31 maggio 2017

LE COSE PIU' BELLE CHE LA VITA PUO' DARCI

ph. di Rui Menegaz


Da tempo la vita mi ha insegnato
che musica e poesia
sono al mondo le cose più belle
che la vita può darci.
Oltre all’amore, ovviamente. 

J. Seifert

L' ITALIA E' UNA REPUBBLICA FONDATA SULL' INGANNO


Pensavo che ce ne fossimo liberati lo scorso 4 dicembre, ma evidentemente mi sono sbagliato. Il personaggio ha davvero la pelle dura e , visto il deserto che ha attorno a se' e la sua giovinezza, dovremo ancora a lungo fare i conti con lui... fv

CLAUDIO MAGRIS sulla fine del mondo antico.

Claudio Magris


Quelle fiumane di gente sventurata che chiede solo di poter vivere potrebbero diventare così grandi da rendere oggettivamente difficile dar loro la possibilità di vivere. Forse quelle migrazioni sono l’avanguardia oscura di un grande e non lontano cambiamento simile alla fine del mondo antico, un cambiamento che non riusciamo a immaginare. I nuovi, arroganti e beoti padroni della terra si illudono che il loro dominio, i loro bottoni che spostano a piacere uomini, cose, ricchezza e povertà, sia destinato a durare in eterno. Esso potrebbe crollare come è crollata Babilonia e i migranti di oggi o meglio i loro prossimi discendenti si aggireranno fra le rovine della ricchezza tracotante e volatilizzata come un tempo i barbari fra le colonne e i templi abbandonati.

Claudio Magris
 

C. GINZBURG e P.P. PASOLINI, Per capire il presente



Un fotogramma del documentario di Pasolini "La rabbia"

“Per capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco”

Carlo Ginzburg

IL FUTURO DELLA POESIA IN ITALIA




Riprendo da https://rebstein.wordpress.com/2017/05/21/il-futuro-della-poesia/ il dossier in esclusiva per RebStein
a cura di Pellegrino Ramingo

 IL FUTURO DELLA POESIA IN ITALIA


Ogni giorno, sulle autostrade superaffollate della rete, si affrontano in un duello senza esclusione di colpe BOOKINARI & TWITTAIOLI, alfieri delle due omonime scuole vermicolari che, a partire dai primi an(n)i zero, si contendono le umide & rigogliose praterie della poesia italiana. Come ognun sa, non c’è tenzone senza testimoni, giudici & verdetto, di conseguenza il destino delle patrie lettere si decide sotto gli occhi vigili & indaga-tori di una commissione super partes, formata da studiosi di preclara fame, tutti redat-tori & firme eccellenti della N.O.I.A. (New Osteoporetical International Aesthetics), la prestigiosa Rivista, unica al mondo, capace di offrire dalle sue pagine telematiche non solo un vastissimo assortimento di protesi, dentiere, cateteri & pannoloni, ma soprattutto, ed è quello che più ci sta a cuore, di proporre a scadenze quasi quotidiane (o più volte nell’arco della stessa giornata: quando sono in stato di grazie succede anche questo!), variopinte & innovative pœtiche officinali in grado di guarire ogni possibile disturbo creativo & di cambiare per sempre, sempre in meglio, il corso e-vacuatorio delle rime. Ci corre l’obbligo, comunque, & lo riportiamo per dovere di cronaca, riferire a tale proposito la posizione di alcuni critichi minoritari, palesemente invidiosi & in malafede (tra loro, in prima fila, linotipisti, automobilisti & gli immancabili gommmisti) che dicono trattarsi della solita risciacquatura di piatti & della ennesima rimasticatura di cibi avariati: nient’altro che fuffa lassativa, in ultima analisi.
N.O.I.A.

BOOKINARI

TWITTAIOLI

Lo scontro impazza & a deciderlo, molto probabilmente, sarà il posizionamento definitivo dei pœti onesti & civili, insieme alla pletora di cloni iscritti alle loro liste di collocamento. Partiti quatti quatti, quasi in sordina & a fari spenti, come tanti mogòl in sedicesimo, in libera uscita dal tinello, i civili & onesti hanno via via finito per ingrossare a dismisura le fila dei BOOKINARI & dei TWITTAIOLI, distribuendosi a caso nell’uno e nell’altro schieramento, anche a rischio di fare la figura dei buffoni di corte, dei lecca-lecca dell’h-demia che manco se li fila di striscio (“l’importante è esserci & parlare comunque & ovunque alla gggente”, afferma uno dei loro più autorevoli porta-voce, nonché re-censore principe dei suoi sodali: è ha ben ragione a dirlo & a crederci, viste le masse fluviali che ogni giorno affollano le librerie della pen-insula alla ricerca di o-pere di pœsia, anche in formato supposta, i suoi parti plurimi & pluripremiati & quelli dei suoi amichi in parti-culare).
Ma è il rimescolamento continuo di carte, ad ogni modo, che sta mettendo in seria difficoltà la giura nell’espletamento del suo lavoro: ad ogni accensione del mezzo in proiezione valutatoria, ad ogni aggiornamento di pagina, sempre più frequentemente gli esimi “n.o.i.a.-bili” si ritrovano davanti agli occhi anime in perpetua transumanza, gruppi di BOOKINARI defluiti tra i TWITTAIOLI & nugoli di TWITTAIOLI tra i BOOKINARI & BOOKINARI che sono anche TWITTAIOLI & TWITTAIOLI che sono anche BOOKINARI: tutto uno svolazzo di tuìts e di fèis, di slinguacciate e di esteriorizzazioni seminali che non ci si capisce più un cazzo: non si sa più se chi ci mette la fèis è anche chi esteriorizza, se chi esteriorizza è anche chi ci mette la fèis, se chi ci mette la fèis usa contemporaneamente anche tongue & lips, se chi ci mette tongue & lips si limita solo a quello, costretto in un ruolo ben definito, o è anche, a tempo debito, un possibile esteriorizzatore, se chi esteriorizza ci mette solo la fèis o è anche un lippatore & un tonguista. Un vero bordello!
La lotta è incerta & la faccenda sempre più confusa & ingarbugliata; di sicuro, ormai, c’è solo l’esito finale dello scontro, di cui siamo in grado di darvi conto, quale che sia la fazione che ne uscirà vittoriosa. Non si tratta evidentemente del frutto di un nostro particolare elucubrare, materia nella quale siamo completamente privi anche dei più elementari rudimenti (non solo in quella, per la verità), ma del responso inappellabile del nostro ora-culo domestico nei fatti attinenti il letterativo & dintorni, A. G. Policorte, la nostra anatissima critichessina (nonché raccontessina & pœtessina) di fiducia. Da noi interpellata & dopo averci gentilmente ringraziati per esserci rivolti a lei & non al primo santuario disponibile (“ma chi cazzo siete? & che titoli potete mai vantare voi, zotici & ciabatt(on)i analfabeti delle lettere, maiuscole e minuscole, per rivolgermi la parola & chiedere il mio consulto?”), ci ha rimandati a un suo saggio, di imminente uscita, nel quale, con la modestia che la contraddistingue & che è la sola virtù che ci permette di riconoscere al tatto i veri glandi, traccia un primo sommario bilancio dell’opera creativa da lei fin qui prodotta per la posteriorità. Non ha voluto rivelarci il titolo né l’editore, ma ci ha congedati con una frase che, parafrasando Jon Landau, ha voluto porre in esergo all’opus venturum, seguita da un test(icol)o esemplare, ampiamente esplicativo a suo dire, che, doverosamente, alleghiamo agli atti: “Ho visto il futuro della poesia italiana: il suo nome è BAMBINISMO”.



Cara, cara & dolce la nostra ineguagliabile critichessina (nonché raccontessina & pœtessina), floreale & gioachimita com’altri mai, “di spirito pre-fetico dopata”! Se solo ci avesse lasciato il tempo di replicare, senza sguinzagliare immediatamente i cani per cacciarci, le avremmo fatto notare che, purtroppo per lei e per le sue indubbie capacità divinatorie, deve aver premuto il tasto sbagliato (eh sì, succede talvolta anche ai glandi) nel collegarsi col suo personal pusher visionum: la sua, infatti, non è una pro-fezia ma una pre-fezia: qualcuno, a sua insaputa, sta scrivendo il futuro da decenni, come l’onesto triestino natalizio mai avrebbe osato sperare. E gli riesce davvero bene, visto che ha lasciato, & continua a lasciare, solchi così profondi che si può solo seguirli in silenzio, con devozione, spirito di emulazione & speranza. Leggere per credere, plìs.
so ascoltare gli uccellini sui rami
gli uccellini stanno facendo i loro nidi
quando li videro, gli alberi piansero
non dovete piangere, dissi loro
gli uccellini stanno facendo i loro nidi
e io vorrei tanto accarezzarli

Pellegrino Ramingo

30 maggio 2017

E. MONTALE, Sotto l'azzurro del cielo

Palermo, Mondello ieri


Sotto l'azzurro fitto
del cielo qualche uccello di mare se ne va;
né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto:
«più in là». 

da E. Montale, "Maestrale"

SVILUPPO E GUERRA



Una visione sentimentale della politica internazionale vede nello sviluppo del sud del mondo un antidoto alle guerre e alle migrazioni. In realtà, è proprio il contrario: lo sviluppo, determinando nuovi assetti geopolitici e nuove contraddizioni, è spesso l'anticamera della guerra.Tutta la storia europea degli ultimi tre secoli ne è la dimostrazione. Oggi l'India, dove il rilancio economico del Nord-Est è pensato in funzione anticinese, ne è un buon esempio.
Carlo Pizzati

L’India inaugura il maxi ponte. Prova di forza contro la Cina

Tra le vette più alte del mondo, nell’Himalaya al confine tra Cina e India, sono già arrivate le tempeste dei pre-monsoni. Ma le bufere non sono solo meteorologiche perché stanno addensandosi tensioni tra i due Paesi più popolati al mondo, con più di 1,3 miliardi di abitanti ciascuno.

Così, l’inaugurazione del ponte più lungo dell’India tra l’Assam e lo stato confinante con la Cina, l’Arunachal Pradesh, dovrebbe essere una bella notizia. E difatti il presidente Narendra Modi, nel celebrare tre anni esatti al governo, ha dichiarato ieri che questo ponte è l’inizio di una fase di rilancio economico del Nordest con autostrade, treni, canali, aeroporti e potenziamento dell’Information Technology.

Quel che non ha detto è che si tratta anche di un cambiamento di strategia militare, in un botta e risposta che coinvolge un caccia indiano schiantatosi sui monti dell’Assam, un viaggio del Dalai Lama nel nord dell’India, le offerte misteriose di un «Kissinger cinese» e un flettersi di muscoli in una disputa lunga un secolo, rafforzata dai ritrovati nazionalismi tipici di questa nostra era.

Il ponte Hazarika, lungo 9,15 chilometri attraverserà il fiume sacro Brahmaputra, nell’Assam, consentendo ai carri armati indiani di raggiungere più in fretta le zone di confine, su un’autostrada di duemila chilometri da costruirsi nell’Arunachal Pradesh. Ma provate a pronunciare il nome di questo stato indiano in Cina e vi diranno: «Intendi il Tibet del Sud?». Pechino non riconosce questo stato, e lo reclama come suo. Non solo, si è lamentata pubblicamente con l’India di aver concesso al Dalai Lama di restarci per due settimane ad aprile.

Ponte e autostrada sono un cambiamento di strategia significativo. Dopo la guerra del 1962, in cui per 4 settimane la Cina sconfinò dimostrando il suo potere, l’India ha adottato una strategia difensiva al limite del timoroso: non ha più costruito strade nelle zone di confine perché, in caso d’invasione da nord, per i cinesi sarebbe stato impraticabile conquistare le pianure via terra. Così senza strade e commercio, le regioni si sono impoverite.

Ma Modi ha cambiato gioco, finendo la prima di molte grandi opere rimaste in sospeso, cui seguirà il ponte ferroviario più alto del mondo, 359 metri su un abisso nel Kashmir, e una linea di binari nelle isole Andamane, nel Golfo del Bengala dove transitano navi cargo cinesi.

Non sorprende allora il summit che il ministro degli Interni indiano ha tenuto nel Sikkim, staterello montagnoso con meno di un milione d’abitanti infilato tra Nepal, Bhutan e Cina. A Nathula, posto di frontiera con la Cina, Rajanth Singh ha raccolto i governatori dei sette stati di confine per dire loro, sotto lo sguardo severo dei gurkha: «Alzate il livello di vigilanza. Ci sono state trasgressioni delle forze cinesi in passato. E potrebbero esserci altri faccia a faccia. Dobbiamo sviluppare le zone di confine per arginare l’emigrazione verso sud. Lo faremo finanziando lo sviluppo di villaggi modello, mentre completiamo le reti stradali».

È un cambiamento di rotta totale. Prima la necessità di svuotare le zone cuscinetto con la Cina e renderle impervie a una possibile invasione, ma rendendo anche difficoltoso il pattugliamento. Ora la decisione di popolare il confine di strutture e abitanti, ponti, strade, treni.

L’annuncio arriva proprio quando il cosiddetto «Kissinger cinese», il rispettato diplomatico Dai Bingguo, aveva commentato che se l’India fosse disposta a consegnare territori nel «Tibet del Sud», il governo cinese avrebbe rivisto le sue posizioni in «altre aree», ovvero a nord del Kashmir, in una territorio di 38mila km quadrati che l’India reclama come suo. Scambio improponibile, al momento.

Secondo S.K. Chatterji, analista indiano di sistemi di difesa, la situazione si fa seria: «L’India si deve preparare per una breve, ma intensa guerra nei prossimi anni. Riuscire a spostare le risorse militari da un settore all’altro, a seconda delle minacce, è ora importantissimo per le forze armate indiane. Il ponte sul Brahmaputra aiuterà a muovere rapidamente mezzi e soldati lungo il confine con la Cina».

In quella frontiera, tre giorni fa, è scomparso dai radar un caccia Sukhoi-30 dell’aviazione indiana. Ieri è stato ritrovato proprio sulla linea di confine con la Cina. Nessuna traccia dei due piloti.

La Stampa – 27 maggio 2017

G. BUFALINO SUI LIBRI CAPACI DI SCARDINARE IMPERI.

Gesualdo Bufalino con Leonardo Sciascia e i suoi nipoti, Racalmuto, 1983

Un libro può scardinare un impero, può forzare le porte di ferro d’una coscienza per introdurvi un seme d’amore, di bellezza e di verità.
Gesualdo Bufalino
Pagine disperse per l’inaugurazione di una biblioteca, 15 dicembre 1990


PS: Naturalmente le parole di Bufalino valgono solo per i libri degni di questo nome. Non, certamente, per tutta la carta stampata che sta sommergendo il nostro povero mondo. fv

28 maggio 2017

PAPA FRANCESCO DA' UNA LEZIONE DI DIRITTO COSTITUZIONALE

Il Papa incontra gli operai dell' ILVA di Genova

      
«L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Papa Francesco inizia la sua visita a Genova partendo dall'Ilva, cattedrale laica simbolica della crisi industriale nazionale, e cita la Costituzione Italiana, aggiungendo: «Togliere il lavoro alla gente, sfruttare la gente è anticostituzionale». 
Se non erro, è la prima volta che un Papa citi un articolo della Costituzione del 1948 che, più d'uno, in questi ultimi anni ha cercato di stracciare. Anche per questo mi sembra importante  ricordarlo. fv

      Riprendo dal quotidiano della CEI, L' Avvenire,  il resoconto dell' incontro di Papa Francesco con gli operai di Genova avvenuto la settimana scorsa:

Papa Francesco: «Lavoro per tutti, non reddito per tutti» 

«È la prima volta che vengo a Genova, qui vicino al porto da dove è partito il mio papà. E questo mi fa una grande emozione» così ha esordito papa Francesco, si è poi svolto il dialogo, in 4 domande e 4 risposte, con esponenti del mondo del lavoro. Un imprenditore, una lavoratrice interinale, un sindacalista, un disoccupato.

Il buon imprenditore e lo speculatore
Accolto dagli applausi, il Papa scandisce: «Il lavoro è una priorità umana, e quindi della Chiesa e del Papa». «Non c'è buona economia senza buon imprenditore» afferma. «Il lavoro va fatto bene». E pensare che il lavoratore lavori bene solo perché è pagato è una grande disistima nei suoi confronti. Bisogna lavorare bene per rispetto della propria dignità, e della dignità del lavoro. «Il vero imprenditore conosce i suoi lavoratori, ne condivide le fatiche e le gioie. Se non ha l'esperienza della dignità del lavoro non sarà un buon imprenditore. Quando deve licenziare qualcuno è sempre una scelta dolorosa. Nessun buon imprenditore ama licenziare la sua gente. Chi pensa di rivolvere il problema della sua impresa licenziando gente è un commerciante. Oggi vende la sua gente, domani venderà la dignità propria». E ricorda l'episodio, già citato in altre occasioni, di un imprenditore che lo ha avvicinato piangendo, dopo la Messa in Casa Santa Marta, perché costretto a dichiarare fallimento facendo perdere il lavoro a 60 persone. «Pregava e piangeva». L'imprenditore «non è uno speculatore, che usa e strumentalizza persone per fare profitto». Lo speculatore licenzia, sposta l'azienda, senza problemi. «Con lo speculatore l'economia perde volto e volti. Dietro le decisioni dello speculatore non ci sono persone. Bisogna temere gli speculatori, non gli imprenditori». «Paradossalmente, qualche volta il sistema politico sembra incoraggiare chi specula sul lavoro e non chi crede nel lavoro. Perché crea burocrazia e controlli, così chi non è speculatore rimane svantaggiato e chi lo è riesce a trovare i mezzi per eludere i controlli». il Papa cita l'economista Luigi Einaudi: «Milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge, non soltanto la sete di guadagno».

Il ricatto sociale e la dignità. «Lavoro per tutti, non reddito garantito»
Francesco prende poi spunto dalle parole di una lavoratrice interinale: «Tu hai finito con la parola "riscatto sociale". A me viene in mente "ricatto sociale". Quello che dico adesso è accaduto in Italia un anno fa. C'era povera gente disoccupata. La ragazza che me lo ha raccontato era colta, parlava alcune lingue. Le hanno detto: saranno 10-11 ore al giorno, lei ha detto "Sì, sì". Le hanno detto: si comincia con 800 euro al mese. Lei: "800 soltanto, 11 ore?". L'impiegato dello speculatore le ha detto: signorina, guardi indietro la coda, se non le piace se ne vada. Questo è ricatto». «Un'altra persona mi ha raccontato che ha lavoro, ma da settembre a giugno. Viene licenziato a giugno e ripreso a settembre. E così si gioca, nel lavoro in nero». Dopo queste aggiunte a braccio, Francesco prende in mano il testo scritto: «I luoghi della Chiesa sono i luoghi della vita, dunque anche le piazze e le fabbriche. Molti degli incontri tra Dio e gli uomini sono avvenuti mentre le persone lavoravano: Mosè pascolava il gregge, i primi discepoli erano pescatori. La mancanza di lavoro è molto più del venire meno di una sorgente di reddito per poter vivere. Lavorando noi diventiamo "più" persone, la nostra umanità fiorisce. I giovani diventano adulti solo lavorando». «Il lavoro è amico dell'uomo e l'uomo è amico del lavoro. Gli uomini e le donne si nutrono con il lavoro, con il lavoro sono unti di dignità». Per questo «attorno al lavoro si unisce l'intero patto sociale». Quando non si lavora «la democrazia entra in crisi». E cita l'articolo 1 della Costituzione italiana: «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». «Togliere il lavoro, sfruttare la gente è anticostituzionale». «L'obiettivo vero da raggiungere non è il reddito per tutti, ma il lavoro per tutti. Perché senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti». «Il lavoro di oggi e di domani sarà diverso, forse molto diverso da quello di ieri. Ma dovrà essere lavoro, non pensione. Si va in pensione all'età giusta, è un atto di giustizia. Ma è contro la dignità delle persone mandarle in pensione a 40 anni, dare loro un assegno dello Stato e dire "Arrangiati"». «La scelta è fra il sopravvivere e il vivere».

La meritocrazia è un'ingiustizia
La competitività non è buona impresa, perché mina «quel tessuto di fiducia che è l'anima di ogni organizzazione». «Bisogna dire con forza che questa cultura competitiva tra i lavoratori dentro l'impresa è un errore e quindi va cambiata se vogliamo il bene dell'impresa, dei lavoratori e dell'economia». Un altro errore: la meritocrazia. «Usa una parola bella, il merito, ma sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza perché interpreta i talenti delle persone non come un dono ma come un merito, determinando un sistema di vantaggi e svantaggi cumulativi». In questa cultura, «il povero è considerato un demeritevole e quindi un colpevole». È la vecchia logica degli amici di Giobbe, che volevano convincerlo di essere colpevole della propria sventura. È la logica del fratello maggiore nella parabola del Figliol Prodigo.

No al lavoro domenicale
Una disoccupata. Ci sono quelli che vorrebbero lavorare ma non riescono e quelli che sono «Senza il tempo della festa, il lavoro è schiavismo. Nelle famiglie dei disoccupati non è mai domenica. Per celebrare la festa dobbiamo celebrare il lavoro». Il lavoro è fatica, ma «una società edonista che vuole solo il consumo non capisce il valore del lavoro». «Tutte le idolatrie sono esperienze di puro consumo». «Senza ritrovare una cultura che stima la fatica e il sudore - sottolinea il Papa - continueremo a sognare il consumo di puro piacere». «Il lavoro è il centro di ogni patto sociale».

Da L'AVVENIRE del 27 maggio 2017

SICILIA GIA' VENDUTA!

           Cara Antonella, la povera Melania ignora che la Sicilia è stata venduta da tempo!



DANTE. UN ERETICO IN PARADISO


Collocò i papi all’inferno Separò teologia e politica. Esaltò il libero arbitrio e la coscienza personale. Non a caso Marx lo considera punto di svolta fra due mondi: ultimo uomo del Medoevo e primo dell'età moderna.

Vito Mancuso

Il Dante laico un eretico in Paradiso


Il centro matematico della “Commedia” è una terzina in cui si celebra la libertà in quanto possibilità di libera decisione: «Se così fosse, in voi fora distrutto / libero arbitrio, e non fora giustizia / per ben letizia, e per male aver lutto» (“Purg.” XVI, 70-72). L’intera opera in realtà ruota attorno al concetto di libero arbitrio, come spiega Dante stesso presentando il suo lavoro: «L’uomo, meritando o demeritando nell’esercizio del suo libero arbitrio, è soggetto al giusto premio o alla giusta pena» (“Epistola a Cangrande”,8). È per questo che si dà commedia, cioè movimento, trama, creatività, mentre in sua assenza si avrebbe tragedia, come Edipo destinato a uccidere il padre e a giacere con la madre, oppure farsa, mero caos, assenza totale di struttura.

Uno dei versi più belli è quello con cui Virgilio, accomiatandosi da Dante, gli conferisce la corona e la mitria attestando che ormai egli è re e papa di se stesso: «Per ch’io te sovra te corono e mitrio» ( Purg. XXVII, 142). Appare qui l’altissimo senso della libertà della coscienza personale coltivato da Dante, confermato da quanto scrive al signore di Verona: «Coloro che hanno vigore d’intelletto e di ragione sono dotati di una sorta di divina libertà e non sono rigidamente legati a nessuna consuetudine; e ciò non fa meraviglia, perché non essi sono diretti dalle leggi, ma piuttosto le leggi da loro» ( Epistola a Cangrande, 2). Tale primato della coscienza ha ben poco a che fare con lo stereotipo del medioevo oscurantista e non a caso si ritroverà nell’umanesimo con la Oratio pro hominis dignitate di Pico della Mirandola del 1486, e nella modernità con lo scritto di Kant del 1784 Risposta alla domanda: Che cos’è l’illuminismo?.
Da tale considerazione della libertà discende il primato della morale sostenuto da Dante: «Cessando la Morale Filosofia, l’altre scienze sarebbero celate alcuno tempo, e non sarebbe generazione né vita di felicitade, e indarno sarebbero scritte e per antico trovate» (Convivio, II, 14). Si tratta di una tesi «veramente straordinaria nel medioevo» (Gilson), secondo cui la filosofia si compie come etica e la conoscenza come giustizia. È per questo che in Dante hanno tanto spazio la denuncia e l’invettiva: sono una logica conseguenza dell’aver assunto l’etica quale punto di vista in base a cui guardare il mondo.

Uno sguardo informato dalla giustizia intende giudicare, sente cioè la necessità di distinguere il bene dal male e gli onesti dai truffatori. Dante quindi è un moralista, non però nel senso decaduto della contemporaneità, ma nel senso classico che fa della giustizia la virtù più grande al cui servizio si devono porre la politica, la filosofia e la teologia, perché a questo servono il potere, la conoscenza e la religione: a essere giusti nel proprio intimo e a incrementare il tasso di giustizia nel mondo.

Esattamente per perseguire la giustizia sopra ogni cosa Dante non esita a collocare all’inferno ben cinque papi: Niccolò III, Bonifacio VIII, Clemente V, Celestino V, Anastasio IV, oltre ad altri non nominati e a moltissimi esponenti del clero, collocati soprattutto nel girone degli avari e dei sodomiti.

Il pensiero di Dante sul rapporto della teologia con le altre scienze, in particolare con la filosofia, emerge con chiarezza dal Convivio dove viene ripreso un passo biblico secondo cui «sessanta sono le regine… una è la colomba mia e la perfetta mia», con il seguente commento: «Tutte scienze come regine» e la teologia «colomba perché è sanza macula di lite» ( Convivio II,14; la citazione biblica è Cantico dei cantici 6,8). Ora Dante sapeva bene che la condizione effettiva della teologia non era certo quella di essere priva di liti, visto che la rabies theologorum alimentava scomuniche e roghi.
Egli si riferiva però alla teologia quale avrebbe dovuto essere idealmente: una scienza non a servizio del potere, e perciò ricolma di invidia e di litigiosità, ma a servizio della vita spirituale, e perciò ricolma di pace e di mitezza. La teologia amata da Dante ha il vertice non nella dogmatica, ma nella spiritualità e nella mistica: non a caso Beatrice al culmine del Paradiso lo affida non a un teologo dogmatico come Tommaso d’Aquino, ma a san Bernardo, il teologo della mistica unitiva.

A questo proposito un grande esperto quale Gilson ha scritto che la prospettiva dantesca «non solo non contiene la dottrina tomista della subordinazione delle scienze alla teologia, ma manifesta piuttosto l’intenzione di evitarla », e qui occorre ricordare che fu a causa di tale teoria tomista della subordinazione delle scienze alla teologia che in Italia si ebbero eventi come il rogo di Giordano Bruno e l’abiura di Galileo, che tanto hanno contribuito al declino culturale, civile e morale del nostro paese.

Tutto ciò trova conferma nella clamorosa presenza in Paradiso di ben due eretici, già condannati come tali all’epoca in cui Dante scriveva: Gioacchino da Fiore, condannato dal Lateranense IV nel 1215, e Sigieri di Brabante, condannato dall’arcivescovo di Parigi nel 1270 e nel 1277. Dante fa sì che essi vengano presentati da chi in terra era stato loro particolarmente ostile, così fa dire a Bonaventura che Gioacchino da Fiore è «di spirito profetico dotato », un’affermazione che il Bonaventura storico non avrebbe mai potuto compiere perché considerava Gioacchino «come un ignorante condannato a buon diritto ».
Quanto a Sigieri, ancora gli esperti non hanno trovato un accordo sul motivo che portò Dante a porre in Paradiso un pensatore tanto scomodo, esponente di quell’aristotelismo radicale, o averroismo, guardato con palese ostilità dal potere ecclesiastico per la piena autonomia della ragione che professava. Ma proprio un personaggio così scomodo viene posto da Dante in Paradiso accanto ai teologi più illustri e fatto presentare dal più illustre di tutti, san Tommaso d’Aquino, con le celebri parole: «Essa è la luce etterna di Sigieri, / che, leggendo nel vico degli strami, / sillogizzò invidiosi veri» ( Par. X, 136-138). Sigieri era un filosofo che professava la più rigorosa distinzione tra teologia e filosofia: collocandolo in Paradiso Dante approva questa impostazione, persino dopo la pubblica condanna ecclesiastica (cui peraltro seguì la morte sospetta di Sigieri nella curia papale per mano del segretario, si disse preso da un raptus di follia).

Perché Dante esalta Sigieri? Perché il suo pensiero si traduceva in politica nella rigorosa distinzione tra papato e impero, e nella conseguente esclusione del papato da ogni gestione del potere politico. È la prospettiva che noi oggi denominiamo laicità. Si spiega così anche l’ostilità di cui fu oggetto il pensiero politico di Dante da parte del potere ecclesiastico, con l’ordine di papa Giovanni XXII nel 1329 di dare alle fiamme il De Monarchia e l’inserimento della stessa opera nel 1559 nella prima edizione del famigerato Index librorum prohibitorum.


La repubblica – 27 maggio 2017

27 maggio 2017

R. COTRONEO SUL NARCISISMO




Caravaggio, Narciso

Siamo un mondo di narcisisti incapaci di guardarsi   di  Roberto Cotroneo 


Jose Saramago pubblicò nel 1995 un celebre romanzo intitolato Cecità. È una storia paradossale, che racconta di un intero paese dove le persone perdono la vista, una a una, come fosse un’epidemia inspiegabile. È una metafora sull’indifferenza, sull’incapacità di vedere e sulla perdita del senso di solidarietà tra le persone. Quando Saramago ricevette il premio Nobel per la letteratura, era il 1998, nel suo discorso a Stoccolma parlò proprio di questo suo romanzo e dell’indifferenza sociale con cui dobbiamo fare i conti.
C’è uno stretto rapporto tra la psicoanalisi, il romanzo di Saramago, la filosofia e il mito di Narciso. Più volte in questi anni sono tornato sul tema del narcisismo, l’ho fatto perché mi sono occupato in modo particolare degli effetti dei social network sulla nostra vita quotidiana, l’ho fatto perché avendo un’attenzione particolare su quelle che chiamiamo forme di espressione artistica, o creatività, mi sono accorto che l’elemento narcisistico è diventato talmente predominante tra i letterati e gli artisti, da cancellare quello che scrivono o che producono bruciandolo sull’altare della loro visibilità o del successo. Mi sono occupato di narcisismo inoltre perché la diffusione massiccia e totale della fotografia, attraverso il digitale, oltre alla sua facilità di diffusione, ha generato miliardi di stagni dove Narciso va a specchiarsi per caderci dentro: gli stagni dell’ossessione per Instagram e naturalmente dei selfie.
Ma c’è un aspetto importante che va oltre il prendere atto che viviamo in una società di narcisisti patologici. Freud, ma anche Jung, sapevano bene che il narcisista per un terapista è quasi incurabile, perché non vede gli altri, e vive in una sorta di delirio dove conta soltanto quello che si fa, il proprio aspetto, e il successo che si riscuote. E mentre il narcisismo dilagava attraverso i social, la psicoanalisi entrava in una crisi profonda, crisi di modelli terapeutici e teorici. I pazienti in analisi sono sempre meno, il tempo che richiede l’analisi è esagerato in una società rapida come quella in cui viviamo, persino il costo dell’analisi è diventato proibitivo. Ma soprattutto è entrata in crisi l’idea fondante della psicoanalisi: la guarigione. Gli anni di analisi guariscono. Però il narcisismo è inguaribile e si autoalimenta.
Lo spettacolo che ogni giorno abbiamo davanti agli occhi dice moltissime cose: persone stimabili che perdono il senso della misura in nome di una percezione di sé parossistica e perfino ridicola. La tenacia nel darsi un carattere, un’identità tese al successo, al plauso, al piacere e al piacersi, senza che questo abbia un minimo fondamento, una qualsiasi realtà di valori riconosciuti. Il mondo si è fatto ridicolo perché il narcisismo, quando non è quello di Pablo Picasso, di Marcel Proust, di Greta Garbo o di Gianni Agnelli, è ridicolo e grottesco.
Ma se la situazione ci appare così disperata è anche perché l’unica disciplina, se così possiamo chiamarla, in grado di capire, anche se non certo di guarire, e di portarci a una qualche consapevolezza, è la filosofia. La filosofia ha affiancato la psicoanalisi con un ruolo diverso, un ruolo di comprensione del mondo. Non cura, ma illumina e permette di vedere. Di vedere il fondo dello stagno, e non soltanto l’immagine di Narciso. Ma sono tutte discipline destinate a restare lontane dalla cultura contemporanea, che è cultura del fare e del piacersi.
Saramago ci ha insegnato che l’indifferenza è una forma simbolica di cecità, e noi stiamo imparando che il narcisismo è una forma malata di indifferenza sociale. Immaginare un Narciso reso cieco dalla malattia raccontata da Saramago è un’immagine terribile e potente. Un Narciso cieco, che continua a specchiarsi pur non vedendosi è il tema filosofico di questo tempo paradossale.

©2017 Roberto Cotroneo. Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency