04 settembre 2023

GLI "SCRITTI SERVILI" DI CESARE GARBOLI

 


SUGLI “SCRITTI SERVILI” DI CESARE GARBOLI

di Vincenzo Di Marco

testo ripreso da https://www.leparoleelecose.it/?p=47517

 

Per non farsi corrompere dal “rovinoso” fascino della prosa di Cesare Garboli bisogna cercare di resistergli a tutti i costi, oltre ogni ragionevole pensiero, anche quando tutto ciò dovesse comportare la “rinuncia” ad uno dei più straordinari esempi di esercizio pubblico del mestiere di saggista che abbiamo conosciuto nel Novecento. Costa fatica ammetterlo, il potere ammaliante della pagina garboliana, che tiene a debita distanza il lettore abituato a pretendere facili richieste di intrattenimento dai testi letterari, non compulsati a dovere, tende ancora oggi, più di ieri, a fissare in sigilli magniloquenti uno stile unico, particolarissimo, che si distingue come pochi dallo specialismo accademico. E si deve probabilmente a questa particolare declinazione del suo percorso critico il fatto che Garboli ha avuto pochissimi trascorsi con il mondo della scuola, tenendolo lontano dal lavoro storico-critico sui testi che si pratica pedissequamente nella istituzione, e dalle polemiche ideologiche di molti studiosi coevi.

 

Per non cadere nella trappola del giudizio frettoloso che si annida in ogni dove, lo stile avvolgente, suggestivo, di Garboli, ama il geroglifico più di quanto possa far credere. E non servono a nulla i continui accostamenti ‒ che da sempre gli vengono attribuiti ‒ con illustri esempi del Novecento (primi fra tutti Longhi e Contini, gli unici a reggere il paragone dello stile esornativo ingannevolmente epidittico), per dichiarare queste pagine un compendio inimitabile di una saggistica destinata all’estinzione o già di fatto morta e sepolta. Costretti a versare lacrime di commiato, dolorose e definitive, per quanto ci risulta, il nostro compito, oggi, consiste, nonostante tutto, nel testimoniarne la grandezza postuma ad maiora Garboli gloriam, con l’accortezza però di non abusarne.

 

Alfonso Berardinelli parlava a suo tempo, ne “La critica come saggistica” (vedi La ragione critica, Di Girolamo, Berardinelli, Brioschi, 1986), della morte annunciata della saggistica letteraria che aveva avuto firme illustri e che stava per essere travolta dall’affermazione del neo-capitalismo nella cultura, scuola e editoria, citando gli “estremi della bizzarria e dell’impegno”, in riferimento alle opposte tendenze di Contini da una parte e di Fortini dall’altro e ai più remoti Serra e Praz:

 

Nelle forme più diverse e non sempre facilmente riconoscibili, al centro dell’opera di questi saggisti sembra aprirsi una difficoltà tipicamente italiana di mediare fra continuità e rottura, di trovare un punto di equilibrio che permetta di guardare sia al valore (e al peso) di una tradizione lunga e solida, ma in gran parte pre-moderna, sia ad una situazione presente nella quale rischiano sempre di lottare un po’ a vuoto estetismo e moralismo… E il saggio oscilla fra la misura dell’elzeviro che isola dettagli e schiva il dibattito ideologico, e le forme di un coinvolgimento integrale ma astratto del critico: in assenza di uno stabile orizzonte di ascolto e di prospettive teoriche dotate di un reale dinamismo.

 

A questo punto dove si colloca Cesare Garboli? Esaminiamo alcuni pareri recenti: per Emanuele Trevi, l’autore de La stanza separata e di Falbalas “preferiva l’arte di nascondere gli spini più velenosi nelle pieghe degli elogi”; per Giuseppe Montesano, “Garboli era in qualche modo affascinato dai fantasmi degli scrittori, perché degli scrittori in carne e ossa gli interessano i tic, le manie, le ossessioni, ma solo perché portavano giù nel pozzo del rapporto tra vita e opera”; per Filippo La Porta, ha “qualcosa di sontuosamente teatrale e insieme una precisione da diagnosi clinica”, come Vespero che riporta le capre a casa dopo averle recuperate negli anfratti più perigliosi. L’opera allora è sintomo non tanto di quello che gli sta di fronte, ossia l’orizzonte storico-culturale dal quale indubbiamente nasce, ma del vissuto, fisico-organico, biologico, vitalissimo, caotico e informe, all’interno del quale il critico gioca le sue carte migliori per il miglior risultato possibile. Dunque, a grandi linee parliamo di letteratura vita, il più inquieto, inverificabile, nevrotico dei rapporti che la pagina letteraria instaura con l’altro da sé.

 

Bisogna dirlo senza infingimenti. Occorre domandarsi, a costo di attirarsi commenti velenosi, a cosa serve ripubblicare gli Scritti servili apparsi nel lontano 1989 da Einaudi (riproposti da Minimum fax, con post-fazione di Giorgio Amitrano e un breve profilo bio-bibliografico di Raffaele Manica), con una tenue veste ornamentale, tendente allo sfumato grigio e verde petrolio, vista la penosa situazione in cui versa la letteratura di questi ultimi decenni. Le pagine dedicate agli amati Molière, Delfini, Ginzburg, Penna, Morante, Longhi, conservano tuttora il potere incantatorio del critico rabdomante (che non volle mai essere) e dello scrittore saggista (che volle essere a certe condizioni) incline alla ricerca e allo svelamento delle oscure premonizioni della pagina letteraria. Queste pagine, contrassegnate da una tonalità melanconica e simpatetica, contenenti una luce interiore che si fa man mano più limpida nella precisazione dei moventi dello scrittore, troveranno pochi e affezionati lettori in grado di apprezzarne le qualità. L’incuranza generale che oggi attraversa l’editoria, la critica, i lettori e la scuola italiana farà il resto. Con l’aggiunta che la determinazione insistita di Garboli nel perlustrare la vita del personaggio-scrittore non seduce come una volta: far perdere le proprie tracce, disorientare anche il lettore più accorto con i consueti giochi di prestigio di cui Garboli era artefice sommo, troverà forti resistenze. La difesa d’ufficio che Massimo Onofri e Giorgio Ficara hanno fatto del Garboli apparentemente disinteressato a servire il padrone di turno, a costruire una critica che non ha “nulla da perdere” e pertanto libera da gabbie ideologiche, e con il marchio dell’autenticità di chi interroga senza secondi fini il mondo abbandonato alla maledizione, è decisamente fuori contesto, riassorbita in poco tempo nei ranghi. Scrive nel merito Giuseppe Nava (in memoria di Cesare Garboli, Università di Siena, 2004):

 

Di qui appunto la frequentazione assidua delle carte private di uno scrittore, dal Journal di Matilde all’officina pascoliana di Castelvecchio ai testi dell’anonimo pamphlettista secentesco contro la moglie di Molière, oppure l’attenzione per i carteggi, ad esempio per quello Longhi-Berenson. Sono tracce, testimonianze, in cui si coglie in nuce quel processo difficile e mai interamente risolto per cui il vissuto passa nella contraddittoria perfezione della forma. Per Contini la forma era un’eccedenza rispetto alla vita; ma talvolta la vita è essa stessa in eccedenza rispetto alla forma: la vita non riesce a trasferirsi integralmente nel testo. Garboli è stato assillato da questa problematica dell’esistenza, del vissuto che, per quanti sforzi si facciano, è infinitamente più ricco nella sua esperienza di quanto poi non riesca ad essere nella sua produzione formale, testuale.

 

La forma letteraria conta eccome, Garboli però non la considera apice del percorso bio-bibliografico dell’autore che egli ha sotto la sua lente d’ingrandimento. Non gli interessa l’opera, il risultato formale in se stesso, come lascito testamentario che poi eredi e giudici potranno esaminare in absentia auctoris. Egli preferisce l’esame ravvicinato dell’ingorgo vitale, delle vibrazioni della esistenza che si ritrovano adunate sulla pagina, dell’impronta ancora fresca della sofferenza personale che non deteriora. Il rifiuto dello studio meticoloso, analitico, tipico dello scienziato che lavora alla ricostruzione del testo, lo trova indifferente. La critica è materia viva, lavora sul vivente, lo sente tale, rifiuta il ruolo di commento postumo.

 

Questo surplus di intelligenza applicata al commento letterario, il geniale critico che egli è stato, il confessore della vita disagiata che non ama il megafono del poeta-vate e l’egocentrismo dell’intellettuale engagé, sono motivi che faticheranno ad avere una ricezione adeguata nell’attuale contesto culturale. O perché troppo anodino, e per questo incapace di comprenderne le ragioni profonde, o per indifferenza, in quanto rivolto a più lucrose fortune. Per cui i facili accostamenti con lo stile “spergiuro” di Manganelli, con il racconto sapienziale di Citati e Calasso, e niente meno con il manierismo di Mario Praz, sono esempi assolutamente inappropriati e risibili, in quanto l’imbalsamazione di costoro è arrivata ad uno stadio avanzato.

 

Ma chiediamoci piuttosto se Garboli avrebbe avuto il coraggio necessario di svestire i passi dello speleologo, dell’esumatore della angosce rimosse del personaggio-autore, per dedicarsi in piena luce alla denuncia del paesaggio culturale che attorno a noi si va definitivamente deteriorando. Egli l’ha fatto in minima parte. Di fronte alla devastazione del mondo sociale e politico (Eliot insegna) la sua pagina letteraria continua fino alla fine l’estenuante corpo a corpo con i suoi autori congeniali, conosciuti per lo più di persona, ma è come se questo “combattimento” ravvicinato finisse per contenerli in una zona al riparo dai contraccolpi della storia, protetti dal pericolo dell’orrido e dai conflitti che precedono e seguono la vicenda di qualsiasi uomo. Il suo fiuto personale non è bastato a portare a termine questo compito ingrato.

 

Scrive Amitrano nella post-fazione che “Garboli riesce a captare il sommerso, ciò che è rimasto estraneo a loro stessi e ai lettori, il lato «inesploso»”, da cui per conseguenti corollari i temi della malattia, corporeità, disumanità (infettoinfezione, ripete con dovizia Raffaele Manica). Concordiamo con questi pareri, ma è appunto questo il problema irrisolto. Prendiamo un esempio dalla corposa prefazione ai Diari di Delfini del 1981:

 

Nei limiti e nella modalità in cui si manifestava, Delfini era un oggetto che la mia coscienza non poteva fare a meno di dare a se stessa; e, in come si manifestava, percepivo il rivelarsi di una verità assoluta. Ciò che mi attirava, e fece subito breccia, era il narcisismo. Oggi narcisisti lo siamo tutti; e non c’è più nulla di strano, o di significativo, nell’essere afflitti da un male che si è diffuso inarrestabile insieme ai pavimenti di cotto e al diritto d’opinione. Ma Delfini era afflitto da narcisismo incurabile in un tempo in cui questa malattia non si era ancora massificata; era (ecco il punto) narcisista non di libido ma di volontà, cioè meno narcisista di natura di quanto non lo volesse essere per partito preso. Era dunque in anticipo.

 

Da dove possono derivare le congetture sul “narcisismo” di Delfini e sulla anticipazione del “narcisismo di massa” se non dal suo fiuto speciale, dalla immersione nella vita sconclusionata, indefinita e ingovernabile, del tranquillissimo autore con cui aveva avuto una lunga frequentazione? Si racconta che nell’antichità esistevano delle particolari figure destinate alla pratica della “teurgia”, che consentiva uno speciale rapporto di vicinanza con la divinità, da cui il proliferare di vaticini ed eventi miracolosi. Se il giudizio può fare a meno del riscontro oggettuale della pagina (che a sua volta però rinvia a calchi precedenti, plagi, citazioni, rifacimenti e quindi “ammette” la sua dipendenza da modelli consolidati storicamente, seppur rimodulati), non rimane altro che calarsi nel ruolo di mediatori tra la psiche e l’opera dell’autore, sapendo che entrambe sono soltanto momenti, aspetti temporanei, di un più generale e intricatissimo congegno ideativo. Perché mai il critico in possesso di una sua filosofia di vita, che occupa (come Garboli d’altronde) una certa posizione nel mondo, a volte anche rilevante, dovrebbe inquinare l’opera d’arte con i suoi pregiudizi ideologici? E la critica che pretende di esserne priva, non è anch’essa ideologica? Sappiamo dove porta la ricerca della originalità a tutti i costi.

 

Garboli è stato un artista sopraffino di questo particolarissimo linguaggio critico. Egli segue da vicino e registra con una ficcante narrazione le anomalie patologiche del soggetto-scrittore, descrivendone la salute e la malattia, le idiosincrasie, gli incantamenti e gli inabissamenti. Se a lungo andare può risultarne un abuso, è perché l’aggiunta di elementi connotativi apparentemente assenti nell’opera sono autorizzati dalla vicinanza-affetto che egli dichiara di condividere fin dall’inizio con l’autore che ha di fronte e con cui vanta una lunga esperienza di vita. Questo esercizio del mestiere di critico fuori da ogni giurisdizione non è stato messo mai in discussione perché non poteva essere fatto. Era escluso che ciò avvenisse. Chi si fa garante, mallevadore, verso terzi?

 

Egli appunto ci parla della unicità o della “devianza” di Delfini come di colui che rifiuta l’omologazione, e che si discosta dalle regole, pur non conoscendo del tutto il significato di questa parola. Tutto avverrebbe malgré lui. Ma quando leggiamo Delfini ritroviamo le congetture interpretative proposte da Garboli? Viene da pensare a questo punto che l’indole creativa di Garboli sfrutti l’equivoco secondo il quale contano di più la follia ermeneutica, la foga scrittoria, o l’ubriacatura emorragica della scrittura in assoluta libertà che si fa portatrice di visioni incomparabili. (Nei panni di uno psicanalista che tiene sul lettino il paziente-autore, il critico estorce durante la seduta i ricordi, i traumi, le verità sepolte nel profondo).

 

Giusto per tornare ai saggi critici di Citati e Manganelli, potremmo parlare di patologia cirrotica che si trasmette velocemente dal critico-lettore al critico-scrittore, con esiti a volte imbarazzanti. Perché mai la “malattia” del soggetto-scrittore dovrebbe produrre questo risultato imprevedibile? Accostare la vita rimossa e lo straniamento del testo metterebbe in azione questo splendido marchingegno? La connessione opera-autore, utilizzata con lo scopo di dimostrare che in quell’ambito non devono intervenire altri fattori esterni, è una falsa connessione. Ne rimane fuori la più significativa connessione opera-contesto.

Ma forse il testo di maggiore pregnanza della raccolta di Scritti servili è quello dedicato a Roberto Longhi e al suo giovanile studio Breve ma veridica storia della pittura italiana del 1914, sulla contrapposizione tra “figurativo” e “ambiente”.

 

Si direbbe anzi che il messaggio dell’opera d’arte cominci ad acquistare valore, per Longhi, solo nel momento in cui comincia a decrescere verso lo zero il suo indice di appartenenza all’umano. In questo senso, che è un senso centrale in tutta l’opera di Longhi, la volontà didattica di spezzare il circuito tra arte e vita è perseguita con l’insistenza di un tema euforico, insieme derisorio e ossessivo. I caratteri in cui è scritta l’arte figurativa sono linee, masse, volumi, spazi, forme, colori; ma l’esperienza di questo alfabeto è un’esperienza intellettuale e primordiale, spirituale e panica, oltre la quale c’è il nulla.

 

Poco più avanti: “L’uomo con le sue passioni, la sua interiorità, i suoi atteggiamenti verso la realtà, la sua «storia», è escluso da questo regno”. Ebbene, gli “scritti servili” assolvono questo compito di restituirci il mondo interiore del personaggio-scrittore come “storie di seduzione” (nella premessa Al lettore, p. 25), e più si fa penosa la disanima dei fantasmi mentali testimoniati dai testi letterari, più ci si allontana dalla realtà sociale, politica, culturale. Prendendo spunto dalla figura di Sganarello-Leporello, il critico-scrittore Garboli dice di riconoscersi solo nell’umile servitore che si mette in ascolto di quanti hanno avuto cose da raccontare e la capacità di scriverne, consapevole che “la servitù è la sola cosa al mondo di cui siamo certi”. Alla domanda se c’è vita oltre la letteratura, si può rispondere solo in modo mesto e impacciato. È rinviato al domani ogni altro interrogativo generale.

 


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