31 maggio 2014

UN CLASSICO DEL TAOISMO POCO NOTO IN ITALIA



Pietro Citati

In principio fu il silenzio del mondo
Tra i testi antichi della meditazione taoista, il Vero libro della Sublime Virtù del Cavo e del Vuoto , scritto tra il V e il IV secolo avanti Cristo, e attribuito a Lieh-tzu (ora pubblicato come Il cavo e il vuoto. 50 storie taoiste dalla Utet Extra, collana a cura di Emanuele Trevi e Luna Orlando), è il meno conosciuto in Occidente. Esso contiene alcune massime meravigliose, che si imprimono per sempre nella nostra mente, desiderosa d’assoluto.

Nella cultura occidentale, di rado abbiamo conosciuto una simile tensione ed eleganza intellettuale: una mente pura conduce il pensiero all’estremo del suo rigore, al punto oltre il quale non può spingersi, dove avvertiamo il brivido dell’invalicabile. Proprio lì, Lieh-tzu deride il pensiero: allude, accenna, ironizza, comincia a giocare; e una grande dimostrazione filosofica diventa un apologo o un raccontino o una commediola, che potrebbe piacere a un bambino, o alla nostra mente di bambini.

Qui il pensiero non ha più nulla di astratto: ci sorride amabilmente, incarnato in deliziose storie concrete. La superficie della storia è chiarissima: Lieh-tzu parla di cose elementari: ma se riflettiamo attorno a quello che dice, spesso ci sembra misterioso ed enigmatico. Lieh-tzu va dietro l’apparenza delle parole, oltrepassa il silenzio, intende ciò che sta oltre la parola e il silenzio; nomina le cose che non possono essere dette, e che tuttavia vengono mirabilmente dette attraverso l’arte finissima di rivelare e di nascondere.

Lieh-tzu ama il viaggio: con gli occhi del viaggiatore guarda le cose che mutano, di minuto in minuto; le fattezze, l’aspetto, la sapienza, il comportamento, la pelle, la carne, le ciglia dell’uomo, i paesaggi e gli edifici del mondo. Subito dopo aver esaltato il flusso, Lieh-tzu celebra il suo opposto: l’immobilità assoluta del mondo, la quiete della natura e dell’uomo, e la fissità silenziosa dell’acqua, che non si cura di muovere le proprie onde.

Ciò che sorprende è la conclusione a cui giunge Lieh-tzu: perché il movimento e la stasi si identificano, ciò che muove e ciò che non cambia mai diventano la stessa cosa, ciò che è e ciò che si trasforma si esprimono con lo stesso verbo; e la cascata e il lago senza onde conoscono lo stesso ritmo verbale. Quando viviamo nel Tao, avvertiamo la stessa voce nell’uno e nel mutevole, nel molteplice e nell’identico.

Lieh-tzu e i grandi pensatori taoisti hanno un dono unico. Quando guardano le cose e le pensano, riescono ad attraversare miracolosamente le superfici, avvertendo dietro di esse la misteriosa presenza del Vuoto, che toglie ogni peso e rilievo alle cose, come se fossero spugne imbevute di una sostanza ultraterrena. Per cogliere il Vuoto, il saggio allontana da sé ogni rigidezza: «smussa ciò che è affilato». Diventa molle e cedevole come la medusa, morbido e flessibile come il giunco. Tra i quattro elementi, sceglie a modello l’acqua: l’acqua che, se incontra un ostacolo, si arresta; se l’ostacolo si rompe, corre via; che è rotonda e quadrata secondo il recipiente in cui viene messa, e per questa estrema facilità e pieghevolezza è il più forte tra tutti gli elementi.

Come l’acqua, la natura del saggio non si può suddividere in parti: cede a tutte le cose e penetra in tutte le cose; è senza forma, neutra, insapore; si turba solo quando viene agitata e le sue agitazioni non durano a lungo, perché non nascono da lei ma dal vento.

Quando ha raggiunto questa condizione, il saggio conosce la beatitudine del Vuoto — col quale il Tao coincide. Sebbene tutti esaltino la perfezione del pieno, egli sa che il segreto del mondo riposa sul vuoto; i raggi sono indispensabili per fare una ruota, ma la sua perfezione dipende dal mozzo vuoto; l’argilla è necessaria per modellare il vasellame, ma la bellezza di un vaso dipende dalla forma vuota che circoscrive; i mattoni sono indispensabili per costruire le porte e le finestre di una casa, ma ciò che importa è la forma vuota delle porte e delle finestre.

Così egli fa il vuoto in se stesso, annullando il proprio io. Annulla i propri desideri, i propri impulsi, i propri amori, i propri odi: la tristezza e il piacere, la gioia e la collera. Cancella le proprie esperienze, rinchiudendosi nella propria natura innata. Non guarda, non ascolta, non sente, non conosce, non sa.

Allora diventa quieto, come il Tao: tranquillo come la baia, silenzioso come il deserto, pacato come la melodia, esile come l’eco. Senza forma, senza resistenze, senza desideri, senza volontà, senza passioni, attraversa il mondo simile a una barca senza ormeggi che va alla deriva sull’acqua; e riflette nel proprio puro specchio intellettuale gli opposti dell’universo, tutte le creature che esistono, tutte le cose che accadono e appaiono. Non agisce. La passività è l’unica azione perfetta: l’azione che nasce dal cuore immobile della vita comunica il suo mite e ininterrotto movimento a tutte le forme.

Questo Vuoto è sia trascendente sia immanente. «Ha in sé — dice Chuang-tzu, un altro pensatore taoista — la sua radice, ed è sempre esistito», molto prima della creazione del cielo e della terra, e addirittura prima della nascita dell’Uno: abita dove non c’è né altezza, né profondità, né durata.
Dunque: il Tao è trascendente. Potremmo chiamarlo Dio, a patto di cancellare da questa parola tutte le connotazioni cristiane, in primo luogo l’amore. Possiede la qualità fondamentale che il pensiero occidentale attribuisce all’Essere: ma è così vuoto, puro, infinito, privo di qualsiasi limitazione e determinazione, che potremmo anche chiamarlo Nulla.

Eppure, subito dopo aver detto che il Tao è trascendente, il vero taoista conclude: egli è immanente. Se vogliamo vederlo, dobbiamo guardare con gli occhi interiori questa formica, questo filo d’erba, questa tegola, questo mucchio di letame: il Tao è qui, davanti a noi, ubiquo e onnipresente, silenziosa legge regolatrice di tutte le cose, fluido ritmo dell’universo.

Nel nostro mondo non conosciamo che antitesi: antitesi che formano la sua sostanza — come lo yin e lo yang . Oppure le antitesi generate dalle idee umane. C’è chi si chiede: il mondo è stato creato da qualcosa o dal nulla? Il Tao esiste o non esiste? Quando viene posto davanti alle idee umane, il saggio taoista è assalito da un’ostilità profondissima. Egli detesta l’unilateralità, la rigidezza, la parzialità, la frammentarietà di tutte le costruzioni intellettuali, così care agli esseri umani, e rifiuta i due termini di ogni dilemma — non si può dire né che ci sia stato un creatore né che non ci sia stato, non si può dire né che il Tao esista né che non esista.

Il compito del saggio non è di produrre quei pacchetti lucidi e maneggevoli che sono le idee. Sopra a ciascuno di esse, sopra ogni precetto, intenzione e morale, egli apre un punto di vista simile a quello di un romanziere, un punto di vista distante, assente e vuoto, unico e primordiale — il Tao che illumina tutte le contraddizioni del mondo.

Gli uomini guardano: guardano senza fine, e commentano quello che vedono, con un chiacchiericcio insaziabile, che annoia moltissimo Lieh-tzu. Egli ribadisce che chi si conforma al Tao non si serve né di orecchie né di occhi, né di forma né di mente. È inappropriato volersi conformare al Tao e cercarlo per mezzo della vista, dell’udito, della forma e della sapienza. Il vero taoista possiede una vista superiore: osserva tutto ciò che è inosservabile, impercettibile, addirittura inesistente, e lo trascrive nella sua mente vuota.
Quando deve rivelare ciò che ha visto e agire di conseguenza, obbedisce a un famoso aforisma: «il modo sommo di parlare è evitare di parlare, il modo sommo di agire è non agire». La lingua suprema è il silenzio. «Chi ha raggiunto la propria meta non parla, chi ha progredito nella sapienza non parla. Parlare con il silenzio è anch’esso parlare, conoscere con l’ignoranza è anch’esso conoscere».

Molti filosofi razionalisti dell’epoca di Lieh-tzu e dei nostri tempi derisero questa mistica fondata sul silenzio, che permeò profondamente l’anima femminile della Cina. Ma i saggi taoisti osservarono che non vi è alcuna speranza di raggiungere, per mezzo dello sguardo e della parola, l’armonia con gli altri esseri umani e con le creature della natura. Solo la mente vuota permette le silenziose corrispondenze tra i cuori. «Colui che è nell’armonia vive in perfetta comunanza con le creature, e queste non sono in grado di nuocergli e di ostacolarlo. Egli può passare attraverso il metallo e la pietra e camminare nell’acqua e nel fuoco».

Il Corriere della sera – 31 maggio 2014

Il cavo e il vuoto
UTET, 2014

ROMA APRE AI MURALISTI



Un quartiere di Roma si apre ai muralisti e si trasforma in un’opera A San Basilio gli interventi monumentali e bellissimi dello spagnolo Alejandro Liqen e di Agostino Iacurci: quattro edifici delle case popolari sono stati colorati con il parere dei residenti. Prove di rinascimento urbano. 

La periferia come «arte pubblica»


Camminare per la città seguendo piste e suggerimenti che dai muri stessi arrivano. Se si è curiosi non si può che passare per San Basilio in cerca dell’arte. Muralisti di fama internazionale si sono calati per mesi nella realtà urbana e hanno condiviso col pubblico le loro opere. Di fatto, con vero spirito «rivoluzionario» e profondamente innovativo, in questo modo l’arte esce dal museo e invade la città. Tutti ne possono godere e beneficiare senza alcuna differenza di casta o censo. E per farne esperienza è sufficiente essere muniti di scarpe comode e curiosità. Due ingredienti che portano inevitabilmente a fare scoperte: angoli delle città dimenticati o poco conosciuti, spesso un po’ puzzolenti o ritenuti pericolosi, sono stati restituiti alla società.

«Il nostro lavoro che produce “arte pubblica” non avrebbe senso se quest’ultima non fosse portata innanzitutto nei luoghi dove non c’è o non viene prodotta», spiega Simone Pallotta, il curatore di SanBa, acronimo che si scioglie nel nome del quartiere di Roma in cui i murales sono stati realizzati: San Basilio, appunto.

Il progetto è iniziato a fine marzo con il coinvolgimento delle scuole in laboratori trasversali di arti contemporanee che hanno portato alla creazione di opere di design urbano per rigenerare aree in disuso del quartiere restituendole ai suoi abitanti. «Le opere nascono sempre da un confronto con le persone. Gli abitanti dei palazzi sono stati avvicinati alla poetica dei due artisti con riunioni di condominio e interventi di sensibilizzazione all’arte contemporanea. È fondamentale che ci sia per un ritorno all’arte. La street-art oggi si realizza perlopiù chiamando gli artisti a realizzare le opere, calandoli dall’alto nel contesto urbano. Gli abitanti non hanno nessun tipo di interazione con l’opera, la subiscono e sono costretti a conviverci».

UN PERCORSO UNICO

È per questo che i quattro murales sono accoppiati visivamente e costituiscono un percorso unico, quasi a rendere un messaggio che si può cogliere soltanto se si cammina lungo tutto il quartiere. Ecco che due dei muralisti più rinomati e apprezzati in tutto il mondo, lo spagnolo Alejandro Liqen e l’italiano Agostino Iacurci hanno riempito di colori quattro facciate degli edifici dell’Ater con loro opere monumentali.

In questa sorta di pala d’altare rinascimentale calata ai giorni nostri, la natura prende possesso di nuovo del pianeta, raccogliendo con un enorme rastrello i rifiuti urbani del consumismo tecnologico sfrenato (ElRanacerdi Liqen), seminando e facendo germogliare fiori giganteschi che fanno nascere animali e persone nuove (El Devenir di Liqen), così che da un mondo in cui ognuno è isolato nella propria stanza, prigioniero delle abitudini domestiche, i muri si possano letteralmente aprire per far rivedere il cielo stellato (The Blind Wall di Iacurci) e infine, si torni a un mondo in cui acqua, terra e cielo sono in armonia e l’uomone sia soltanto una piccola componente, seppur con l’enorme responsabilità di doverlo gestire (The Globe di Iacurci).

E proprio quest’ultimo artista a spiegare il suo lavoro. «Non si tratta più di street-art. Il nostro è ormai un muralismo contemporaneo – tiene a precisare Iacurci – Lavoriamoper andare oltre, guardando alla città con un linguaggio nuovo, certo nato dalla street-art, ma ormai separato, seppur parallelo. Il nostro approccio definisce la tecnica e l’ottica che ha una visione più ampia sulla realtà».

Illustratore, pittore e muralista, appunto, Iacurci non sembra intimidito dalle diverse possibilità che queste tre vie offrono a un artista, con i vari livelli che si contaminano continuamente. A soli 28 anni vanta già un curriculum mostruoso, che spazia dall’illustrazione editoriale ai murales, dall’incisione alla scenografia, fino ad arrivare alla nomina di assistente in Illustrazione allo Ied.

«Confrontarmi con superfici e tecniche sempre diverse mi stimola. Mi costringe a mettermi in discussione e influisce sicuramente sul mio modo di lavorare, perché devo, di volta in volta, ripensare il mio approccio», dice Iacurci. Italia, Francia, Giappone, Corea, Taiwan, Russia, Stati Uniti: le sue opere giganti campeggiano su muri e pareti in tutto il mondo. Con il suo stile fiabesco, ma mai banale, rivitalizza quartieri e aree urbane spesso periferiche e abbandonate a se stesse.

Crea figure che sembrano immerse in un’atmosfera surreale, quasi a voler comunicare un messaggio agli abitanti del quartiere. I suoi bizzarri personaggi, appartenenti a un mondo fantastico, prendono posto sulle facciate di palazzi ed edifici, assumendo dimensioni enormi che si rivolgono ironicamente ai passanti. «L’opera è viva e partecipa alla vita di tutti, di quelli che passano, e, forse soprattutto, di quelli che lì ci vivono. E non credo che nessun passante si senta defraudato di qualcosa perché una finestra si apre con i suoi panni stesi nel dipinto».

IL DIALOGO CON IL CONTESTO

È costante la sua ricerca di dialogo con il contesto urbano. «Nei murales io faccio il contrario dell’illustrazione, non lavoro per condensazione, ma per espandere lo sguardo. Per questo i miei lavori non hanno titoli. Anzi, ne hanno migliaia, cioè quanti sono gli spettatori dell’opera. Ogni murale acquista storie e contesti di chi la guarda e, al contrario di un dipinto che è tutto il paesaggio, il mio muro è solo un elemento di un paesaggio urbano molto più ampio, che cambia al cambiare del punto di vista», continua Iacurci.

Nelle sue opere dalle forme sintetiche e dai toni vivi, con un linguaggio essenziale è capace di veicolare molteplici livelli di lettura. L’ironia cinica e intelligente colloca i suoi «racconti» sulla soglia perenne tra innocenza e malizia, serenità e catastrofe, in una tensione tra opposti che è chiave interpretativa dell’intera esistenza. «È vero. Nel mio linguaggio artistico non mi pongo limiti. E cerco di sorprendermi ogni giorno».

l’Unità – 31 maggio 2014

UN ITALIANO SU 5 VA DAL MAGO





Sapevamo di essere un popolo di santi, di eroi, di navigatori e di poeti. Scopriamo ora di essere anche un popolo di maghi e cartomanti. Sarà per questo che da vent'anni impazzano personaggi come Berlusconi et similia?

Natalia Aspesi

Il grande boom dell’occulto un italiano su 5 va dall’indovino



Se 13 milioni di italiani si rivolgono ai professionisti dell’occulto, bisognerà forse rivedere i dati sulla disoccupazione: perché qualsiasi persona, soprattutto se signora in età abitante in casamenti di periferia, si può sistemare, abbracciando una professione che non conosce crisi e che non richiede altro che occhi penetranti, un gatto nero, la capacità di fare domande a trabocchetto e di prevedere sempre ciò che il cliente desidera, che sono poi sempre le stesse cose: amore, denaro, salute per sé, morte della rivale e fallimento del concorrente.

Può sembrare curioso che creda ancora ai fattucchieri professionali una simile folla da Festival di Sanremo, quando l’informazione politica ci propina giornalmente fortune e disastri collettivi, e i suoi protagonisti si comportano come maghi pericolosi sia nell’aspetto inquietante che nella quantità di minacce e di stupidaggini che incessantemente raccontano a un popolo sfiancato.

O forse è proprio per quello, che poi lo stesso popolo raccoglie i suoi risparmi (si fa conto anche dei promessi prossimi 80 euro mensili, forse) per avere da più sempliciotti dispensatori di malocchio ed affini, dei responsi non collettivi e terrorizzanti, ma semplici rassicurazioni personali, compresa magari la sconfitta, finalmente, di questi urlatori e bugiardoni politici che dalla politica ci fanno fuggire orripilati. Si potrebbe anche non credere ai dati relativi a questo innocuo commercio e che francamente paiono esagerati, ma il fatto è che non si tratta più di un commercio clandestino, ma di una vera e propria industria, con tanto di fatture e partite iva.

Insomma finalmente anche i maghi pagano le tasse (forse non tutti i 160 mila calcolati, perché ce ne saranno anche di forniti di abile commercialista che protegge il loro nero): e però l’inconveniente gravissimo è che le eventuali fatture potrebbero far risalire, per esempio, al pezzo grosso di un partito che quotidianamente chiede al suo mago di riferimento di togliergli di mezzo e con ogni mezzo, quel paio di magistrati che potrebbero mandarlo in galera. La fortuna dei maghi non è certo una cosa nuova e per esempio ai tempi dei miei primi tentativi di giornalismo, io piacevo molto sia a cartomanti che a lettrici della mano, e anche a una certa Ebe, che afferrandomi per i polsi cadeva in deliquio e mi prospettava con voce d’oltretomba un futuro privo di malattie e ricco di giovanotti.

Ce ne erano tantissime in quegli anni ‘60, e c’era lavoro per tutte: erano centinaia i questuanti, per ognuna di loro, lungo le scale che portavano ai loro abbaini che sapevano di minestra e di pipì di gatto, e ormai le conoscevo quasi tutte, anche una certa Pia che era finita in galera per aver gettato acido muriatico sulla faccia della moglie di un suo amante, tra l’altro giornalista noto.

Non è che mi interessasse il mio futuro secondo i loro vaticini, ma erano i primi anni del mio lavoro di cronista, e i giornali parevano sempre molto interessati a questi personaggi, di solito anziane signore che avevano trovato il modo di sopravvivere inventandosi loro entrature con l’aldilà. Trattandosi di un lavoro noto a tutti ma allora clandestino, ogni tanto arrivava la polizia, se non altro per tentare di accertare i loro guadagni misteriosi. Si diceva che almeno le più celebri, erano ricchissime, compravano case su case, e quelli erano tempi in cui ancora non avevano rubriche televisive e non vendevano pubblicamene intrugli miracolosi a caro prezzo.


C’erano clienti che chiedevano aiuto quotidiano, altri che ne frequentavano decine: allora le ragazze ancora smaniavano per un marito e tempestavano di domande l’annoiata maga per sapere quando e come. Le mogli chiedevano talvolta pozioni per impedire al marito di cornificarle, insomma pareva tutto un piccolo mondo di miserie femminili a pagamento.

Mentre, quando smettevo di fingermi cliente e rivelavo la mia identità professionale, allora, senza fare nomi, elencavano il ministro, il grande industriale, la diva, talvolta anche il celebre inafferrabile gangster, che ogni mattina pendevano dalle loro labbra per sapere come sgominare un rivale, fregare una banca, ottenere una grande parte in un film, organizzare un colpo grandioso.

Pare che non sia cambiato nulla e non sarebbe male sapere se tante promesse o decisioni o fregature che ogni giorno ci vengono propinate dalla politica non dipendano dai consigli pazzi di spiritisti e negromanti.


La Repubblica – 7 maggio 2014

W. WHITMAN: SIAMO MARI CHE SI MESCOLANO...

Foto di Marina Mar

Noi due, quanto a lungo fummo ingannati,
ora trasformati fuggiamo veloci come fa la Natura,
noi siamo Natura, a lungo siamo mancati,
ma ora torniamo,
diventiamo piante, tronchi, fogliame, radici, corteccia,
siamo incassati nel terreno, siamo rocce,
siamo querce, cresciamo fianco a fianco nelle radure,
bruchiamo, due tra la mandria selvaggia, spontanei
come chiunque,
siamo due pesci che nuotano insieme nel mare,
siamo ciò che i fiori di robinia sono, spandiamo profumi
nei sentieri intorno i mattini e le sere,
siamo anche sterco di bestie, vegetali, minerali,
siamo due falchi, due predatori, ci libriamo in alto
nell'aria e guardiamo sotto,
siamo due soli splendenti, siamo noi che ci bilanciamo
sferici, stellari, siamo come due comete,
vaghiamo con due zanne e quattro zampe nei boschi,
ci lanciamo sulla preda,
siamo due nuvole che mattina e pomeriggio avanzano
in alto,
siamo mari che si mescolano, siamo due di quelle felici
onde che rotolano una sull'altra e si spruzzano
l'un l'altra,
siamo ciò che l'atmosfera è, trasparente, ricettiva,
pervia, impervia,
siamo neve, pioggia, freddo, buio, siamo ogni prodotto,
ogni influenza del globo,
abbiamo ruotato e ruotato finché siamo arrivati di nuovo
a casa, noi due,
abbiamo abrogato tutto fuorché la libertà, tutto fuorché
la gioia.

Walt Whitman 


P.S. : Questa splendida poesia di Whitman l'ho scoperta questa mattina in facebook grazie a Marina Mar. Si deve anche a lei la foto. Colgo l'occasione per ringraziarla nuovamente.

UNA COSTITUZIONE PER LA RETE




Interessanti affermazioni della giurisprudenza internazionale sul primato dei diritti della persona sulle convenienze delle economie aziendali. Avranno un effetto sulle logiche economicistiche degli accordi transatlantici per gli investimenti (TTIP)?

Costituzione per la rete

di Stefano Rodotà   
 
Possiamo dire che comincia a prendere forma una costituzione per la Rete, un vero Internet Bill of Rights? Proprio negli ultimi due mesi vi è stato un affollarsi di novità che non solo giustificano la domanda, ma sono il segno concreto di una tendenza in atto, che ritroviamo in sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea, nell’imminente nuovo regolamento europeo sulla privacy, in una importante legge brasiliana su Internet. Si manifesta così la consapevolezza della impossibilità di lasciare il Web al dominio delle sole logiche del mercato o della sicurezza. E soprattutto viene smentita la tesi della morte della privacy. Questa è tornata al centro dell’attenzione planetaria dopo le rivelazioni sul Datagate, tanto da indurre uno dei più convinti certificatori di quella morte, Mark Zuckerberg, ad affrettarsi ad assicurare che Facebook garantirà a questo diritto una più forte tutela.

La Corte di giustizia è intervenuta fondando le sue sentenze sull’articolo 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che garantisce la protezione dei dati appunto come un diritto fondamentale della persona, al quale viene data protezione costituzionale. L’interesse economico di Google, e in generale dei motori di ricerca, non può prevalere su un diritto fondamentale che la Carta dei diritti colloca nella parte dedicata alla dignità della persona. Inoltre, si è affermato che ai motori di ricerca, se hanno nei paesi dell’Unione una loro presenza organizzata, si applicano le norme contenute nelle direttive europee.

Quest’ultima è una affermazione di grandissimo rilievo. L’idea di un mondo globale vuoto di diritto e soggetto solo al potere incontrollato delle imprese multinazionali viene rigettata. Si manifestano così, concretamente, i segni di un Internet Bill of Rights, di un riconoscimento alle persone di una effettiva garanzia del libero governo della loro sfera privata, quali che siano i soggetti che trattano le loro informazioni e i luoghi dove vengono conservate. Molto di più del solo riconoscimento del “diritto all’oblio”, per il quale comunque Google ha già predisposto una procedura per presentare e valutare le richieste di deindicizzazione.

Il Parlamento europeo aveva detto chiaramente che lo spazio comune di Internet deve essere libero dal rischio che se ne impadroniscano le grandi società, e rimanere uno spazio dove possano prosperare la libertà di comunicazione e l’innovazione. Con la sentenza della Corte di Giustizia si fa un passo importante in questa direzione, restituendo anche rilevanza a principi già previsti dalle direttive europee, ai quali quei motori di ricerca avevano cercato di sottrarsi. Ricordo i principi di finalità, proporzionalità, necessità e la norma che già dava alla persona interessata il potere di opporsi, per “motivi legittimi”, al trattamento dei suoi dati, anche se raccolti in maniera legale. Proprio partendo da queste premesse, erano già state rivolte molte richieste ai motori di ricerca, che potrebbero ora essere anche classificate come manifestazione del diritto all’oblio. Ma oggi il fondamento della garanzia discende direttamente dalla Carta dei diritti. Ragionare trascurando questa sostanziale novità, impedisce di cogliere il valore profondo della sentenza come tassello di una più generale costruzione costituzionale dei diritti sul Web.

Vi è poi un significativo legame tra questa sentenza ed una precedente che ha dichiarato l’illegittimità della direttiva europea sulla conservazione dei dati. In entrambe, infatti, compare il riferimento alla necessità di evitare che possano essere costruiti “profili” delle persone fondati non solo su informazioni sgradite all’interessato, ma nell’ambito di un contesto che può distorcerne la personalità. La crescita quantitativa delle informazioni disponibili ha determinato un mutamento qualitativo, che investe la stessa identità delle persone, che ha messo in evidenza l’enorme potere di Google e la necessità di controllarlo giuridicamente e socialmente, tanto che si è sottolineato che Google è vittima del suo stesso successo. Non a caso si è detto che “tu sei quello che Google dice che tu sei”, considerazione particolarmente rilevante in Europa, dove Google controlla il 90% degli accessi. La linea indicata dalle due sentenze, infatti, non ci ricorda soltanto che le ragioni di sicurezza non possono giustificare qualsiasi forma di raccolta di dati personali e qualsiasi periodo di conservazione, da una parte, e che, dall’altra, che vi è un diritto all’oblio. Si definiscono limiti all’azione di soggetti pubblici e privati per garantire alla persona interessata la possibilità di tornare ad essere quella alla quale viene riconosciuto il potere di governare la costruzione della propria identità.

Proprio per la sua radicalità, la sentenza riguardante Google si è attirata diverse critiche. L’argomento del pregiudizio per il mercato, tuttavia, trascura la nuova gerarchia istituita tra diritti fondamentali e interessi economici. Il mercato non può essere considerato come una sorta di legge naturale, che prevale su ogni altra. Più seria è la preoccupazione riferita ai possibili rischi per la libertà di espressione, ma la Corte ha escluso che le “figure pubbliche” possano invocare il diritto all’oblio e ha sottolineato che in casi specifici si dovrà confrontare la natura delle informazioni e il loro carattere sensibile per l’interessato con l’interesse alla conoscenza dell’opinione pubblica.Si è dunque aperta una fase di riflessione che richiederà una valutazione del bilanciamento tra i vari diritti e interessi in gioco. Ma questo non può divenire un pretesto per rimettere in discussione il primato attribuito al diritto fondamentale alla protezione dei dati. Qualcuno teme che, muovendo da queste premesse, si possa giungere a un Web 3.0 dominato dal potere dell’interessato di controllare i dati che lo riguardano. Questo è un modo per travisare la questione. A quel Web 3.0 si dovrà guardare come ad uno spazio costituzionalizzato, dove gli Over the Top o altri padroni del mondo non possano considerarsi liberi da ogni regola o controllo. La versione integrale di quest’articolo esce su Eutopia, rivista web europea promossa da Laterza © Commons creative eutopia magazine
La Repubblica, 31 maggio 2014 

PER LA RINASCITA DELLA SINISTRA IN ITALIA






Non nascondiamo che la sconfitta dei fascistelli (a loro insaputa) del M5S ci abbia fatto piacere e che la vittoria di Renzi sia nel quadro attuale il male minore. Resta il fatto che, pur raggiungendo il quorum e dunque un risultato positivo, la sinistra abbia ancora perso voti (oltre 700 mila) rispetto alle politiche di un anno fa. Niente trionfalismi, dunque, ma una seria riflessione sul come ripartire per rilanciare la presenza anche in Italia di una sinistra alternativa ad una politica (PD) incapace di pensare l'esistente al di fuori della logica del capitale. I segnali che ci arrivano da SEL e PRC non ci paiono incoraggianti. Da un lato la tentazione dell'accodamento opportunistico al carro dei vincitori, dall'altro un massimalismo nostalgico e identitario del tutto privo di prospettive. Tacciamo, per pudore, dell'estremismo infantile da terzo periodo dei residuati groppuscolari tipo Rossa, PCL et similia. Importante invece il segnale che viene dai movimenti di cittadinanza attiva e da una parte del mondo intellettuale.
Alfonso Gianni

In Italia la sinistra ricomincia da quattro

 Il voto di dome­nica, richiama innan­zi­tutto una let­tura euro­pea che non si pre­sta a giu­dizi sem­pli­fi­cati. Per alcuni paesi, come il nostro o la Fran­cia si è trat­tato di un vero ter­re­moto; nel con­tempo, pur mar­cando inquie­tanti suc­cessi, le destre anti­eu­ro­pei­ste non tra­vol­gono i rap­porti di forza nel par­la­mento euro­peo, ove aumenta di con­si­stenza l’area di un euro­pei­smo cri­tico da sini­stra attorno a Tsi­pras. I popo­lari, pur restando primi, indie­treg­giano e non poco, la stessa cosa fanno i social­de­mo­cra­tici, sep­pure in misura minore.
Nel con­tempo per la prima volta dal 1979 la per­cen­tuale dei votanti non è scesa, se non di un deci­male, atte­stan­dosi sul 43%. In Ita­lia è invece dimi­nuita for­te­mente, del 7,7%, scen­dendo sotto il 60% per la prima volta in una ele­zione di carat­tere generale.
La strada delle lar­ghe intese sul modello tede­sco con­ti­nua a essere la più pro­ba­bile in quel di Stra­sburgo, anche se le figure di rife­ri­mento pos­sono cam­biare. Né Junc­ker né Schulz escono dalla con­tesa in grande salute ed è pos­si­bile che il ruolo di pre­si­dente della com­mis­sione possa andare ad altri. Mat­teo Renzi pro­getta di chie­dere il posto per qual­cuno dei suoi, in subor­dine di aspi­rare alla carica di mini­stro degli esteri, in sosti­tu­zione della scialba Ash­ton, o di avere il ricco por­ta­fo­glio dell’Agricoltura. Insomma il par­tito di Renzi si pre­para a con­tare di più in Europa, al di là del pros­simo seme­stre ita­liano. Men­tre il duo­po­lio Fran­cia – Ger­ma­nia su cui si era fon­data tutta la costru­zione poli­tica, eco­no­mica e isti­tu­zio­nale euro­pea da Maa­stri­cht in poi è tra­volto dal disa­stro francese.
Que­sti cam­bia­menti e nello stesso tempo il per­du­rare e il con­fer­marsi di vec­chie ten­denze, pro­du­cono un effetto di spiaz­za­mento anche nei giu­dizi di intel­let­tuali da sem­pre attenti alla dimen­sione euro­pea (si parva licet com­po­nere magnis). Ulrich Beck pro­clama la fine dell’austerità. E’ vero che la Mer­kel appare più sola nel con­te­sto euro­peo; soprat­tutto la Bce nella sua immi­nente riu­nione dei primi di giu­gno si appre­sta ad abbas­sare verso lo zero i già bas­sis­simi tassi di inte­resse e di ren­derli nega­tivi per osta­co­lare i depo­siti delle ban­che presso l’istituto di Fran­co­forte che ini­bi­scono il cre­dito alle imprese e alle per­sone; dun­que che qual­che misura con­tro la defla­zione e la reces­sione verrà presa.
Ma risulta dif­fi­cile pen­sare che una teo­ria come quella dell’austerità espan­siva, fal­si­fi­cata dall’evidenza dei fatti e delle cifre, possa essere supe­rata per auto­ri­forma, senza che com­paia a con­tra­starla una teo­ria almeno di uguale forza e capa­cità di attra­zione. Que­sta c’è, ma per ora vive solo nei pro­grammi che hanno por­tato all’affermazione le liste che face­vano rife­ri­mento a Tsi­pras e poco più. Quello che è vero, e le con­se­guenze sono ancora peg­giori, è che le teo­rie del rigore rivi­vono nella dimen­sione della pre­ca­rietà espan­siva, ovvero delle deva­stanti misure strut­tu­rali che pre­ca­riz­zano defi­ni­ti­va­mente il lavoro, su cui il nostro governo si è par­ti­co­lar­mente distinto con il decreto Poletti.

Dal canto suo Alain Tou­raine, prima invoca un sus­sulto repub­bli­cano in Fran­cia per con­te­nere l’ondata popu­li­sta dei Le Pen, poi con­si­glia di dare più poteri al primo mini­stro Manuel Valls, ovvero al più destrorso della scom­bic­che­rata com­pa­gine di Hol­lande, il che pro­vo­che­rebbe esat­ta­mente l’effetto oppo­sto se è vera la sua ana­lisi di una “con­nes­sione sen­ti­men­tale” fra il Fn e gli strati popolari.
In que­sto qua­dro assume una impor­tanza deci­siva l’affermazione di liste che fanno rife­ri­mento a Tsi­pras o che chie­dono di fare gruppo assieme — come “Pode­mos” la for­ma­zione elet­to­rale che trae ori­gine dal movi­mento degli indi­gna­dosspa­gnoli (che con il suo 8% ha eletto ben 5 depu­tati) – e natu­ral­mente il risul­tato di Syriza che lo con­ferma primo par­tito in Gre­cia. E’ dall’insieme di que­ste forze che biso­gna ripar­tire per met­tere seria­mente in crisi le poli­ti­che di auste­rità, evi­tare la loro cama­leon­tica ripro­po­si­zione e inver­tire la rotta verso poli­ti­che anti­ci­cli­che, soli­dali e occupazionali.
La vicenda ita­liana è con­tras­se­gnata dall’enorme balzo in avanti del Pd su livelli che solo la vec­chia Dc aveva toc­cato in un lon­tano pas­sato e dalla scon­fitta secca del M5Stelle che cede soprat­tutto voti all’astensione. Chi aveva pen­sato a un neo­bi­po­la­ri­smo Renzi-Grillo deve rive­dere le sue ana­lisi. Ver­rebbe da dire che dal bipar­ti­ti­smo imper­fetto di cui par­lava lo sto­rico Gior­gio Galli, basato sul duo­po­lio Dc-Pci (con la con­ven­tio ad exclu­den­dum nei con­fronti di quest’ultimo) si stia pas­sando a un mono­par­ti­ti­smo imper­fetto, fon­dato sul Pd e su un sistema di par­titi il mag­giore dei quali non rag­giunge che la metà dei suoi voti.
In que­sto qua­dro è evi­dente che l’espressione stessa cen­tro­si­ni­stra, con o senza trat­tino, ha perso ogni signi­fi­cato. Almeno per quanto riguarda il governo nazio­nale. Vel­troni non ha torto di gon­go­lare, anche se il par­tito a voca­zione mag­gio­ri­ta­ria che lui aveva pen­sato, man­dando in crisi di fatto il secondo governo Prodi e ria­prendo la strada a Ber­lu­sconi, si rea­lizza sotto un’altra stella. Chi, d’altro canto, parla di fare un par­tito unico con il Pd, finge di non accor­gersi di pre­di­care una sem­plice confluenza.
Il quo­rum de “L’altra Europa con Tsi­pras” ha inter­rotto la serie dei fal­li­menti elet­to­rali a sini­stra. E’ vero che è un risul­tato risi­cato e che il numero di voti con­qui­stati non fa la somma delle orga­niz­za­zioni che hanno dato il loro appog­gio alla lista. Ma que­sto segnala per l’appunto la per­dita di con­sensi di que­sti micro par­titi e la scelta vin­cente di dare vita a una lista di cit­ta­di­nanza.

Inter­rom­pere que­sta espe­rienza sarebbe un sui­ci­dio senza resur­re­zioni. Lo sarebbe anche per la demo­cra­zia ita­liana che vedrebbe ulte­rior­mente ristretta le pos­si­bi­lità di espres­sione e rap­pre­sen­tanza poli­tica, aprendo a nuove derive neoau­to­ri­ta­rie. Aprire una fase costi­tuente di una forza di sini­stra, dal basso e dall’alto, sul piano della pro­du­zione cul­tu­rale e dell’elaborazione poli­tica, come su quello della prassi nei movi­menti è il com­pito che ci spetta.
il manifesto - 31 Maggio 2014

BLACK POETRY IN USA



Dai collettivi anni ’80 al boom di oggi: la letteratura nera in versi esce dal ghetto e diventa globale.

Jeff Gordinier

L’anima black dei poeti uniti d’America
Alla fine del 1987, due giovani poeti fecero una bella scarpinata fino a New York per prendere parte al funerale di James Baldwin. Emozionati dalla cerimonia, e addolorati dal fatto di non aver mai incontrato un gigante letterario afroamericano della statura di Baldwin, i poeti Thomas Sayers Ellis e Sharan Strange misero a punto un piano: avrebbero chiamato a raccolta giovani scrittori e artisti neri e offerto loro la possibilità di leggere ad alta voce le loro creazioni, per allacciare rapporti con i giusti mentori e per alimentare quel genere di spirito comunitario che in passato ha dato vita a più di un movimento culturale.

Chiamarono il gruppo Dark Room Collective , Collettivo della camera oscura. Gli studiosi affermano che da lì sbocciò la poesia afroamericana, che quasi certamente nel mondo letterario è tanto significativa quanto la Beat Generation. Influenzato da pionieri come Rita Dove, il lavoro di questo gruppo prese il via dal punto di vista stilistico da buona parte della poesia nera che l’aveva preceduto: più che con le lotte o l’identità razziale ebbe a che vedere con l’immaginazione che spicca il volo.
Nelle generazioni precedenti, molti poeti avevano utilizzato il loro lavoro «per combattere contro l’oppressione di vari generi», ha detto Charles Henry Rowell, il curatore dell’antologia del 2013 intitolata Angles of Ascent: A Norton Anthology of Contemporary African American Poetry .
Adesso, ha aggiunto, «c’è un privilegio unificatore, e quel privilegio consiste nello scrivere come considero opportuno scrivere ».

Anche se dopo una decina d’anni circa il Dark Room Collective chiuse i battenti, alcuni dei suoi affiliati perseverarono, diventando personalità letterarie di primo piano e ricevendo premi importanti. Forse la più famosa di tutti è Natasha Trethewey, che ha vinto il Premio Pulitzer per il suo libro del 2006 Native Guard , ed è stata insignita anche del titolo di “poeta laureato della Nazione”. Tra gli altri veterani vi furono Tracy K. Smith, che vinse il Pulitzer per Life on Mars nel 2012, e scrittori come Kevin Young, Carl Phillips e Major Jackson, tutte voci autorevoli della poesia americana.

Il collettivo ebbe anche un effetto a cascata. Nel 1996 Cornelius Eady e Toi Derricotte fondarono infatti Cave Canem, organizzazione che costituì una piattaforma di lancio per molti poeti, tra i quali Adrian Matejka, il cui libro del 2013 The Big Smoke è stato finalista sia per il Pulitzer sia per il National Book Award, e Terrance Hayes, che ha vinto il National Book Award nel 2010 con Lighthead .
Anche Nikky Finney, che ha vinto quello stesso premio nel 2011 con il suo Head Off & Split , aveva aderito a tutti gli effetti al gruppo. «Fu un fenomeno del tutto insolito — ha detto la Trethewey — la poesia nera non era mai stata mainstream. Di colpo, invece, non fu una sottospecie della poesia americana, bensì il cuore stesso della poesia americana».






















Nelle interviste, molti poeti della nuova guardia parlano della sensazione di liberazione, non hanno più bisogno per aderire a un insieme di norme su ciò che si presume debba essere la poesia nera. La loro arte poetica ha a che vedere con l’identità stessa. Matejka l’ha descritta come il passaggio dalla «modalità “sono un uomo di colore in America ed è dura” all’idea del “sei quel che sei, e quindi ciò farà sempre parte della poesia”», con l’aggiunta di «molto più spazio per una sublime sperimentazione linguistica ».
Un’opera può essere tradizionale o sperimentale, apertamente politica o appassionatamente privata, e contenere un vasto assortimento di riferimenti che possono includere Melvin Van Peebles, Jorge Luis Borges, David Bowie. Buona parte della poesia ha un’immediatezza che può risultare quasi cinematografica.
Ecco un esempio, tratto da Wind in a Box, (Vento in scatola) di Terrance Hayes: « Questo inchiostro. Questo nome. Questo sangue. Questo strafalcione. / Questo sangue. Questa perdita. Questo vento malinconico. Questo canyon ».

Ma c’è anche uno sforzo preciso, quello di rivendicare e ricontestualizzare episodi storici, famosi o dimenticati. Native Guard di Trethewey include l’angosciante saga di alcuni ex schiavi che combatterono nel reggimento nero Union durante la Guerra civile. The Big Smoke di Matejka illustra la vita del pugile peso massimo Jack Johnson.
«Si tratta di personaggi che furono spazzati via dalla narrativa dominante o immessi su un binario morto» ha detto Matejka in un’intervista. Young, professore all’Emory University, ha pubblicato varie antologie di poesia (tra cui raccolte sul cibo e il blues) e ha scritto libri in versi sulla rivolta della nave negriera Amistad ( Ardency), sul pittore Jean-Michel Basquiat ( To Repel Ghosts ), sulla lussuria, la violenza e il linguaggio dei film noir ( Black Maria).

Agli occhi di un poeta e mentore più anziano come Eady, questo senso di assenza totale dei limiti può essere fatto risalire proprio al Dark Room Collective — come pure quel senso di fraternità dei laboratori di Cave Canem. (il mito Dark Room è cresciuto al punto che i suoi membri nel 2012 e nel 2013 si sono messi in viaggio per una rimpatriata.)
«È bello vedere che servì da mezzo per far sbocciare le persone » dice Strange, anche se l’idea originaria era semplicemente quella di frequentarsi e stare un po’ insieme, dando vita a una comunità di scrittori che la pensavano nello stesso modo. «L’ambizione era quella di essere creativi. Non ci fu mai il proposito grandioso di partire alla conquista della letteratura americana ».
la Repubblica - 29 Maggio 2014

DIO E IL DENARO


Marguerat Daniel

Dio e il denaro


Recensione di Marina Monego pubblicata oggi sul sito 

http://www.lankelot.eu/
 

Sono anni in cui l’alta finanza sembra voler decidere sul nostro destino, il denaro decreta le sorti di intere nazioni, il debito o il Pil incombono, influenzano la politica, la società, gli uomini. Mai si era sentito tanto parlare di spread, di banche, di modi per far circolare, sparire o moltiplicare il denaro.
Se non si fanno più viaggiare i classici forzieri di monete d’oro, il denaro è comunque una realtà concretissima e tanto potente da influenzare stati e popoli.
Ha senso dunque interrogarsi – come fa l’autore di questo libro, un pastore della chiesa riformata – sul senso del denaro, ponendosi tali interrogativi: che ne è dell’essere umano di fronte al denaro? A che serve il nostro denaro? Per che cosa lo usiamo? Quale scala di valori riflette il nostro budget? Quale coerenza riusciamo a mantenere tra fede e portafoglio?
 
Le origini del denaro e della ricchezza sono antichissime, per cui già nella Bibbia si parla abbondantemente di queste realtà, ritenendole un segno della benevolenza di Dio e mai un qualcosa di cui vergognarsi. I beni vengono dal creatore e l’uomo che li usa rende grazie al suo Signore. Gli antichi ebrei confessavano di essere solo gli amministratori di un mondo che era stato loro donato e non avevano né l’ingenuità, né la pretesa di credersi padroni della vita.
Ecco allora che i beni servivano a venir condivisi, di qui l’istituzione dell’anno sabbatico (ogni sette anni i debiti andavano condonati, gli schiavi liberati, le terre lasciate a maggese e i frutti messi a disposizione dei poveri) e di quello giubilare (ogni cinquant’anni, sette cicli di sette anni, le terre andavano a riposo e le proprietà venivano restituite), come spiegato nel Levitico.
Non si sa se poi gli ebrei abbiano sempre applicato queste regole in modo rigoroso, ma la loro stessa esistenza risuona come un monito a ricordare che la terra appartiene solo a Dio e che i poveri non vanno confinati in una situazione di perpetua miseria, che li imprigiona e li rende vittime, ma hanno diritto alla loro elemosina, in ebraico zedaqà-giustizia, parola che non ha nulla del significato di concessione che siamo soliti darle.
Il greco elemosyne significa invece compassione, misericordia, e nasce dalla prassi di offerta delle primizie o dei primi nati nel gregge prescritta sempre nel Levitico. Il rito manifesta non solo il riconoscimento a Dio per i suoi doni, ma costituisce anche una forma di rinuncia al possesso: ci si separa da una parte della propria ricchezza, perché si afferma che proviene da una terra ricevuta in dono e fatta fruttare col proprio lavoro. Riconoscersi destinatari di un dono apre a una possibile condivisione e questo fonda il significato teologico dell’elemosina. “Riconoscendo di non essere proprietario della propria esistenza, il credente accetta di fatto di riceversi da Dio e dagli altri”. (p.27)
 
Appurato che nella Bibbia non mancano poi invettive dei profeti contro i ricchi che, usando male il loro denaro e il potere ad esso legato, ledono l’umanità dei poveri e quindi attentano a Dio stesso, i problemi più grossi subentrano col Nuovo Testamento e le famose parole di Gesù:
“Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e Mammona”. (Matteo 6,24; cfr.Luca 16,13)
Qui si passa da un discorso morale e uno spirituale: quale orizzonte ha il possedere? Su cosa fondiamo la nostra vita? Quale dio ci diamo?
“Mamona” è il nome aramaico della statuetta della fortuna, alla quale si offrivano sacrifici per ottenere successo negli affari o nelle relazioni. Mamona deriva dalla radice ebraica ‘m n, che ha dato origine alla parola Amen, con la quale affermiamo che la nostra preghiera è vera. Il verbo aman indica stabilità, fermezza. Mamona è dunque ciò che è stabile e su cui riponiamo la nostra fiducia, Mamona è il denaro che dà pace e sicurezza. Non è così in verità, come dimostra la parabola del ricco stolto in Luca 12,16-20.
 
“Dietro l’accumulo di ricchezze vi è dunque la paura di mancare di qualcosa, e dietro di essa la paura della morte. Perché il denaro si offre come garanzia contro la morte. O meglio: investito del ruolo di idolo consolatorio, divenuto ricettacolo privilegiato della paura di morire, il denaro ha lasciato il suo statuto di oggetto per divenire Mammona. Mammona che protegge dalla morte. Si deifica il denaro quando se ne fa un baluardo contro la morte, una promessa di eternità” (p.45.)
 
“Guai a voi, ricchi!” (Luca 6,24) non significa mandarli al diavolo, ma compatirli, “Infelici voi!”, perché state imboccando una via che conduce alla morte.  A questo punto vien da chiedersi in chi bisogna riporre la propria fiducia e soprattutto come si deve comportarsi con questo denaro, con il quale noi tutti abbiamo a che fare quotidianamente.
 
Vi è il famoso e bellissimo discorso di Gesù sugli uccelli del cielo e i fiori del campo (Matteo 6,25-26), spesso interpretato come uno slogan per sognatori utopisti, distaccati dalla realtà concreta. In verità gli uccelli sono molto indaffarati, ma per il pane quotidiano e non per accumulare. Si fidano di Dio e vanno avanti.
“Dimmi come spendi il tuo denaro e ti dirò chi sei…” o meglio, che cosa il denaro fa di te? Ecco la dimensione spirituale del denaro.
Non è vero che le leggi economiche, oggi spacciate per assolute e dominanti, non abbiano una dimensione etica e spirituale e non possano essere controllate e ammorbidite.
“È urgente ripensare l’economia in una dimensione spirituale per evitare di ritrovarci un giorno in una società completamente mercificata (business society), una giungla infernale dove il dio denaro divora i suoi figli”. (p.54)
 
Nel Nuovo Testamento non mancano esempi di un uso diverso e creativo del denaro: ecco la vicenda di Zaccheo in Luca 19,1-10, l’esattore delle tasse che non cambia mestiere e non rinuncia a tutto, semplicemente decide di usare il suo denaro per creare felicità e rimediare alle ingiustizie. Il denaro, che lo rendeva odioso agli altri, diventa per lui fonte di relazioni. È così che la salvezza entra nella sua casa.
“Non si tratta – e va ribadito – di colpevolizzare chi possiede. Si tratta piuttosto di mostrare che il denaro, proprio in quanto effetto della benedizione divina, genera una responsabilità e una libertà, libertà che consiste nel mobilitare la propria riflessione e immaginazione perché i beni servano all’arricchimento di molti, perché il denaro sia sorgente di vita e non di morte”. (pp.67-68)
 
Naturalmente anche le prime comunità cristiane si sono poste il problema della ricchezza e del suo uso, come testimoniano gli Atti degli Apostoli e le lettere di san Paolo. L’autore individua cinque modelli di libertà nei confronti dei beni. Due sono modelli d’utopia e consistono nella spoliazione radicale, praticata ad esempio dagli eremiti o da san Francesco, e nella comunione dei beni, descritta negli Atti.
Tre invece sono presenti negli scritti di san Paolo e sono modelli di partecipazione: colletta, beneficenza, volontariato. Si tratta di una notevole varietà di scelte che, giustamente, possono tutte coesistere.
“La colletta, la beneficenza e il volontariato sono esempi di libertà cristiana nei confronti del denaro in comunità ove i credenti fanno l’esperienza di una solidarietà possibile e reciproca, solidarietà vissuta per ispirazione di un Dio di grazie che, attraverso il suo stesso agire, donandosi, pone le fondamenta della generosità personale e collettiva”. (p.97)
Le scelte più radicali costituiscono una “coscienza inquieta” del cristianesimo, un richiamo costante alla radicalità, ma possono far degenerare nell’elitarismo, nella presenza di una morale a due livelli, uno per i perfetti, l’altro per i credenti ordinari. Ecco allora che i tre modelli di partecipazione, meno spettacolari e ambiziosi, mirano a organizzare il reale così com’è.
“In essi vi è consapevolezza del fatto che il messaggio di Gesù vive di un ideale di uguaglianza, ma si rinuncia a imporla. Ciò significa che la forza dei modelli di partecipazione consiste nel farsi carico delle realtà penultime. Essi assumono le strutture del reale, con i loro vincoli economici, nella speranza di infondervi una maggiore solidarietà e umanità. Ma è chiaro che nel porre limiti allo slancio ideale corrono il rischio di occultare la radicalità delle realtà ultime, e di alimentare la tendenza cristiana al conformismo”. (pp.98-99)
La grande libertà cristiana consiste nella possibilità di scegliere e di mantenere viva la tensione dei diversi modelli, in modo che l’uno equilibri l’altro e ne faccia memoria.
I due capitoli finali vengono dedicati al prestito a interesse e all’atteggiamento di fronte ai mendicanti, si cita così la parabola del samaritano, che fa sorgere la domanda: tu chi vuoi essere per l’altro? Come vuoi divenire prossimo per l’altro?
 
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
 
Daniel Marguerat, Dio e il denaro, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose 2014.
 
Daniel Marguerat (Losanna 1943), pastore della chiesa riformata del cantone di Vaud e professore emerito alla Facoltà di teologia dell’Università di Losanna, è un rinomato biblista, esegeta del Nuovo Testamento e specialista della ricerca su Gesù e sulle origini cristiane.
 
Marina Monego, maggio 2014

DIETRO IL POPULISMO




Perché si affermano i partiti populisti? Basta guardare al profilo per età del voto populista, giovane al Sud e vecchio al Nord.E la soluzione passa per politiche europee che sappiano affrontare davvero il problema della disoccupazione giovanile nei paesi più periferici. 


Tito Boeri

Dietro il populismo

 
 Squilibri e spinte migratorie. Se si pensa all’Unione Europea come a un unico paese e si guarda alla diseguaglianza dei redditi, concentrandosi in particolare sui giovani, si comprendono bene le ragioni che stanno dietro alla vittoria dei movimenti populisti alle elezioni europee. L’indice più comune per misurare la diseguaglianza, il coefficiente di Gini, tra i redditi delle famiglie con capofamiglia di meno di 30 anni è cresciuto marcatamente in tutto il periodo della grande recessione e della crisi del debito dell’Eurozona. È passato dal 28,5 per cento nel 2007 al 31,5 per cento nel 2011: un aumento del 10 per cento. E il rapporto “primi dieci-ultimi dieci” è aumentato in maniera simile, da 4 a 5: significa che il reddito medio nel decile più alto nella distribuzione è ora cinque volte maggiore del reddito medio nel decile più basso. L’aumento della disuguaglianza tra i giovani non è dovuto, come per gli altri gruppi d’età, a una concentrazione nella parte più alta della scala dei redditi, con alcune persone molto ricche che aumentano la loro distanza dal resto della popolazione. I giovani, che già all’inizio della crisi erano sottorappresentati nella parte più alta della distribuzione del reddito, sono oggi una percentuale ancora minore rispetto agli altri gruppi di età.
La diseguaglianza dei redditi è aumentata principalmente a causa delle differenze nei livelli di disoccupazione giovanile. In Grecia e Spagna i tassi di disoccupazione in quella fascia sono oltre il 50 per cento, in Italia sopra il 40 per cento, mentre in Austria e Germania sono sotto la doppia cifra. È significativo che sia l’aumento della diseguaglianza dei redditi sia l’aumento delle differenze nei tassi di disoccupazione giovanile tra le diverse aree dell’Unione Europea abbiano una dimensione marcatamente nazionale: la diseguaglianza tra paesi è quasi raddoppiata, mentre all’interno dei paesi la crescita delle diseguaglianze è stata molto più contenuta; nel caso dei tassi di disoccupazione, la variazione inter-regionale all’interno di ogni paese si è dimezzata, mentre la differenza tra paesi è aumentata di due volte e mezzo.

Populismi  del nord e populismi del sud. Perché tutto questo è importante per capire la vittoria del populismo alle elezioni europee? I giovani sono la componente più mobile della popolazione e sperimentare la disoccupazione così presto, quasi all’inizio della loro vita lavorativa, lascia cicatrici profonde. Quelli che vivono nei paesi con un’alta disoccupazione (il cosiddetto ClubMed, incluso il Portogallo) hanno solo due opzioni: exit or voice - andarsene via o “farsi sentire”. Londra e Berlino sono state inondate da giovani italiani e spagnoli. E ancora di più da giovani bulgari o rumeni che hanno lasciato l’Italia o la Spagna per cercare lavoro altrove. L’alternativa è farsi sentire e i movimenti populisti del Sud Europa tendono a consentire ai giovani proprio quel tipo diprotesta radicale contro le istituzioni europee e l’euro che più apprezzano. Il profilo di età dei voti di Tsipras in Grecia, del movimento di Grillo in Italia, di Podemos in Spagna e del Front National in Francia è molto ben definito: in molte circoscrizioni, questi movimenti sono il primo partito tra coloro che hanno meno di 30 anni.
L’altro lato della medaglia è il populismo del Nord Europa, che somiglia molto a una collezione di sentimenti anti-immigrazione. L’Ukip ha fatto la sua campagna contro il flusso di cittadini europei, chiedendo lo smantellamento della libera mobilità dei lavoratori, uno dei pilastri dell’Unione Europea fin dal trattato di Roma. E non sorprende che il profilo di età sia, in questo caso, speculare rispetto al populismo del Sud: quasi il 90 per cento dei sostenitori di Nigel Farage ha più di 40 anni, 3 sostenitori del People’s Party danese su 4 hanno più di 50 anni e il FPÖ austriaco ha percentuali doppie tra gli ultra cinquantenni. La concentrazione all’altro capo dello spettro di età nel populismo del Nord è dovuta al fatto che i lavoratori più anziani rappresentano le componenti meno mobili della popolazione ed è quindi probabile che soffrano di più per la competizione dei giovani lavoratori che arrivano da altre parti dell’Unione.
Come spendere meglio le risorse. Se l’analisi è corretta, ne consegue che sarà difficile per i movimenti populisti europei coordinare i loro voti utilizzando la grande fetta di seggi che si sono guadagnati nel Parlamento europeo. Ma ci sono lezioni ancora più importanti da imparare riguardo al futuro dell’Europa. A meno che non si faccia qualcosa per affrontare il problema delle diseguaglianze tra paesi e della disoccupazione giovanile, questa tendenza proseguirà e porterà con sé, al Nord, tensioni per l’immigrazione e, al Sud, fuga di cervelli ed euroscetticismo. Non è una prospettiva positiva per l’integrazione: è poco probabile che così si promuova un’identità europea, qualunque essa sia. I politici tedeschi conoscono molto bene la questione, dal momento che l’hanno dovuta affrontare dopo l’unificazione della Germania, spendendo molto per prevenire la migrazione da Est a Ovest. Fortunatamente, in questo caso, non c’è bisogno dei massicci trasferimenti fiscali registrati dall’Ovest verso l’Est dopo la caduta del Muro di Berlino. Sarebbe sufficiente prestare più attenzione allo sviluppo nelle economie più periferiche quando si prendono decisioni di politica monetaria, partendo col pianificare una svalutazione dell’euro rispetto al dollaro.
Allo stesso tempo, il bilancio europeo dovrebbe essere usato meglio per affrontare i problemi legati alla disoccupazione giovanile. Oltre a essere troppo contenuta (6 miliardi di euro, ovvero, circa 400 euro per giovane disoccupato all’anno), l’Iniziativa europea per l’occupazione giovanile si dà obiettivi sbagliati e coinvolge attori sbagliati: si propone di avviare al lavoro i giovani nei paesi in cui non ci sono posti disponibili per loro; inoltre, trasferisce denaro dal bilancio europeo direttamente alle regioni povere, saltando le giurisdizioni nazionali, mentre l’aumento della disoccupazione giovanile ha una dimensione marcatamente nazionale. Il risultato sono programmi regionali co-finanziati dall’Ue che, per contrastare la disoccupazione giovanile, si affidano a una grande varietà di progetti di piccola portata e di durata limitata. Vi rientrano molti corsi di formazione più adatti ad arricchire chi tiene il corso (spesso con curricula limitati, come quelli per estetista) che ad aiutare effettivamente coloro che dovrebbero beneficiare della formazione.
Nell’ambito dell’iniziativa non c’è spazio, invece, per le riduzioni fiscali permanenti e i sussidi salariali che promuoverebbero la domanda di lavoro per i più giovani nei paesi con un alto tasso di disoccupazione. Insomma, si ripetono esattamente gli stessi errori compiuti nell’allocazione dei fondi strutturali: spesso i governi locali non sanno che fare di questi soldi e finiscono o per non spenderli (la stessa efficiente amministrazione tedesca utilizza non più del 60 per cento delle allocazioni dei fondi strutturali) o per disperderli in una miriade di piccoli progetti, i cui costi di gestione superano frequentemente il 50 per cento del budget di ciascun singolo progetto.
Con le regole attuali, alle nazioni in crisi converrebbe arrivare a un accordo di “zero a zero”: non contribuire in alcun modo al bilancio Ue e non riceverne nulla in cambio. Ma se chi più ha bisogno di sostegno sotto i colpi di crisi asimmetriche ricava un maggior beneficio chiamandosi fuori dal fondo comune, è evidente che quel fondo comune non ha ragione di esistere sotto il profilo della condivisione del rischio e del mutuo soccorso. L’Iniziativa europea per l’occupazione giovanile dovrebbe quindi essere riconsiderata, consentendo il finanziamento di programmi nazionali per la creazione di posti di lavoro nei paesi con un’alta disoccupazione giovanile, mentre i fondi strutturali dovrebbero trasformarsi in strumenti per sostenere quelle riforme strutturali che incrementino la convergenza economica all’interno dell’Unione. Dovrebbero essere fondi per compensare gli svantaggi della liberalizzazione economica secondo la filosofia dei Contractual Arrangements, oltre che per assorbire gli shock. Oggi non ci sono le basi per un ampliamento del bilancio dell’Ue, ma possiamo iniziare a spendere meglio il denaro a disposizione
Lavoce.info, 27 maggio 2014