24 luglio 2015

I DANNATI DELLA TERRA DI F. FANON






Il 20 luglio 2015, Frantz Fanon avrebbe compiuto 90 anni. Lo ricordiamo con le conclusioni de “I dannati della terra”, che risuonano in modo profetico.
 
Su, compagni, è meglio decidere fin da ora di cambiar sponda. La grande notte nella quale fummo immersi, dobbiamo scuoterla e venirne fuori. Il giorno nuovo che già si leva deve trovarci fermi, preparati e risoluti.
Dobbiamo lasciar stare i nostri sogni, abbandonare le vecchie credenze e le amicizie di prima della vita. Non perdiamo tempo in sterili litanie o in mimetismi stomachevoli. Lasciamo quest’Europa che non la finisce più di parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra, a tutti gli angoli delle stesse sue strade, a tutti gli angoli del mondo.
Sono secoli che l’Europa ha arrestato la progressione degli altri uomini e li ha asserviti ai suoi disegni e alla sua gloria; secoli che in nome d’una pretesa «avventura spirituale» soffoca la quasi totalità dell’umanità. Guardatela oggi altalenare tra la disintegrazione atomica e la disintegrazione spirituale.
Eppure, a casa sua, sul piano delle realizzazioni si può dire che è riuscita in tutto.
L’Europa ha assunto la direzione del mondo con ardore, cinismo e violenza. E guardate quanto l’ombra dei suoi monumenti si stende e si moltiplica. Ogni movimento dell’Europa ha fatto scoppiare i limiti dello spazio e quelli del pensiero. L’Europa si è rifiutata ad ogni umiltà, ad ogni modestia, ma anche ad ogni sollecitudine, ad ogni tenerezza.
Non si è mostrata parsimoniosa se non con l’uomo, gretta, carnivora, omicida se non con l’uomo.
Allora, fratelli, come non capire che abbiamo altro da fare che seguire quell’Europa.
Quell’Europa che non smise mai di parlare dell’uomo, di proclamare che non era preoccupata se non dell’uomo, noi sappiamo oggi con quali sofferenze l’umanità ha pagato ciascuna delle vittorie del suo spirito.
Allora, compagni, il gioco europeo è definitivamente terminato, bisogna trovare altro. Possiamo far tutto, oggi, a condizione di non imitare l’Europa, a condizione di non essere ossessionati dal desiderio di raggiungere l’Europa.
L’Europa ha acquisito una tale velocità, pazza e disordinata, che sfugge oggi a qualunque guidatore, a qualunque ragione e va in vertigine spaventosa verso abissi da cui è meglio allontanarsi il più rapidamente possibile.
E’ pur vero, tuttavia, che ci occorre un modello, degli schemi, degli esempi. Per molti di noi, il modello europeo è il più esaltante. Ora, si è visto nelle pagine precedenti a quali disdette ci portava questa imitazione. Le realizzazioni europee, la tecnica europea, lo stile europeo, devono cessare di tentarci e di squilibrarci.
Quando io cerco l’uomo nella tecnica e nello stile europei, vedo un susseguirsi di negazioni dell’uomo, una valanga di assassini.
La condizione umana, i progetti dell’uomo, la collaborazione tra gli uomini per mansioni che aumentano la totalità dell’uomo, son problemi nuovi che esigono vere invenzioni.
Decidiamo di non imitare l’Europa e tendiamo i nostri muscoli e i nostri cervelli in una direzione nuova. Cerchiamo d’inventare l’uomo totale che l’Europa è stata incapace di far trionfare.
Due secoli fa, un’ex colonia europea si è messa in testa di colmare il ritardo con l’Europa. Vi è così ben riuscita che gli Stati Uniti d’America son diventati un mostro in cui le tare, le malattie e l’inumanità dell’Europa hanno raggiunto dimensioni spaventose.
Compagni, non abbiamo dunque altro da fare che creare una terza Europa? L’Occidente ha voluto essere un’avventura dello Spirito. E’ in nome dello Spirito, dello spirito europeo si capisce, che l’Europa ha giustificato i suoi crimini e legittimato la schiavitù in cui teneva i quattro quinti dell’umanità.
Sì, lo spirito europeo ha avuto singolari fondamenti. Tutta la riflessione europea si è svolta in luoghi sempre più deserti, sempre più dirupati. Si è presa così l’abitudine d’incontrare sempre meno l’uomo.
Un dialogo permanente con se stessi, un narcissismo sempre più osceno non hanno cessato di preparare il letto a un semidelirio in cui il lavoro cerebrale diventa una sofferenza, non essendo le realtà per nulla quelle dell’uomo che vive, lavora e si fabbrica, ma parole, accozzamenti diversi di parole, le tensioni nate dai significati contenuti nelle parole. Si sono tuttavia trovati europei per invitare i lavoratori europei a spezzare questo narcissismo e rompere con questa srealizzazione.
In linea generale, i lavoratori europei non hanno risposto a quegli appelli. Il fatto è che i lavoratori si sono creduti, anch’essi, interessati dall’avventura prodigiosa dello Spirito europeo.
Tutti gli elementi d’una soluzione ai grandi problemi dell’umanità sono, in momenti diversi, esistiti nel pensiero dell’Europa. Ma l’azione degli uomini europei non ha realizzato la missione che le spettava e consisteva nel premere con violenza su quegli elementi, nel modificarne l’ordinamento, l’essere, nel mutarli, infine nel portare il problema dell’uomo a un livello incomparabilmente superiore.
Oggi, assistiamo a una stasi dell’Europa. Fuggiamo, compagni, quel movimento immobile in cui la dialettica, a poco a poco, si è mutata in logica dell’equilibrio. Riprendiamo la questione dell’uomo. Riprendiamo la questione della realtà cerebrale, della massa cerebrale di tutta l’umanità di cui occorre moltiplicare le connessioni, diversificare i reticoli e riumanizzare i messaggi.
Su, fratelli, abbiamo veramente troppo lavoro per trastullarci con giochi di retroguardia. L’Europa ha fatto quel che doveva fare e tutto sommato lo ha fatto bene; smettiamo di accusarla, ma diciamole fermamente che non deve più continuare a far tanto rumore. Non abbiamo più da temerla, cessiamo dunque d’invidiarla. Il Terzo Mondo è oggi di fronte all’Europa come una massa colossale il cui intento deve essere quello di cercare di risolvere i problemi ai quali quest’Europa non ha saputo recare soluzioni.
Ma allora, importa di non parlare di rendimento, di non parlare d’intensificazione, di non parlare di ritmi. No, non si tratta di ritorno alla Natura. Si tratta molto concretamente di non tirare gli uomini in direzioni che li mutilano, di non imporre al cervello ritmi che rapidamente l’ostruiscono e lo guastano. Non bisogna, sotto pretesto di colmare il distacco, malmenare l’uomo, strapparlo a se stesso, alla sua intimità, spezzarlo, ucciderlo.
No, noi non vogliamo raggiungere nessuno. Ma vogliamo camminare sempre, notte e giorno, in compagnia dell’uomo, di tutti gli uomini. Si tratta di non allungare la carovana, poiché, allora, ogni fila percepisce appena quella che la precede e gli uomini non si riconoscono più, si incontrano sempre meno, si parlano sempre meno.
Si tratta, per il Terzo Mondo, di ricominciare una storia dell’uomo che tenga conto al tempo stesso delle tesi a volte prodigiose sostenute dall’Europa, ma anche dei delitti dell’Europa, di cui il più efferato sarà stato, in seno all’uomo, lo squarcio patologico delle sue funzioni e lo sbriciolamento della sua unità; nel quadro d’una collettività, la rottura, la stratificazione, le tensioni sanguinose alimentate da classi; infine, alla scala immensa dell’umanità, gli odi razziali, la schiavitù, lo sfruttamento e soprattutto il genocidio esangue costituito dall’aver messo da parte un miliardo e mezzo di uomini.
Dunque, compagni, non paghiamo tributo all’Europa creando Stati, istituzioni e società che se ne ispirano. L’umanità aspetta altro da noi che quest’imitazione caricaturale e nell’insieme oscena.
Se vogliamo trasformare l’Africa in una nuova Europa, l’America in una nuova Europa, allora affidiamo ad europei le sorti dei nostri paesi. Sapranno farci meglio che i meglio dotati tra noi.
Ma se vogliamo che l’umanità avanzi d’un grado, se vogliamo portarla a un livello diverso da quello in cui l’Europa l’ha manifestata, allora occorre inventare, occorre scoprire.
Se vogliamo rispondere all’attesa dei nostri popoli, bisogna cercare altrove che non in Europa.
Inoltre, se vogliamo rispondere all’attesa degli europei, non bisogna rinviare loro un’immagine, anche ideale, della loro società o del loro pensiero per i quali essi provano saltuariamente un’immensa nausea.
Per l’Europa, per noi stessi e per l’umanità, compagni, bisogna rinnovarsi, sviluppare un pensiero nuovo, tentare di metter su un uomo nuovo.
Frantz Fanon

MARIA MESSINA, la timida corrispondente di G. Verga






Maria Messina : una scrittrice dimenticata e da poco riscoperta.
 Giuseppina Bosco

Maria Messina è una donna che ha trovato nella scrittura uno strumento per esprimere la sua  vocazione narrativa e la sua grande sensibilità.
 Nasce nel 1887 ad Alimena, uno sperduto paese della Sicilia in provincia di Palermo. Il padre Gaetano era un maestro elementare, la madre Gaetana Valenza Traiana apparteneva ad una famiglia baronale e, come era consuetudine in quel tempo, ricevette un’educazione domestica e da autodidatta iniziando a formarsi come scrittrice a partire dalla narrativa moderna leggendo  gli scrittori realisti russi quali  Turghenev e  Cecov.

Esordisce con la raccolta “Piccoli gorghi” inserendosi in quel filone narrativo verista inaugurato da scrittori siciliani quali Capuana, Verga, De Roberto. Ma di lei nelle antologie scolastiche non c’è traccia. Un tentativo di riconoscimento sarà l’inserimento negli atti del convegno “Letteratura siciliana al femminile, donne scrittrici, donne personaggio” a cura di Sarah Zappulla Muscarà, docente dell’università di Magistero di Catania, e la pubblicazione da parte della casa editrice Sellerio di Palermo di tutti i romanzi e le novelle della scrittrice, tradotte in diverse lingue e perciò conosciuta all’estero  oltre alle iniziative culturali,  che la città di Mistretta le ha tributato.  Diversi sono stati a partire dagli anni Ottanta gli studi critici su tutta la sua produzione letteraria, di cui  sono stati approfonditi alcuni nuclei tematici, soprattutto in un recente studio di Maria Serena Sapegno, quali il rapporto tra società patriarcale e condizione femminile, coscienza della condizione marginale della donna e desiderio di libertà, costruzione di un’identità sociale. 2
L’esordio letterario di Maria Messina è legato ad alcune novelle ambientate a Mistretta ,dove il padre si era trasferito nell’estate del 1903, per cui la scrittrice dovette abbandonare la città di Palermo per quel paese di provincia e nella novelle “L’ideale infranto” e “Sotto tutela” si può scorgere  il  disagio della scrittrice per un ambiente paesano  privo di stimoli culturali: non arrivavano i giornali, non c’erano biblioteche, teatri, ecc... quasi a sottolineare  la sua insofferenza per quel mondo popolato oltre che da persone umili, da figure femminili silenziose  e rese schiave da una cultura maschilista dominante; nella raccolta di novelle “Pettini fini” (pubblicato per la prima volta nel 1909), Maria Messina  ci offre così un affresco del paese di Mistretta  con i suoi umili protagonisti, i loro vissuti, le vie del paese in cui si rivela l’attaccamento alla scuola verista e il canone dell’impersonalità. Difatti Giovanni Verga ne ricevette una copia dall’autrice in quanto egli rappresentava una “guida sicura, un padre da cui ricevere insegnamento e protezione”3 […] e da quel momento ha inizio una corrispondenza col grande scrittore catanese che durerà una decina d’anni. In una di queste lettere la timida Maria scriverà: "Le parole buone che mi ha detto mi hanno sostenuta nelle ore più amare. Il suo ritratto è stato il mio conforto".
Nei primi anni del Novecento  la scrittrice si trasferisce ad Ascoli Piceno perchè il padre era stato nominato ispettore scolastico. Questo è il periodo in cui dalle novelle rusticane la scrittrice passa a quelle di ambientazione borghese. Nelle successive raccolte di novelle, Le briciole del destino (1918), Il guinzaglio (1921) e Ragazze siciliane (1921), il verismo di Maria Messina comincia  a spostarsi dal mondo rusticano dei " vinti" all’analisi della piccola borghesia. Ma i "vinti" sono per lo più le donne,le quali "non posseggono la forza di offendere né quella di difendersi" : sia nella condizione di mogli recluse tra le mura domestiche sia in quella di nubili  che sprecano le loro esistenze  sacrificandosi per gli altri e consumando la propria giovinezza tra fatiche e lavoro.
Emblematico è il racconto "Casa paterna”6 , in cui si rivela una struttura compositiva più matura, per un abile gioco di architettura letteraria di trama e di intreccio. La protagonista,  Vanna, è una giovane siciliana sposata da poco tempo ad un avvocato romano, la quale ritorna alla casa paterna, dopo aver deciso di lasciare il marito e la città in cui vivono, perché non sopporta la solitudine e l’indifferenza sia della grande città che del marito stesso.
Mentre il viaggio si sta concludendo, è sopraffatta dai ricordi della sua infanzia e della sua giovinezza, rievoca le speranze ed i progetti, ritorna a quel nido pensando di ritrovare la stessa pace e lo stesso amore di allora:  tante cose però sono ormai cambiate, i fratelli sono sposati, e le cognate  non accettano la vergogna che lei porta  in famiglia perché ha osato separarsi dal marito e nemmeno il padre e la madre - ormai succubi delle nuore - possono più aiutarla e pertanto l’epilogo sarà tragico.Fa parte della  raccolta  Le Briciole del destino  anche la novella “L’ora che passa”. La protagonista è Rosalia, maestra elementare che sacrifica se stessa per la cura della famiglia, la quale si trova in condizioni economiche disagiate. Non riesce ad uscire dal “carcere” del suo ruolo, dalla non- vita. Questa estraneità a se stessa rispetto a quella parte di sé che avrebbe voluto vivere ed amare, invece, di guardarsi vivere, sembra riecheggiare il personaggio di Adriano Meis - Pascal, di Luigi Pirandello, meno giocato però sull’assurdità delle situazione, sul grottesco e sul sottile ragionamento, e in ciò si rivela l’originalità e la linearità dell’arte narrativa di Maria Messina
. Non a caso Leonardo Sciascia, in una nota critica,  l’ accosta alla grande scrittrice inglese Katrin Mansfield definendola una “Mansfield siciliana”, forse perché Maria Messina ,al pari della Mansfield ,riesce a rappresentare con poche immagini un universo femminile succube dell’egoismo e del degrado morale di una società maschilista e sa descrivere con brevi squarci momenti di vita quotidiana  e stati d’animo femminili, resi da una struttura sintattica semplice e con diversi  ricorsi all’indiretto libero.
Anche la scrittrice  Ada Negri dedicò una prefazione alla raccolta “Le briciole del destino”e dell’opera dirà “Tu hai voluto studiare questi cantucci di umanità, che sanno di vecchia polvere, di vecchi stracci abbandonati, di vecchie ragnatele, di vecchie lagrime rancide. Tu vi sei riuscita, piccola sorella Maria”.7
La rassegnazione e l’impossibilità di un riscatto per la condizione femminile sono i temi dei romanzi “Casa del vicolo”, di cui la Sapegno fornisce chiare chiavi interpretative e tematiche.  , e “Amore negato”in cui si rivela una maggiore maturità compositiva della scrittrice. Difatti in quest’ultimo romanzo si nota un maggiore scavo  riguardo alle  psicologie femminili, e l’attenzione si sposta verso la città, descrivendo  un ambiente piccolo borghese, (Il romanzo è ambientato ad Ascoli Piceno) in cui si deve sopravvivere alle difficoltà materiali e all’estraneità degli affetti. Sembra quasi riecheggiare lo Svevo dei romanzi giovanili, la cui analisi dell’inettitudine è più legata all’inconscio maschile.
È comunque interessante fornire strumenti interpretativi delle opere di esordio di Maria Messina, analizzando le cinque novelle che la casa editrice Sellerio ha raccolto in  un volume del 1998 dal titolo “Dopo l’inverno”, grazie alle ricerche di Roswita Shoell-Dombrowsky che le ha raggruppate, poiché erano state pubblicate in diverse riviste letterarie del primo Novecento.
La novella “Dopo l’inverno” risente della scuola verista in cui domina la descrizione dell’ambiente rurale siciliano gravato dalla miseria, dall’ignoranza degli umili e dal dramma dell’emigrazione.
Il protagonista, “Ssu Vanni”, un contadino oppresso dalla povertà, tenta, nonostante gli anni e la salute malferma, di lavorare in campagna. Ha un solo figlio, “bello e grande come una  bandiera”, il quale è partito dal paese in primavera con l’intenzione di andare in America.
‘Ssu Vanni ,era divenuto per quella solitudine, asprigno ed irascibile,” e se qualcuno gli si accostava egli se l’aveva a noia”, aveva ricevuto, dopo poco tempo dalla partenza del figlio, alcune lettere. Con l’inizio dell’inverno quelle lettere non arrivarono più, quasi a voler simboleggiare la ciclicità delle stagioni presente nel mito di Persefone e Kore .Quando Ade rapisce Core ,che stava sottoterra  , la madre Persefone per la disperazione  rende infertile la terra, che non dà più i suoi frutti (periodo della stagione invernale),e quando Core poteva tornare libera sulla terra per sei mesi, la dea la rendeva fertile e lussureggiante.
 A metà inverno, verso l’anno nuovo, dopo tanto silenzio, arriva una lettera di Turiddu. E  Ssu Vanni, analfabeta, si rivolge al Rosso, il falegname, per farsela leggere così  seppe che il figlio era partito dall’America e si trovava a combattere in Turchia, a Bengasi.
La novella, pubblicata nel 1912 nel quindicinale “La Donna”, è ambientata in un preciso momento storico, quello di Crispi, e della politica coloniale dell’Italia volta alla conquista della Libia. Anche il Meridione è coinvolto nella propaganda patriottica, per cui Turiddu combatte per la gloria della patria. Anche l’atteggiamento dei paesani cambia nei confronti del contadino che non sarà più deriso ma rispettato: il figlio è un eroe, non uno squattrinato in cerca di fortuna in America. Quando lo’ Ssu Vanni apprende la notizia che un gruppo di feriti della guerra in Libia erano stati    rimpatriati e sarebbero ritornati in paese, inizia a sperare di poter rivedere Turiddu proprio nel periodo in cui “il grano accestiva e le rondini tornavano a stridere sul cielo luminoso(…) e la terra sapeva di tanti buoni aromi (ritorna il mito di Proserpina). Difatti “è festa grande in paese, in quel pomeriggio odoroso di primavera per i soldati reduci.” 8 Il contadino che non osava pensare che tra di loro vi fosse il suo Turiddu, improvvisamente  lo vide tra la folla festante ,accolto dalla banda e dal sindaco del paese che aveva fatto imbandire un tavolo nella piazza per onorare i reduci della guerra “E Ssu Vanni chiedeva perdono a Dio del corruccio germinato nel suo cuore di uomo meschino, di uomo che, roso dalla fatica, non distingue più un bruco dalla foglia; e ora pensava con gioia che quel figlio era suo ,era sangue suo…”9
La novella “Il violino di Sandro”, pubblicato nel 1913 nello stesso quindicinale, è centrata sulla psicologia del protagonista, di nome Sandro, musicista e violoncellista, il quale,convalescente per una malattia dovuta a continue febbri debilitanti, è costretto alla quasi inattività.
La sua malinconica quotidianità è interrotta dall’arrivo dei nuovi vicini della casa gialla : una famiglia che abitava di fronte. La figlia, era una giovane fanciulla dal viso da bambina e dai capelli biondi che brillavano al sole  come “pagliuzze d’oro”. Però la separazione tra le due  abitazioni era colmata dalla finestra da cui spesso Sandro si affacciava per osservare le abitudini della fanciulla dirimpettaia . Il giovane ,invaso da mille fantasie ed emozioni verso di lei, cerca di stabilire un intimo contatto attraverso la musica “La voce umana del violino si diffondeva nella piazza deserta, saliva verso il cielo stellato col profumo dei calicanti ,nelle note lunghe ed appassionate vibrava tutta la tenerezza contenuta nell’anima romantica del convalescente, affinata dalla malattia…gli occhi di tanto in tanto si levavano a cercare colei che restava davanti alla finestra aperta”.10                            
Un giorno mentre il medico parlava sommessamente con  Clara, sorella di Sandro, seppe della menomazione della ragazza dal viso di bambina: la sua sordità. La rivelazione lo fece impallidire e tremare perché aveva cercato di comunicare con lei attraverso l’unica voce e l’unica parola che potesse esprimere i suoi nobili sentimenti. Ma lei non aveva potuto sentirli e così, all’improvviso, il ragazzo  uscì dalla stanza perché la casa  simbolicamente rappresenta la segregazione, la non vita, l’inazione, la soglia tra ciò che è conosciuto e” l’altrove” da scoprire e da conoscere.
Così Sandro cerca di stabilire un contatto vero con la fanciulla per manifestarle il suo amore e lei, se non potè sentire da lontano la dolcezza di quelle note musicali, poteva vedere ed ascoltare da vicino  le parole di Sandro.
“Vincere” è la più assurda ed anche un po’ grottesca novella di Maria Messina in cui si avverte il suo pirandellismo. Intanto la storia ha quasi un impianto teatrale; due spazi interni, i balconi, mettono in relazione due famiglie nello stesso palazzo baronale. La moglie del professore di disegno (da poco trasferitasi in quel luogo) con la signora Panebianco. La figlia del professore, Carmelina, sarà la novità per il giovane aristocratico Giorgio, il quale imporrà subito alla ragazza il suo potere di classe e di maschio “Giocavano a fare il ritratto e le comandava di stare ferma: Carmelina si metteva nella posa che voleva lui davanti la macchina [...],e sul più bello si allontanava, distratta […] Giorgio, che abituato a essere contentato dalla mamma, o contrariato dal papà, obbedito dalla serva, diventava rosso sino alla radice dei capelli”. 11
Il desiderio adolescenziale di Giorgio di autonomia dalla famiglia lo portano a fantasticare sul desiderio di sposare Carmelina, sfidando anche la leggenda di famiglia dello zio ricco che si suicida perché gli fu impedito di sposare una popolana.
La sottomissione di Carmelina nell’accettare di sposare Giorgio, spinta da entrambe le famiglie, la condurrà a recitare il ruolo di moglie felice ed appagata che tutti credevano che fosse ,ma che in realtà non era. Giorgio assume il suo ruolo all’intero di una gerarchia patriarcale e di classe e si occuperà solo delle sue proprietà, trascurando Carmelina. La donna, cosciente della sua condizione infelice, girellava  attorno alla vasca del “ giardino” . “Certe volte  sedeva sull’orlo. Brutta abitudine quella di sedere sull’orlo…Andò a finire che un giorno, dopo averla cercata qua e là nel giardino…Disgrazia…oppure…ma no! Era stata una disgrazia! Una donna fortunata come lei! Se lo dicevano tutti a una voce: le amiche, le vicine. Che le mancava per essere felice?”12
Un suicidio, una disgrazia, qual è la verità? Ecco riecheggiare un certo piradellismo, nel  contrasto tra apparenza e verità. Cosa le mancava per essere felice? Anche Giorgio, avvisato della disgrazia rispose rinfrancato “Una casa spezzata…forse non era destino…”
Lo stile e la lingua di queste novelle può essere definito minimalista, con un ricorso ad un periodare breve, lontano da complessi costrutti sintattici.  Il linguaggio è colloquiale  e risente di espressioni del parlato
Giuseppina Bosco
                                                                                                                                                     
1 Bartolotta , “ Literary” , studio su  Maria Messina.
2 Maria Serena Sapegno, Sulla soglia : la narrativa di Maria Messina, in “altre lettere”, 14-03-2012
3  Bartolotta ibidem
4 Cfr.Palermo,Sandron. 1911. Così scrive al Verga da Ascoli Piceno
5 Bartolotta ibidem                                                                                                               
6  M. Messina, Casa paterna. Palermo, Sellerio 1981
7 Bartolotta, ibidem
8 Maria Messina, “Dopo l’inverno”. Sellerio 1998, Palermo,  pag 16
9 Maria Messina, ibidem,  pag 20
10 Maria Messina, ibidem, pag 25
11 Maria Messina, ibidem, pag 63
12 Maria Messina, ibidem, pag 77

RILEGGERE BEPPE FENOGLIO





Per gli amanti di Fenoglio un volume da non perdere.

Lorenzo Mondo

Su L’Illuminista un Fenoglio a 360 gradi
Nell’eco dei settant’anni dalla guerra di Liberazione, la rivista L’Illuminista è uscita con un numero triplo dedicato interamente a «Beppe Fenoglio». E’ un volume di 800 pagine curato da Gabriele Pedullà, uno dei più agguerriti critici dello scrittore di Alba. E merita il più vivo apprezzamento per una serie di ragioni. E’ introdotto intanto da un’ampia cronologia della vita di Fenoglio, basata sulle testimonianze dirette che offrono «un ritratto a più facce, quasi ‘cubista’, di un narratore altrimenti famoso per il suo riserbo a la sua impenetrabilità».

Segue poi una antologia della critica che rappresenta una grande novità. Raccoglie infatti tutti gli articoli e i saggi che accompagnarono la prima uscita dei suoi libri (con qualche aggiunta ulteriore particolarmente significativa). E’ un contributo prezioso per gli studiosi e gli ammiratori di Fenoglio, documenta infatti dal vivo le impressioni e i giudizi dei primi lettori, disegnando l’accidentata parabola della sua fortuna. Condizionata, oltreché dall’intelligenza di un critico, dalla temperie culturale e politica.

Registriamo così, facendo seguito alle incomprensioni di Vittorini, le ottuse denunce che gli vennero mosse per lesa Resistenza e leso Neorealismo (successivamente ritrattate, nel perdurante imbarazzo per il paradosso rappresentato dal massimo cantore della Resistenza che si proclamava monarchico e anticomunista).

Ma non mancò fin dai primordi un blocco di ferventi estimatori, come Giuseppe De Robertis, Pietro Citati, Giorgio Bàrberi Squarotti, e la battagliera Anna Banti che non darà tregua, anche sotto il profilo politico, ai detrattori. Le oscillazioni e riserve si stemperarono quando uscì nel 1959 Primavera di bellezza, fino a quando i romanzi postumi, Una questione privata e Il partigiano Johnny, decretarono la sua apoteosi.

Tra le rare eccezioni, la sordità di Pasolini che si fa curiosamente censore «purista» del linguaggio fenogliano. Ma egli gode ormai di grande consenso anche tra le nuove generazioni, e viene proclamato uno dei vertici della letteratura novecentesca. Avvertendo che l’ispirazione resistenziale e langarola, pur imprescindibile, è soltanto una delle modalità in cui si esprime il suo sentimento tragico della vita, intriso di visionarie, «metafisiche» suggestioni.

Per dirla con Giovanni Raboni, non bisogna dimenticare che le Langhe svolgono in lui «anche un ruolo violentemente immaginario, che non sono solo il suo Mississippi ma anche, in qualche modo, la sua contea di Yoknapatawpha». (Dove vengono suggeriti, con ardita metafora, i nomi di Twain e di Faulkner).


La Stampa – 16 luglio 2015

22 luglio 2015

GUERRA E STAMPA NEL 1915


Un paese restio all’intervento militare catapultato a combattere nelle trincee ai confini del paese e in quelle contro il nemico interno. Un imperialismo straccione che vide in pochi mesi gran parte dei sostenitori della neutralità convertirsi alla guerra. Un libro molto interessante che svela le ricadute sociali  della campagna di stampa che portò l'Italia all'intervento.

Gianpasquale Santomassimo

Un imperialismo provinciale

Tra lo scop­pio della prima guerra mon­diale e l’intervento ita­liano inter­cor­rono dieci mesi. Lo stesso inter­vallo, giorno più, giorno meno, si ripro­duce in occa­sione della seconda guerra mondiale.

Coin­ci­denza troppo ingom­brante per essere con­si­de­rata casuale, e che rin­via invece a pro­fili di lungo periodo dello Stato ita­liano. Quel com­plesso dell’«ultima grande potenza», arri­vata tardi all’unificazione, esclusa dal «grande gioco» dell’equilibrio mon­diale e dalle spar­ti­zioni colo­niali, e che aspira a gio­care un suo ruolo.

Negli anni Trenta del secolo scorso sarà il più lucido mini­stro degli Esteri del fasci­smo, Dino Grandi, a for­mu­lare la teo­ria del «peso deter­mi­nante», razio­na­liz­zando una dispo­si­zione già pre­sente e che aveva ope­rato nella deci­sione dell’intervento del mag­gio 1915: le dimen­sioni dell’Italia non le per­met­te­vano di agire da pro­ta­go­ni­sta ma le con­sen­ti­vano pur sem­pre di deci­dere quale piatto della bilan­cia far pre­va­lere col suo schie­ra­mento.

Potranno essere in discus­sione alleanze, da dismet­tere o da allac­ciare, moti­va­zioni e riven­di­ca­zioni della guerra da intra­pren­dere, ma in ogni caso non sarà mai in discus­sione l’intervento in sé, fat­tore con­si­de­rato stret­ta­mente con­nesso al «pre­sti­gio» del paese.
A ben vedere, è una dispo­si­zione di fondo che soprav­vive alla fine dell’imperialismo ita­liano, seb­bene disci­pli­nata da una Costi­tu­zione che ripu­dia la guerra e da una poli­tica estera pru­den­tis­sima nel tempo della guerra fredda. Ma non appena sal­te­ranno gli equi­li­bri del «secolo breve» riaf­fio­re­ranno gli impulsi che indu­cono gli ita­liani a infi­larsi in tutte le guerre che scop­piano, la costri­zione di un malin­teso «pre­sti­gio nazio­nale» che impone la par­te­ci­pa­zione a tutte le mis­sioni mili­tari ope­ranti sullo sce­na­rio internazionale.

E non a caso quando si ha ormai la cer­tezza che la guerra è ine­vi­ta­bile, nel luglio 1914, il nuovo Capo di stato mag­giore dell’esercito ita­liano, Luigi Cadorna, for­mula un piano bel­lico che pre­vede l’invio sul Reno di 5 corpi d’armata e due divi­sioni di caval­le­ria, rispet­tando la con­ven­zione mili­tare con la Ger­ma­nia. Comin­cia rie­vo­cando que­sto epi­so­dio il nuovo libro di Mario Isnen­ghi, Con­ver­tirsi alla guerra. Liqui­da­zioni, mobi­li­ta­zioni e abiure nell’Italia tra il 1914 e il 1918 (Don­zelli, pp. 282, euro 20).

I nuovi equi­li­bri liberali

Nell’arco di dieci mesi si pro­dur­ranno la con­ver­sione dell’immagine della Ger­ma­nia da modello ad anti­mo­dello, la crisi dell’internazionalismo socia­li­sta e il pas­sag­gio al nazio­na­li­smo di set­tori impor­tanti dell’opinione di sini­stra, repub­bli­cana, maz­zi­niana, la tra­sfor­ma­zione dei cat­to­lici da intran­si­genti nemici dello Stato uni­ta­rio a clerico-patrioti (in con­ti­nuità col pre­ce­dente già inter­ve­nuto durante la guerra di Libia) e, infine, il com­pleto rias­setto degli equi­li­bri interni alla classe diri­gente liberale.

L’irredentismo agi­tato per le masse si tra­duce nella «quarta guerra d’indipendenza» (che era ancora la for­mula dei nostri libri sco­la­stici, e anche di qual­che recente ora­zione pre­si­den­ziale): Trento, Trie­ste, Istria, qual­cosa della Dal­ma­zia. Invece Nizza, la Cor­sica, Savoia, Gibuti, Malta, obiet­tivi agi­tati all’avvio delle osti­lità, scom­pa­iono rapi­da­mente dall’orizzonte: tor­ne­ranno buoni nella pros­sima occasione.

Le classi popo­lari, fino a tre anni prima rite­nute inde­gne di eser­ci­tare il diritto di voto, sono ora chia­mate a dare la vita per la patria. Ma la cosa che all’autore preme sot­to­li­neare è che il «pas­sag­gio dalla società dei nota­bili alla società di massa», che sarà uno dei risul­tati irre­ver­si­bili della guerra, viene però gestito con fer­rea capa­cità di con­trollo da gruppi di nota­bili. L’agile libretto vuol essere anche una rifles­sione sulla «soli­tu­dine delle éli­tes» che gesti­scono inter­vento e guerra senza accet­tare intromissioni.

Sono chia­mati in causa gene­rali, preti, gior­na­li­sti del Cor­riere della sera (vero giornale-partito che diviene house-organ del bel­li­ci­smo, sop­pian­tando nella vici­nanza al potere la Stampa gio­lit­tiana di Fras­sati, favo­re­vole alla neu­tra­lità). Nelle pagine di Isnen­ghi tro­ve­remo potenti gior­na­li­sti coin­volti nella gestione della guerra non meno dei gene­rali (Alber­tini, Ojetti, Bar­zini, Frac­ca­roli), dia­ri­sti per­plessi a futura memo­ria (Gatti) e anche donne eman­ci­pate o in via di eman­ci­pa­zione, come l’anarco-rivoluzionaria pala­dina dell’interventismo Maria Rygier, o la cattolica-democratica Anto­nietta Giacomelli.

La reli­gione è coin­volta da subito nell’intervento. Cadorna, cat­to­li­cis­simo mal­grado l’accostamento ine­vi­ta­bile del suo cognome a Porta Pia, rein­tro­duce i cap­pel­lani mili­tari, non solo cat­to­lici, ma anche pastori e rab­bini, se pure in misura molto esi­gua. Tra i tanti eccle­sia­stici coin­volti spic­cano Gio­vanni Seme­ria e Ago­stino Gemelli, entrambi «reli­giosi che ven­gono bene accolti al Comando supremo», «uomini d’azione e di potere – inter­preti di un volon­ta­riato cat­to­lico dai lar­ghi oriz­zonti e impren­di­tori di lungo corso del sacro», con dire­zioni di mar­cia non sovrap­po­ni­bili, tut­ta­via, visto che «Seme­ria aspira a coniu­gare i cri­stiani con la moder­nità, men­tre Gemelli – altret­tanto moderno nei metodi – guarda cul­tu­ral­mente all’indietro e aspira a indi­riz­zare la “ricon­qui­sta cri­stiana” del mondo verso ciò che non teme di chia­mare Medioevo».

Sono molto pochi gli intel­let­tuali che ten­tano di sot­trarsi alla regres­sione pro­pa­gan­di­stica del nazio­na­li­smo, e tra que­sti l’esponente più illu­stre – ma ormai iso­lato – della cul­tura ita­liana, Bene­detto Croce: «Con­si­dero tutto ciò – scrive nelle pagine dedi­cate alla guerra — come mani­fe­sta­zioni dello stato di guerra. Non si tratta già di que­siti razio­nali, ma di urti tra pas­sioni; non di solu­zioni logi­che, ma di asser­zioni d’interessi che, seb­bene altis­simi, sono nazio­nali, ossia par­ti­co­lari; non di ragio­na­menti, ma di finti ragio­na­menti, costruiti dall’immaginazione».

Una pic­cola logica di potenza

Ma di fronte al dila­gare del «tren­to­trien­ti­ni­smo», a quel «Trento-e-Trieste», for­mula patriot­tica tal­mente indis­so­lu­bile da far pen­sare a molti ita­liani lon­tani dal fronte che si trat­tasse di un’unica città (alcuni dice­vano due città divise da un ponte, come Buda e Pest), gio­verà ricor­dare che è solo pro­pa­ganda per le masse, «favola bella» che gli «uomini d’ordine» (gli «atei devoti» dell’epoca, aggiunge Isnen­ghi) lascia­vano usare nelle piazze, senza scal­darsi troppo in pro­prio.

Forse sono pro­prio que­ste le con­si­de­ra­zioni che il let­tore tro­verà più nuove, cer­ta­mente inu­suali. Si sco­pre che in realtà Trento inte­ressa molto poco, anche se è impor­tante por­tare il con­fine «natu­rale» sul Bren­nero. Molto di più inte­ressa Trie­ste, ma solo in quanto porto che può assi­cu­rare il con­trollo sull’Adriatico «lago italiano».

Le moti­va­zioni della guerra sono tutte inscritte nella logica di potenza, nella volontà di affer­ma­zione di un impe­ria­li­smo ita­liano che per tre decenni cre­derà di poter gio­care un ruolo auto­nomo e impor­tante, in un mondo che la guerra avrebbe però messo in crisi, distrug­gendo gli equi­li­bri che ave­vano reso pos­si­bile l’egemonia della vec­chia Europa.

L’ondata emo­zio­nale di patriot­ti­smo viene in pre­va­lenza da sini­stra. Nella quasi totale revi­sione delle appar­te­nenze che la guerra pro­voca c’è ovvia­mente un «pul­lu­lìo di ex» (e Isnen­ghi qui riprende temi già ampia­mente trat­tati nel suo Ritorni di fiamma dello scorso anno). Si forma la «strana cop­pia» Bissolati-Mussolini: il rifor­mi­sta scon­fitto al con­gresso di Reg­gio Emi­lia del 1912 e il gio­vane rivo­lu­zio­na­rio che l’aveva defe­ne­strato dal partito.

«Ener­gu­meno» non molto ben visto dai comandi, il futuro Duce, e dopo una lieve ferita rispe­dito a fare ciò che meglio sa fare, cioè il giornalista-agitatore, col sus­si­dio dato­gli dal governo fran­cese e col com­pito – come si esprime il fac­cen­diere Filippo Naldi con l’ambasciatore di Fran­cia – di «raccoglie(re) intorno a sé e dirige(re) a un intento patriot­tico tutta la teppa dell’Italia set­ten­trio­nale». Ma biso­gna aggiun­gere che le sfu­ma­ture tra inter­ven­ti­smo «demo­cra­tico», «rivo­lu­zio­na­rio» o pura­mente nazio­na­li­stico sono desti­nate ad atte­nuarsi nel corso del conflitto.

Al di là di Cesare Bat­ti­sti, imbal­sa­mato nella dimen­sione di «mar­tire» anti­au­striaco, dello stesso Sal­ve­mini, influente in ristretti cir­coli intel­let­tuali ma troppo pro­fes­so­rale per par­lare con suc­cesso alle truppe, di un Mus­so­lini dall’audience molto limi­tata, l’unica figura che appare popo­lare è quella di Bis­so­lati, mini­stro guer­riero ascol­tato al fronte, dai fanti come dai gene­rali.

Resta ben poco di socia­li­smo rifor­mi­sta nella sua azione: avremo da parte sua l’approvazione dei metodi di Cadorna, deci­ma­zioni com­prese, col tri­ste pri­mato con­se­guito dall’esercito ita­liano in que­sta forma di governo ter­ro­ri­stico della truppa («pura rap­pre­sa­glia nel muc­chio, ven­detta sociale allo stato puro», scrive Isnen­ghi), sia pur rac­co­man­dando «mode­ra­zione», ma pure addi­ve­nendo a minacce di fuci­la­zioni «poli­ti­che» dei suoi ex-compagni dopo Caporetto.

Si crea una «grande area tra­sver­sale dell’adattamento – pro­gres­sivo o di schianto – ai fatti com­piuti» nella quale con­flui­reb­bero tutti i tre grandi «par­titi di rac­colta» del neu­tra­li­smo, cioè liberal-giolittiani, cat­to­lici e socia­li­sti. Anche se è indub­bio, il grande adat­ta­mento ai fatti com­piuti che la suc­ces­sione degli eventi impone, si pos­sono sol­le­vare dubbi su alcuni giu­dizi di insieme che Isnen­ghi sug­ge­ri­sce, assai più che teorizzare.

«Per­ché e come una nazione intera cam­biò alleanze e diventò inter­ven­ti­sta», recita la fascetta edi­to­riale che accom­pa­gna il libro. Ma dav­vero l’Italia intera diventò interventista?

Ci sarà la for­tis­sima pres­sione delle piazze del «radioso mag­gio» per inti­mi­dire un Par­la­mento in mag­gio­ranza gio­lit­tiano e neu­tra­li­sta, e che sarà chia­mato a espri­mersi solo a guerra già deli­be­rata dal sovrano. Però in Ita­lia non abbiamo le grandi mani­fe­sta­zioni popo­lari e pro­le­ta­rie che inva­dono le piazze inglesi e tede­sche, e l’agitazione coin­volge esclu­si­va­mente una bor­ghe­sia irri­fles­siva e mane­sca, che pre­si­dierà assai più le trin­cee del «fronte interno» che quelle sca­vate al fronte. Ma le piazze non erano solo inter­ven­ti­ste, come testi­mo­niano i nume­rosi studi rac­colti nel volume curato da Ful­vio Cam­ma­rano (Abbasso la guerra! Neu­tra­li­sti in piazza alla vigi­lia della Prima guerra mon­diale in Ita­lia, Le Mon­nier, pp. 606, euro 29).

Il neu­tra­li­smo silente

Cat­to­lici, socia­li­sti e libe­rali gio­lit­tiani erano la stra­grande mag­gio­ranza del paese, e al di là di tran­sfu­ghi chias­sosi e atti­vis­simi il corpo fon­da­men­tale di que­sta mag­gio­ranza d’Italia non sarà mai inti­ma­mente con­qui­stata alle ragioni della guerra. La costru­zione di una memo­ria pub­blica fon­data essen­zial­mente sul mito uni­fi­cante della Grande Guerra sarà impresa non sem­plice e labo­riosa, inau­gu­rata dalla classe diri­gente del primo dopo­guerra e por­tata a com­pi­mento dal fascismo.

In più, avremo in Ita­lia l’unico par­tito socia­li­sta, accanto a quello social­de­mo­cra­tico russo, che rifiuta la guerra e man­terrà que­sto atteg­gia­mento fino alla fine del con­flitto (e nei suoi risvolti cul­tu­rali e psi­co­lo­gici anche oltre), pur nelle dif­fi­coltà, le atte­nua­zioni, gli equi­li­bri­smi dia­let­tici che accom­pa­gnano il tor­men­tato «non ade­rire né sabo­tare» (con un avvi­ci­na­mento alle ragioni del «patriot­ti­smo» che avverrà solo dopo lo sfon­da­mento delle linee a Capo­retto, in un com­pro­messo rifiu­tato da pochis­simi, e tra que­sti in primo luogo Gia­como Matteotti).

Da qual­che tempo Isnen­ghi sem­bra pro­porre in ter­mini esem­plari la per­so­na­lità di Cesare Bat­ti­sti, «tra­gica figura di irre­dento ter­ri­to­riale e redento poli­tico», esem­pio di socia­li­smo sen­si­bile alle ragioni della patria che i suoi com­pa­gni ebbero il torto di non seguire, con­dan­nan­dosi a una ste­rile emar­gi­na­zione dallo spi­rito nazio­nale.

Ma le stesse pagine di Isnen­ghi mostrano la for­tuna quasi ine­si­stente del lascito poli­tico di Bat­ti­sti, a sca­pito della figura di mar­tire patriot­tico che assor­birà inte­ra­mente il suo ricordo. E la coe­renza socia­li­sta nel rifiuto della guerra sarà alla base del pre­sti­gio presso le masse lavo­ra­trici di quel par­tito, che si affer­merà nelle prime ele­zioni demo­cra­ti­che del 1919 come il più grande par­tito italiano.

Quella che inter­viene dopo, come sap­piamo, sarà un’altra sto­ria, dove gli errori com­messi si som­me­ranno anche e soprat­tutto a un enorme carico di vio­lenza subita.

Il Manifesto -8 luglio 2015

PICCOLI E LENTI


L’importanza di essere piccoli



La poesia che viene al mondo vi giunge carica di mondo.
P. Celan, Microliti, ed. Zandonai


PROGRAMMA
Tutti gli eventi sono a ingresso gratuito e si svolgono a partire dalle ore 21:00

 Lunedì 3 agosto, ospiti dell’affascinante castello neogotico Manservisi di Castelluccio (Porretta Terme) dentro un grande parco con alberi secolari e che si estende fino al Museo Laborantes, il più grande Museo etnografico della montagna bolognese, due “regine” del panorama cantautorale e poetico nazionale, Cristina Donà e Elisa Biagini,  condivideranno per la prima volta il palco regalando al pubblico una raffinata serata tutta al femminile. Con la sua “parola verticale”, sfrondata da ogni elemento ridondate, e per questo motivo ancor più incisiva e limpida, la poetessa fiorentina annoderà i suoi versi con l’eco e il respiro delle voci di Paul Celan e Emily Dickinson. Un dialogo elettivo e sentimentale composto da versi taglienti affacciati “ai bordi” della vita e sempre tesi verso l’altro da sé. Dopo l’ascolto della poesia sarà la volta del live acustico di Cristina Donà, uno dei talenti più cristallini e influenti emersi alla fine del millennio dalla nuova scena milanese e poi decollata, grazie al suo talento vocale e al valore poetico dei suoi testi, verso un successo internazionale. Per L’importanza di essere piccoli sarà accompagnata dal compositore, arrangiatore multistrumentista Saverio Lanza, anche produttore dell’ultimo album Così vicini, un disco delicato e potente composto da canzoni intime e “vicine”, adatte a una condivisione ravvicinata e più intima.
Nei giorni del festival nascono dei legami che durante l’anno continuano a crescere e a ramificarsi, per questo motivo martedì 4 agosto saranno di nuovo gli ampi e assolati campi del circolo culturale ippico Scaialbengo di Castel di Casio ad ospitare Francesco Di Bella e Guido Catalano. Il clima gioviale e semplice dell’associazione che fa vivere allo stato brado i suoi cavalli, ben si addice con l’entropia di Guido Catalano tra i poeti più irriverenti, odiati-amati e letti degli ultimi anni. Le ultime due raccolte di poesie,Ti amo ma posso spiegarti e Piuttosto che morire m’ammazzo edite da Miraggi Edizioni, hanno venduto circa 18.000 copie e la sua fan page è seguita da quasi 20.000 persone. «Le poesie che fanno ridere di cuore e di pancia, e i reading  memorabili lo confermano come uno degli autori che riesce di più ai coinvolgere il pubblico.» Se Catalano il rock l’ha portato tra i suoi versi,  Francesco Di Bella, nel suo progressivo allontanamento dai 24 Grana, gruppo che assieme a 99 Posse e Almamegretta ha rappresentato il meglio della scena musicale napoletana negli anni ’90, si è invece ritirato dai ritmi punk elettronici della band in una dimensione più intima dedicandosi alla composizione pura. La sua voce appassionata e dolente chiuderà la serata attraverso un viaggio nella Napoli settecentesca in cui, tra gioielli sconosciuti scoperti in decine di vinili-capolavoro, confluiranno, anche dei brani  più famosi dei 24 Grana. Nasce così  Francesco Di Bella & Ballads Cafè che accompagnerà gli spettatori nel centro della notte, con le sue canzoni ipnotiche dal suono corposo e inebriante.
Vivere il margine non solo geograficamente ma anche nell’uso di lingue smarrite e in disuso, sono tra i temi cari al festival che quest’anno focalizza la sua attenzione sulla poesia dialettale ospitando tre autori che  attraverso questa lingua “povera” riescono a raccontare in modo autentico la vita. Mercoledì 5 il poeta veneto Longega e la romagnola Teodorani daranno vita a una lettura incentrata sulla musicalità della parola  nel borgo di Castagno di Piteccio, data che conferma  la volontà del comune di Pistoia,  partner del festival  dal 2014, di rafforzare il legame tra Toscana e Emilia Romagna. La chiarezza e schiettezza dei versi di Annalisa  Teodorani,  paragonata ad «un meteorite precipitato sul parterre della poesia italiana», ricordano quelli di Tonino Guerra, di cui è da molti considerata erede. Dalla pastosità “amabile” della lingua di Santarcangelo all’ariosità del veneto di Andrea Longega, un autore che fila e tesse le parole con la cura dei lavori artigianali, un mestiere che richiede tempo e pazienza e che riconduce il lettore a una giusta dimensione, più piccola e malinconica. Primo lustro è il suo libro più recente, da poco uscito per Nervi Edizioni, casa editrice di Fabio Donalisio, Francesco Targhetta e Marco Scarpa, che presenteranno proprio in questa serata il loro progetto editoriale. La tiratura di ogni volumetto è di cento copie, ognuna caratterizzata da una attenta lavorazione, curata nella scelta dei titoli e nell’estetica dei formati.  «L’idea di tornare a fare libri partendo da scelte semplici ma consapevoli: un’impaginazione elegante, la scelta di un carattere ben leggibile e piacevole alla vista, e una cura nell’assemblare tutto questo» sono, dalle parole degli editori, il valore di questo progetto. Una poetica aderente a quella del festival che quest’anno ha deciso di ospitare la casa editrice dando visibilità a un mestiere nobile e antico. La serata si concluderà con il live acustico di Roberto Dellera, bassista degli Afterhours, un originale folletto, vintage e psichedelico, che si muove attraverso epoche e stili con brillante disinvoltura.» Dopo il sorprendente debutto da solista, Colonna sonora originale (2012),  Dellera ritorna con il secondo albulm Stare bene è pericoloso, un disco di rock’n’roll e, in quanto tale, contiene vari elementi: dal pop al rock, dalla psichedelia, al folk e al jazz ma soprattutto lo spirito della musica popolare moderna.
Per l’ultimo  appuntamento di giovedì 6 agosto si salirà verso uno dei luoghi più antichi dell’Appennino, l’antica pieve romanica della Rocca di Roffeno, nel comprensorio del comune di Vergato. Un piccolo curatissimo borgo immerso nel silenzio, tra ortensie e gerani, in grado di incantare con la semplice e robusta architettura tipica della montagna. L’Abbazia, sorta nel X secolo per dare ristoro ai viandanti, ospiterà la lettura  del terzo poeta dialettale Emilio Rentocchini, di Sassuolo (Modena); di lui sulle pagine del Corriere della Sera Giovanni Giudici  ha scritto: «Rentocchini ci offre nella sua ricca tematica un dono di poesia antica e nuova: il coraggio della malinconia; la vanità delle imprese umane».  Dialetto in forma di sonetti che rivelano una  grande tecnica allacciata a una profonda ricerca dentro l’animo umano, approfondimento che rivela una moralità  che si manifesta dentro la materialità delle cose. E se Rentocchini è stato anche  definito “un virtuoso della musica per parole”, sarà il cantautorato  di alta qualità a concludere il festival con l’omaggio ai grandi autori e compositori italiani interpretati da DiodatoA Ritrovar Bellezza è il disco con cui Diodato omaggia quegli artisti che con le loro opere, a cavallo degli anni ’60, hanno reso grande la musica italiana nel mondo. Come Diodato stesso racconta “Queste canzoni ci appartengono, ancora ci raccontanoe sono in grado di ricordarci di quanta forza e bellezza siamo ancora capaci.” La voce intensa e le originali riletture di ‘grandi classici’, oltre al talento dimostrato nelle composizioni originali, hanno portato Diodato all’attenzione nazionale prima grazie al successo ottenuto al 64esimo Festival di Sanremo e quindi attraverso la costante presenza nelle puntate domenicali della scorsa stagione di “Che Fuori Tempo Che Fa”, parte conclusiva del programma di Fabio Fazio in onda su Rai 3.
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Anche quest’anno poi il festival presenterà una serie di creazioni originali e uniche da parte di vari artisti e artigiani che hanno realizzato opere specifiche per l’evento. Borse in lino e cotone cucite a mano, abbinate a una chiocciolina di stoffa imbottita che riprende il tema dell’immagine di questa V edizione sono la proposta di Carohandmade, una creativa della provincia di Livorno che ha preparato una serie ridottissima di questi oggetti unici il cui acquisto darà una parte dei proventi a sostegno del festival. Ritroveremo poi i ‘miniquadri’ di Cifone, al secolo Simone De Berardinis, di cui il fumettista Maicol Rocchetti (il noto autore degli ‘Scarabocchi animati’ di maicol&mirko) ha detto “Cifone è uno dei più grandi artisti che mi è capitato di conoscere. La potenza dei suoi disegni, dei suoi modellini di cartone e delle sue foto ricordo è devastante. Cifone riesce a stupirmi da ormai trent’anni. Le sue cose sono sempre vere, giuste, entusiasmanti, commoventi. Soprattutto non sono mai una truffa”. Saranno presenti poi i taccuini cuciti a mano della ditta artigiana 13sedicesimi di Torino, che pensa, disegna, stampa e rilega meravigliosi quaderni che per il festival riportano in copertina alcuni versi di Amelia Rosselli, tratti dal poemetto ‘La libellula, panegirico della libertà’. Gli stessi versi, ovvero: “Io non so cosa voglio, tu non sai/ chi sei, e siamo quasi pari” sono impressi su una serie di magliette realizzate dalla ditta Macron di Crespellano (BO) su generoso dono dell’Hotel Helvetia Thermal Spa di Porretta Terme.  Verranno inoltre presentati inoltre alcuni esemplari di poster d’arte numerati, pezzi unici realizzati appositamente secondo le antiche modalità di lavoro tipografico dalla tipografia d’arte bolognese Anonima Impressori. Tutti questi specialissimi piccoli grandi oggetti verranno proposti al pubblico in una raccolta fondi a sostegno delle attività del festival.
Ad arricchire la rassegna saranno presenti i due bookshop della libreria “L’ Arcobaleno” di Porretta e de “LO SPAZIO di via dell’ospizio” di Pistoia.

INFO
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fb: L’importanzaDiEsserePiccoli
mob:  349 3690407 | 349 5311807

ufficio stampa SassiScritti: Daria Balducelli mob. 349 3690407; d.balducelli@gmail.com

21 luglio 2015

FRANCO LOI, Forsi û tremâ

Disco di Nebra, la piú antica rappresentazione della volta celeste, risalente al 1.700-2.100 a.C.




Forse ho tremato come di ghiaccio fanno le stelle,
no per il freddo, no per la paura,
no del dolore, del rallegrarsi o per la speranza,
ma di quel niente che passa per i cieli
e fiata sulla terra che ringrazia...
Forse è stato come trema il cuore,
a te, quando nella notte va via la luna,
o viene mattina e pare che il chiarore si muoia
ed è la vita che ritorna vita...
Forse è stato come si trema insieme,
così, senza saperlo, come Dio vuole...


*****

Forsi û tremâ cume de giass fa i stèll,
no per el frègg, no per la pagüra,
no del dulur, legriâss o la speransa,
ma de quel nient che passa per i ciel
e fiada sü la tèra che rengrassia…
Forsi l’è stâ cume che trèma el cör,
a tí, quan’ne la nott va via la lüna,
o vegn matina e par che ‘l ciar se mör
e l’è la vita che la returna vita…
Forsi l’è stâ cume se trèma insèm,
inscí, sensa savèl, cume Diu vör…


Franco Loi


Forsi û tremâ cume de giass fa i stèll
da "Lünn" (1982)


Devo all'amica Lorena Melis la scoperta di questa bellissima poesia e l'intervista all' autore che di seguito trascrivo:

Intervista a Franco Loi, Poeta
fatta nel 1990 da Vera Lúcia de Oliveira (Maccherani),
(nell'ambito di "Poesia a Palazzo dei Priori" del Merendacolo di Perugia e pubblicata sulla Revista da APIESP - Associação de Professores de Italiano do Estado de São Paulo, Insieme, n.7, San Paolo, Brasile, 1998-1999, pp.36-42)

Franco Loi, nato a Genova nel 1930, vive a lavora a Milano dal 1937. Ha collaborato con diverse riviste e vinto importanti premi letterati. Le sue poesie sono state tradotte in Russia, Cecoslovacchia, Olanda, Spagna, Romania, Portogallo. Pubblica il primo libro solo nel 1973, I cart (Edizioni Trentadue). Seguono le raccolte: Poesie d'amore (Edizioni Il Ponte, 1974), Stròlegh (Einaudi, 1975), Teater (Einaudi, 1978), L'aria (Einaudi, 1981), L'angel, I parte (San Marco dei Giustini, 1981), Lünn (Edizioni Il Ponte, 1982), Bach (Scheiwiller, 1986), Liber (Garzanti, 1988), Memoria (Boetti & C., 1991), Umber (Piero Manni Ed., 1992), Poesie (Fondazione Piazzolla, 1992), Arbur (Moretti & Vitali, 1994), Alice (Edizioni Il Gatto dell'Ulivo, 1996), L'Angel, in 4 parti (Mondadori, 1996).In prosa ha prodotto Dieci racconti (ICI Milano, 1986), Diario breve, scritti sulla poesia e sulla letteratura (Edizioni Cip, 1995), oltre a innumerevoli saggi.
La vena polemica del poeta traspare in questa intervista che spazia sulle più attuali questioni della vita italiana, una vena polemica che segna l’approccio del poeta al mondo e alla storia. La sua è una voce forte, caratterizzata, come afferma Giacinto Spagnoletti, da “una violenza rappresentativa che non ha eguali nella poesia d’oggi, in lingua e in dialetto.”[1]
Che cos'è per te la poesia, tu che hai scritto in un verso di L'Aria: "si scrive perché la vita sia più vera"?
Quel verso ha significati molteplici. Per me, e non so per altri, lo scrivere è insieme conoscere e conoscersi di più. Sembra quasi che la parola scavi dentro di noi, togliendo incrostazioni e impedimenti di varia natura sino ad agevolare il rapporto tra la nostra coscienza e la memoria inconscia - che è memoria del corpo, delle emozioni e dei pensieri che tutto il nostro essere elabora indipendentemente dalla nostra consapevolezza. E in questo senso ci aiuta ad avere un rapporto più vicino alla verità, sia con noi stessi, sia con il prossimo, sia con le cose e la natura. Quindi a rendere la vita più vera.
La poesia, che è insieme parola significante, musica e ragione, è la forma di un nostro modo di essere spesso ben oltre quanto presumiamo di noi. Ma è anche l'unica possibilità di vero dialogo con l'altro, giacché coinvolge l'ascoltatore nella comune ragione e nella comune emozione oltre gli impedimenti caratteriali e ideologici.
Un mio caro amico, Davide Bracaglia, ha scritto: "Non è che il dono prometeico di una scintilla comune di verità condivisa sul piano creaturale. Poesia non è tanto, o solo, forma, contenuto, simboli o immagini, non tanto un'etica o un'identità, quanto un'elargizione, senza attendere nulla in cambio, di se stessi. Poeta è chi si offre, da guarito, per la salute di ogni lettore, di ogni altro uomo-poeta". E per guarigione, credo che il mio amico intenda il rinnovato rapporto con la vita, con l'amore, con la verità. Infatti quando il mio amico dice "guarire dalla letteratura", vuol dire emanciparsi dalle menzogne della mente, dai pregiudizi, dagli ostacoli di varia natura che frapponiamo ai nostri rapporti con gli altri (e con noi stessi). Dobbiamo rendersi conto che la mente è menzogna nel suo orgoglio di dominare la nostra persona e la nostra vita, di farci credere che l'immagine che abbiamo di noi sia vera. La poesia smaschera questa menzogna, rivela oltre la persona (la maschera) un volto diverso e non sempre piacevole di noi. In questo la poesia rende vera, vicina alla verità la nostra presenza nel mondo.
Hai pubblicato il primo libro solo nel 1973, ma quando hai cominciato a scrivere?
Avevo 9 anni quando ho preparato per un gruppo di amici una riduzione teatrale dei "Tre moschettieri" di Dumas. Sapevo già leggere a 4 anni, quando mia madre mi regalò due libri alla Fiera di Sant'Agata a Genova.
A scuola ci facevano scrivere le "cronache" al posto dei "temi" e ricordo che a 16 anni, mentre tornavo in bicicletta dallo Scalo Merci di Milano Smistamento dove lavoravo, ebbi un gran sconforto per la perdita di un pacco di miei scritti che portavo nel portapacchi dietro il sellino.
Non ricordo periodi della mia vita che non siano intrecciati allo scrivere. Così scrissi versi per la pace che avevo 17 anni e liriche d'amore quando m'innamoravo - tutto in italiano. Cominciai invece a scrivere poesie in milanese quando nel 1965 mi capitò tra le mani la raccolta dei Sonetti del Belli. Il Vigolo dice che la stessa cosa capitò all'arcade Belli, quando a Milano fece la conoscenza con la poesia del Porta. Posso dire con ironia che è una specie di scambio o remunerazione storica.
Per me, comunque, non si "comincia a scrivere" - è illusione degli sperimentali, che intendono lo scrivere come una costruzione mentale o una "produzione letteraria". Credo che scrivere sia, almeno per me, così "insieme" alla vita e nello stesso tempo così lontano, da non esserci inizio - io non ne ho memoria precisa. È un modo di essere ed è un modo di capire, e questo lo si fa sin dalla nascita. Non c'è poi molta diversità tra la consapevolezza di un bimbo e quella di un adulto. Spesso l'adulto si allontana dalla consapevolezza di sé per costruirsi una realtà rassicurante e conformistica. Ripeto che lo scrivere è comunque un mezzo per recuperare consapevolezza di sé. Quindi, non ha inizio. Quando vado nelle scuole chiedo sempre: chi scrive? E più si va indietro nell'età e nel tempo e più numerosi sono quelli che scrivono. Dunque si dovrebbe semmai chiedere: quando si smette e perché? Cioè capire che il "non scrivere" è una perdita.
Con la scelta di scrive poesie in milanese, hai cercato di ridare dignità al dialetto che in Italia è stato per molto tempo la lingua degli umili, delle classi meno privilegiate. Quello che usi però è un dialetto un po' particolare, nel quale confluiscono elementi di altri dialetti, come lo stesso genovese natio o l'emiliano. Che cosa rappresenta per te questa lingua che è stata definita come una "lingua privata"?
Non ho scelto il dialetto. Qualcuno ha scritto che "il dialetto ha scelto me". E non ho cercato di "ridare dignità al dialetto", che ne ha già una sua, grande, nell'uso e nella storia popolare. C'è una significativa serie di sonetti di Carlo Porta sulla "dignità e il valore" del dialetto. Semplicemente, quando, per un motivo estetico, mi son trovato a dar voce a un giovane soldato milanese - che non potevo far parlare in italiano - ho capito due cose: di aver dentro di me il milanese aldilà della mia consapevolezza; e ho capito di aver dentro di me la poesia, cioè questa strana connessione tra suono, contenuti ed emozioni.
Che poi la mia lingua non sia "privata" mi sforzo inutilmente di dirlo da anni. Certo, in un altro senso la lingua di ogni poeta è privata. La gente non ha mai parlato la lingua di Leopardi o di Dante. È successo, semmai, che la gente ha capito la ricchezza della lingua dopo aver letto Dante o Leopardi. È tanto poco privata che spesso versi interi delle mie poesie sono raccolti dalla parlata popolare. per non parlare dei tanti neologismi o di alcune espressioni. Qual è del resto il confine tra pubblico e privato in un poeta e in una poesia? Viviamo la cultura degli uomini e viviamo in mezzo agli uomini. Anche volendo, non c'è niente che sia completamente privato. Il milanese rappresenta semmai la mia vita e la mia storia in Milano, mentre il colornese rappresenta l'amore per la lingua e la terra di mia madre, e il genovese la memoria della mia prima infanzia a Genova e della lingua di mio padre.
Le classi privilegiate milanesi, un tempo, parlavano milanese. Non si deve dimenticare che all'unità d'Italia (1870) soltanto il 2,3% degli italiani parlava italiano, e che soltanto dopo gli anni '50, per l'avvento della televisione, l'italiano è diventato lingua della maggioranza. Gli italiani ricchi non hanno mai parlato il toscano di Dante, ma quello scolastico. La lingua del potere politico non è del resto mai una lingua poetica. Occorre dimestichezza con la comunità e con lo Spirito che gli uomini di potere non hanno mai avuto, almeno dalla rivoluzione francese in poi. Una volta che si capisce la poesia come "offerta di sé" e forma di una verità sconosciuta, si capisce anche la menzogna nascosta nella contrapposizione lingua-dialetti. La verità, come il dono, sono indifferenti alla lingua. Leopardi scrive nello Zibaldone che occorre star vicino al popolo che parla perché "è più vicino alla natura e privo di logica" - io traduco dalla imposizioni della mente. E Dante parla di poesia come lingua materna - non in quanto della madre - ma delle origini, cioè delle Spirito.
Dunque per me la lingua è un tramite alla verità e alla conoscenza, una voce di me, della gente che ho conosciuto, che ho amato e mi ha amato, dei luoghi in cui ho vissuto, ma anche della cultura mondiale che ho avvicinato - dico spesso che forse, oltre Salgari e Verne e la fisica di Einstein e il Corriere dei Piccoli e Socrate e Kant, anche Shakespeare, Dostoevskij, Cervantes e Drummond de Andrade hanno contribuito con Dante, Belli e Carlo Porta, a risvegliare la mia voce.
Che senso ha scrivere in dialetto oggi in Italia? Non si rischia, con questa scelta, di contribuire in qualche modo a minare ancora di più la già fragile unità italiana?
Che c’entra “la fragilità dell’unità italiana” con il dialetto in poesia? L’unità non è una questione di lingue ma di coscienze. Viene prima la vita poi la lingua. Si sta insieme e si parla una lingua comune quando si comprende che siamo figli di una stessa matrice, che ogni uomo è il suo prossimo, che l’altro è come noi nel profondo di se stesso, quando si capisce che ognuno deve saper sacrificare qualcosa nel rapporto con l’altro. L’unità d’Italia è in pericolo sin dagli inizi, perché è stata un’unità voluta dalla politica internazionale - gli interessi inglesi e francesi contro l’Austria - ed è stata sin dagli inizi supremazia di una regione (il Piemonte) contro le altre regioni, o almeno senza tener conto della volontà dei popoli italiani, e, soprattutto, l’imposizione di una lingua di minoranza potente (il becero toscanismo di Manzoni) 2,3% nel 1870 contro le lingue parlate (lombardo, veneto, ligure, napoletano ecc.) dal 97,7% degli italiani.
L’italiano si parla a maggioranza solo oggi. E non per una questione di “unità” o di “comuni interessi” ma per la diffusione televisiva. Ed è un italiano povero, inespressivo, del tutto adeguato alla finta unità e allo stato attuale delle coscienze. Non vedo proprio come l’uso o l’apprezzamento del dialetto possa incrinare l’unità nazionale. È semmai vero, come scriveva il grande linguista Graziadio Ascoli, che l’unità italiana e l’accesso ad una lingua nazionale non può che avvenire attraverso la conservazione e la crescita delle varie lingue regionali. Se la lingua è legata alla coscienza degli individui, come si può immettere una vera coscienza nel patrimonio nazionale negandone le lingue? L’Ascoli diceva: si parla meglio italiano insegnando ai popoli a leggere e scrivere nei loro dialetti. Ne è prova la ricchezza della narrativa italiana, che ha fatto largo uso dei dialetti in ogni epoca: dal siciliano del Verga, al triestino di Svevo, al piemontese di Fenoglio e Pavese. La gente crea lingua mentre vive e lavora. Non si può imporre una lingua dall’alto.
Se c’è semmai un segno della decadenza, non solo dell’unità della nazione, è nella perdita continua della creatività, semiscomparsa dell’artigianato e del lavoro manuale - e nell’aumento della passività umana nella produzione e nella disattenzione del centro alle periferie. La gente non attiva le proprie facoltà inconscie, diminuisce l’attenzione a sé, alla natura, alle materie, all’importanza dell’altro. I dialetti scompaiono, e l’italiano diventa burocratico e impoverito. La gente non inventa più la lingua. Qui è la radice dello sgretolamento, della dissoluzione. È lo Spirito che dà sapore al pane, come diceva l’antica sentenza.
Diceva un mio traduttore portoghese, “è più facile che c’intendiamo in milanese che in italiano”. E io correggo dicendo: ci si intende in dialetto, in italiano e in inglese quando l’amore ci porta alla comprensione reciproca.
Come si pone il poeta in rapporto al proprio tempo? La poesia è testimonianza storica, è partecipazione civile? O è visionarietà, è capacità di andare oltre la realtà apparente delle cose, di poter scorgere, l'al di là delle limitazioni e contingenze quotidiane, il senso più profondo della vita e anche della morte?
Lo sappia o non lo sappia il poeta è nel proprio tempo. Ma qual è il tempo? Per me è contemporaneo Dante, ed è mio contemporaneo anche Platone. Dunque il tempo è l'arco di una civiltà. Come scriveva qualcuno "un europeo d'oggi è cristiano anche quando non lo sa", e aggiungo anche quando non lo vuole. Ma cos'è il cristianesimo, se non la faccia ebraica di una religione e di una cultura ancora più antiche? Allo stesso modo non si può non avere partecipazione civile. Viviamo nella città e, in modo attivo o passivo, ne partecipiamo il destino. È la divaricazione degli interessi economici, con tutte le loro facce ideologiche e culturali, che scinde la città e quindi le vicende umane. Il poeta non è fuori da questa vicenda storica.
Sicuramente non si comprende la funzione della poesia, se non si comprende anche la sua natura politica. Il che non significa un uso della poesia, ma un'accettazione della più profonda essenza della poesia. Rivelando all'uomo ciò che non conosce e non sa, di sé, della natura, del mondo, la poesia rivela alla società una presenza al di fuori delle ideologie, delle dottrine, delle culture intellettuali. La proposta del poeta è dunque proposta incessante di un uomo al di fuori degli schemi culturali. La cultura ufficiale di una città è messa in crisi dalla poesia e la città accresce la sua visione di sé e delle proprie motivazioni sociali accogliendo la parola dissacrante del poeta. Voglio dire che una società, nel più alto significato della parola, è quella che ascolta il poeta. Accettare la poesia è accettare il diverso.
La poesia e la religione non dicono mai: "Questo è il mondo". Ma semmai: "Questo è il mio modo di essere nel mondo". La poesia, come la religione, dice: "La conoscenza della mente non è sufficiente a disegnare il mondo". Così l'apporto della poesia alla città è apertura verso il possibile e verso l'altro da sé.
Il senso più profondo della vita e della morte viene dall'uomo stesso. La poesia è figlia dell'uomo, non è un'astrazione letteraria. La poesia è il modo in cui l'uomo tiene vivo in sé e quindi nella città la verità dell'essere e del vivere. la civiltà si misura appunto nell'accettazione che una città fa dell'altro, dello sconosciuto, dello straniero, del diverso. Quindi della poesia. I greci hanno dato tanto, eccessivo, spazio alla mente per paura delle Erinni, cioè dell'imprevisto, dell'ignoto, di ciò che è "evento improvviso e inaccessibile". La poesia è questo evento, questo ammettere in sé e fuori di sé il mistero. E la morte e la vita sono congiunte nel mistero dell'essere.
Le limitazioni e contingenze quotidiane sono tali solo nella nostra mente, nell'eccesso delle paure, nel bisogno di sicurezza, nelle mancanze d'amore. Il desiderio è l'ombra della morte. Come dice Dante, nel "desìo" c'è il segreto dei nostri bisogni più profondi. Ma noi abbiamo "passione", cioè diventiamo passivi nel desiderio e confondiamo il desiderio col fine. Crediamo che le cose e le persone o le situazioni desiderate siano lo scopo di ogni nostro desiderio. Perciò siamo sempre delusi quando otteniamo ciò che riteniamo di volere. La città apparente è quella che ruota attorno ai desideri, la città reale è quella che guarda più in là. La poesia richiama dunque incessantemente la città allo sguardo. Questo è il compito politico della poesia. È come se qualcuno guardasse soltanto da un lato e lo si prendesse per le spalle e gli si mostrasse l'altro lato. Così la poesia allarga alla visione.

[1] Giacinto Spagnoletti, Storia della Letteratura Italiana del Novecento, Newton, Roma, 1994, p.800
Vera Lúcia de Oliveira, Perugia, 17 maggio 1990