07 febbraio 2024

G. NOVENTA e R. BILENCHI VISTI DA ENZO SICILIANO

 


E’ appena apparso per Luigi Pellegrini Editore Racconto di romanzi e di poeti di Enzo Siciliano, un volume a cura di Flavio Santi, con prefazione di Raffaele Manica, che raccoglie saggi brevi e interventi giornalistici che Enzo Siciliano ha scritto tra il 1978 e il 2005. Proponiamo due estratti relativi a Giacomo Noventa e a Romano Bilenchi.

 

ENZO SICILIANO

Noventa poeta grande

  

 

Leggevo gli scritti sparsi di Giacomo Noventa raccolti con una devota e rara attenzione da Franco Mandriani nel quinto volume delle Opere complete, leggevo i Pensieri inediti del ’46-47 dove si parla del concetto di libertà in Constant e in Joubert, e dove il nome di Croce torna come un assillo.

Che conti aperti ha avuto Noventa con la filosofia, tutta la vita. Gentile e Croce, il suo «don Benedeto», e Marx e i liberali, il cattolicesimo e ancora i liberali, poi di nuovo Marx, e il Vangelo e sempre i liberali. I suoi problemi apparivano etico-politici, alla sostanza erano letterari. Voglio dire che la loro intensità, il loro viluppo e il loro sciogliersi avevano come scopo l’invenzione di una poesia e di un linguaggio poetico, dentro cui le parole del sentimento ritrovassero incontaminata verginità.

 

Noventa ha scritto versi in un veneziano tutto libero dai consueti aspetti rinunciatari e manierati del dialetto: la sua è una lingua che svola, pare addirittura non scritta. Difatti, per molto, Noventa disse i suoi versi agli amici piuttosto che scriverli e darli alle stampe.

I contenuti più alti, etici e politici, o l’amore, in quei versi lineari o appena sbloccati sui tracciati del fiato, prendono un sapore diminutivo, un’ironica screziatura conviviale. Quel tono dimesso, classico, di poesia gnomica all’improvviso restituita al presente da una lontananza imprecisata, è di una forza incorruttibile.

Poeta semplicissimo, ma difficilissimo da intendere, ebbe come stella fissa la certezza che il suo dialetto fosse un proclama del dover essere. Anche alcuni versi che paiono distesi sui respiri dell’amore e scivolare tra le sinuosità e le ambiguità delle passioni, quei versi celebrati da un felicissimo attacco, «Gh’è nei to grandi – oci de ebrea / come una luse – che me consuma», si sostengono per il vigore di un concetto, quello in cui l’espressione lirica è solo possibile all’interno di una lingua non pregiudicata dagli errori della cultura.

 

Una cultura «riformata», contro gli errori macroscopici commessi dai fascisti, ma anche contro gli errori forse non minori degli antifascisti. Noventa era compagno di strada di Gobetti, di Debenedetti, di Aldo Garosci, di Mario Soldati: la sua poesia e la sua idea di «riforma letteraria» nascono dal sodalizio con loro ma anche dalle polemiche. Se ci fu spirito libero, perseguitato da fascisti, in lotta per acquisire alla propria idea di libertà i più diversi, fu questo aristocratico veneto.

Lo conobbi agli inizi del ’57, doveva morire dopo tre anni. Ero ragazzo, preparavo l’antologia di “Solaria”, la rivista fiorentina che aveva avuto in Noventa un interlocutore forte. Mi mandò da lui Giacomo Debenedetti, e mi diede come viatico il detto di Saba, «Gino è un leone». La casa in via Monti a Milano: mi ricordo una serata, lui, i figli Antonio e Emilietta, che era poi la ragazza di un mio amico, Aldo Rosselli.

 

Un tavolo quadrato di noce, una lampada bassa. Il «leone» era là. Radi, arruffati i lunghi capelli alle tempie, la bocca sensuale, un sorriso largo e disteso. Arrivai con intere le mie sicurezze di studente di filosofia, apprendista in letteratura, già letto il Marx giovane, Croce, le Ricerche filosofiche di Wittgenstein e Kant. Scrivevo versi, modestissimi; avevo tradotto e letto un po’ di Pound, di Auden, credevo di imitarli. Scrivevo racconti.

Con tutte queste certezze affrontai il «leone», e il «leone» discusse a lungo, quella sera, tutto quel che dicevo, di “Solaria” e del resto. Chiese che gli spedissi da Roma i versi che avevo scritto. Glieli mandai e mi arrivò, datata 30 aprile 1957, una lettera che conservo come una reliquia. Mi diceva fra altre cose generose: «Ho ricevuto le poesie: forse più importanti per lei, o che lei ritiene più importanti, della sua concezione generale delle vita e del mondo. E a me sembrano invece implicare soprattutto un giudizio e un atto di volontà. Posso esprimerle la speranza, anzi la certezza, che una volta riconosciute le rovine, in mezzo alle quali lei ha camminato finora, una volta finita la sua polemica e la sua lotta contro coloro che non vogliono riconoscerle come rovine, lei cercherà altro, e lascerà ai morti seppellire i morti? Posso esprimerle la speranza, anzi la certezza, che un giorno non lontano anche lei possa sottoscrivere, come io sottoscrivo, aggiungendo qualche parola mia, il detto di Confucio e di Pound? (Cercare il misterioso nell’oscuro, tastare nella magia, per far chiasso fra i posteri, “o fra i viventi”, questo io non lo faccio»).

 

Un raro trasporto per gli altri, e una intensità persino perentoria distinguevano Noventa, insieme a una dolcezza sottile. Le sue polemiche contro fascisti e antifascisti, quella sua voglia sempre perfettibile nel ricercare un equilibrio differente dai previsti equilibri intellettuali, e l’urgenza di una poesia che creasse via via un linguaggio che desse la presenza di ciò che dice in maniera da non consentire esitazioni o furbesche scorciatoie, una poesia che appartenesse al poeta e non al filosofo mancato, e dove fossero espliciti i sentimenti alti e perenni dell’umanità – di tutto questo Noventa è stato lo scrittore e l’uomo, il singolarissimo aedo.

Poeta grande? Certo, pure se di un libro smilzo e asciutto, racchiuso dentro una folta corolla di spavaldi pensieri. Ma poeta delicatissimo, quasi inafferrabile nella sua imprevista armonia. Sostiene Pasolini che in lui fossero l’ispido e la fragranza di un Heine o l’armonica fragranza e la passione di un lied di Schubert. La verità della propria poesia Noventa la definì quando scrisse, «Ognun che se esprime, se perde».

 

*

 

Bilenchi: memoria e sessualità

 

C’è nella narrativa di Romano Bilenchi un grumo o un nodo d’emozioni che stringe ogni racconto alla fonte da cui discende per necessità. Proprio quel nodo, proprio quel grumo, cui lo scrittore è stato fedelissimo per la vita intera, a parere mio spiegano anche le ragioni del suo silenzio che durò non poco fra la metà degli anni Cinquanta e l’inizio dei Settanta.

Fu un silenzio in pubblico: sappiamo infatti che Bilenchi tornava e ritornava sui propri testi, via via codificandone l’ideale editio maior, la definitiva. In ogni modo, silenzio ci fu, e credo si spieghi per il consumo abbagliante e ossessivo cui quel grumo e quel nodo erano stati sottoposti negli anni Trenta, nei Quaranta, quando Bilenchi aveva scritto la maggior parte della propria opera.

 

Quest’opera, curata da Benedetta Centovalli, Massimo Depaoli e Cristina Nesi, prefazione di Mario Luzi, e pubblicata secondo il disegno, la cadenza cui il suo autore volle consegnarla, è ristampata in volume, con l’esclusione di Vita di Pisto e Cronaca dell’Italia meschina, imbevuti di quella giovanile partecipazione, sia pure problematica, al fascismo – siamo al ’31 e al ’33 – che per Bilenchi fu motivo non di un rimorso ma di un ragionamento indirizzato all’autonomia e alla libertà del pensiero e dell’arte cui è tornato e ritornato.

Del silenzio di cui dicevo sono state offerte diverse interpretazioni. Gli anni del dopoguerra, fino al ’56, alla prima crisi del comunismo in Polonia e poi in Ungheria, coinvolsero Bilenchi nel giornalismo come direttore del fiorentino “Nuovo Corriere”.

 

Di quel giornale s’intese fare un punto di forza della sinistra, il centro e la tribuna, durante il tempo del mondo diviso in due blocchi, per tutti coloro che desiderassero per l’Italia, comunisti, cattolici e laici, un volto concretamente democratico, non condizionando le posizioni al cemento delle ideologie e al gelo conseguente.

Bilenchi, col suo giornale, un giornale molto letto, culturalmente e politicamente esemplare, fu in anticipo sui tempi. Su quell’anticipo lavorò con realismo, finché la politica glielo permise.

Quel che accadde fra l’estate e l’autunno del 1956, a causa dei fondi firmati dal direttore non in linea con la direttiva del partito comunista, imbavagliò il giornale: il Pci, sul quale si fondava il finanziamento, impedì la ricerca d’altre risorse. Bilenchi era in trattative attraverso La Pira con Enrico Mattei, e il “Nuovo Corriere” chiuse.

 

Varrebbe la pena leggerla questa vicenda, nelle parole dello stesso Bilenchi (ora in La ghisa delle Cure e altri scritti, 1927-1989, a cura di Giorgio van Straten).

Tornando al silenzio di cui dicevo, alcuni hanno sostenuto che Bilenchi era stato travolto dal lavoro giornalistico e non avrebbe perciò potuto più dedicarsi alla narrativa come avrebbe desiderato; e che poi, con la crisi del “Nuovo Corriere”, altra crisi ideale e personale l’avrebbe travolto spingendolo nell’angolo di un’inequivocabile paralisi creativa.

Ricordo che nei primi anni Cinquanta non erano pochi a chiedere a Bilenchi il “romanzo” che lo rappresentasse a diritto pieno narratore che dall’interno, per ragioni biografiche, poteva raccontare la disfatta del fascismo e la rinascita della democrazia in Italia.

Era una richiesta ingenua, motivata su cristallizzazioni ideologiche, o su imperativi più o meno categorici, che oscuravano l’intelligenza di molti.

 

Bilenchi ha taciuto nei modi in cui un artista quale lui era poteva tacere, esumando da se stesso, anche con lentezza, l’intensità di un’esistenza che già tutto aveva in certo senso bruciato, ma da cui non quel romanzo (lo scrisse pure, e a mio giudizio lo sbagliò: Il bottone di Stalingrado, 1972), non quel romanzo dicevo sarebbe venuto, ma altro.

Difatti, venne altro nell’ultimo tempo della sua vita: il gran fascicolo, complesso e articolato, di Amici, secondo la richiesta della materia e della natura che avevano nutrito sempre le qualità alte dello scrittore.

Voglio aggiungere che il romanzo, il romanzo vero che lui poteva scrivere, secondo appunto quella natura e la sensibilità, frutto di quella natura, Bilenchi l’aveva già scritto; e che la sua esperienza civile di questa era una pietra che niente poteva incrinare, e doveva risolversi, fuori delle contingenze pratiche, altrimenti: cioè, come ho detto, nell’ineguagliata memorialistica di Amici.

 

In Amici non c’è soltanto il carico d’ansie del vissuto, c’è una pacificazione di stile e di significati per il trasformarsi dell’incongrua, frantumata realtà quotidiana in perfezione espressiva e morale, perseguita da Bilenchi come il fine stesso dell’esistere e dello scrivere.

Il romanzo, ripeto, l’aveva scritto ed è Conservatorio di Santa Teresa, pubblicato nella prima edizione il ’40, su cui tornò per un tentativo di riscrittura che gli si rivelò presto, al sesto capitolo, impossibile.

Accanto a Conservatorio, il romanzo aveva avuto il compimento naturale nei tre lunghi racconti degli Anni impossibiliLa siccitàLa miseriaIl gelo, che, lavorati e in parte stampati negli anni Quaranta, solo nel 1984 hanno trovato organica sistemazione.

È la memoria la prima ispirazione di Bilenchi, dai primi testi appunto fino ad Amici, una memoria che deve allinearsi su prospettive piane, sulle quali il giudizio sporge soltanto attraverso il montaggio che ne fa la scrittura. Ma questa memoria affonda poi in verticale, o in verticale si motiva per una ferita oscura, che ha spiegazione nell’infanzia e nell’adolescenza del narratore.

 

Nato nel 1909, figlio di un piccolo imprenditore dalle idee socialiste che aveva un oleificio lungo il fiume in Val d’Elsa nelle vicinanze di Colle, Bilenchi resta orfano di padre nel 1915.

La vita nella campagna senese e nella piccola azienda paterna, quindi i rapporti con la madre al centro di un mondo di media borghesia in irresistibile declino; il tormento di una tubercolosi ossea che a diciotto anni gli fa interrompere gli studi e lo porta lontano dalla Toscana per curarsi, al Codivilla di Cortina d’Ampezzo (lo stesso istituto dove pochissimo tempo prima Moravia aveva concluso la cura della medesima malattia); poi il ritorno a Firenze, la conoscenza del gruppo d’artisti e giovani scrittori che negli anni Trenta facevano viva quella città, da Rosai a Luzi a Franco Calamandrei, con il conseguente abbraccio dell’antifascismo militante, fino alla Resistenza: queste le tappe di una vicenda che nutrono l’esperienza dello scrittore e le danno ritmo. Ma, al fondo, c’è appunto quel che ho detto essere una ferita oscura su cui s’incista tutta la sua vita creativa.

 

Il padre estraneo, lontano, punitivo, poi morto, di cui si custodisce la memoria ma solo per nutrire di gelosie il proprio rapporto con la madre; quindi la madre, amata, amatissima, e anche facilmente nemica, oggetto di una passione fortemente ambivalente: fra questi due poli, l’adolescente solitario, o il giovane uomo che fa i primi passi nella vita, personaggio chiave di tutte le narrazioni di Bilenchi, vive una specie di contrazione emotiva che s’ottenebra in vera malattia del corpo; e capiamo che questa malattia o contrazione emotiva, in racconti come Anna e Bruno (bellissimo), o Pomeriggio, o La mamma, o Il capofabbrica, o Dino, prendono fortissimo rilievo nel decifrare, in modi poeticamente indiretti ma chiarissimi, il sesso e la deriva di paure che ne seguono, fulcro della vita, riferimento di scompensi fisici e passionali, d’angosce e fallimenti.

Questa materia tormentosa in Conservatorio di Santa Teresa si disegna in un quadro di conclusa, quasi rituale circolarità, con uno stile purissimo, cui le più contraddittorie e penose fibrillazioni dell’animo adolescente non sfuggono come sotto la lama di un bisturi.

 

Il romanzo fluisce con una tale ampiezza di risonanze da suggerire il confronto immediato, per contenuto e profondità, con la prima parte della Strada di Swann di Proust. Una sintonia che la letteratura italiana del Novecento non ha con altrettanta altezza sfiorato se non nella Camera da letto di Bertolucci.

Bilenchi ha qualità lampeggianti nel narrare, ma lo strumentale che adopera è magro: la purezza dei mezzi, la linearità armonica sono il suo punto di forza. Ciò non significa che egli sia avaro. Tutt’altro: riconduce ad un’esemplarità scarna l’evento che la sua immaginazione insegue.

Questa stringatezza, questa forza di politura, cui possono apparire anche superflui i nessi utili a spiegare i fatti, nascono dal bisogno di comprimere la dinamica delle passioni e l’oggettività dei comportamenti umani nel segno di un principio metafisico che tutto condiziona. Questo principio si fonda nell’insolvenza della realtà verso la vita, nell’inspiegabilità della morte e nell’ineluttabilità con cui precipitano e vanno in cenere i rapporti sociali e storici.

 

Il ragazzo ai primi approcci col proprio destino vede specchiato tutto questo nell’abisso dove vanno a crollare i suo stessi rapporti parentali, contro il grumo sempre dolente e ulcerato dove s’impasta in modo controverso il suo legame col padre e la madre, e che l’incolla, quasi una condanna, ai rapporti con gli altri, uomini e donne, e con la natura. Di qui, il ribrezzo per la virilità esuberante dei maschi; e il ribrezzo parallelo per il disinvolto, deduttivo narcisismo delle donne.

Ci sarebbe molto da ragionare, sul terreno della psicologia del profondo, a proposito di passaggi simili: «Quando era più piccolo, eccetto le volte che insieme con Marta li sorprendeva nudi sul fiume, aveva temuto i ragazzi. Essi gli avevano amareggiato molte giornate nel mese di mare. […] Un’ostilità sorda lo prendeva specie quando i ragazzi si fermavano a guardare la mamma e la zia distese sulla sabbia».

 

Una cosa va osservata: il sistema narrativo – mi pare evidente dalla breve citazione – è regolato sempre su un’ottica che privilegia come unica e totalizzante quella del ragazzo verso, o contro, gli adulti.

Si tratta, in altre parole, di un io narrante oggettivato con naturalezza nella terza persona, di un lui che vale un io sottinteso e presentissimo. Resta per fermo quanto nel contrasto la sessualità, mai resa esplicita, spiata in modo obliquo e violenta proprio per questo, sia il fuoco della controversia.

Si possono fare i nomi di Alain-Fournier o di Gide, ancora di Proust, come anche è stato fatto. Ma in Bilenchi permane un perenne, originale stato d’inquietudine e di rivolta secca, un segreto e limpido azzardo a sconfiggere ogni amalgama e mediazione formale dei contrasti. In Conservatorio di Santa Teresa si cerca sempre d’esaltare come ruvido ogni rapporto, di mettere alla luce la discontinuità che erompe fra corpo e psiche, una discontinuità che il perbenismo italiano avrebbe voluto per metodo ignorare. Proprio questo ha reso ricca, profonda l’autenticità di Bilenchi: ed è in questo la sua grandezza, da situare fuori dei confini “toscani” dove si è cercato volentieri di rubricarlo e limitarlo.

 

Testi ripresi da  https://www.leparoleelecose.it/?p=48615

Nessun commento:

Posta un commento