’indagine sociologica e il saggio etnografico e antropologico, resa singolare da un’alta qualità letteraria. Rocco Scotellaro lo ha definito “Il più appassionato e crudo memoriale dei nostri paesi”. In Cristo si è fermato è fermato ad Eboli quindi è lo stesso Levi che parla e che scrive, senza fronzoli e senza infingimenti letterari. L’io narrante è un medico (anche se non esercita la professione da anni) e un pittore che viene catapultato dalle autorità fasciste a Grassano, in Lucania. La storia si svolge ai tempi della guerra d’Abissinia e del massimo consenso del regime fascista e il libro non è altro che un viaggio di scoperta di un mondo oltre-confine, sconosciuto all’autore e immobile in uno stadio preistorico. Sin dal suo incipit l’autore traccia questa linea di demarcazione che divide il Nord dal Sud e pone l’accento sulla condizione disumana dei contadini:

– Noi non siamo cristiani, – essi dicono, – Cristo si è fermato a Eboli –. Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo: e la frase proverbiale che ho sentito tante volte ripetere, nelle loro bocche non è forse nulla più che l’espressione di uno sconsolato complesso di inferiorità. Noi non siamo cristiani, non siamo uomini, non siamo considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancora meno che le bestie, i fruschi, i frusculicchi, che vivono la loro libera vita diabolica o angelica, perché noi dobbiamo invece subire il mondo dei cristiani, che sono di là dall’orizzonte, e sopportarne il peso e il confronto. Ma la frase ha un senso molto più profondo, che, come sempre, nei modi simbolici, è quello letterale. Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia. Cristo non è arrivato, come non erano arrivati i romani, che presidiavano le grandi strade e non entravano fra i monti e nelle foreste, né i greci, che fiorivano sul mare di Metaponto e di Sibari: nessuno degli arditi uomini di occidente ha portato quaggiù il suo senso del tempo che si muove, né la sua teocrazia statale, né la sua perenne attività che cresce su se stessa. Nessuno ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un nemico o un visitatore incomprensivo. Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria. Parliamo un diverso linguaggio: la nostra lingua è qui incomprensibile. I grandi viaggiatori non sono andati di là dai confini del proprio mondo; e hanno percorso i sentieri della propria anima e quelli del bene e del male, della moralità e della redenzione. Cristo è sceso nell’inferno sotterraneo del moralismo ebraico per romperne le porte nel tempo e sigillarle nell’eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli.

Dopo un breve periodo trascorso a Grassano, Levi viene trasferito dalle autorità ad Aliano (Gagliano nel libro, secondo il dialetto del luogo) dove trova sistemazione a casa di una vedova. Appena giunto a destinazione, lo scrittore torinese capisce subito di essere capitato in un mondo segnato dalla miseria, dalle ingiustizie, dalla malattia e dalla morte. Sin dal suo arrivo egli viene convocato da alcuni contadini perché si prenda cura di uno di loro in fin di vita a causa della malaria, una malattia che colpisce i lucani sin da bambini. L’uomo muore ma lui subito gode della fiducia dei contadini che lo considerano come un buon cristiano. In paese ci sono due medici, però completamente ignoranti, che non godono però della loro fiducia. Sin dalle prime pagine vengono denunciati i mali che affliggono le popolazioni meridionali (miseria, emigrazione, analfabetismo, malaria), ma esse mancano di una vera e propria coscienza politica

perché sono, in tutti i sensi del termine, pagani, non cittadini: gli dèi dello Stato e della città non possono aver culto fra queste argille, dove regna il lupo e l’antico, nero cinghiale, né alcun muro separa il mondo degli uomini da quello degli animali e degli spiriti, né le fronde degli alberi visibili dalle oscure radici sotterranee.

E ancora:

Nel mondo dei contadini non c'è posto per la ragione, per la religione e per la storia. Non c'è posto per la religione, appunto perché tutto partecipa della divinità, perché tutto è, realmente e non simbolicamente, divino, il cielo come gli animali, Cristo come la capra. Tutto è magia naturale. Anche le cerimonie della chiesa diventano dei riti pagani, celebratori della indifferenziata esistenza delle cose, degli infiniti terrestri dèi del villaggio.” P. 102

Nella storia dell’umanità

“I contadini lucani nella loro secolare storia hanno avuto tre guerre collocate nel tempo, la prima delle quali fu contro i greci che conquistarono queste terre. Da un lato c'erano gli eserciti organizzati degli Achei con le loro armi; dall'altro i contadini con le loro scuri, le falci e i coltelli. La seconda guerra fu quella contro i Romani che permise la diffusione della teocrazia statale con tutte le sue incomprensibili leggi. Infine la terza e ultima fu quella dei briganti: i contadini non avevano cannoni come "l'altra Italia" che li stava sottomettendo, ma avevano la rabbia dovuta alla povertà, all'emigrazione, all'ingiustizia sociale che il nuovo stato savoiardo stava perpetrando nelle terre meridionali.”

Lo Stato viene considerato dai contadini come un ente estraneo, nemico. Lo Stato si è completamente dimenticato di loro e si ricorda della loro esistenza solo quando deve infliggere nuove tasse:

“Per la gente di Lucania, Roma non è nulla: è la capitale dei signori, il centro di uno Stato straniero e malefico.” (P. 108)

Che cosa avevano essi a che fare con il Governo, con il Potere, con lo Stato? Lo Stato, qualunque sia, sono «quelli di Roma», e quelli di Roma, si sa, non vogliono che noi si viva da cristiani. C'è la grandine, le frane, la siccità, la malaria, e c'è lo Stato. Sono dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno sempre.” “Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall'altra parte.” Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono [...] La sola possibile difesa, contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione, senza speranza di paradiso, che curva le loro schiene sotto i mali della natura. (p.71)

Quello contadino è un mondo immobile, sempre uguale, senza speranza, segnato dalla rassegnazione e dalla vanità delle cose e dalla potenza del destino, in contrasto con il mondo dei signori. E in quel mondo chiuso attecchiscono i tabù e i pregiudizi secolari.

Ma quando, dopo infinite sopportazioni, si tocca il fondo del loro essere, e si muove un senso elementare di giustizia e di difesa, allora la loro rivolta è senza limiti, e non può conoscere misura. È una rivolta disumana, che parte dalla morte e non conosce che la morte, dove la ferocia nasce dalla disperazione. I briganti difendevano, senza ragione e senza speranza, la libertà e la vita dei contadini, contro lo Stato, contro tutti gli Stati. Per loro sventura si trovarono ad essere inconsapevoli strumenti di quella Storia che si svolgeva fuori di loro, contro di loro; a difendere la causa cattiva, e furono sterminati. Ma, col brigantaggio, la civiltà contadina difendeva la propria natura, contro quell'altra civiltà che le sta contro e che, senza comprenderla, eternamente la assoggetta: perciò, istintivamente, i contadini vedono nei briganti i loro eroi. La civiltà contadina è una civiltà senza Stato, e senza esercito: le sue guerre non possono essere che questi scoppi di rivolta; e sono sempre, per forza, delle disperate sconfitte; ma essa continua tuttavia, eternamente, la sua vita, e dà ai vincitori i frutti della terra, ed impone le sue misure, i suoi dèi terrestri, e il suo linguaggio.” P. 122

Come è stato sottolineato “il mondo di Galiano si configura come un universo spaccato; da una parte i contadini, i poveri, gli umiliati; dall’altra i signori ovvero i rappresentanti di una piccola borghesi intristita, marcia, che vive dei propri risentimenti, dei propri rancori, e soprattutto è caratterizzata da una meschina, repellente disumanità […] La separazione tra signori e contadini è per sua natura insanabile (Mario Miccinesi, p. 65). I signori partecipano alle vicende politiche del paese, mentre i contadini si chiudono nella loro indifferenza.

Così sono sempre le violente ed effimere esplosioni di questi uomini compressi; un risentimento antichissimo e potente affiora, per un motivo umano; e si dànno al fuoco i casotti del dazio e le caserme dei carabinieri, e si sgozzano i signori; nasce, per un momento, una ferocia spagnola, una atroce, sanguinosa libertà. Poi vanno in carcere, indifferenti, come chi ha sfogato in un attimo quello che attendeva da secoli.” P. 201

E l’autore quasi alla fine del libro boccia tutte le “ricette” politiche volte a risolvere la questione meridionale e ad un certo punto afferma:

Il problema meridionale non si risolve dentro lo Stato attuale, né dentro quelli che, senza contraddirlo radicalmente, lo seguiranno. Si risolverà soltanto fuori di essi, se sapremo creare una nuova idea politica e una nuova forma di Stato, che sia anche lo Stato dei contadini; che li liberi dalla loro forzata anarchia e dalla loro necessaria indifferenza. Né si può risolvere con le sole forze del mezzogiorno: ché in questo caso avremmo una guerra civile, un nuovo atroce brigantaggio, che finirebbe, al solito, con la sconfitta contadina, e il disastro generale; ma soltanto con l'opera di tutta l'Italia, e il suo radicale rinnovamento. Bisogna che noi ci rendiamo capaci di pensare e di creare un nuovo Stato, che non può più essere né quello fascista, né quello liberale, né quello comunista, forme tutte diverse e sostanzialmente identiche della stessa religione statale. Dobbiamo ripensare ai fondamenti stessi dell'idea di Stato: al concetto d'individuo che ne è la base; e, al tradizionale concetto giuridico e astratto di individuo, dobbiamo sostituire un nuovo concetto, che esprima la realtà vivente, che abolisca la invalicabile trascendenza di individuo e di Stato. L'individuo non è una entità chiusa, ma un rapporto, il luogo di tutti i rapporti. Questo concetto di relazione, fuori della quale l'individuo non esiste, è lo stesso che definisce lo Stato. Individuo e Stato coincidono nella loro essenza, e devono arrivare a coincidere nella pratica quotidiana, per esistere entrambi. Questo capovolgimento della politica. che va inconsapevolmente maturando, è implicito nella civiltà contadina, ed è l'unica strada che ci permetterà di uscire dal giro vizioso di fascismo e antifascismo. Questa strada si chiama autonomia. Lo Stato non può essere che l'insieme di infinite autonomie, una organica federazione. Per i contadini, la cellula dello Stato, quella sola per cui essi potranno partecipare alla molteplice vita collettiva, non può essere che il comune rurale autonomo. P. 210

Il libro si conclude con l’addio dell’autore alla comunità dei contadini che lo ha accolto con amore e gentilezza e con il suo ritorno a Torino in treno.

La critica ha ormai messo in luce i caratteri singolari del libro, ma su un punto bisogna essere chiari, e cioè che si rischia di non capire il senso dell’opera se non si tiene conto della posizione politica di Carlo Levi, della sua appartenenza al Partito d’Azione e della sua netta opposizione al regime fascista. Egli crea una rappresentazione mitica della civiltà contadina, ma al tempo stesso scrive un libro di denuncia e di alta letteratura sulla condizione di immobilismo, di arretratezza e di miseria in cui versava il mezzogiorno d’Italia e della mancata volontà da parte della classe dirigente di affrontare dal punto di vista politico la questione meridionale. Il dibattito che si è sviluppato nel dopoguerra sull’opera e le idee di Carlo Levi è stato abbastanza variegato ma tutti si sono hanno sottolineato l’importanza di Cristo si è fermato ad Eboli. Le maggiori riserve sono venute da parte comunista, e in particolare da parte di Carlo Muscetta, che in seguito ha in parte corretto il suo iniziale giudizio negativo, e da Mario Alicata che ha scritto il saggio Il meridionalismo non si può fermare ad Eboli, che polemicamente ha sottolineato quelli che a suo avviso sono i limiti politici del meridionalismo leviano.

Ora che il mondo descritto e narrato da Carlo Levi non è esiste più da tempo che cosa ha da dirci il suo libro? Esso deve essere considerato una delle massime testimonianze letterarie e politiche su di un mondo perduto per sempre.

 


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