SUGLI “SCRITTI SERVILI” DI CESARE
GARBOLI
di Vincenzo Di Marco
testo ripreso da https://www.leparoleelecose.it/?p=47517
Per non farsi corrompere dal “rovinoso” fascino della prosa di Cesare
Garboli bisogna cercare di resistergli a tutti i costi, oltre ogni ragionevole
pensiero, anche quando tutto ciò dovesse comportare la “rinuncia” ad uno dei
più straordinari esempi di esercizio pubblico del mestiere di
saggista che abbiamo conosciuto nel Novecento. Costa fatica ammetterlo, il
potere ammaliante della pagina garboliana, che tiene a debita distanza il
lettore abituato a pretendere facili richieste di intrattenimento dai testi
letterari, non compulsati a dovere, tende ancora oggi, più di ieri, a fissare
in sigilli magniloquenti uno stile unico, particolarissimo, che si distingue
come pochi dallo specialismo accademico. E si deve probabilmente a questa
particolare declinazione del suo percorso critico il fatto che Garboli ha avuto
pochissimi trascorsi con il mondo della scuola, tenendolo lontano dal lavoro
storico-critico sui testi che si pratica pedissequamente nella istituzione, e
dalle polemiche ideologiche di molti studiosi coevi.
Per non cadere nella trappola del giudizio frettoloso che si annida in ogni
dove, lo stile avvolgente, suggestivo, di Garboli, ama il geroglifico più di
quanto possa far credere. E non servono a nulla i continui accostamenti ‒ che
da sempre gli vengono attribuiti ‒ con illustri esempi del Novecento (primi fra
tutti Longhi e Contini, gli unici a reggere il paragone dello stile esornativo
ingannevolmente epidittico), per dichiarare queste pagine un compendio
inimitabile di una saggistica destinata all’estinzione o già di fatto morta e
sepolta. Costretti a versare lacrime di commiato, dolorose e definitive, per
quanto ci risulta, il nostro compito, oggi, consiste, nonostante tutto, nel
testimoniarne la grandezza postuma ad maiora Garboli gloriam, con
l’accortezza però di non abusarne.
Alfonso Berardinelli parlava a suo tempo, ne “La critica come saggistica”
(vedi La ragione critica, Di Girolamo, Berardinelli, Brioschi,
1986), della morte annunciata della saggistica letteraria che aveva avuto firme
illustri e che stava per essere travolta dall’affermazione del neo-capitalismo
nella cultura, scuola e editoria, citando gli “estremi della bizzarria e
dell’impegno”, in riferimento alle opposte tendenze di Contini da una parte e
di Fortini dall’altro e ai più remoti Serra e Praz:
Nelle forme più diverse e non sempre facilmente riconoscibili, al centro
dell’opera di questi saggisti sembra aprirsi una difficoltà tipicamente
italiana di mediare fra continuità e rottura, di trovare un punto di equilibrio
che permetta di guardare sia al valore (e al peso) di una tradizione lunga e
solida, ma in gran parte pre-moderna, sia ad una situazione presente nella
quale rischiano sempre di lottare un po’ a vuoto estetismo e moralismo… E il
saggio oscilla fra la misura dell’elzeviro che isola dettagli e schiva il
dibattito ideologico, e le forme di un coinvolgimento integrale ma astratto del
critico: in assenza di uno stabile orizzonte di ascolto e di prospettive
teoriche dotate di un reale dinamismo.
A questo punto dove si colloca Cesare Garboli? Esaminiamo alcuni pareri
recenti: per Emanuele Trevi, l’autore de La stanza separata e
di Falbalas “preferiva l’arte di nascondere gli spini più
velenosi nelle pieghe degli elogi”; per Giuseppe Montesano, “Garboli era in
qualche modo affascinato dai fantasmi degli scrittori, perché degli scrittori
in carne e ossa gli interessano i tic, le manie, le ossessioni, ma solo perché
portavano giù nel pozzo del rapporto tra vita e opera”; per Filippo La Porta,
ha “qualcosa di sontuosamente teatrale e insieme una precisione da diagnosi
clinica”, come Vespero che riporta le capre a casa dopo averle recuperate negli
anfratti più perigliosi. L’opera allora è sintomo non tanto di quello che gli
sta di fronte, ossia l’orizzonte storico-culturale dal quale indubbiamente
nasce, ma del vissuto, fisico-organico, biologico, vitalissimo, caotico e
informe, all’interno del quale il critico gioca le sue carte migliori per il
miglior risultato possibile. Dunque, a grandi linee parliamo di letteratura e vita,
il più inquieto, inverificabile, nevrotico dei rapporti che la pagina
letteraria instaura con l’altro da sé.
Bisogna dirlo senza infingimenti. Occorre domandarsi, a costo di attirarsi
commenti velenosi, a cosa serve ripubblicare gli Scritti servili apparsi
nel lontano 1989 da Einaudi (riproposti da Minimum fax, con post-fazione di
Giorgio Amitrano e un breve profilo bio-bibliografico di Raffaele Manica), con
una tenue veste ornamentale, tendente allo sfumato grigio e verde petrolio,
vista la penosa situazione in cui versa la letteratura di questi ultimi
decenni. Le pagine dedicate agli amati Molière, Delfini, Ginzburg, Penna,
Morante, Longhi, conservano tuttora il potere incantatorio del critico
rabdomante (che non volle mai essere) e dello scrittore saggista (che volle
essere a certe condizioni) incline alla ricerca e allo svelamento delle oscure
premonizioni della pagina letteraria. Queste pagine, contrassegnate da una
tonalità melanconica e simpatetica, contenenti una luce interiore che si fa man
mano più limpida nella precisazione dei moventi dello scrittore, troveranno
pochi e affezionati lettori in grado di apprezzarne le qualità. L’incuranza
generale che oggi attraversa l’editoria, la critica, i lettori e la scuola
italiana farà il resto. Con l’aggiunta che la determinazione insistita di
Garboli nel perlustrare la vita del personaggio-scrittore non seduce come una
volta: far perdere le proprie tracce, disorientare anche il lettore più accorto
con i consueti giochi di prestigio di cui Garboli era artefice sommo, troverà
forti resistenze. La difesa d’ufficio che Massimo Onofri e Giorgio Ficara hanno
fatto del Garboli apparentemente disinteressato a servire il padrone di turno,
a costruire una critica che non ha “nulla da perdere” e pertanto libera da
gabbie ideologiche, e con il marchio dell’autenticità di chi interroga senza
secondi fini il mondo abbandonato alla maledizione, è decisamente fuori
contesto, riassorbita in poco tempo nei ranghi. Scrive nel merito Giuseppe Nava
(in memoria di Cesare Garboli, Università di Siena, 2004):
Di qui appunto la frequentazione assidua delle carte private di uno
scrittore, dal Journal di Matilde all’officina pascoliana di
Castelvecchio ai testi dell’anonimo pamphlettista secentesco contro la moglie
di Molière, oppure l’attenzione per i carteggi, ad esempio per quello
Longhi-Berenson. Sono tracce, testimonianze, in cui si coglie in
nuce quel processo difficile e mai interamente risolto per cui il
vissuto passa nella contraddittoria perfezione della forma. Per Contini la
forma era un’eccedenza rispetto alla vita; ma talvolta la vita è essa stessa in
eccedenza rispetto alla forma: la vita non riesce a trasferirsi integralmente
nel testo. Garboli è stato assillato da questa problematica dell’esistenza, del
vissuto che, per quanti sforzi si facciano, è infinitamente più ricco nella sua
esperienza di quanto poi non riesca ad essere nella sua produzione formale,
testuale.
La forma letteraria conta eccome, Garboli però non la considera apice del
percorso bio-bibliografico dell’autore che egli ha sotto la sua lente
d’ingrandimento. Non gli interessa l’opera, il risultato formale in se stesso,
come lascito testamentario che poi eredi e giudici potranno esaminare in
absentia auctoris. Egli preferisce l’esame ravvicinato dell’ingorgo vitale,
delle vibrazioni della esistenza che si ritrovano adunate sulla pagina,
dell’impronta ancora fresca della sofferenza personale che non deteriora. Il
rifiuto dello studio meticoloso, analitico, tipico dello scienziato che lavora
alla ricostruzione del testo, lo trova indifferente. La critica è materia viva,
lavora sul vivente, lo sente tale, rifiuta il ruolo di commento postumo.
Questo surplus di intelligenza applicata al commento letterario, il geniale
critico che egli è stato, il confessore della vita disagiata che non ama il
megafono del poeta-vate e l’egocentrismo dell’intellettuale engagé,
sono motivi che faticheranno ad avere una ricezione adeguata nell’attuale
contesto culturale. O perché troppo anodino, e per questo incapace di
comprenderne le ragioni profonde, o per indifferenza, in quanto rivolto a più
lucrose fortune. Per cui i facili accostamenti con lo stile “spergiuro” di
Manganelli, con il racconto sapienziale di Citati e Calasso, e niente meno con
il manierismo di Mario Praz, sono esempi assolutamente inappropriati e
risibili, in quanto l’imbalsamazione di costoro è arrivata ad uno stadio
avanzato.
Ma chiediamoci piuttosto se Garboli avrebbe avuto il coraggio necessario di
svestire i passi dello speleologo, dell’esumatore della angosce rimosse del
personaggio-autore, per dedicarsi in piena luce alla denuncia del paesaggio
culturale che attorno a noi si va definitivamente deteriorando. Egli l’ha fatto
in minima parte. Di fronte alla devastazione del mondo sociale e politico
(Eliot insegna) la sua pagina letteraria continua fino alla fine l’estenuante
corpo a corpo con i suoi autori congeniali, conosciuti per lo più di persona,
ma è come se questo “combattimento” ravvicinato finisse per contenerli in una
zona al riparo dai contraccolpi della storia, protetti dal pericolo dell’orrido
e dai conflitti che precedono e seguono la vicenda di qualsiasi uomo. Il suo
fiuto personale non è bastato a portare a termine questo compito ingrato.
Scrive Amitrano nella post-fazione che “Garboli riesce a captare il
sommerso, ciò che è rimasto estraneo a loro stessi e ai lettori, il lato
«inesploso»”, da cui per conseguenti corollari i temi della malattia,
corporeità, disumanità (infetto, infezione, ripete con
dovizia Raffaele Manica). Concordiamo con questi pareri, ma è appunto questo il
problema irrisolto. Prendiamo un esempio dalla corposa prefazione ai Diari di
Delfini del 1981:
Nei limiti e nella modalità in cui si manifestava, Delfini era un oggetto
che la mia coscienza non poteva fare a meno di dare a se stessa; e, in come si
manifestava, percepivo il rivelarsi di una verità assoluta. Ciò che mi
attirava, e fece subito breccia, era il narcisismo. Oggi narcisisti lo siamo
tutti; e non c’è più nulla di strano, o di significativo, nell’essere afflitti
da un male che si è diffuso inarrestabile insieme ai pavimenti di cotto e al
diritto d’opinione. Ma Delfini era afflitto da narcisismo incurabile in un
tempo in cui questa malattia non si era ancora massificata; era (ecco il punto)
narcisista non di libido ma di volontà, cioè meno narcisista di natura di
quanto non lo volesse essere per partito preso. Era dunque in anticipo.
Da dove possono derivare le congetture sul “narcisismo” di Delfini e sulla
anticipazione del “narcisismo di massa” se non dal suo fiuto
speciale, dalla immersione nella vita sconclusionata, indefinita e
ingovernabile, del tranquillissimo autore con cui aveva avuto
una lunga frequentazione? Si racconta che nell’antichità esistevano delle
particolari figure destinate alla pratica della “teurgia”, che consentiva uno
speciale rapporto di vicinanza con la divinità, da cui il proliferare di
vaticini ed eventi miracolosi. Se il giudizio può fare a meno del riscontro
oggettuale della pagina (che a sua volta però rinvia a calchi precedenti,
plagi, citazioni, rifacimenti e quindi “ammette” la sua dipendenza da modelli
consolidati storicamente, seppur rimodulati), non rimane altro che calarsi nel
ruolo di mediatori tra la psiche e l’opera dell’autore, sapendo che entrambe
sono soltanto momenti, aspetti temporanei, di un più generale e intricatissimo
congegno ideativo. Perché mai il critico in possesso di una sua filosofia di
vita, che occupa (come Garboli d’altronde) una certa posizione nel mondo, a
volte anche rilevante, dovrebbe inquinare l’opera d’arte con i suoi pregiudizi
ideologici? E la critica che pretende di esserne priva, non è anch’essa
ideologica? Sappiamo dove porta la ricerca della originalità a tutti i costi.
Garboli è stato un artista sopraffino di questo particolarissimo linguaggio
critico. Egli segue da vicino e registra con una ficcante narrazione le
anomalie patologiche del soggetto-scrittore, descrivendone la salute e la
malattia, le idiosincrasie, gli incantamenti e gli inabissamenti. Se a lungo
andare può risultarne un abuso, è perché l’aggiunta di elementi connotativi
apparentemente assenti nell’opera sono autorizzati dalla vicinanza-affetto che
egli dichiara di condividere fin dall’inizio con l’autore che ha di fronte e con
cui vanta una lunga esperienza di vita. Questo esercizio del mestiere di
critico fuori da ogni giurisdizione non è stato messo mai in discussione perché
non poteva essere fatto. Era escluso che ciò avvenisse. Chi si fa garante,
mallevadore, verso terzi?
Egli appunto ci parla della unicità o della “devianza” di Delfini come di
colui che rifiuta l’omologazione, e che si discosta dalle regole, pur non
conoscendo del tutto il significato di questa parola. Tutto avverrebbe malgré
lui. Ma quando leggiamo Delfini ritroviamo le congetture interpretative
proposte da Garboli? Viene da pensare a questo punto che l’indole creativa di
Garboli sfrutti l’equivoco secondo il quale contano di più la follia
ermeneutica, la foga scrittoria, o l’ubriacatura emorragica della scrittura in
assoluta libertà che si fa portatrice di visioni incomparabili. (Nei panni di
uno psicanalista che tiene sul lettino il paziente-autore, il critico estorce
durante la seduta i ricordi, i traumi, le verità sepolte nel profondo).
Giusto per tornare ai saggi critici di Citati e Manganelli, potremmo
parlare di patologia cirrotica che si trasmette velocemente dal critico-lettore
al critico-scrittore, con esiti a volte imbarazzanti. Perché mai la “malattia”
del soggetto-scrittore dovrebbe produrre questo risultato imprevedibile?
Accostare la vita rimossa e lo straniamento del testo metterebbe in azione
questo splendido marchingegno? La connessione opera-autore, utilizzata con lo
scopo di dimostrare che in quell’ambito non devono intervenire altri fattori
esterni, è una falsa connessione. Ne rimane fuori la più significativa
connessione opera-contesto.
Ma forse il testo di maggiore pregnanza della raccolta di Scritti
servili è quello dedicato a Roberto Longhi e al suo giovanile
studio Breve ma veridica storia della pittura italiana del
1914, sulla contrapposizione tra “figurativo” e “ambiente”.
Si direbbe anzi che il messaggio dell’opera d’arte cominci ad acquistare
valore, per Longhi, solo nel momento in cui comincia a decrescere verso lo zero
il suo indice di appartenenza all’umano. In questo senso, che è un senso
centrale in tutta l’opera di Longhi, la volontà didattica di spezzare il
circuito tra arte e vita è perseguita con l’insistenza di un tema euforico,
insieme derisorio e ossessivo. I caratteri in cui è scritta l’arte figurativa
sono linee, masse, volumi, spazi, forme, colori; ma l’esperienza di questo
alfabeto è un’esperienza intellettuale e primordiale, spirituale e panica,
oltre la quale c’è il nulla.
Poco più avanti: “L’uomo con le sue passioni, la sua interiorità, i suoi
atteggiamenti verso la realtà, la sua «storia», è escluso da questo regno”.
Ebbene, gli “scritti servili” assolvono questo compito di restituirci il mondo
interiore del personaggio-scrittore come “storie di seduzione” (nella
premessa Al lettore, p. 25), e più si fa penosa la disanima dei
fantasmi mentali testimoniati dai testi letterari, più ci si allontana dalla
realtà sociale, politica, culturale. Prendendo spunto dalla figura di
Sganarello-Leporello, il critico-scrittore Garboli dice di riconoscersi solo
nell’umile servitore che si mette in ascolto di quanti hanno avuto cose da
raccontare e la capacità di scriverne, consapevole che “la servitù è la sola
cosa al mondo di cui siamo certi”. Alla domanda se c’è vita oltre la
letteratura, si può rispondere solo in modo mesto e impacciato. È rinviato al
domani ogni altro interrogativo generale.
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