15 gennaio 2022

LA " CANCEL CULTURE" IN ITALIA

 



Di quale “cancel culture” si parla in Italia?

di Bruno Montesano e Jacopo Pallagrosi


Negli Stati Uniti, a un anno da Capitol Hill, si continua a parlare di guerra civile. Questa è la dimensione materiale della cosiddetta guerra culturale su politicamente corretto, cancel culture (CC) e Critical Race Theory. Sul New York Times e sui grandi media liberal, si discute di questo. Ci sono posizioni scettiche, come quella di John McWorther – prontamente recensito sui media italiani, senza alzare lo sguardo sulle questioni che mettono in crisi il proprio punto di vista. Ma, in genere, si cerca anche di cogliere il nesso tra razzismo e strutture economiche, come la famosa inchiesta sulla storia delle radici razziali degli Stati Uniti ha mostrato – anche qui destando l’attenzione dei nostri media solo per le critiche che l’inchiesta ha ricevuto, ignorando le bibliografie sterminate che esistono sul capitalismo razziale negli Stati Uniti e altrove. Anche le violenze di piazza e le rivolte vengono discusse in modo critico – ad esempio da Robin D.J. Kelley– e non solo secondo i soliti schematismi a cui i nostri media ci hanno abituato. Le ragioni di chi chiede, oltre al definanziamento, l’abolizione della polizia possono essere lette su giornali mainstream e non solo sulle riviste della sinistra socialista statunitense. Non si può dire che in Italia il livello del dibattito sia lo stesso.
Da Repubblica al Foglio, dal Sole a Micromega e a Linkiesta, non c’è quotidiano, di carta e digitale, che non abbia occupato pagine e pagine sull’annosa vicenda della CC, la cultura della cancellazione, la messa all’indice di pensatori, politici e libri del passato e del presente abbattuti, censurati, dannati ex post. Buona parte dei media italiani denunciano con terrore l’avvento dell’era della suscettibilità. In un loop paradossale, sulla stampa generalista si susseguono opinioni accalorate di chi viene urtato dalla possibilità che le sensibilità di qualcuno vengano a loro volta urtate. Per arginare questa deriva, si dice, bisogna colpire chi mette in pericolo la libertà di dire cose scomode e scorrette, di analizzare le parti peggiori di noi e della nostra società. Bisogna ripubblicare Defoe, Hawthorne, von Kleist e tutti gli autori maschi bianchi prima che gli intersezionali li acciuffino e li mandino al macero, nel “terroristico”, “totalitario” e “neomaoista” attacco portato all’Occidente. Per farlo, ogni mezzo è ammesso, in una santa alleanza che unisce centro liberale, sinistra “illuminista” fiera della tradizione occidentale, ed estrema destra. Apparentemente, il fatto che per resistere alla “cultura della cancellazione” venga dato spazio a voci a dir poco imbarazzanti non scandalizza; si veda l’esempio di Jérôme Delaplanche, ex responsabile artistico di Villa Medici, che sul Foglio scriveva:”La colonizzazione è il movimento naturale della storia. Ora, ed è questa la posta in gioco, il progressismo è riuscito a imporre alle menti occidentali una mutazione paradigmatica cruciale: la forza non è più un valore positivo. Di conseguenza, i concetti di conquista, avventura, potere non sono più compresi e moralmente accettati.” Forse che i liberali preferiscano la nostalgia per l’età degli imperi?

Leggi sulla rivista Gli asini l’intero articolo, appositamente aggiornato e ampliato per Nazione Indiana.

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