La sociologia del digitale di Renato Curcio
Capitalismo e spettacolo
Vari segnali indicano che sta venendo meno il silenzio al quale la teoria economica e sociale di Karl Marx sembrava essere stata destinata dopo una lunga orgia di marxismi e marxisti, i quali ultimi si trovano ora numerosi tra i paladini del liberismo economico e dell’imperialismo anglosassone. Si tratta di un’ottima notizia poiché il marxismo ha, insieme a vari limiti, il grande pregio di fornire degli strumenti rigorosi di comprensione del proprio tempo con il pensiero.
Jean Baudrillard descrive le società capitalistiche come strutture nelle quali «tutti corrono diritto per la propria strada perché si è persa la formula per fermarsi» [1]. In questa espressione del filosofo/sociologo francese – ‘si è persa la formula per fermarsi’ – sta l’essenza del capitale, che coincide con la sua dismisura, con la sua ὕβρις, con la sua tracotanza. Ecco perché nel XXI secolo, nell’epoca in cui non domina la produzione ma la speculazione, «il movimento del capitale è senza misura» [2].
Come appunto un tumore, tale dismisura invade ogni ambito della vita collettiva, generando le società capitalistiche del presente. Società caratterizzate da un controllo capillare e implacabile, il quale è sostenuto, attuato e reso possibile dagli strumenti informatici della sorveglianza.
La società del controllo, dello spettacolo e del digitale è contenuta nella società del capitale come un feto è contenuto nella placenta. La televisione, Internet, i suoi Social Network costituiscono l’oppio dei popoli e lo strumento principe di un controllo che è efficace nelle azioni perché dirige le menti e in esse implode.
Con grande chiarezza Guy Debord sostiene che lo spettacolo è il dominio della rappresentazione sulla realtà, la confusione costante dei due livelli sino alla loro totale compenetrazione, che cancella i limiti del sé e del mondo, dell’effettuale e dell’immaginato: «la réalité surgit dans le spectacle, et le spectacle est réel. Cette aliénation réciproque est l’essence et le soutien de la société existante; la realtà si genera nello spettacolo, e lo spettacolo è reale. Questa reciproca alienazione costituisce l’essenza e il sostegno dell’esistente» [3].
E pertanto, secondo Agamben, «l’analisi marxiana va integrata nel senso che il capitalismo (o qualunque altro nome si voglia dare al processo che domina oggi la storia mondiale) non era rivolto solo all’espropriazione dell’attività produttiva, ma anche e soprattutto all’alienazione del linguaggio stesso, della stessa natura comunicativa dell’uomo» [4].
Come si vede, la logica del capitale tende alla totalità, a non lasciare nulla fuori dal proprio orizzonte, dal proprio respiro, dal proprio dominio.
Sulle analisi sociologiche di Renato Curcio
Al centro di questa totalità sta nel XXI secolo il virtuale, stanno le connessioni telematiche, sta la Rete. Dell’ampia opera sociologica di Renato Curcio [5] mi limiterò pertanto alle analisi e ai lavori (non tutti) che hanno come tema la società digitale, le sue radici, espressioni e significato. È qui infatti che pulsa il cuore del presente individuale e collettivo. Ed è qui dunque che devono convergere, ciascuno con i propri metodi e prospettive, i contributi di storici, filosofi, sociologi. La sociologia di Curcio è insieme descrittiva delle dinamiche in atto e valutativa del loro significato politico.
L’analisi che questo studioso dedica alle dinamiche più profonde delle società contemporanee e dei loro strumenti di controllo si avvale di alcuni dispositivi concettuali che rivelano con chiarezza significati, origini e sviluppi dei processi collettivi in corso. Internet è, infatti tante e diverse cose: è «uno sviluppo del capitalismo globale, una tecnologia innovatrice, un nuovo panottico di sorveglianza, una possibilità di controllo a distanza dei lavoratori, una produzione di identità virtuali, un’opportunità per mille operazioni di hackeraggio benefiche e malefiche, una possibilità di velocizzare e ampliare le nostre comunicazioni orizzontali e tante, tantissime altre cose ancora» [6].
Il primo dato è dunque che il Web costituisce certamente un’innovazione ma non è una rivoluzione, essendo la Rete «l’espressione estrema dell’espansione capitalistica, la più pervasiva, non l’irruzione di istituzioni che ne modificano i presupposti» [7]. Internet è il più recente dei miti alienanti generati dal modo di produzione capitalistico, ponendosi esso in continuità con la società dei consumi e con la società dello spettacolo.
Dalla rete militare-accademica Arpanet (1969) alle piattaforme più recenti (Facebook 2004, Google 2005, WhatsApp 2009, Twitter 2013), capitalismo e Rete condividono almeno tre elementi: la struttura gerarchica costituita da «una nuova oligarchia economica esperta nell’esercizio del potere digitale» [8]; l’orizzonte planetario, vale a dire il metacontinente virtuale fatto di connessioni digitali globali; l’intenzione totalizzante di occupare tutto il territorio del tempo e dell’immaginario.
Il tempo digitale permea, investe, controlla ogni contesto della vita produttiva, tutti gli ambiti professionali costituiti dal lavoro subordinato: gli studi professionali; le banche – dove i venditori finanziari devono «dire al cliente solo una mezza verità, imparare a tacere ciò che può insospettirlo» [9] –; le scuole, nelle quali registri elettronici e altri strumenti non hanno in realtà una funzione didattica ma trasformano «l’istituto scolastico in un dispositivo panottico digitale. Da quando si entra a quando si esce, tutto, lì dentro, viene messo sotto controllo. Monitorato, registrato, tracciato, ripreso, trasmesso e memorizzato» [10]; gli ospedali e gli studi medici ormai al servizio di un «processo che vede sempre più la salute ridotta a pacchetti di prestazioni che sono vendibili, quindi ridotta a merce» [11]; analoghe dinamiche investono altri pubblici servizi.
L’immaginario digitale scaturisce dal tempo digitale e insieme lo rafforza. Esso costituisce dunque il più fecondo dispositivo analitico della sociologia di Curcio. Le antiche forme di colonizzazione culturale – le Crociate e in generale l’attività di proselitismo della Chiesa papista – e territoriale – l’imperialismo europeo – conquistavano, depredavano e sfruttavano ma non riuscivano a raggiungere il loro obiettivo più ambizioso: entrare nei corpimente degli assoggettati e possederne l’interpretazione del mondo e della vita. È questo, invece, ciò di cui sono capaci le istituzioni e le aziende che hanno dato vita al più invisibile e pervasivo sistema di controllo delle persone, delle loro scelte, delle intenzioni, dei comportamenti:
«La materia più preziosa al mondo non è il petrolio, né l’oro e neppure l’energia. No, più prezioso di ogni altra cosa, come aveva già intuito il Papato ai tempi delle prime Crociate, è l’anima degli umani, il loro immaginario. L’impero virtuale non è che la storia recente di questa appropriazione, di una nuova e più insidiosa strategia di colonizzazione dell’immaginario» [12].
Si tratta della «schiavitù mentale» della quale parla Chomsky, «la schiavitù di cui sono vittime gli entusiastici abitanti dell’impero» [13]. Essa si accompagna ad altri cinque fenomeni principali: «L’iperconnessione, la schiavitù mentale, l’app-dipendenza, l’alienazione della memoria, il furto dell’oblio, e il deterioramento della sensibilità relazionale» [14].
Si tratta di fenomeni interrelati tutti tra di loro. L’iperconnessione, ad esempio, è una coazione al contatto virtuale che diminuisce drasticamente, sino ad annullarli, i legami in presenza. È esperienza comune e diffusa vedere delle persone insieme ma distanti. Distanti perché mentre sono in compagnia del soggetto A sono in contatto virtuale con il soggetto B (e viceversa) oppure sono immerse nell’utilizzo dei loro reciproci cellulari. La distinzione tra legami sociali e connessioni è uno dei nuclei teoretici ed empirici dell’analisi di Curcio: «Mentre i legami in presenza si generano, si consolidano e si sciolgono attraverso parole e messaggi non verbali che i corpi si scambiano reciprocamente, le connessioni elettroniche si affidano alle immagini morte, ai filmati, ai simboli e alla scrittura, vale a dire ai tipici sistemi di segni ai quali, da sempre, ricorrono i linguaggi dell’assenza» [15].
Obiettare che la dimensione simbolica e la distanza hanno sempre caratterizzato i legami sociali non tiene conto del fatto che quello che sta avvenendo è altro, è un vero e proprio mutamento antropologico fatto di «parole finte, contatti virtuali spacciati per legami amicali, maschere intercambiabili e ologrammi in marcia nelle piazze vuote» [16], tra le cui conseguenze si staglia una progressiva difficoltà ad affrontare relazioni dirette, a comprendere la potenza materica del mondo naturale, a interagire in maniera profonda ed equilibrata con i corpi che siamo. L’avatar, il nome nella Rete, l’alias virtuale, sono infatti tutte forme di disincarnazione, di deterritorializzazione, di annullamento della corporeità, vale a dire dello spaziotempo fisico nel quale ci costituiamo e che siamo.
Nel mondo virtuale tutto sembra in movimento ma già la metafora stessa del ‘navigare’ rimanendo in realtà immobili davanti a uno schermo mostra che si tratta di un moto apparente. Le pagine e i format delle più diffuse piattaforme virtuali, come facebook, sono uguali per tutti e rimangono sempre identiche a se stesse, pur se riempite di contenuti effimeri la cui stessa identità consiste nel dover al più presto dileguare per lasciare spazio ad altro, destinato anch’esso a una veloce sostituzione. La paradossale staticità di queste immagini consuma e dissolve il dinamismo dell’immaginazione, ingabbiata e immiserita in schemi già dati e stabiliti dagli ingegneri informatici che costruiscono le gabbie grafiche dei social network. In essi tutto è familiare e miserabile, allo stesso modo del cibo familiare e sempre uguale che viene servito nei McDonald’s di tutto il pianeta.
Nulla di questo tempo statico, vale a dire di questo tempo finto, viene dimenticato dai server nei quali si deposita la scrittura e la vita degli umani in Internet. Se «per ogni agire ci vuole oblio» [17], l’accumulo indistruttibile delle memorie nella Rete rischia di paralizzare il nuovo, il suo immaginario, il suo avvento.
«Affidando i nostri ricordi alle implacabili memorie esterne, queste memorie ricorderanno di noi anche quello che noi non ricordiamo più o di cui ci siamo liberati. Figlie del pensiero quantitativo esse ignorano l’arte sottile e benefica dello scarto e dell’abbandono: esse ricorderanno per sempre anche quanto noi non vorremmo più ricordare. Ricorderanno nonostante noi e la nostra volontà, e saranno soltanto esse, infine, a costruire, giudicare e decidere quale debba essere il significato dei nostri trascorsi dimenticati.
Va detto ancora che la memoria senza oblio è anche una memoria senza storia, una memoria ‘morta’, rigida come un cadavere e patologicamente dissociata. È una memoria ‘cattiva’ che genera malessere. Tutto ciò che essa conserva ‘dorme’ fino a che l’oligarchia non ritenga di doverlo risvegliare per una sua qualsiasi ragione; dimora in un obitorio dell’impero in attesa di essere un giorno oscenamente scrutata da algoritmi curiosi in cerca di sempre nuove e imprevedibili associazioni» [18].
La memoria non è soltanto costituzione del passato e dell’accaduto ma è anche condizione del nuovo e dell’inedito. Il declino della memoria attraverso strumenti che la sostituiscono in ogni occasione e circostanza rischia di impoverire l’immaginazione e rendere pallido il futuro.
Il web come valorizzazione del capitale
Quali le ragioni, quali le cause e gli obiettivi di tutto questo? Si tratta di spinte e scopi di natura ancora una volta politica ed economica. Ma qual è e come si genera l’enorme meccanismo di arricchimento di società che offrono servizi in apparente e totale gratuità? Come fanno Google, facebook, twitter a generare i propri astronomici profitti se non fanno pagare nulla agli utilizzatori dei loro servizi?
Si tratta di una raffinata forma di valorizzazione del capitale, nella quale il lavoro volontario e non retribuito diventa addirittura inconsapevole – efficacemente mascherato con la formula della gratuità dei social network – e i soggetti che producono valore sono oggetto di offerte commerciali che essi stessi hanno contribuito a creare. Possiamo dunque
«raffigurarci l’utilizzatore della piattaforma come un lavoratore-consumatore che opera volontariamente per un’azienda produttiva senza percepire alcun salario; che produce con il suo lavoro valore, ma lo fa gratuitamente, volontariamente, e nella maggior parte dei casi senza esserne neppure consapevole; e che, infine, riceve nei suoi strumenti digitali inviti mirati all’acquisto di prodotti ai quali in qualche modo si è interessato (un volo, un libro, un tablet, un’auto, un appartamento). Ricordando che il popolo irretito nell’impero virtuale raggiunge attualmente circa tre miliardi di persone non stupisce che il gruzzolo finale raggiunga cifre astronomiche» [19].
Tutto questo rappresenta anche e soprattutto una radicale esperienza di controllo collettivo, attuato con la fattiva collaborazione del corpo sociale stesso, il quale costruisce da sé la propria schedatura mediante la miriade di fotografie (‘libro delle facce’), immagini, riferimenti anagrafici, nomi, tag, contrassegni dei quali i singoli riempiono le proprie pagine e con esse la Rete.
La carota con cui attirare è il ‘mi piace’ da ottenere e moltiplicare: «Un ‘tweet’ qui e un ‘mi piace’ là. Un messaggino e uno scambio di fotografie. Esorcismi contro la solitudine, ma anche angoscianti domande. […] Il numero e non la qualità. Questo è lo specchio di qualunque Narciso virtuale. […] Nell’ordine di realtà virtuale a cui Narciso si consegna, la sua gloria e il suo destino dipendono dall’aritmetica» [20].
Il bastone da prospettare è l’insignificanza della quale si viene minacciati se non ci si sottopone a tali riti; di più: è l’inesistenza stessa, che dal piano di un’ontologia materica è passata a quello di un’ontologia digitale che sta a fondamento dell’impero virtuale, il quale da questa prospettiva si presenta «come una società della trasparenza identitaria; una società degli alias digitali accreditati e domiciliati in account, convinti e attivi, ma sempre trasversalmente monitorati senza alcuna pausa» [21].
La tecnologia Internet è nata negli Stati Uniti in ambito accademico/militare e nel «contesto occidentale, chi compie le scelte fondamentali non sono certo gli scienziati o i ricercatori; in ultima analisi, è il capitale internazionale in gran parte dominato e controllato dagli Stati Uniti» [22]. Essi, con i loro alleati nelle diverse parti del pianeta, diffondono e incrementano l’utilizzo di tecnologie spesso anche utili e certamente sempre seduttive come le sirene di Odisseo e sempre volte al controllo e al dominio del corpo collettivo.
Internet, infatti,
«fa leva sulla diffusa frustrazione delle generazioni più giovani dell’Occidente le cui attese di futuro sono ormai sempre più fosche. E ad esse promette, in assenza di un potere reale, un potere individuale smisurato e illusorio sulle opportunità che dalle tecnologie intelligenti potrebbero venir loro. Un potere a portata di mano che può essere esercitato in ogni istante servendosi di un fantomatico ‘assistente personale’. Un potere su un servo o una serva automatici, obbedienti, pronti a soddisfare la gran parte dei ‘piccoli desideri’ che, per altra via, gli sono stati indotti. Il giocattolo delle chat-intelligenti personalizzate esemplifica perfettamente questo dispositivo di adescamento» [23].
L’esito di tale illusione e seduzione è, nella «triste e rabbiosa decadenza della società capitalistica», una distraente promessa di «meraviglie purché non alzino lo sguardo dalla rete» [24].
Come ogni forma di dominio, anche l’algocrazia – il dominio degli algoritmi che osservano, controllano, determinano le vite – non è una questione in primo luogo tecnologica ma sempre e profondamente politica.
Lo squilibrio tra tecnologie di controllo dallo sviluppo velocissimo e la consapevolezza sociale del loro significato e dei loro effetti, che procede invece molto lentamente, genera relazioni e strutture collettive caratterizzate da un dominio della quantità di marca fortemente riduzionistica e ossessionato da parametri numerici, che «non sa che farsene del pensiero critico, della soggettività inventiva, dell’epistemologia indisciplinata e dell’immaginario creativo, beni assai più rilevanti per la nostra specie di quello in realtà più modesto, anche se attualmente idolatrato, dell’innovazione capitalistica» [25].
La dissoluzione del non misurabile, della qualità, delle sfumature, delle relazioni, induce chi insegna a diventare voce narrante di supporti audiovisivi e conduce l’intero corpo sociale alla distanziazione tra gli individui anche quando essi sono fisicamente vicini, al «chiacchiericcio informe e anaffettivo di WhatsApp o di Facebook» [26], a una vera e propria sterilizzazione della dimensione affettiva, che confina le persone in un infinito e compulsivo smanettamento nel quale i gesti corporei perdono ogni calore, ogni piacere, ogni feconda inquietudine, ogni profondità della vita.
Un altro e più recente dispositivo ermeneutico-sociologico elaborato da Curcio permette di affrancarsi da prospettive soltanto economiciste, psicologiche o moralistiche per cogliere invece le dinamiche politiche che muovono la globalizzazione come fase contemporanea del capitalismo. Sovraimplicazione è infatti un concetto che coniuga in sé struttura e sovrastruttura, il fatto che gli eventi collettivi abbiano il loro fondamento nei rapporti di produzione ma anche il loro espandersi in ambiti assai più vasti, di fatto in tutti gli ambiti.
Sovraimplicazione indica l’interferenza, il condizionamento, l’intrusione nell’esistenza quotidiana che le tecnologie predisposte dal capitalismo cibernetico inventano, saggiano, implementano e diffondono nella vita quotidiana di miliardi di umani nel XXI secolo. Si tratta di un’ulteriore manifestazione della colonizzazione dell’immaginario che è diventata colonizzazione del tempo-vita da parte dei dispositivi digitali.
Degli ampi, consolidati, visibili fenomeni della colonizzazione geopolitica quali: la presenza massiccia di ordigni nucleari e basi militari statunitensi in Europa, e in Italia particolarmente; l’espansione fuori controllo della NATO ben oltre i confini stabiliti dopo la II guerra mondiale; la cancellazione del popolo palestinese, di questi e altri eventi
«ciò che in sostanza ci viene presentato non è ciò che realmente avviene ma una stereotipata narrazione unica […]. Di questa narrazione artefatta, ciò che interessa far notare qui è il nodo bollente dell’intera questione: l’occultamento dell’architettura geopolitica di ambizione planetaria all’interno della quale le aree locali vengono sovraimplicate e sacrificate. […]. In che consiste allora la sovraimplicazione del contesto geopolitico? Detto semplicemente: nella richiesta ‘che non può essere rifiutata’ di un allineamento delle istituzioni, e dei cittadini di vari sottoinsiemi del sistema, alle linee guida del capofila» [27].
Affinché tale sovraimplicazione dispieghi e ottenga i suoi effetti è necessaria una vera e propria colonizzazione tecnologica, è necessaria una «schiavitù tecnologicamente equipaggiata» [28], la quale rappresenta la reale sostanza della Rete, la reale sostanza di Internet.
Vengono in questo modo confermate le intuizioni heideggeriane sulla natura non neutrale della tecnica, sul suo costituire l’espressione di una struttura ontologica che si incarna certamente in opere e manufatti ma non è a essi riducibile; vengono confermate le tesi sul pericolo che la tecnica rappresenta quando il suo sviluppo è lasciato a se stesso o, per meglio dire, agli interessi politici che lo muovono.
Il primo errore/pregiudizio da rimuovere è dunque la rassicurante idea che le tecnologie, qualunque tecnologia, siano neutrali. Non è mai così. Heidegger lo ha sostenuto con grande chiarezza:
«Überall bleiben wir unfrei an die Technik gekettet, ob wir sie leidenschaftlich bejahen oder verneinen. Am ärgsten sind wir je doch der Technik ausgeliefert, wenn wir sie als etwas Neutrales betrachten; denn diese Vorstellung, der man heute besonders gern huldigt, macht uns vollends blind gegen das Wesen der Technik.
Soprattutto non siamo liberi rispetto alla tecnica, sia quando la sosteniamo con passione sia quando la neghiamo. Tuttavia, siamo particolarmente in balia della tecnica quando la consideriamo come qualcosa di neutrale; tale rappresentazione, infatti, oggi particolarmente apprezzata, ci rende del tutto ciechi di fronte all’essenza della tecnologia» [29].
Curcio riprende, dalla sua prospettiva marxiana, tale critica affermando che la
«convinzione diffusa secondo cui esse [tecnologia e scienza] hanno un carattere neutro e indifferente alla tirannia del modo di produzione capitalistico. Sicché della scienza e della tecnologia si potrebbe fare un uso buono o cattivo, ma niente di più e niente di meno. Benché assai diffusa, questa ideologia e falsa e ancor peggio, contro-produttiva. Essa infatti mentre accende la speranza in un ‘uso buono’ di una tecnologia cattiva, spegne la ricerca di una tecnologia orientata a favorire una convivenza umana emancipata dalla brutalità arcaica dello sfruttamento del dominio capitalistico» [30].
L’obesità tecnologica sprofonda nella hybris, nello smarrimento della riflessione e delle scelte umane che tengono conto del limite inoltrepassabile di ogni tecnologia, nella schiavitù trasparente generata ad esempio in Italia dal cosiddetto Jobs Act che cancellando l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori ha invaso ogni attività professionale di «strumenti mobili o fissi (bracciali, cellulari, badge, smartphone aziendali, tom tom traccianti, etc.)», talmente onnipresenti da imporre un dominio sulle persone che mai è stato «più invasivo e pervasivo; mai come negli attuali luoghi di lavoro la sfera personale dei lavoratori è stata assoggettata a una trasparenza ‘quasi totale’»[31].
La colonizzazione dell’immaginario scandisce «un progresso tecnologico inesorabilmente avverso ad ogni anelito di progresso sociale» [32] confermando in questo modo l’ambiguità originaria di ogni progressismo, che sin dal XIX secolo ha accomunato padroni e lavoratori nell’illusione di un avvenire inevitabilmente migliore di ogni passato.
Rispetto a ogni movimento collettivo e dinamica di emancipazione, la Rete, è «una macchina di solitudine estraniante» [33], è un dispositivo di solitudine relazionale che dissolve i corpi sociali. La Rete è il fattore principe di quella «remotizzazione del lavoro» che è entrata a regime con l’epidemia Covid19 e tramite la quale «le aziende hanno fatto un triplo affare. Anzitutto hanno ridotto drasticamente le spese aziendali. In secondo luogo hanno visto accrescere la produttività […] E infine hanno frantumato ulteriormente la già quasi polverizzata compattezza dei lavoratori» [34].
La Rete consola e stordisce rispetto alle difficoltà economiche e all’angoscia collettiva, contribuendo a generare «quell’indifferenza rassegnata degli attuali cittadini conniventi, pur degradati a consumatori coatti e sudditi passivi» [35]. La Rete produce quindi quelle «persone cibernetiche» che andiamo diventando, «attivamente coinvolte nelle loro pratiche quotidiane in una mutazione socio-antropologica tanto potente quanto incognita nei suoi destini. Per molti versi obbligata dalle dinamiche espansive del capitalismo cibernetico. Per altri versi cercata e cavalcata» [36].
L’ontologia della Rete sta nel fatto che «le macchine IA non ‘pensano’, operano» [37] e questo significa, ed è una implicazione fondamentale, che
«ciò che il dispositivo comunque e in ogni caso non può fare è proporre una risposta ‘intelligente’. E cioè una risposta creativa, non prevista o non desiderata nei magazzini in cui sono stoccati i suoi dati di riferimento o nei cloud di computo, assemblaggio e d’indirizzo. Una risposta che nasca da associazioni non consuete, improbabili, proiettate a suggerire un mutamento del sistema.
Potenza di calcolo, vastità dei riferimenti in cui pescare, e velocità della risposta possono avere una loro utilità ma l’intelligenza umana lavora proprio sulle associazioni improbabili, mai compiute, sul pensiero istituente. Mostra la sua potenza immaginando e perseguendo quei cambiamenti sociali che liberano gli umani da sfruttamenti e servaggi, vale a dire cercando varchi per l’esperienza umana oltre il giogo ad essa imposto dal modo di produzione capitalistico nella sua attuale fase cibernetica. Cosa che l’Intelligenza Artificiale capitalistica al meglio delle sue prestazioni può includere in un giudizio negativo» [38].
Strumento indispensabile per ottenere tale mancanza di pensiero è la linguistica computazionale, la quale cerca di rimodellare e tradurre i linguaggi ordinari delle persone umane in linguaggi comprensibili e manipolabili dai software, in questo modo interferendo con i linguaggi e con i comportamenti che ne scaturiscono. Un esempio è il linguaggio politicamente corretto, definito da Curcio «l’ipocrisia istituzionalizzata», linguaggio che ha l’obiettivo di riprodurre l’esistente e rendere impossibile immaginare e organizzare «prospettive aperte, creative e istituenti» [39].
In questo senso i controlli linguistici che le piattaforme politicamente corrette operano nei confronti di parole, espressioni e concetti non coerenti con l’ideologia dominante del liberismo flussico costituiscono l’espressione non di intelligenze artificiali ma di stupidità e passività artificiali.
Si fa evidente che in una situazione e contesto siffatti la libertà di espressione si riduce sempre più a un ‘mito’, al quale va sostituito – nel concreto delle interazioni e dei pensieri di chi interagisce – «l’ideologia transumanista degli ingegneri della Silicon Valley», la quale «uscita dalle sue nicchie tecnocratiche, cerca ora di aprirsi un varco anche nel nostro immaginario personale collettivo; d’insinuarsi in qualche modo nelle attese di milioni e milioni di persone cibernetiche» [40]. E ci riesce.
La sovraimplicazione delle stupide Intelligenze Artificiali, dei loro progettisti e dei loro padroni, sulle nostre vite è uno dei più chiari segni della «Hybris del capitalismo», i cui esponenti «lo vorrebbero tutto quanto per sé questo pianeta, tutto uniformato ai loro standard di mercato, ai loro immaginari politici e alle loro usanze culturali. Tutto soggiogato alle promesse della loro intelligenza artificiale» [41]. Ma si tratta dei progetti di una società morente, di un «Occidente moribondo» nel quale «il diradarsi dell’esperienza generata dal vivere insieme ad altri è un avvenimento a cui si è assuefatti» e che in questo modo segna e produce «una società moribonda e agli inizi di una mutazione antropo-cibernetica epocale» [42].
In questo morire tutto appare nuovo. Non sono più sufficienti i paradigmi rivoluzionari del XIX e del XX secolo come non sono più effettive le modalità di sfruttamento del passato. Stiamo transitando dall’egemonia gramsciana alla «più ampia ibridazione cibernetica delle persone e delle loro pratiche entro sistemi di connessioni obbliganti» [43]. Quest’ultima espressione – ‘connessioni obbliganti’ – definisce con chiarezza le modalità quotidiane di vita alle quali Curcio fa nei suoi lavori costante riferimento e che da ormai molti anni illumina con singolare vividezza. E già con questo aiuta a rimanere liberi.
Per quanto difficile appaia e sia, è comunque possibile affrancarsi dal pensiero unico del «contesto digitale» che «cancella dal pianeta gli immaginari stessi del cambiamento e della discontinuità. Come se il modo di produzione capitalistico e le istituzioni dei suoi poteri tentacolari non fossero più neppure discutibili» [44]. Esistono soggetti e comunità che operano affinché le chiavi d’accesso alla Rete siano aperte e non proprietarie, affinché gli scambi restino riservati e sicuri, invece che controllati e trafugati. Internet è certamente «dentro il mondo, ma il mondo non si riduce a Internet. Il futuro passa anche dall’esterno di questa ragnatela e fuori dalle sue ossessioni» [45].
Proprio per la sua natura digitale e deterritorializzata, l’impero virtuale è molto diverso rispetto agli altri sinora esistiti e tuttavia possiamo condividere le parole con le quali Curcio oltrepassa ogni sconfitta: «Stando all’evidenza storica tutti gli imperi esistiti sono anche crollati. Non vedo perché proprio questo dovrebbe fare eccezione» [46]. No, non farà eccezione. E affinché la caduta dell’Occidente capitalista, politicamente corretto e transumanista non trascini con sé l’intera comunità umana, sarà opportuno e necessario che si sviluppino i segnali e le strutture multipolari che questi anni di guerre degli USA e della NATO contro il resto del mondo stanno generando.
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
Note
[1] J. Baudrillard, in Aa. Vv., Per una teoria minimale del capitale. Raccolta antologica di passi sui concetti chiave, «I libri del Covile», Firenze 2024: 18
[2] K. Marx, in ivi: 39
[3] G. Debord, La Société du Spectacle, Gallimard, Paris 1992: aforisma 8: 19.
[4] G. Agamben, in Aa. Vv., Per una teoria minimale del capitale, cit.: 93.
[5] Sulla quale ampie informazioni si potranno trovare sul sito della casa editrice romana Sensibili alle foglie: https://www.libreriasensibiliallefoglie.com/
[6] R. Curcio, L’impero virtuale. Colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale, Sensibili alle foglie, Roma 2015: 8.
[7] Ivi: 91.
[8] Ivi: 9.
[9] Id. (a cura di), L’egemonia digitale. L’impatto delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro, Sensibili alle foglie, Roma 2016: 42.
[10] Ivi: 52.
[11] Ivi: 84.
[12] Id., L’impero virtuale, cit.: 16.
[13] Ivi: 68.
[14] Ivi: 10.
[15] Ivi: 62-64.
[16] Ivi: 99.
[17] F.W. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, § 1, trad. di S. Giametta, in «Opere» III/1, Adelphi; Milano 1976: § 1, 264.
[18] R. Curcio, L’impero virtuale, cit.: 77.
[19] Ivi: 36.
[20] Ivi: 70.
[21] Ivi: 100-101.
[22] Id., Sovraimplicazioni. Le interferenze del capitalismo cibernetico nelle pratiche di vita quotidiana, Sensibili alle foglie, Roma 2024: 17.
[23] Ivi: 67.
[24] Ivi: 96.
[25] Id., L’egemonia digitale, cit.: 125.
[26] Ivi: 60.
[27] Id., Sovraimplicazioni, cit.: 21.
[28] Ivi: 66.
[29] M. Heidegger, Die Frage nach der Technik, in Vorträge und Aufsätze, «Gesamtausgabe», volume 7, Herausgegeben von Friedrich-Wilhelm von Herrmann, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 2000: 7
[30] R. Curcio, Sovraimplicazioni, cit.: 15.
[31] Id., L’egemonia digitale, cit.: 14-15.
[32] Ivi: 122.
[33] Id., Sovraimplicazioni, cit.: 79.
[34] Ibidem.
[35] Ivi: 97.
[36] Ivi: 81.
[37] Ivi: 68.
[38] Ivi: 68-69.
[39] Ivi: 92.
[40] Ivi: 48.
[41] Ivi: 20.
[42] Ivi: 71 e 95.
[43] Ivi: 96.
[44] Id., L’impero virtuale, cit.: 9.
[45] Ivi: 98.
[46] Ivi: 101.
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