30 dicembre 2018

Scorcio di secolo di W. Szymborska







      Una delle più intelligenti sintesi del XX secolo:

Scorcio di secolo di  W. Szymborska



Doveva essere migliore degli altri il nostro XX secolo.
Non farà più in tempo a dimostrarlo,
ha gli anni contati,
il passo malfermo,
il fiato corto.

Sono ormai successe troppe cose
che non dovevano succedere,
e quel che doveva arrivare,
non è arrivato.
 
Ci si doveva avviare verso la primavera
e la felicità, fra l’altro. 

La paura doveva abbandonare i monti e le valli,
la Verità doveva raggiungere la meta
prima della menzogna. 

Certe sciagure
non dovevano più accadere,
ad esempio la guerra
e la fame, e così via.
 
Doveva essere rispettata l’inermità degli inermi,
la fiducia e via dicendo. 

Chi voleva gioire del mondo
si trova di fronte a un compito irrealizzabile. 

La stupidità non è ridicola.
La saggezza non è allegra. 

La speranza
non è più quella giovane ragazza
et caetera, purtroppo. 

Dio doveva finalmente credere nell’uomo
buono e forte,
ma il buono e il forte
restano due esseri distinti. 

Come vivere? - mi ha scritto qualcuno,
a cui io intendevo fare
la stessa domanda. 

Da capo e allo stesso modo di sempre,
come si è visto sopra,
non ci sono domande più pressanti
delle domande ingenue.

Wislawa Szymborska, 25 poesie, Mondadori 1998

IL CREPUSCOLO DI UN SOGNO COMUNITARIO. Ripensando all'opera di Amos Oz





La scomparsa dello scrittore nato a Gerusalemme nel 1939. Nella sua monumentale autobiografia «Una storia d'amore e di tenebra» aveva narrato tre generazioni israeliane in cent'anni, un incrocio inestricabile di esperienza personale e destini collettivi.

Massimo Raffaeli

Il crepuscolo di un sogno comunitario

Non si può scrivere in Israele senza essere degli autori politici, per etimologia, né si può essere scrittori in Israele senza sentire la politica nel senso primordiale, fondativo, di un termine che abbraccia sia una radice storica sia, nello stesso tempo, una coazione ormai così protratta e dolorosa da somigliare a un destino.

Amos Oz, pseudonimo dell’ebreo di origini ashkenazite Amos Klausner (nato a Gerusalemme nel 1939 e mancato ieri nella sua città), è stato scrittore politico nel senso pieno per un decorso familiare e poi per una scelta che lo ha reso testimone di un mondo lacerato, presto diviso in due, dentro e fuori di sé, dalla tragedia del popolo palestinese la cui vicenda replicava e dilatava immensamente ai suoi occhi, nei termini della esclusione e di una crudele persecuzione, gli incubi di una vita domestica letteralmente esplosa dopo il suicidio di sua madre e il tenace sanguinoso conflitto che subito lo divise da suo padre, un intellettuale dell’estrema destra nazionalista.

Oz é uno pseudonimo che significa «forza» e il termine dice molto di questo giovane adottato la cui vera famiglia diviene il kibbutz di Hulda, diretta filiazione del Partito laburista cui il futuro scrittore aderisce appena quindicenne. Politica è dunque per lui non solo e non tanto una esigenza di engagement quanto un fervore collettivo, un progetto civile di edificazione dal basso e di riscatto dalla persecuzione che rende fattiva, condivisa e alla fine si direbbe «naturale» l’utopia del socialismo.
Oz dirà più volte, specie nel romanzo autobiografico che lo ha universalmente consacrato, Una storia di amore e di tenebra (2002), di essere negato al lavoro manuale ma di avere appreso nel kibbutz le nozioni fondamentali dell’essere al mondo e, prima ancora, dell’essere con gli altri nel mondo. Anche quando se ne andrà dal kibbutz, non prima dei pieni anni ottanta, al crepuscolo del socialismo israeliano e in un drammatico passaggio di fase che vede il paese stravolto dalla aggressività sciovinista delle destre ascese al potere, ne parlerà con nostalgia nei termini di un sedimento profondo e di una definitiva immunizzazione.

Qui va detto che Amos Oz, benché educato da bambino in una scuola religiosa (dove ebbe insegnante una poetessa celeberrima in Israele, Zelda) non sarà mai un credente ma un laico refrattario al credo dei padri come alle religioni secolarizzate che nel Novecento a lungo sono state le ideologie politiche. Egli fu semplicemente un socialista democratico ma nondimeno un radicale come può esserlo chi crede in una elementare, inscalfibile, eguaglianza tra gli esseri umani.

Quanto a questo, fra le decine di saggi e romanzi che costellano la sua longeva e ricchissima bibliografia (da In terra di Israele a Contro il fanatismo del 2004, da, circa la narrativa, Michael mio a Il monte del cattivo consiglio, del ’76) spicca alla maniera di un baricentro e di un retrospettivo romanzo di formazione Una pace perfetta concepito nel 1970, redatto fra il ’76 e l’’81 e pubblicato in patria solo nel 1982 (poi in Italia da Feltrinelli nel 2009).
L’opera risale appunto alla prima maturità di Oz, perciò agli anni immediatamente successivi alla guerra dei Sei Giorni, e la scrive il kibbutzim poco più che trentenne ma già anziano militante laburista in fuga dalla sua cupa vicenda familiare. Una pace perfetta anticipa la materia autobiografica di Una storia di amore e di tenebra e appare se possibile un racconto ancora più compiuto, nel senso della compattezza e di una ispirazione che non scende dal suo apice nonostante la struttura comporti continui cambi della prospettiva e sbalzi nell’assemblaggio linguistico-stilistico.

Protagonisti non sono individui singoli ma ancora una volta la comunità, il kibbutz, la cui dinamica si estende dal Bildungsroman vero e proprio a un romanzo di formazione collettivo, mentre il contrasto fra ideale e reale, tipico di ogni romanzo, si traduce nella lotta fra la generazione dei pionieri (la stessa di Ben Gurion e Golda Meir) e quella dei figli irrequieti e perplessi ovvero fra i vecchi ebrei immigrati nella Palestina del Mandamento inglese e i giovani cittadini israeliani che ormai portano con orgoglio la divisa di Tzahal.

Il clima da catastrofe incombente, un inverno rigido e eternamente piovoso schermano la matrice solare e originaria del kibbutz, il suo ideale laico e pauperista. Tale, e una volta per sempre, è comunque l’universo di Oz, uno spazio di radure strappate al deserto in cui convivono operai e contadini, dove si utilizzano macchine rudimentali ma non mancano una biblioteca e un quintetto musicale, mentre non vi esistono né una sinagoga né un rabbino, nonostante tutti sappiano citare a memoria la Bibbia.

Le figure che emergono dal coro testimoniano di una nuda umanità ma rigettano qualsiasi credo identitario: lo stesso ricordo della Shoah è una terribile ipoteca che rimane per costoro sullo sfondo, è il finale apocalittico di una vicenda chiusa non l’innesco di una storia paradossalmente trionfale quale invece sarà per le classi dirigenti successive alla guerra dei Sei Giorni, come rilevano, con sgomento e d’accordo con Oz, i nuovi storici israeliani, da Idith Zertal a Tom Segev, l’autore di Il settimo milione.
In tutta la sua opera, l’autore accompagna il ricordo della epopea del kibbutz nei modi di una severa elegia dove si affacciano di volta in volta i miti, anonimi, volti del sogno comunitario. Oz, scrittore la cui pagina allude alla cadenza della riflessione, li osserva e dà loro la parola quasi con sgomento, come scrivesse da un tempo irrimediabilmente postumo rispetto a un presente viceversa armato fino ai denti dove la violenza è acclamata, la protervia giustificata nel senso comune con stoltezza temeraria. Diversamente da alcuni suoi pari (per esempio David Grossman e Abraham Yehoshua, che volentieri ricorrono nei loro romanzi al mito e persino al sostrato folclorico di Israele), Oz guarda da sempre nella sua narrativa alla dinamica degli esseri più semplici, a individui chiusi e talora imprigionati nel ciclo di vivere, lavorare e morire.

Elena Loewenthal, traduttrice elettiva di Amos Oz, fedelissima alla polifonia delle sue partiture originali, di lui ha parlato (in Scrivere di sé. Identità ebraiche allo specchio, Einaudi 2007), come di «un incrocio inestricabile di esperienza personale e collettiva» o meglio ancora di una «immedesimazione fra i destini individuali e destino collettivo che tracciò in quegli anni la nascita della coscienza nazionale».

Oggi è molto triste rammentare che una simile epopea è da decenni cancellata, in Israele: i politici di estrema destra e i rabbini bigotti cui sono delegati il governo e la manutenzione dell’identità spirituale del paese ritengono ovviamente che la storia del kibbutz sia il prodotto di un’epoca nefasta, morta e sepolta con i suoi ideali di uguaglianza fra gli esseri umani.

Il manifesto – 29 dicembre 2018

C. PAVESE, Andare verso gli altri




Per vivere una vita piena e ricca bisogna andare verso gli altri.
E questo è tutto.


Cesare Pavese

UOMINI E DONNE: Ieri, domani e, forse, sempre...





29 dicembre 2018

COLD WAR, Un film imperdibille





     Ieri sera, a Palermo, ho visto un film splendido.
    Raccomando agli amici di non perderlo. (fv)

DAL "CANZONIERE ITALIANO" di P. P. PASOLINI








Lombardia. Canzoni. n. 40
E la colombina
La va per l’aria
E la va per l’aria,
La tocca il cielo.
E la tocca il cielo
Coi suoi aletti
E coi giovinetti
La fa l’amor.
*
Veneto. Vilote. n. 133 (Verona)
La tortora, c’à perso la compagna,
La fa ’na vita proprio tribulada;
La va in t’el fiumesel e la se bagna,
La beve de quel’acqua entorbidada,
E po’ co l’ale la se bate el cuore:
L’à perso la compagna! Oh che dolore!
*
Friuli. Vilotis. n. 184 (Anduins)
Ci ricuardistu, gargiona,
Chela sera sul pöûl?
Tu mi davis la parussa,
Jò ci devi il grizignûl.
Ti ricordi, ragazzina, / quella sera sul poggiolo? / Tu mi davi la cinciallegra, / io ti davo il rosignolo.
*
Toscana. Rispetti e stornelli. n. 241
Il primo giorno di calen di maggio
Andai nell’orto per cogliere un fiore,
E vi trovai un uccellin selvaggio,
Che discorreva di cose d’amore.
«O uccellin che vieni di Fiorenza,
Insegnami l’amor come comincia.»
«L’amor comincia con suoni e con canti,
E poi finisce con dolori e pianti.»
*
Sardegna. Mutos. n. 656 (Nuorese)
Su culumbu de ss’oro
Juchet alar d’arghentu,
Chi bolat e nnon rùete.
Su culumbu de ss’oro.
Mancari nd’ames chentu,
Tue ses i ssu coro.
Il colombo dell’oro / porta ali d’argento, / e vola e non cade. / Il colombo dell’oro / Ne amassi anche cento, / sei tu nel mio cuore.

in Pier Paolo PASOLINI, Canzoniere italiano
“La Fenice”, Guanda, Parma, 1955
“Gli elefanti”, Garzanti, Milano, 1992, 2 volumi

IL PASSAGGIO IN TERRA DI AMOS OZ (G. Panella)


Amos Oz

Amore e tenebra. Il passaggio in terra di Amos Oz

di Giuseppe Panella

«”Tel Aviv non era abbastanza radicale”,
“solo il kibbutz era abbastanza radicale“»
(Amos Oz)

E’ quasi inevitabile collegare Oz alle vicende politiche dell’intellettualità politica di Israele, in particolare al loro giudizio sull’eterna vicenda del conflitto con i palestinesi. Se già nel 1967, Oz si schiera a favore della teoria dei due popoli, due stati, frutto dell’evoluzione politica conseguente alla guerra detta dei Sei Giorni, prende posizione a favore del Partito Laburista Israeliano di Shimon Peres in cui assume cariche dirigenziale di un certo peso tanto che il suo leader, prima di abbandonare la politica, lo prende in considerazione come suo possibile successore. Deluso dall’evoluzione del Partito Laburista, successivamente Oz prende posizione a favore del nuovo partito Meretz (energia!) che si collocava più a sinistra di quello Laburista anche in virtù della sua stima per Shulamit Aloni, leader e fondatrice del partito. Le posizioni di Oz erano laburiste di stampo classico (sioniste ma fortemente progressiste) anche se non pacifiste o fusioniste. Lontano dall’aggressività della destra di Netanyahu, Oz aveva difeso l’esercito israeliano durante la battaglia per il Libano sostenendo che non si trattava di una guerra d’occupazione di territori esterni a Israele ma di una forma necessaria di autodifesa contro gli hezbollah. Tale posizione sarà abbandonata quando l’esercito israeliano deciderà di continuare nell’occupazione del territorio libanese. Insieme a David Grossman e Abraham Yehoshua, Oz firmerà una dichiarazione a tale proposito ribandendo che non si trattava più di auto-difesa.
Amos Oz (ed è quasi ovvia) non si chiamava così. Il suo cognome era Klausner ma fu cambiato in OZ per effetto di una forte controversia con il padre con il quale la rottura intervenne dopo il suicidio della madre cui Oz era molto legato (aveva solo dodici anni). OZ in ebraico si traduce forza e fu adottato all’epoca del trasferimento dello scrittore da Tel Aviv al kibbutz di Hulda. Ma nulla mi toglie dalla testa che quell’Oz oltre che una parola che indica combattività non sia che un omaggio a quel Mago di Oz che fondeva la funzione fantastica e creativa della letteratura a una volontà di accettare la realtà della vita. Oz era un intellettuale (la sua incapacità nei lavori agricoli divenne leggendaria) che voleva confrontarsi con la dimensione autentica dell’esperimento politico-sociale di Israele. Nel suo libro forse più bello, Una storia di amore e di tenebra (insieme alla parabola dolce amara di Giuda) il racconto della morte della madre si intreccia con le storie del kibbutz e della formazione umana, politica e letteraria di Oz. Quest’ultima avviene nel momento in cui si forma la struttura futura del nuovo Stato israeliano.
Ma, a prescindere dalle sue prese di posizione politichee il grande affresco autobiografico, Oz è autore di diciotto romanzi e 450 saggi. E’ importante esaminare, sia pure brevemernte, qualche suo testo narrativo. Giuda, ad es., che è del 2014 ed è una riflessione attenta ma disinvolta sui rapporti tra ebraismo e cristianesino. A Gerusalemme, nell’inverno tra la fine del 1959 e l’inizio del 1960, Shemuel Asch decide di rinunciare agli studi presso l’Università e, in particolare alla sua ricerca intitolata Gesù visto dagli ebrei  a causa dell’improvvisa catastrofe  economica che colpisce la sua famiglia e dell’abbandono da parte della sua ragazza, Yardena. Shemuel è sul punto di abbandonare Gerusalemme quando vede un annuncio nella caffetteria dell’università. Vengono offerti alloggio gratuito e un modesto compenso a uno studente di materie umanistiche che sia disposto a tenere compagnia, di pomeriggio, a un anziano di grande cultura ma disabile . Quando si reca all’indirizzo  dell’annuncio, Shemuel trova una grande casa abitata da un colto settantenne, Gershom Wald, e da una giovane donna misteriosa e molto attraente, Atalia Abravanel. Si trasferisce nella mansarda e inizia a condurre una vita solitaria e ritirata con i suoi ospiti, intervallata dai pomeriggi trascorsi nello studio di Gershom Wald. Chi è veramente Atalia? Cosa la lega a Gershom? Quali storie sono racchiuse tra quelle mura? Shemuel Asch troverà la risposta nel concetto di tradimento, non inteso in senso tradizionale, bensì ancorato all’idea che si ritrova nei Vangeli gnostici, dove emerge che il tradimento di Giuda – aver consegnato Gesù al Sinedrio a Ponzio Pilato – non fu altro che l’esecuzione di un desiderio di Gesù stesso. Variazione sui temi dei Vangeli gnostici, Grossmann non è blasfemo ma solo curioso e spesso ironico (come il Puig di Queste pagine maledette):
«Questa è una storia che si svolge nell’inverno tra la fine del 1959 e l’inizio del 1960. Questa storia contiene un errore e della passione, un amore deluso e una questione di ordine religioso che qui rimane irrisolta. Non pochi edifici portavano ancora ben riconoscibili i segni della guerra che dieci anni prima aveva diviso la città. In sottofondo vi capiterà di udire la melodia lontana di una fisarmonica o le struggenti note di un’ocarina, sul far della sera, dietro un’imposta chiusa»
Fortemente ispirato alle Tre versioni di Giuda di Jorge Luis Borges (ma anche a Winesburg, Ohio  dell’amato Sherwood Anderson, lettura giovanile di Oz), Giuda rimette in discussione convinzioni religiose e morali cercando soluzioni impossibili a questioni di frontiera. Nel suo ultimo romanzo, invece, Tocca l’acqua, tocca il vento che è del 2017, ambientato nel 1939, mentre i tedeschi avanzano in Polonia, racconta la piccola storia di Elisha Pomerantz, un piccolo orologiaio ebreo con la passione della matematica e della musica. Elisha scappa nella foresta, lasciandosi dietro la sua bella e intelligente moglie Stefa. La donna non si rende conto del pericolo, ma quando la situazione precipita, si chiude in casa, poi viene travolta  dalla tempesta della guerra. Elisha, dopo aver errato per gran parte dei boschi europei, fugge prima in Grecia e poi in Israele, dove trova ospitalità in un piccolo kibbutz, e silenziosamente si rimette a riparare gli orologi, a cercare la musica nella matematica e la matematica nella musica. Stefa, invece, deportata in Unione Sovietica, è costretta a diventare una spia di Stalin. Ma entrambi sognano sempre di tornare a rivedersi.
Tocca l’acqua, tocca il vento è venato di realismo magico, ricco di simboli alchemici e di speculazioni filosofiche, a tratti misterioso, con momenti di grande dolcezza. Un romanzo che non ha nulla della brutalità dei romanzi di vagabondaggio e di morte durante la Seconda Guerra Mondiale scritti da Jerzy Kosinski (L’uccello dipinto) o da Primo Levi (Se non ora, quando?) ma si limita a prospettare una vita possibile, se non migliore, una vita in cui il bene resti una possibilità espressa e non lontana.
Io credo fortemente nella necessità del compromesso. So che questa parola ha un’accezione molto negativa, soprattutto alle orecchie dei giovani idealisti, ma per me è sinonimo di vita. Dove c’è vita c’è compromesso. Che non vuol dire per me sconfitta o capitolazione, né porgere l’altra guancia al nemico, ma riconoscere la necessità di incontrare qualcuno a metà strada, trovare una mediazione tra il sogno e la realtà  (Amos Oz) – ringrazio Fabrizio Coscia per la bella citazione.
Giuseppe Panella 

Testo ripreso da  https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/

28 dicembre 2018

ITALO CALVINO LETTO DA GIORGIO AMICO




Ci sono due Ligurie. Una costa fatta di luci, palazzi, rumori e un entroterra di ombre, pietra e silenzi. Lo scrittore sta sul confine.

Giorgio Amico

Italo Calvino scrittore di paesaggi

“Per arrivare fino in fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere diritti rasente le pareti fredde, tenute discoste a forza d'arcate che traversano la striscia di cielo azzurro carico. Scendono diritti, i raggi del sole, giù per le finestre messe qua e là in disordine sui muri, e cespi di basilico e di origano piantati dentro pentole ai davanzali, e sottovesti stese appese a corde; fin giù al selciato, fatto a gradini e a ciottoli, con una cunetta in mezzo per l'orina dei muli”.

Forse qualcuno l'avrà riconosciuto. E' l'incipit della sua prima opera importante. Il sentiero dei nidi di ragno (1947).

Il dato è quasi simbolico: la scrittura di Calvino inizia dalla descrizione della Pigna, il centro storico di Sanremo. E' Calvino stesso a spiegarlo ne La strada di San Giovanni (1963), una rimeditazione della sua giovinezza e un omaggio postumo al padre reso, quando, oltrepassata la conradiana linea grigia, si inizia finalmente a capire qualcosa di più della vita:

“Una spiegazione generale del mondo e della storia deve innanzi tutto tener conto di com’era situata casa nostra, a mezza costa sotto la collina di San Pietro, come a frontiera tra due continenti. In giù, appena fuori del nostro cancello e della via privata, cominciava la città con i marciapiedi le vetrine i cartelloni dei cinema le edicole, e piazza Colombo lì a un passo, e la marina; in su, bastava uscire dalla porta di cucina nel beudo che passava dietro casa a monte e subito si era in campagna, su per le mulattiere acciottolate, tra i muri a secco e pali di vigne e il verde”.
Il paesaggio come punto di partenza, dunque, ma ancora non basta. Per attribuire senso e significato il paesaggio non è sufficiente. Perché il paesaggio non è un dato oggettivo, che basta a sé stesso, ma la cristallizzazione dell'occhio che si posa sulle cose e dunque prima di tutto uno stato dell'animo, una presa di posizione. Per poter essere rappresentato il paesaggio deve poter essere abitato, in qualche modo vissuto. Calvino lo spiega nella celebre introduzione del 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno:

“Io ero della Riviera di Ponente; dal paesaggio della mia città - San Remo – cancellavo polemicamente tutto il litorale turistico - lungomare con palmizi, casinò, alberghi, ville quasi vergognandomene; cominciavo dai vicoli della Città vecchia, risalivo per i torrenti, scansavo i geometrici campi dei garofani, preferivo le « fasce » di vigna e d'oliveto coi vecchi muri a secco sconnessi, m'inoltravo per le mulattiere sopra i dossi gerbidi, fin su dove cominciano i boschi di pini, poi i castagni, e cosi ero passato dal mare - sempre visto dall'alto, una striscia tra due quinte di verde - alle valli tortuose delle Prealpi liguri. Avevo un paesaggio. Ma per poterlo rappresentare occorreva che esso diventasse secondario rispetto a qualcos'altro: a delle persone, a delle storie. La Resistenza rappresentò la fusione tra paesaggio e persone. Il romanzo che altrimenti mai sarei riuscito a scrivere, è qui”.

E' un concetto che ricorda Pavese. Calvino non lo nasconde. In una recensione dell’agosto 1946 il giovane scrittore identifica come centrale nel mondo poetico di Pavese « la sua esigenza di sentire il paesaggio in chiave di un personaggio» staccandolo da una funzione passiva di mero sfondo. Un concetto che egli farà suo fin dalla prima prova importante, quel piccolo-grande romanzo sulla Resistenza vista con gli occhi di un bambino, che lo imporrà all'attenzione dei critici e del pubblico.

Quella di Calvino è una Liguria divisa in due, quasi lacerata: da un lato una costa luminosa ma senza anima, dall'altro un entroterra, aspro e povero, ma ricco di senso. Una terra descritta negli articoli che lo scrittore, giovanissimo, invia al “Politecnico” di Vittorini fra la fine del 1945 e il 1946. Una Liguria “magra e ossuta”, dignitosa nella sua povertà, lontanissima dall'immagine sfavillante di luci della costa, abitata da uomini duri e scontrosi, «stundai» secondo la parlata ligure, proprietari e schiavi » della poca terra disponibile, condannati a una fatica senza redenzione possibile:

“In nessun popolo l’individualismo è spinto alle estreme conseguenze come tra i liguri. La proprietà è frazionatissima e spesso l’azienda è costituita di poche fasce e di un sol uomo che ne è allo stesso tempo proprietario e schiavo. Dovrà zappare la terra secca e dura, ingrassarla di concimi costosi, far scorrere tra i solchi i pochi metri cubi d’acqua che gli spetteranno alla settimana, rifare i muri delle fasce quando le piogge minacceranno di fargliele franare giù per la valle. Egli pensa che il suo grande nemico, dopo la siccità e gli insetti, sia il governo. Ma forse il suo più grande nemico è in lui stesso, nella sua solitudine”.

Una Liguria dell'entroterra fatta di pietra a cui corrisponde una umanità pietrosa:

« In certi paesi sembra non ci siano che pietre. Pietre nei selciati delle mulattiere, case fatte di pietre senza intonaco, muri a secco nelle fasce, la terra dei campi piena di pietre. Anche i vecchi, rimasti nei paesi, sembra siano di pietra. Forse per questo sono rimasti ».

Siamo in presenza di un Calvino giovanissimo, alle prese con le sue prime prove serie di scrittura. Nelle opere successive lo stile evolverà. Il paesaggio sfumerà progressivamente assumendo sempre più tonalità magiche e allusive. Il confine fra le due Ligurie diventerà metafora e simbolo esistenziale. Ma è da questa incerta linea dei monti che sfuma nell'azzurro, da questo sentirsi e viversi come uomo di frontiera che quarant'anni più tardi ripartirà Francesco Biamonti.

27 dicembre 2018

POESIA POP e POPOLARE a MARINEO




SABATO 29 DICEMBRE 2018
 alle ore 20
AL CASTELLO DI MARINEO
si chiude l'anno in 
POESIA

CONTRO LA CULTURA DOMINANTE



Il mio amico Marco Ninci, già docente di filosofia antica alla Normale di Pisa, stamattina sul suo diario fb ha scritto:

Parlare di cultura significa sempre parlare contro la cultura ufficiale e chi la rappresenta.

Forse è un modo più elegante di dire quanto avevano già scritto Karl Marx e Antonio Gramsci:

Le idee dominanti sono le idee delle classi dominanti. 

B. BRECHT, Dell'innaffiare il giardino



Foto di Gigliola Siragusa




Oh, bello innaffiare il giardino, per far coraggio al verde!
Dar acqua agli alberi assetati! Dai più che basti e
non dimenticare i cespugli e siepi, perfino
quelli che non dàn frutto, quelli esausti
e avari. E non perdermi di vista
in mezzo ai fiori, le male erbe, che hanno
sete anche loro. Non bagnare solo
il prato fresco o solo quello arido:
anche la terra nuda tu rinfrescala.

Da B. Brecht, Poesie e canzoni, trad. Ruth Leiser e Franco Fortini, Einaudi 1967

26 dicembre 2018

PER NON SCOMPARIRE DOBBIAMO FARCI GINESTRE...



Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco

Leopardi 

 La foto dell' Etna stamattina mi ha fatto ripensare ad una delle ultime poesie di Giacomo Leopardi. Rileggiamo la sua "Ginestra" e cerchiamo di coglierne il vero significato: Se non vogliamo scomparire, dobbiamo riuscire a diventare più umili e solidali. (fv)

M. BELPOLITI, La vera storia del presepio



La vera storia del presepio

 
Mentre sindaci, dirigenti scolastici, deputati e senatori della ex Lega Nord, ora Lega di Salvini, e altri personaggi consimili, tutti membri di diritto dell’eterno Carnevale italiano, si agitano per riaffermare la presenza del Presepio nelle scuole e nei luoghi pubblici, dal momento che in virtù del “politicamente corretto” vi è stato estromesso, esce un bel libro dove la storia del presepio è raccontata per filo e per segno. Che cos’è esattamente il presepio? Come nasce? Perché ci sono quei personaggi? Che senso ha farlo oggi? Sono tante le domande che s’affollano in questo libro del classicista Maurizio Bettini, Il presepio (Einaudi, pp. 189, € 19). Il suo non è solo un libro di studio, ma anche un libro di memoria. Meglio: un’autobiografia in forma di studio e di racconto. Tutto comincia con una dichiarazione ad apertura di volume: “Non saprei dire da quanti anni ho smesso di fare il presepio. Venti, trenta, anzi molto di più”. Perché interrogarsi oggi su questo “oggetto” tanto da scrivere un libro dotto e complesso? La risposta non viene subito. Prima bisognerà intraprendere un cammino, per quanto una definizione l’autore la dà subito: il presepio è “una finzione fragile, per questo incantevole”. Seguiamo Bettini. E tenere bene a mente che la parola che l’autore usa, sin dall’esergo infantile, è “presepio” e non “presepe”.
 
La fonte principale sono naturalmente i Vangeli. Si comincia con Matteo (Matteo 2: 1 sgg). La storia è quella della nascita di Gesù a Betlemme al tempo d’Erode. Ci sono i Magi che vengono dall’Oriente, che passano a chiedere a Erode, il quale si fa promettere segretamente che, trovato il bambino, torneranno da lui a riferirgli. I Magi, il cui numero non è definito, seguono la stella, trovano il luogo in cui è deposto il bambinello ma, avvertiti in sogno, fanno ritorno al loro paese per altra strada senza parlare con Erode. Una storia che abbiamo letto molte volte. Bettini ci fa notare che nel passo non ci sono mangiatoie, pecore o pastori. Da dove spuntano fuori?

Il Vangelo di Luca (Luca 2: 6 sgg) è il vero testo che ha favorito la nascita del presepio, anche se non subito. Lì c’è la mangiatoia, poi i pastori, l’angelo, Maria, Giuseppe, ma non ancora i Magi. Non c’è neppure la grotta, presente in molte iconografie successive, in quadri e affreschi. A contribuire alla costituzione del presepio è un altro testo, il Protovangelo di Giacomo, non entrato tra i canonici. Vangelo apocrifo, ma molto influente presso le prime comunità cristiane, è stato composto nel II secolo; è il Vangelo dell’infanzia di Gesù, da cui provengono molte storie sul bambino divino. La vicenda del presepio trova lì una serie di dettagli significativi. Il testo ha un andamento narrativo; fa parlare i personaggi, compresa un’ostetrica, che aiuta Maria a partorire. Lì si trovano il bue e l’asino, fondamentali per ogni presepio che si rispetti, e anche i Magi. Di questa versione all’autore del libro interessa la presenza della grotta. Gesù nasce lì, non in una casa come in Matteo.
Questa la partenza. Per diventare un vero presepio deve attraversare un altro terreno occupato dai teologi e dai commentatori delle sacre Scritture. Il primo che ci interessa è Origene, anche se ci sono altri prima, compresi eretici come Celso. Origene dà forma canonica al tutto: Betlemme, la grotta, le fasce, la mangiatoia. Il punto su cui si concentra Bettini da antichista, è il parallelo tra Gesù e le figure mitiche che l’hanno preceduto: le storie delle nascite dei bambini divini. In particolare Adone, che sembrerebbe fungere da modello per la nascita dello stesso Salvatore. Inutile dire ci sono innumerevoli paralleli e anche molti dettagli simili tra tutte queste storie, compresa la grotta in Arcadia sul monte Cillene in cui è posto Adone. E poi c’è la storia della nascita di Dioniso stesso.
I commentatori cristiani hanno sovrapposto le tradizioni pagane a quelle del nuovo Dio e fatto slittare i significati dalla tradizione passata al nuovo evento mitico narrato dai Vangeli, e commentato dagli esegeti. L’autore si concentra sul termine “mangiatoia” per via di questa sovrapposizione di storie: líknon è l’oggetto greco che corrisponde al nostro “mangiatoia”; i Romani lo chiamano vannus, ed è il cesto utilizzato per vagliare il grano. Il viaggio che Bettini ci fa fare tra le parole e le cose è affascinante; ci mostra la parentela tra i miti greci, e poi romani, e il mito cristiano, tra le nascite divine e quella di Gesù a Betlemme.

Luca indica la mangiatoia come un “segno” dato ai pastori per riconoscere il Salvatore, cosa non indifferente, perché lo scambio dei bambini è un topos sempre presente nelle storie mitiche, come racconta la proto-saga di Harry Potter, Animali fantastici, ora nelle sale cinematografiche. Conclusione di questo primo tragitto: il mondo antico è ricco di racconti in cui c’è un bambino nato in una grotta in circostanze eccezionali, deposto non in una culla, bensì in un contenitore differente. Si pensi alla vicenda di Mosè per restare alla tradizione ebraico-cristiana.
Gli animali rivestono qui un ruolo non secondario: Animali soccorrevoli s’intitola il secondo capitolo del libro. A partire da Gilgamesh sino ad arrivare a Romolo e Remo, e quindi Gesù, sono gli animali a soccorrere il fanciullo divino, il predestinato a grandi cose; una tradizione che nel mondo antico ha conosciuto una grande fortuna. L’eroe bambino è rifiutato dalla cultura e salvato dalla natura, scrive Bettini. Come entrano nella storia della nascita di Gesù l’asino e il bue? Attraverso Virgilio. Mi si perdonerà se qui sarò breve, perché Bettini, che è lettore ed esegeta acutissimo dei testi, non fa mai salti in avanti: procede calmo e sicuro, e vaglia pazientemente tutte le fonti che incontra.

Siamo nella quarta egloga delle Bucoliche con un vaticinio a lungo commentato, che ha portato Virgilio a entrare nel poema dantesco quale guida e mentore. Diamo per scontato anche il passo profetico redatto dal poeta latino; e qui non posso che rimandare alle pagine del libro, così come per la storia di Costantino. In breve: Virgilio sembra anticipare la venuta del Bambino divino, di Gesù, o almeno così può essere interpretato il passo cui si fa riferimento nel libro. Tutta l’antichità cristiana l’ha detto e ridetto, compreso il vaticinio cumano, quello della Sibilla, presente in pitture e intarsi marmorei.
Arriviamo così a Prudenzio (348-402). In una raccolta intitolata Odi quotidiane parla del Natale di Gesù e degli animali (“i bruti animali”). Arrivano i quadrupedi alla mangiatoia. Bettini ci mostra almeno un paio di sarcofagi cristiani con natività dove sono raffigurati i Magi. Per riassumere e per non perderci in questo che è solo un condensato sommario delle pagine di Presepio, diciamo che le due tradizioni narrative della nascita del Salvatore (Luca e Matteo) confluiscono in un unico racconto visivo. Il passaggio è importante: è un racconto visivo. Il presepio, non bisogna mai dimenticarlo, è prima di tutto un fatto visivo. Possiamo aggiungere: una piccola scultura fatta di tante piccole sculture. Per usare un termine contemporaneo, che non so quanto adeguato, e che Bettini certo non usa, il presepio è un evento performativo. Non siamo al “dire è fare” di J. L. Austin, ma neppure troppo lontani.
Sono le immagini delle opere d’arte (affreschi, bassorilievi, pitture su tavola) che rendono visibile il presepio: dalle parole all’opera. Siamo in quella che Bettini chiama la “memoria culturale”; il suo libro s’iscrive all’interno di quest’area. Tuttavia senza le parole non ci sarebbero queste immagini. Non le immagini in generale, ma proprio queste. Da qui comincia il presepio propriamente detto: con bambino nella mangiatoia, il bue e l’asino, i pastori, i Magi, con Maria e a volte anche Giuseppe, ma non sempre. I due animali costituiscono un punto importante, come si vedrà poi con San Francesco. Le fonti sono affreschi: nelle catacombe romane e a Verona nell’Ipogeo di Santa Maria in Stelle.



Bettini, da quello che si apprende leggendo il libro, ci ha messo anni per mettere insieme le cose che racconta e spiega. Non tanto, e non solo, le informazioni; i pezzi c’erano già, per quanto separati. Quello che più conta in questo volume riccamente illustrato sono le motivazioni di fondo, cioè le domande più o meno esplicite che Bettini fa al suo presepio anche se non lo allestisce più da anni; l’ha fatto nel passato e questo, come si vedrà, è quello che conta.

C’è un altro passaggio importante che chi ha fatto il Liceo classico darà per scontato, ma che chi proviene dallo Scientifico o dagli Istituti Tecnici e dall’Artistico non è detto colga al volo. Si tratta del passaggio dall’allegoria al racconto. Oggi anche i ragazzini delle medie inferiori sanno cos’è l’allegoria. Senza allegoria non si capisce la letteratura medioevale, ma soprattutto le Sacre Scritture. La grande tradizione allegorica sta alle nostre spalle, eppure, in qualche misura, anche davanti a noi.
La mangiatoia non è mai esistita, dice Bettini, eppure è diventata importante grazie al suo contenuto allegorico; di più: grazie alle allegorie dei commentatori. Tutto un fatto di parole: “dire è fare”; da “mangiatoia” si arriva a “greppia”, poi a “recinto”; “presepio” significa esattamente “recinto”, ciò che si “chiude davanti”, come una “siepe”, e questo è lo spazio dove stanno gli animali. E l’allegoria? Origene è lui che porta dentro la storia del presepio gli animali. Cita Isaia 1, 2: “il bue riconosce il suo proprietario e l’asino la mangiatoia del suo padrone”. Un passaggio che Origene lega strettamente a Gesù il Salvatore. Il gioco è fatto: uso allegorico e esegesi del passo. I due animali entrano in scena.
La parola “presepio” c’è già nella traduzione di Isaia. Sant’Ambrogio ne è il mediatore. Ciascuno porta il suo pezzetto e tutti insieme creano il presepio. Tralascio alcune cose molto interessanti, che riguardano la presenza o l’assenza di Maria, dei pastori e dei Magi. Gregorio di Nissa spiega la presenza di tutti o quasi i personaggi in questa scenografia natalizia della natività.

Bettini dice una cosa molto importante, che riguarda un’espressione oggi in uso, seppure inflazionata, e quindi in progressivo deprezzamento: storytelling. Dice che dai testi si arriva al racconto. Forse era già implicito, o almeno lo è per chi ha considerato i Vangeli dei racconti. Non è sempre stato così. Aggiunge anche un’altra osservazione che aiuta ad afferrare come funzionano le fake news: i testi falsi o falsificati nella storia della cultura sono quelli che esercitano la maggior influenza sulla memoria e sulle tradizioni. Questo è il succo della storia del presepio: una tradizione inventata in un lasso di tempo lungo, seguendo linee di sviluppo per nulla scontate: caso o necessità? Entrambi, direi.
C’è ancora un altro partecipante al rito del presepio, partecipante al plurale: i Re Magi. Arrivano il 5 gennaio, o almeno così dovrebbe essere, in ogni presepio che si rispetti. Qualcuno comincia a metterli prima, e poi li avvicina, progressivamente alla capanna, o grotta, il giorno fissato: Epifania. Qui ci sarebbe un altro punto interessante da sviluppare: la Befana. Non sto però qui a farlo. Basta ricordare che si tratta di tradizioni che si sovrappongono o divergono, come per la storia di Babbo Natale. La cultura è sempre ibridazione.

C’è una tradizione che sostiene che l’arrivo dei Magi sia legato alla identità taumaturgica di Gesù; i miracoli sono il risultato di una investitura, o riconoscimento, che avviene grazie a loro. Come nelle teorie del complotto – il paragone non appaia irriguardoso – si cerca di far collimare cose diverse, di fonderle insieme; qui è la nascita e le profezie bibliche; è il caso di Isaia citato. In Matteo il ruolo dei Magi è decisivo e non è solo legato a una questione astrologica come qualche volta è stato detto.
C’è un’opera esemplare di tutto questo: i Re Magi che compaiono nel mosaico ravennate di Sant’Apollinare Nuovo, realizzati nel VI secolo. Una meraviglia: mantelli, doni, postura, volti, berretto frigio: tutto questo vale da solo il viaggio nella città romagnola, antica capitale. Ora, come mai i Magi sono diventati tre, mentre in Matteo erano plurali, di numero non definito? E poi perché sono dei re? Rimando alle pagine di Bettini, anche se non esauriscono una storia che da sola meriterebbe un libro a sé. Chissà che l’autore di questo libro non la scriva prima o poi.

C’è un testo di un cristiano alessandrino vissuto tra il V e il VI secolo che risalirebbe a un monaco della corte merovingia, una storia avventurosa essa stessa: Excerpta Latina barbari; qui vengono finalmente dati i tre nomi ai Magi: Bithisarea, Melchior, Gathaspa. E il Re Mago nero? E perché in alcuni dipinti figurano un vecchio, un giovanotto e un nero? Risposta di Bettini: la macchina narrativa produce dettagli e notazioni che arricchiscono man mano il racconto. Chi ha letto Propp lo sa. Meraviglia del narrare! Quello che fa specie all’autore di questo volume è che all’origine di tutto ci sia la “lambiccata opera dei teologi”, dal che si capisce che Bettini, pur avendo studiato dai gesuiti, come racconta, non ami le lambiccature. E qui sta probabilmente il cuore del suo libro.
Prima di spiegarlo bisogna andare a Greppio, al presepio vivente di Francesco. Il santo crea il presepio come dal racconto di Tommaso da Celano. La faccio breve, per quanto esista sulla storia un’ampia letteratura da cui, pur conoscendola, Bettini prescinde. Il centro di questo imprescindibile episodio, da cui verrebbe il nostro presepio attuale, c’è una assenza. Mancano il Bambino, Giuseppe, Maria, i pastori e agli angeli. A Francesco interessano il bue e l’asino in carne e ossa da mettere vicino alla mangiatoia. Questo è il focus del praesepium: il fieno contenuto. Possibile? Sì, il santo mette al centro dell’attenzione un oggetto. Non vuole raccontare l’intera vicenda della Nascita, scrive l’autore, come si è creata nella tradizione cristiana sin lì. Si prefigge di mostrare, di far vedere con gli occhi del corpo i disagi che Gesù ha dovuto affrontare sin dalla sua nascita: mangiatoia, fieno, asino e bue a riscaldarlo. Il resto non gli importa.
Qui è il centro della ricostruzione di Bettini: il praesepium è il fulcro della storia. La “cosa”, non la scena, viene da dire. Gli interessa la traccia linguistica – líkna – che ha inseguito in tutto questo lungo percorso come un detective.

A questo punto, siamo al capitolo terzo del libro, intitolato Un’antropologia del presepio, Bettini capisce di non aver “capito” il presepio. Il suo flusso di memoria culturale sì, ma non “la cosa”. Che cos’è “la cosa”? Il presepio, scrive, è un artefatto, posto al centro di un rituale, culturalmente significativo. Tuttavia ha perso il suo significato originale, quello su cui lavoravano i teologi e gli esegeti. Necessita qualcosa che Bettini non ha più – dice di averlo avuto, ma che non l’ha più da decenni.
Qui il libro cambia tono e ritmo. L’autore narra di aver visitato tanti presepi alla ricerca dell’essenza del presepio stesso – questa espressione è mia. A Pisa, a Firenze, a Parigi, alle Cinque Terre, a Bressanone. Racconta di presepi magnifici, anche se le sue descrizioni sono sempre un po’ malinconiche. Rientra a casa e conclude: il vero presepio è quello che si fa per conto proprio, nella propria abitazione.
Queste considerazioni gli danno l’occasione di dire cosa è il presepio. Siamo nel campo dei significati, non delle origini e neppure delle spiegazioni. Il presepio è il ciclo del tempo; ha una natura fiabesca; implica degli spettatori che non sono dei creatori. Bettini è innamorato dei personaggi del presepio, quelli introdotti successivamente. Sono pagine molto belle, sognanti. Lo studioso ha lasciato qui il passo allo scrittore, al sognatore del presepio.

Il presepio contiene più temporalità: il tempo narrativo, il tempo mitico e il nostro tempo. In realtà questi tempi si fondono insieme e solo lo studioso, l’esegeta della “cosa” presepio riesce a vederli e distinguerli. Tutto sta nella temporalità che si vive. Quella sacra è stata fondamentale per secoli. E oggi? Per arrivare alla conclusione, che in realtà è lì, a pochi passi da lui, Bettini deve rivestire i panni dello studioso e raccontarci un’altra storia, quella dei Sigillaria, le feste del dio Saturno a Roma. Non starò a raccontare anche questo passaggio. Rimando al libro e vi assicuro che ne vale la pena. C’è ancora un altro passaggio, quello che riguarda i Lari, i protettori della casa. Sono storie di statuine, di piccole sculture di terracotta, presenze del passato. C’entrano con Gesù, spiega l’autore. Sono presenze dell’assente, gande tema religioso, sia pagano che cristiano.

Corro alla fine, là dove c’è la risposta ai tanti perché di questo viaggio nella storia e nell’antropologia del presepio. De te fabula narratur. Perché mi occupo del presepio?, si chiede l’autore. Perché ho un patto di fedeltà nei confronti di me stesso. Non quello con la religione in cui sono stato allevato, il Cristianesimo – Bettini ha scritto vari libri per manifestare la “superiorità” del politeismo sul monoteismo. La fedeltà a se stessi è quella all’infanzia, alla propria infanzia. Il presepio, non è solo l’infanzia della Divinità, che ha dominato la nostra storia occidentale per due millenni, ma proprio l’infanzia di Maurizio Bettini, e il presepio è il ritorno al proprio Io bambino. Riguarda quel tempo, che non è passato, ma continua ancora, ogni volta che si fa il presepio. Un tempo mitico, si dovrebbe dire, perché anche questa temporalità fuori dal tempo, per quanto diversamente dal passato, oggi la pratichiamo ancora, in tutto ciò che è sospensione del tempo feriale dominante, nel tempo della festa, nelle mitologie del contemporaneo e ancora, per nostra fortuna, come ci fa capire Bettini, nel presepio. Non sarà molto, tuttavia non è neppure poco.

Testo ripreso da:  https://www.doppiozero.com/

JE SUIS L'AUTRE. Il primitivismo nella scultura del 900



Je suis l’autre. Giacometti, Picasso e gli altri. Il Primitivismo nella scultura del Novecento

La mostra Je suis l’autre. Giacometti, Picasso e gli altri. Il Primitivismo nella scultura del Novecento, allestita nelle Grandi Aule delle Terme di Diocleziano, raccoglie ottanta opere, tra sculture di grandi maestri del Novecento e capolavori di arte etnica.

Un’arte rivelatrice di tensioni e bisogni profondi dell’individuo, in grado di entrare senza paura nel mondo del mito e nella sfera dell’utopia, anche quella politica, e di affermare che la fedeltà all’apparenza non poteva essere più considerata a priori la misura dell’arte.
La Mostra resterà aperta fino al 20 gennaio 2019. Proponiamo una pagina dell'introduzione al catalogo (Electa edizioni).



Francesco Paolo Campione

Introduzione

A partire dalla metà dell’Ottocento, e poi ininterrottamente per oltre un secolo – complici prima di tutto le politiche coloniali – l’irruzione sulla scena mondiale delle culture non-occidentali produsse nel campo delle arti visive una vera e propria rivoluzione: si estese l’universo delle fonti per gli artisti – generi, forme, decorazioni – ed emerse e crebbe il desiderio di oltrepassare visioni e schemi che il realismo europeo aveva ereditato da almeno quattro secoli di riflessione estetica.

Ai primi del Novecento, nell’ambiente sempre più cosmopolita delle grandi città dell’Europa centrale, un vero e proprio “incontro fatale” si trasformò in un duraturo innamoramento che, nonostante l’egemonia del modello sancito dal pensiero occidentale, e lungi dal creare una frattura creativa, generò una feconda apertura culturale e la prima vera convergenza del mondo nell’arte.

Sollecitata dalla formidabile pluralità delle nuove fonti, la grammatica degli artisti si poté adattare a un’infinità di linguaggi che sorgevano da riflessioni e sperimentazioni avviate a liberarsi definitivamente dai condizionamenti ideologici e formali del passato. Determinanti furono, in tal senso, le arti orientali e le arti etniche e popolari, le quali – in assenza di definizioni consolidate – furono variamente definite come “arcaiche”, “esotiche”, “coloniali”, “naturali”, “negre”, “selvagge”, “primordiali”, “tribali” e “primitive”, riprendendo e spesso risemantizzando, senza una vera uniformità, concetti che appartenevano alla storia della cultura occidentale.

Considerate nel loro insieme, tali arti configurarono un vasto “armamentario primitivista” che ben presto comprese anche le pitture rupestri dei cacciatori paleolitici, le statuette cicladiche, le sculture medievali, le icone e – non ultime – l’arte infantile e quella che col tempo prenderà il nome di art brut. Si trattava, peraltro, della faccia di una medaglia su cui erano incise, dall’altra parte, le emozioni provocate dal pensiero di paesi lontani e gli apporti figurativi che erano entrati a far parte delle espressioni artistiche e letterarie della cultura occidentale.

(...)

Guardando le cose da un’ottica strumentale, l’“armamentario primitivista”, oltre che un formidabile corredo d’ispirazioni di ogni genere, fornì le chiavi per aprire le porte di una poetica che oltrepassava decisamente i confini della realtà e della natura. Per questo molti artisti divennero assidui frequentatori dei musei di etnologia e appassionati collezionisti di arte etnica, stringendo durature relazioni di collaborazione con i curatori e i direttori delle maggiori raccolte europee e americane e con una sempre più estesa rete di mercanti e di conoscitori.
(...)
In tal senso l’“armamentario primitivista” operò innanzitutto come un “catalizzatore” che accentrò, accelerò e dinamizzò un processo di reazione artistica, senza però esserne modificato nella sostanza.

Fra l’artista e le opere d’arte che trascendevano la tradizione dell’Occidente, offrendo un emotivo e poderoso strumento di sintesi e di astrazione, fu coltivato un dialogo, in gran parte segreto, dal quale doveva promanare una speciale energia e una bellezza particolare, di cui ancora oggi rimane traccia, fra l’altro, nelle foto in bianco e nero delle case e degli atelier di molti pittori e scultori del Novecento.

L’IDEOLOGIA DEL LIBERO MERCATO







Un vecchio articolo di una giornalista colta, curiosa e problematica - una “utopista concreta” fu definita - , purtroppo scomparsa anzitempo nel 2015. Mi pare che il testo nulla abbia perso del suo interesse, anzi... (S.L.L.)


CONTRO L'IDEOLOGIA DEL LIBERO MERCATO

Giuseppina Ciuffreda


Un paradosso contemporaneo è la convinzione di poter controllare la natura ma non i mercati. Si manipola un organismo che opera magistralmente da tre miliardi e mezzo di anni, ma si ritiene impossibile cambiare un tipo di economia creata dall’uomo stesso. L’economia che fa girare il mondo è infatti un’invenzione recente, coeva della Rivoluzione industriale. I mercati sono sempre esistiti ma non l’economia del laissez-faire, del lavoro salariato e dell’uso insostenibile della natura. Nella Grande trasformazione Polanyi definisce un atto di fede il mercato che si autoregola perché il lasciar fare da solo non approderebbe a nulla. Per affermarsi deve essere imposto, e lo fa con l’aiuto dello Stato. Valutazione condivisa da Fernand Braudel in Civiltà materiale, economia e capitalismo, XV-XVIII secolo: i capitalisti non hanno mai usato liberi mercati ma un regime di monopolio, appoggiati dagli Stati contro il resto della popolazione.
I padri fondatori dell’economia di mercato erano convinti che seguendo le sue leggi “naturali” ci sarebbe stato benessere per tutti. Furono molto sorpresi quando si resero conto dei poveri. La distruzione della società rurale inglese aveva trasformato dignitosi contadini privati del reddito agricolo e del loro ambiente culturale in «una folla di mendicanti e di ladri» (Polanyi). Nonostante le misure sempre più dure adottate per eliminare la protezione sociale e della natura, ostacoli al libero mercato e alla sua necessaria affermazione su scala mondiale, i poveri aumentavano. Alla fine fu chiaro che la crescita della ricchezza della società e delle classi al potere portava con sé la miseria di ampie fasce di popolazione e l’era vittoriana vide una forte reazione di autodifesa della società: legislazioni sociali, filantropi, pionieri ambientalisti, socialisti, movimento operaio…
L’economia del libero mercato è dunque una creazione umana datata, che in poco più di due secoli ha portato benessere materiale a parti consistenti di popolazione mondiale producendo allo stesso tempo catastrofi ambientali e sociali planetari. Per Braudel, Polanyi e Marcel Mauss, teorico dell’economia del dono, il suo difetto di fondo è l’aver messo al centro della vita sociale il guadagno, ritenendo caratteristica principale dell’agire umano la vocazione a perseguire il proprio interesse materiale. Ma l’economia non è mai stata al centro delle culture pre-industriali. Relazioni, riti e simboli sono sempre stati al primo posto, accanto alle attività tese a soddisfare bisogni di base.
L’esempio più citato, anche da Mauss e Polanyi, è lo studio di Bronislaw Malinowski Argonauti del Pacifico Occidentale, pubblicato nel 1922 dopo due anni di permanenza nell’arcipelago delle Trobriand. Osservando le relazioni commerciali intertribali degli indigeni, Malinowski distinse due tipi di commercio: per i bisogni materiali delle comunità e il Kula Ring, un commercio cerimoniale ben più importante. Le spedizioni rituali, con radici nel mito, seguivano un circuito chiuso tra le isole per scambiare lunghe collane di conchiglia rossa e braccialetti di conchiglia bianca, indossati soltanto per occasioni eccezionali. Un possesso a tempo, poi gli ornamenti tornavano a circolare. L’obiettivo era la coesione sociale e la creazione di relazioni permanenti tra donatori.

“il manifesto”, 26 agosto 2011

LIBRI DA LEGGERE E RILEGGERE








Ogni lettore lo sa: ci sono libri e libri. Alcuni vanno di fretta, si leggono, non lasciano il segno e si dimenticano velocemente. Altri hanno un respiro lento e profondo, lasciano tracce indelebili, suscitano emozioni, curiosità, associazioni e sensazioni che non sbiadiscono. Diventano insomma una delle tante lenti di ingrandimento che utilizziamo per decifrare la realtà e quello che ci accade. Come madeleine appena sfornate (chi mai si può citare se si parla di ricordi?), si installano nei gangli della memoria e lì rimangono latenti, pronti a raccontare la loro storia in modo nuovo (perché noi cambiamo continuamente) se vogliamo riprenderli in mano. Ognuno di noi ne ha una lista. Sono quelli che chiamo i libri da comodino. Devono essere a portata di mano. Magari non li tocco per anni ma sapere che sono lì mi tranquillizza. Ne cito uno solo: i Saggi di Michel de Montaigne. Non posso entrare nel merito del contenuto perché è come consigliare di leggere La Divina Commedia o I Promessi Sposi, è ovvio che parliamo di capolavori. Baderò alla forma invece, perché diventa sostanza. I Saggi sono divisi in brevissimi capitoletti, se ne può leggere uno a sera (in 5/10 minuti), tra un libro e l’altro o durante un momento faticoso del libro in corso. Come una doccia calda, un cioccolatino, un pezzo musicale, un messaggio che aspettavate. Provate. Qui sotto, riporto l’incipit della sua dedica al lettore, perché allora (20 anni fa, credo) è stata la scintilla che mi ha invogliato a comprarli e leggerli.
Questo, lettore, è un libro sincero. Ti avverte fin dall’inizio che non mi sono proposto con esso alcun fine, se non domestico e privato. Non ho tenuto in alcuna considerazione né il tuo vantaggio né la mia gloria. Le mie forze non sono sufficienti per un tale proposito. L’ho dedicato alla privata utilità dei miei parenti e amici affinché dopo avermi perduto (come toccherà loro ben presto) possano ritrovarvi alcuni tratti delle mie qualità e dei miei umori  e con questo mezzo nutrano più intera e viva la conoscenza che hanno avuto di me.
Se poi volete parlarmi dei libri che tenete sul vostro di comodino, io sono qui.

25 dicembre 2018

PESSIMISMO DELL'INTELLIGENZA, OTTIMISMO DELLA VOLONTA'




Bisogna creare gente sobria, paziente, che non disperi dinanzi ai peggiori errori e non si esalti a ogni sciocchezza. Pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà. 

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere

24 dicembre 2018

David Maria Turoldo, L'intelligenza va scomparendo







Va scomparendo

Va scomparendo perfino
l’intelligenza dei fanciulli,
e gli adulti non hanno più memoria:

anche la lingua va morendo,
né ci sarà la Neolingua a salvarci:
ci saranno solo dei segni
e dei grugniti…

se appena qualcuno mostrerà
di comprendere, si dirà:
“è intelligente”!

E continueremo
ad ingannarci:
illusi di aver capito.

*
David Maria Turoldo

Da “O sensi miei…” Poesie 1948-1988