12 febbraio 2024

L' ULTIMO SPETTACOLO DEI "CCCP-FEDELI ALLA LINEA"

 




L’ ULTIMO SPETTACOLO DEI CCCP- FEDELI ALLA LINEA

di Elisa Poli

 

“Altre volte, a notte fonda – l’unico momento in cui, con un po’ di spregiudicatezza o di incoscienza, puoi ignorare sensi vietati e isole pedonali – avrei attraversato le città che la Via Emilia solca come un’arteria percorre il corpo umano: sarei partito da Parma, poi Reggio Emilia, poi Modena, infine Bologna…”

 

Pier Vittorio Tondelli, Un weekend postmoderno

 

 

Wunderkammer bolscevica

 

L’epilogo è una mostra, l’ultimo spettacolo dei CCCP – Fedeli alla linea fino all’ultima performance. Sette stanze per sette dischi e un corollario di ambienti saturati con cimeli, articoli, digressioni, video, bugiardini e islam. Il tavolo di Togliatti e il culto mariano che, a ben guardare, non ha mai abbandonato il contro-tempo del loro verbo. Fa freddo come a Berlino mentre ci si piega ad osservare le bacheche ordinate e pulite, silenziosamente, senza pogare, a debita distanza dagli altri curiosi erotomani delle subculture, spettatori mansueti e ingrigiti, in attesa dell’ultima erezione. Salendo le scale verso la teoria di stanze del primo piano, dove sacro e profano si fondono, per un breve istante, si respira addirittura l’atmosfera ruvida e vitale della capitale spaccata dal muro. Una rabbia miscelata a nostalgia e colpa profuma gli spazi interstiziali del ricordo sadomaso-fetish. Fatur lo ha definito “basic punk”, Giovanni Lindo Ferretti “l’ultima delle avanguardie” e Massimo Zamboni ha rivendicato un “non saper fare niente” espresso dai testi e dalla musica che, durante tutti gli anni Ottanta, i quattro componenti del gruppo emiliano hanno portato sui palchi filo-sovietici che dalle feste dell’Unità arrivarono fino a Mosca. Nei loro spettacoli i CCCP hanno, soprattutto, inscenato improvvisazioni meditate di estreme virtù e consolidati vizi, attraverso il rigore formale di un ritmo che incarnava la ribellione di una generazione senza più fiori e amore ma con i picconi, pardon, i pikkoni, sfoderati per abbattere un muro, quel muro, ma anche tutti i mattoni delle convenzioni sociali ormai sfibrate dal Sessantotto. Ciascun componente, in ogni concerto, aggiungeva del suo, dal potere operaio seminudo di Fatur agli abiti-architetture della benemerita soubrette Annarella Giudici. E proprio lei, “esecutrice testamentaria” dell’archivio visivo ed emotivo della band, ha coordinato la selezione di quel prezioso 10% di memorie che è confluito nella mostra “FELICITAZIONI! CCCP-FEDELI ALLA LINEA 1984–2024!” ospitata a Reggio-Emila ancora per poche settimane (fino al 10 marzo), all’interno del suggestivo spazio dei Chiostri di San Domenico. Il titolo tutto maiuscolo, capitale e marziale, scorre sui cartelloni pubblicitari disseminati in città come il ritmo degli stivali nella copertina rosso sangue di Ortodossia, il primo singolo del 1984, un raid aereo e la frase indelebile nei nostri cuori romantici “Wir sind die Türken von morgen”.

 

L’esistenza stessa di questo display artistico, curato nei minimi dettagli, coerente, elegante e intelligentemente in bilico tra modo imperativo e ricordo plastificato, nega l’ipotesi di un atteggiamento punk ancora presente, riconducendo il genere che li ha resi noti al solo periodo di attività del gruppo, durante il decennio di Regan e Gorbachev. Fossero stati veramente punk, fossero ancora malinconicamente, oggi, punk, i CCCP tutto il loro armamentario di pezzi di vecchie auto, filo spinato e giacche militari soviet, lo avrebbero bruciato e si sarebbero ben guardati dall’accettare un dispositivo mortuario della memoria come la mostra retrospettiva (per quanto non didattica né cronologica o didascalica). Dalla mostra, che tradisce una cultura visuale nutrita con dovizia durante gli ultimi due decenni, emerge, piuttosto, la giusta distanza che, sin dall’inizio, l’esperienza dei CCCP aveva posto tra sé e l’ideologia politica rappresentata dal PCI. Un overload costante che apre brecce di leggerezza nell’ortodossia estremista sempre rivendicata. Ed una grazia poetica incarnata in modo sublime nella sala dedicata agli scatti inediti di Luigi Ghirri che ha colto con esattezza le vene violacee d’intonaco scrostato e l’odore di stalla della cascina-collettiva (ma una cascina è collettiva per definizione) in cui i quattro artisti abitavano, in un tentativo per cui dovremmo rendere lode, di portare Berlino in Emilia. Il catalogo che resta, come “guida turistica” al vagare ipnotizzato tra vecchie tv e glory hole nel backstage del servizio fotografico di cui sopra, vale come ultimo singolo o summa teleologica di ciò che non ritornerà. Il punk è morto e svetta ben imbalsamato alle pareti del teatrino che fece da quinta anche alla saga equestre della Corte Transumante di Nasseta, libera compagnia di uomini e cavalli ideata da Ferretti.

 

Zeitgeiste ragù

 

Essendo nata a Bologna, proprio allo scoccare dei fatidici anni Ottanta, ho scoperto in tenera età che, nonostante la progressiva attenzione mediatica verso il fenomeno urbano americano degli yuppie, ai bambini della mia generazione, nell’estensione territoriale che sulla mappa del Risiko nostrano era posseduta dall’armata rossa, prima regalavano la tessera della Coop (logo d’ispirazione dei CCCP), poi facevano la carta d’identità. Sarà per questo che mi diverte vivere, oggi, in una città in cui il re Mida della grande distribuzione ha scritto un interessante volumetto dal titolo Falce e carrello, in omaggio alla sfida titanica tra consumo liberale e spesa sociale ma, soprattutto, tra regioni azzurre e zone rosse del bel paese, dove nel banco frigo degli ipermercati si trovavano ancora paffuti infanti precotti e pronti da mangiare. Nel 1984 c’era molta confusione sotto il sol dell’avvenire e non soltanto a causa della morte di Berlinguer e della scoperta della Loggia P2, del nuovo concordato tra Stato e Santa Sede che aboliva il cattolicesimo come religione di stato, ma anche per la compresenza al botteghino di film come Bianca e Indiana Jones, il primo lungometraggio di Von Trier e L’allenatore nel pallone, climax interpretativo di Lino Banfi. Mia nonna ascoltava Albano e Romina a Sanremo, mio fratello Zen Arcade degli Hüsker Dü e mia madre Born in the U.S.A. del re della working class americana, il muscolare Bruce Springsteen. Nel 1984, CCCP, per i ben informati, era solo la sigla in cirillico dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e a Berlino il muro svettava ancora a dividere due ideologie inversamente resistenti all’urto della perestrojka: Postdamer Platz a ovest e Karl-Marx-Straße a est. Cimeli un po’ sbiaditi della DDR, mescolati a residui bellici nostrani, alle giubbe da marine, alle spille di Mao e alle pellicce in pelo di gatto di nonna Speranza in naftalina, si trovavano sui banchi inondati d’incenso della Montagnola, mercato delle pulci e punto apicale involontario della contro-cultura emiliana, situato tra la stazione centrale di Bologna, sfregiata indelebilmente proprio nel 1980 dalla famosa bomba, e l’Arena del Sole, che avrebbe ospitato pochi anni dopo la culla dell’hip-hop italiano: L’Isola nel Kantiere. Dalla via Emilia all’Est c’era ancora un lungo tragitto e la città mediana della pianura padana, Reggio Emilia, oltre che per il parmigiano, era famosa più che altro per aver dato i natali a Nilde Iotti, icona matriarcale presente nell’album di volti sovietico-sentimentale in mostra. La storia dei Fedeli alla linea era appena cominciata.

 

Unter der Lindo

 

Il DAMS era nato nel 1971, da una costola di Lettere classiche, per opera del grecista, Benedetto Marzullo, e l’anno successivo, quando Ferretti s’immatricolò, a insegnare nel rivoluzionario corso di laurea dedicato alle Discipline delle Arti, Musica e Spettacolo, erano già arrivati i vari Anceschi, Arcangeli, Banfi, Eco, solo per citare le prime lettere dell’alfabeto intellettuale che la Rossa sfoderò in quegli anni. Il capoluogo emiliano catalizzava una congerie di esperienze originali e le ridistribuiva al pubblico, filtrate attraverso l’ontologia dei professori-militanti e l’estetica delle subculture artistiche. “Mi sono iscritto alla città di Bologna” ha commentato Ferretti nell’intervista per le celebrazioni dei cinquantenario del DAMS, stabilendo come la sua toponomastica emozionale superi di gran lunga il valore dell’istruzione accademica, anche se di accademico, in quegli anni, Via Zamboni 38, aveva ben poco. Scartate Napoli e Venezia, uniche destinazioni italiane per un appassionato di lingue orientali, ma incapaci per ragioni opposte di generare la meraviglia nel giovane di Cerreto Alpi, restava la meta più vicina a casa, con le mattine a distribuire Lotta continua a Zola Predosa e le lezioni del grande etno-musicologo Roberto Leydi, il cui lavoro di riproposizione delle tradizioni musicali italiane dovrebbe già darci la cifra di quanto sia parziale identificare i CCCP (o almeno il percorso musicale di Ferretti) esclusivamente con il punk. Massimo Zamboni però a Bologna nel 1972 non c’era e dovevano passare ancora alcuni anni prima che i due membri fondatori dei Fedeli alla linea s’incontrassero nelle retrovie di un poco raccomandabile locale berlinese. Tra i suoi numerosi viaggi in autostop, nel 1980 Ferretti arriva a Berlino, forse anche per scrivere quella famosa tesi “sul campo” dedicata all’esperienza punk ma, soprattutto, per divincolarsi dal “ghetto culturale” rappresentato da Bologna, dove tutti si somigliavano, secondo il vaticinio di Orson Wells che attribuiva la più riuscita arte italiana alla fecondità delle più atroci guerre intestine. Il Paese dei balocchi rossi portava con sé il rischio dei “ciucchini” tutti uguali. Fin dall’inizio per i CCCP la politica è stata una dimensione sociale e non fideistica “non è una religione ma una necessità di sopravvivenza” dichiara Ferretti nel sublime documentario di Germano Maccioni (2013). Chissà cos’avrebbe detto Suor Aurelia Strozzi, educatrice del collegio di Roncolo, alle cui cure cui si deve l’intonazione musicale del piccolo Giovanni, se lo avesse visto ribelle e squassato nei centri sociali maleodoranti di Berlino ovest, lei che lo aveva portato bambino al cospetto di Mago Zurlì. Ultimamente ci si è concentrati molto sull’immaginario politico ma anche sull’apparenza fenomenica del gruppo, tralasciando, appunto, la musica, da cui tutto è partito, con i due ragazzi ossuti, uncompromised (e non negatemi la bellezza di questo termine inglese), scivolati per un caso che si è fatto destino, impegno, consapevolezza, sulla scena più cruda d’Europa, trascinata nella ribellione contro lo status quo. In un’intervista a Tropical Pizza, Max Collini descrive la generazione dei cantautori degli anni dieci del nuovo millennio come più intimista, distaccata dal racconto sociale e collettivo, come a segnare un margine spesso di distanza tra i gruppi impegnati, di sinistra e quelli più narcisisti e commerciali dell’era Tik-Tok. Lui lo diceva con curiosità e piacere ma trapelava comunque una leggera e comprensibile vena di giudizio. Eppure, anche molti capolavori dei CCCP sono liturgie laiche da ripetere nell’intimità del proprio confessionale domestico fino all’esaurimento della voce: sono la terapia, sono la terapia, sono la terapia. Al punto che, forse non comprendendo la gravità del senso di una morte familiare avvenuta nel 1987, Amandoti è finita recentemente proprio sul palco di Sanremo, come ballata d’amore tra un maestro capellone e il suo discepolo rasato, dopo la più nota e interessante interpretazione di Gianna Nannini del 2004. Ma quanti strati di senso emergono oltre il suono, rileggendo il Libretto rozzo, vangelo apocrifo del gruppo, e quanta arte performativa nei loro concerti, che oggi si è persa, appiattita e impoverita nelle pose da autoscatto digitale del glam. È il nostro occhio di spettatori tecnologici che filtra soltanto il fascino delle uniformi da lavoro sui corpi ancora interessanti dei quattro emiliani (riduzione in cui pare sia incappato anche san Wim Wenders con il suo attore nel suo giorno perfetto nipponico) a resuscitare l’erotismo di tre signori leggermente attempati; Annarella no, l’archetipo di ogni ironia dell’apparire avrà sempre l’età del primo giorno in cui entrò nel gruppo. È il concerto finale di Berlino, semmai, più che il merchandising, a far sorgere il sospetto di un modo per derubricare la scelta tassidermica d’incorniciare al muro gli sputi e le urla di quarant’anni fa quando, davvero, Giovanni Lindo Ferretti, contro qualunque vocazione od intenzione, ammaliava le platee con la sua voce profonda e la sua sagoma filiforme. Qualcuno dovrebbe dirglielo a lui e a Zamboni che erano molto sensuali quando si esibivano al Kob nel 1983.

 

Matrioska emiliana

 

“Berlino era una città da sogno, consumista e occidentale all’interno del sistema comunista, una grande prigione che era il luogo più libero del mondo”, descrive Ferretti in più occasioni dall’altura spirituale della sua casa appenninica che, si sente, lo ha tenuto ancorato e stabile, ogni volta che volava giù da un palco, fino a richiamarlo definitivamente, sulla costa che dalla maremma dipana in Emilia. Ritorno necessario per uno che si rivede con gli occhi materni, ripensandosi in quegli anni di gioventù e autostop con piglio impietoso “io ero una delusione totale in atto”. Un νόστος verso le maestranze del vivere antico, così sensato da chiedersi come mai non sia un rito collettivo obbligatorio, almeno nel nostro paese fatto di province, città minori e piccoli paesi, villaggi abbandonati fuori dalle rotte del turismo globale. L’Appennino è una dimensione specifica, non è montagna né collina, bisogna percorrerlo con la dovuta lentezza, starci, per capirne l’unicità. Spina dorsale d’Italia, orizzonte che guarda al di là, dialetti che si susseguono diversissimi, firmamento di piccole storie punteggiate tra le valli e i torrenti. La competenza dei mestieri che qui sopravvivono è fatta ancora di corpi e di riti abbastanza profondi da apparire quasi semplici. Per chi nell’Appennino ci ha abitato, e non di passaggio, viandante, ma radicato con lo stomaco e il cuore, la messa della domenica è l’evento sociale più significativo, la chiesa il rifugio della collettività, porta sempre aperta anche nelle notti senza stelle. Con tutte le dovute differenze di vedute, specialmente sulla legittimità della gestione del mio utero, è difficile non rimanere impressionati dalla coerenza di Ferretti, non soltanto nell’oggi, almeno nelle interviste vissuto come pacificato e sereno, ma nella transizione di ieri, quando scemata la rabbia è finito anche lo spettacolo e, caduto il muro, anche la fascinazione per la capitale tedesca. Coerenza di tutti e quattro e per questo sì, felicitazioni! Ma, con tutto l’affetto possibile verso Emilia paranoica, il vero testamento resta necessariamente dentro ai versi dello stare, come le cose che stanno, incastonate le une nelle altre, tesori di plastica negli abiti da scena della benemerita soubrette. L’ultimo testamento non è la mostra ma Annarella.

 

Articolo ripreso da  https://www.leparoleelecose.it/?p=48646

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