29 agosto 2020

UNA POLITICA PER L' ANTROPOCENE

 

Una politica per l’Antropocene

Paolo Cacciari
28 Agosto 2020

Sta avvenendo sotto i nostri occhi: la conclusione di un ciclo di civilizzazione lungo e addirittura di un’era geologica che molti scienziati definiscono con il nome Antropocene. Abbiamo bisogno di individuare le cause profonde della crisi ecosistemica, strutturale e di civiltà e di prospettare molte alternative, diverse già sperimentate, per uscire dal miope cinismo economicista e dalle logiche distruttive dell’accumulazione capitalista prevalenti. Ma non non basta avere una coscienza di classe, servono anche la coscienza di genere, di generazione, di luogo, di specie. Abbiamo bisogno di un immaginario comune, di una cosmovisione

 


 C’è chi pensa – vedi il genetista evoluzionista Svante Pääbo, in Elizabet Kolbert, La sesta estinzione, Beat edizioni, 2014 – che ci sia un “gene faustiano” annidato nella mente umana che spinge alcuni individui (maschi, come ci dimostra l’archeologa Marija Gimbutas) a sviluppare comportamenti aggressivi, predatori, distruttivi. Nel corso della storia, si sono creati clan, potentati, elite dominati che sono riusciti a plasmare e organizzare secondo le loro regole le intere relazioni sociali. Come giudicare diversamente, se non folle, ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi, a conclusione di un ciclo di civilizzazione lungo addirittura un’era geologica che molti scienziati vorrebbero definire con il nome Antropocene? (Vedi per tutti, di Jan Zalasiewicz, The Anthropocene as a Geological Time Unit, Cambridge University Press, 2019).

Il sistema energetico fossile modifica la composizione chimica dell’atmosfera, genera cambiamenti climatici catastrofici, acidifica gli oceani, uccide le barriere coralline; il sistema alimentare carnivoro distrugge le foreste primarie, desertifica i mari, elimina la biodiversità, innesca pandemie; il sistema di produzione industriale di beni di largo consumo programmato sull’obsolescenza genera spreco di materie e di risorse naturali non rinnovabili; il modello di insediamento urbano ammassa in megalopoli invivibili metà della popolazione mondiale; il paradigma tecno-scientifico è mirato alla ricerca del superamento dei limiti naturali (i nove Planetary Boundaries individuati dal gruppo di ecologi di Johan Rockström) e alla progressiva artificializzazione dei cicli vitali (bioingegneria alla Frankenstein); il sistema dell’informazione manipola e sorveglia; l’assetto geopolitico è basato sulla potenza imperiale e la violenza militare.

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Alessio Giacometti, commentando il libro di Simon Lewis e Mark Maslin, Il pianeta umano, Einaudi, 2019, scrive: “Negli ultimi secoli abbiamo introdotto in natura più di duecento minerali prima inesistenti, disperso particelle carboniose sferoidi e polimeri plastici dalla cima dell’Everest alla Fossa delle Marianne, rivestito la superficie terrestre con una tecno sfera da 30 trilioni di tonnellate di cemento e metallo. Abbiamo condotto all’estinzione l’83 per cento delle specie animali viventi e dimezzato la popolazione di alberi. Abbiamo anche riversato in aria oltre duemila milioni di tonnellate di anidride carbonica, il cui livello di concentrazione in atmosfera è il più alto degli ultimi tre milioni di anni. Se dovessimo estinguerci domani, i nostri prodotti materiali sparirebbero in meno di diecimila anni, ma le alterazioni biogeochimiche dei cicli del carbonio, del fosforo e dell’azoto rimarrebbero per milioni di anni, dopo di noi” (A, Giacometti, Come abbiamo creato l’Antropocene).

Ovviamente, non c’è nulla di geneticamente predeterminato e di inevitabile nella suicida “devastazione dello spazio vitale” (Konrad Lorenz, 1972) intrapresa dall’homo – autodefinitosi – sapiens. Forse, come mi suggerisce il mio amico psicoanalista Alvise Marin, “per trovare spiegazioni bisognerebbe indagare nel mare profondo delle nostre pulsioni e motivazioni inconsce, che sono strutturalmente un impasto di eros e thanatos”. Comunque è certo che altri itinerari e altri esiti sarebbero stati possibili in passato e potrebbero esserlo ancora in futuro. Ed è questo il preciso campo dell’intervento politico, ovvero delle scelte collettive. La politica, invece, “muore” – come affermano da tempo molti politologi, penso al Marco Revelli di La politica perduta, Einaudi 2003) – se non riesce a confrontarsi con le questioni fondamentali dell’esistenza umana, con la dimensione culturale, valoriale ed eco-etica della “battaglia delle idee” che guida le trasformazioni sociali. In assenza di ciò, è inevitabile che a evaporare per prima sia la politica di sinistra, di coloro, cioè, che pur dichiarandosi non contenti dello stato delle cose presenti rimangono inanimi nell’indicare alternative di sistema, ovvero colgono solo elementi parziali e separati delle conseguenze delle politiche di potenza e di oppressione messe in atto dai gruppi di potere dominanti. Tipico in molta parte della cultura del movimento operaio è porre l’accento esclusivamente sulle disparità e sulle ingiustizie patite dai ceti popolari nell’accesso e nella distribuzione della ricchezza. Ma in tal modo rimangono in ombra i sistemi di formazione e di valorizzazione economica delle attività umane e dei “servizi ecologici” forniti gratuitamente dalla natura. Così come noti sono i limiti dell’ambientalismo superficiale – facilmente sussunto dal mercato – che non coglie le logiche distruttive intrinseche dell’accumulazione capitalista. Più pericolose di tutte sono le derive identitarie di qualsiasi tipo (sangue, suolo e patrie), pur giustificate dai centralismi nazionalisti e dalla globalizzazione omologante. Ecco allora che la cultura politica di sinistra dovrebbe saper individuare e riportare a unità la lotta a ogni forma di dominio e di oppressione, facendo perno su un’idea di individuo completo, consapevole e responsabile dei diritti propri, degli altri e di ogni forma di vita. Per dirla a slogan: per fare la rivoluzione non basta avere la coscienza di classe, servono anche la coscienza di genere, di generazione, di luogo, di specie. Secondo il principio (ecologico) della interconnessione, interdipendenza e coevoluzione di tutti i fenomeni naturali (ogni specie è parte del tutto: “Homo sapiens non è che una specie fra molte, il prodotto di una interazione” – Richard Lekey e Roger Lewin, La sesta estinzione. La vita sulla Terra e il futuro del genere umano, Bollati Boringhieri, 1998) e sociali; della inseparabilità della sostenibilità ambientale e della giustizia sociale.

Ragionare alla scala dei cambiamenti geologici sarebbe utile per uscire dal miope cinismo economicista oggi prevalente (quello che afferma: “nel lungo periodo saremo tutti morti”, affermazione ancora più “vera” se consideriamo che la durata media di una specie animale è stata fino ad ora di soli quattro milioni di anni) per valorizzare invece le capacità creative di ogni persona umana e dare un senso anche spirituale allo stare al mondo e alla cooperazione sociale. La Commissione internazionale di stratigrafia della Unione internazionale di scienze geologiche è ancora incerta su quando fissare l’inizio dell’Antropocene: qual’é il point-break, il momento in cui l’homo sapiens comincia ad agire come forza geologica e a lasciare tracce rilevanti e indelebili sul sistema Terra? Con la diffusione dell’agricoltura e dell’allevamento, 10.000 anni fa? Con l’affermazione del pensiero occidentale antro e andro-centrico della tradizione ebraica e della filosofia greca ellenistica? Cinquecento anni fa con la prima globalizzazione, la colonizzazione europea delle Americhe e la nascita del capitalismo (come suggerisce Jason Moore, Antropocene o Capitalocene? Ombrecorte, 2017)? Con la rivoluzione industriale nell’Ottocento? Il 16 luglio 1945 con la detonazione del primo ordigno nucleare e il fall-out di radio nuclei? Nel maggio di quest’anno, con il picco record di 417 parti per milione di anidride carbonica (come 450.000 anni fa)? Il prossimo fine secolo con il raggiungimento del tetto di esseri umani (10 e più miliardi) e il contemporaneo limite più basso di biodiversità delle specie viventi presenti (“Sesta estinzione di massa”, la quinta interessò i dinosauri, 65 milioni di anni fa)?

Interrogativi con cui sarebbe interessante che la politica riuscisse a confrontarsi per non rimanere insignificante e per poter misurare le coerenze anche delle piccole e quotidiane scelte. Ad esempio, come spendere i denari del Recovery Fund, se vogliamo davvero servano a risanare il pianeta e a sostenere la vita delle “Next generations”. E non semplicemente a riattivare un ciclo economico “espansivo” lucrativo per i detentori dei titoli di credito del debito garantito dalla Banche centrali. Il presente è importante (specie per chi è costretto a lottare con la precarietà della sussistenza), ma lo si può affrontare con qualche speranza di cambiamento solo se si ha la consapevolezza che esso è il punto di incrocio tra l’eredità del passato e le opportunità del futuro. In altre parole, una politica (di sinistra) che non sappia individuare le cause profonde della crisi ecosistemica, strutturale e di civiltà cui siamo giunti e che non sappia prospettare un’alternativa all’altezza della situazione, non sarà mai credibile, non riuscirà mai a convincere le menti e a scaldare i cuori delle persone. “Il” nuovo soggetto sociale protagonista della auspicabile grande trasformazione necessaria nascerà quando maturerà un immaginario comune – una cosmovisione – liberato da tutti i miti di potenza del denaro, della tecnologia, delle armi, della violenza. Per dirla in positivo, quando riusciremo a maturare un atteggiamento di cura della vita di noi stessi, degli altri, della natura.


Nota. Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata da “il manifesto” martedì 25 agosto nel quadro di una discussione aperta da Luciana Castellina il 18 agosto in “dissenso totale” nei riguardi di una intervista di Fausto Bertinotti rilasciata su “Repubblica” il giorno prima. Il dirigente comunista afferma che “l’ambiente sottratto alla lotta contro le diseguaglianze è solo olio nel motore” del capitalismo e paventa il pericolo di una “sostituzione della lotta di classe con l’ecologismo”. Castellina rivendica la consustanzialità della lotta sui due versanti, ecologico e di classe. A fortiori ragione la dirigente comunista esplicita la sua avversità all’uso del paradigma dell’Antropocene, perché “l’umanità viene considerata un’entità astrattamente omogenea, un insieme dove tutti sarebbero colpevoli e tutti vittime”.

Altri articoli di Paolo Cacciari sono leggibili qui.

 

Articolo ripreso da  https://comune-info.net/una-politica-per-lantropocene/










Quando l’economia diventerà equonomia? 

 Piero Bevilacqua 

Recensione a “Pandeconomia. Le alternative possibili” di Tonino Perna.

TUTTI gli eventi catastrofici hanno un effetto dirompente, più o meno durevole e grave, a seconda della loro portata e durata, su quella complessa macchina sociale che chiamiamo economia. Terremoti, guerre, epidemie incidono in genere sulla struttura demografica, sull’apparato produttivo, sui livelli dei consumi, sulle risorse naturali e sulle infrastrutture.
Tuttavia, nonostante la loro frequenza e rilevanza sulla vita delle società, solo per le guerre esiste una una vasta memoria e pubblicistica storica, ricerche e studi che non si hanno, se non in forme sporadiche, né nel caso dei terremoti (così frequenti nella nostra storia e in quella delle regioni mediterranee), né nel caso di epidemie e pandemie.
Eppure, come ricorda Tonino Perna nel suo recente e tempestivo lavoro, “Pandeconomia. Le alternative possibili” (Castelvecchi Editore, 2020) nei paesi del «Sud-Europa, ci sono Madonne e Santi che sono venerati come Protettori di città e borghi antichi perché almeno una volta li hanno salvati dalla peste, dal colera e altre pandemie. Nel tempo, nella memoria collettiva si è persa l’origine di questi riti religiosi, che ormai vengono vissuti come giorno di festa».
Sugli effetti della guerra l’autore ricorda un accenno di Adam Smith e le riflessione, in età contemporanea, di Walter Ratnenau e John Maynard Keynes. Il grande intellettuale tedesco, manager industriale e ministro della Ricostruzione e poi degli Esteri, in Germania, fu il primo economista nel ’900 ad occuparsi delle dinamiche dell’“economia di guerra” e a trarne conseguenze rilevanti.
Dalla sua diretta esperienza di manager e di ministro osservò – sottolinea Perna – alcune trasformazioni “fondamentali che riscontriamo oggi nell’economia della emergenza, o meglio nella “pandeconomia” che stiamo vivendo. La prima è la messa in discussione, o comunque la riduzione dei processi di globalizzazione. La seconda è una conseguenza di questi processi di de-globalizzazione con una ripresa di ruolo e valore del mercato interno. La terza riguarda il potere dello Stato che si rafforza e delle istituzioni che sono obbligate a trasformarsi”.
Paradossalmente, per citare le parole con cui Keynes riprende Rathenau, “riusciremo così a cogliere l’occasione della guerra per realizzare un progresso sociale positivo”. È quanto ci aspetteremmo, con vacillanti speranze, dal presente governo.
Perna getta un sguardo sintetico ed essenziale sulle epidemie anche dell’età moderna, sottolineando l’ampiezza e la ricorrenza delle devastazioni che interessarono le più ricche e popolose città italiane, quelle più legate al mercato internazionale: “Ma, quello che più colpisce” – aggiunge – “e che è stato in parte ignorato, è che molte città sono state colpite dall’epidemia più volte: Venezia 21 volte dal 1348 al 1630, Parigi 23 volte dal 1379 al 1596, Firenze 25 volte dal 1348 al 1630-31, e Besançon addirittura 40 volte.”
Tali funeste ricorrenze hanno avuto una incidenza molto grave sulle strutture demografiche degli stati, con un impatto economico depressivo che si protraeva per decenni. Nello stesso tempo, tuttavia, esse alimentavano una crescente concentrazione dei poteri dello Stato, che inaugurava nuovi strumenti di controllo sanitario. E qui Perna ricorda le note tesi di Michel Foucault sul ruolo che la medicina e la clinica hanno giocato nell’accrescere il potere dello Stato sul corpo dei sudditi e dei cittadini.
Naturalmente la parte centrale del libro si concentra su quanto sta accadendo sotto i nostri occhi. E l’autore avvia la sua rapida ricognizione ponendosi la domanda fondamentale: “È legittimo domandarsi: questa pandemia tende a incrinare o rafforzare il finanzcapitalismo? Ovvero: le trasformazioni economiche causate da questa epidemia quali ripercussioni, di medio-lungo periodo, avranno sul modo di produzione capitalistico, nell’era dell’egemonia finanziaria?”.
La risposta al quesito, ovviamente problematica, prende in considerazione fenomeni in atto, ma anche previsioni di medio periodo, come la caduta del PIL delle varie economie nazionali, il crollo dell’occupazione, la paralisi di alcune componenti fondamentali dell’economia globale, come il turismo, ma nello stesso tempo l’incremento sempre più dispiegato del capitalismo delle piattaforme. Una estensione del processo di accumulazione e al tempo stesso “il modo con cui si sta trasformando il capitalismo finanziario, sempre meno visibile e controllabile. Piattaforme digitali che diventano i custodi e padroni dei nostri dati sensibili, delle nostre scelte di consumo, della nostra vita”.
L’opera non si limita ad analizzare l’esistente, uno dei suoi pregi è lo sguardo che getta sia sugli effetti economici, sociali e ambientali della pandemia in corso, sia sui possibili scenari futuri. Con alcune sorprese. La paralisi dell’attività economica, ad esempio, ricorda Perna, “tra riduzione dell’inquinamento, delle vittime sul lavoro e sulla strada, ha salvato qualcosa come 420 mila persone, di tutte le età e di tutti paesi del mondo che hanno adottato misure di contenimento della mobilità delle persone e della produzione di merci.
” Uno degli “effetti desiderati” si potrebbe dire, di un evento contagioso che sta ancora provocando centinaia di migliaia di vittime. Quanto agli scenari auspicabili, Perna sottolinea la ripresa, in tempo di crisi, delle economie di prossimità, quelle fondate sulla piccola agricoltura, sull’accorciamento della filiera agro-alimentare, il piccolo commercio, la vita di quartiere e la rivitalizzazione del territorio.
In tale direzione si muove la necessaria rivalutazione delle aree interne e una nuova politica per le città, oggi svuotate della loro vita pubblica e selvaggiamente mercificate. Infine, la rivalutazione dei sentimenti di solidarietà promossa dal drammatico imperversare delle morti, dovrebbe animare i comportamenti anche in tempi normali e ispirare la condotta economica dei cittadini, tanto sul piano produttivo che su quello dei consumi.

da “il Quotidiano del Sud”, 21 giugno 2020