Il complesso del
Vittoriano a Roma dedica un'importante retrospettiva al grande
artista del novecento italiano con dipinti, lettere e riviste.
Fabrizio D'Amico
Sironi. Il pittore che
scoprì la malinconia della città
Un breve transito nel
futurismo, invogliato soprattutto da Boccioni, che – a Roma – gli
fa conoscere Balla, e che presto gli fa compiere il passo decisivo
oltre il vago simbolismo degli esordi, verso la contemporaneità.
Poi, dopo l'adesione comunque tarda al movimento di Marinetti, dopo
la morte precoce di Boccioni (1916) e dopo la fine della guerra, un
soggiorno nuovamente romano gli schiude le porte alla metafisica di
De Chirico e al clima classicista di "Valori Plastici":
così, dopo aver dato sostanza plastica al futurismo, interpreta,
come trasmettendo loro un nuovo pathos, le astratte sospensioni della
metafisica.
Nel ‘19 infine termina
questo suo lungo laboratorio; e, a Milano dove si trasferisce
definitivamente, è pronto per i suoi primi capolavori: sono
periferie della città d'Italia più moderna, più industriale ma
anche più carica di conflitti sociali; periferie disabitate,
popolate solo da caseggiati ciechi, allungate in raggelate
prospettive senza punti di fuga.
Mario Sironi (nato a
Sassari da padre lombardo e madre toscana nel 1885; morto a Milano
nel 1961) ha toccato con quei suoi Paesaggi urbani , fra ‘19 e ‘21,
la maturità. L'ha allora posseduta creando un'immagine che del suo
tempo sa stringere tutto l'essenziale: il dolore, la fatica, la
solitudine. Un'immagine che è memore, assieme, dell'asprezza del
futurismo boccioniano, del silenzio attonito di De Chirico, e della
secolare nobiltà della città, Roma, dove ha trascorso la prima
giovinezza.
Non spreca niente,
Sironi, di quel che ha vissuto; non dimentica nulla. E con i Paesaggi
urbani, con quei quadri non grandi ma che ogni volta ingigantiscono
nella percezione che se ne ha, Sironi di fatto inaugura il nostro
"Novecento" – un modo in cui presto si mischieranno grano
e loglio, ma che nasce da queste purissime radici, prima che le sue
ragioni si compromettano con quelle di uno stanco ritorno all'ordine
museale, o peggio, nella seconda metà degli anni Trenta, con la
stentorea retorica di un'arte di regime.
Contro tutti i ritorni in
pittura si intitola il manifesto, ancora di sapore di futurista, che
Sironi firma con Russolo, Dudreville e Funi nel gennaio 1921, e che
infatti figurerà in catalogo, quell'anno stesso, d'una mostra
parigina « des peintres futuristes italiens ». A conferma del fatto
che «tra il futurismo e il nascente "Novecento" non c'è a
questa data una contrapposizione, ma un passaggio senza – o quasi –
soluzione di continuità »: nell'analisi che compie Elena Pontiggia
nel denso saggio che apre oggi il catalogo Skira della ampia mostra
su tutto il tempo di Sironi che la stessa Pontiggia ha curato, con la
collaborazione di Romana Sironi, promossa da Comunicare Organizzando
al Complesso del Vittoriano di Roma (dal 4 ottobre prossimo all'8
febbraio 2015).
Son trascorsi vent'anni
dall'altra completissima rassegna sironiana della Galleria Nazionale
d'arte moderna, ed è oggi giusto tornare sul pittore, ora che
maggiori nozioni si hanno sul suo ruolo – che fu egemone, in
stretta contiguità di intenti con Margherita Sarfatti – nel dare
avvio al "Novecento". Ora che si ha, soprattutto, più
piena consapevolezza dello iato profondo che divide il primo volgersi
dell'arte italiana ad un trepido sentimento dell'antico dalla caduta
di tanti nostri artisti più o meno legati al "Novecento"
nelle spire mortifere del successivo "ritorno all'ordine".
In ciò Roma affiancò tempestivamente la Milano della Sarfatti e di
Sironi, cementando attorno a Valori Plastici , la rivista di Mario
Broglio pubblicata dal ‘18 al ‘22, un'analoga tensione –
interpretata soprattutto da Alberto Savinio – verso un "classico"
che sperava di non eludere la modernità, rigettando solo gli
"eccessi" delle avanguardie.
Poi s'alzò, davanti
all'Italia tutta, il fascismo, presto corrotto nel suo iniziale
slancio che è stato detto "rivoluzionario", dato comunque
nell'alveo d'un vago socialismo. Sironi, al fondo dell'animo
"anarchico" (seppure non "bolscevico", come lo
disse Arturo Martini), è però legato a Mussolini e alla Sarfatti;
ed a lei è dunque a fianco nelle molte iniziative del "Novecento",
in Italia – a partire dalla Biennale di Venezia del ‘24, dove
Sironi espose tra l'altro i suoi capolavori "classicisti",
fra i quali la Venere e l' Architetto, oggi qui in mostra – e
soprattutto in Europa.
Man mano egli
s'allontanerà poi da quella sorta di purismo disegnativo, da
quell'idealismo della forma perfetta che prende presto a governare
tanta arte nostra (trionfando, tra l'altro, nelle stanche Biennali
veneziane dirette da Maraini), e caricherà la sua pittura di un modo
più franto e materico: riscoprendo il malessere, il pessimismo, la
melanconia che ne saranno sempre un sigla emotiva. Così, accanto
alla trasfigurazione mitica dei temi del lavoro e della fatica
dell'uomo, vengono quegli episodi di pittura da dir quasi
preinformali che molto tempo dopo susciteranno, fra lo stupore di
tutti in un dopoguerra che compattamente condannava Sironi per le sue
complicità con l'arte del ventennio fascista, l'ammirazione di un
"uomo nuovo" come Michel Tapié, che lo inserì fra i primi
interpreti dell'informale nel suo celebre Un art autre (1952).
Il Molo (1921) |
Era stato a partire dalla
metà degli anni Trenta che Mussolini, dopo aver a più riprese
negato (certo su intelligente indicazione della Sarfatti) la
possibilità stessa di dar vita ad un'arte di Stato, s'era lasciato
invece trasportare da un'opposta deriva. Trovando Sironi, che nel
frattempo andava elaborando autonomamente un'insofferenza per la
pittura da cavalletto e per i meccanismi del mercato, disposto ad
affiancarlo e a interpretarne la volontà di scrivere ad affresco,
sui muri pubblici di chiese e palazzi, e non ad olio su quadri
destinati a pochi, la vicenda contemporanea della pittura.
È del ‘33, in margine
alla V Triennale di Milano, che Sironi pubblica il suo Manifesto
della pittura murale ; ed è di poco successiva l'adesione sua al
programma iconografico del regime: tanto che, nelle parole della
Pontiggia, «con il 1935 il tema quasi unico della Grande Decorazione
sironiana diventa l'Italia fascista»; ed anche di questo aspetto,
certo oggi meno seducente, dell'operosità del pittore la mostra
odierna dà ampio conto.
La Repubblica – 2
ottobre 2014
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