10 agosto 2019

LA RESURREZIONE VISTA DA DONATELLO




Firenze, San Lorenzo - Donatello, Pulpito della resurrezione (1465), particolare 

  
La gioia e la fatica d'ogni giorno

 Tomaso Montanari


 
Forse un artista più grande di Donatello non ha mai camminato per le vie dell’Italia. Di sicuro nessuno ha mai usato meglio la propria libertà: una libertà conquistata faticosamente, pezzo a pezzo. Da vecchio, a ottant’anni, Donatello può fare quello che vuole. Può immaginare la storia più famosa del mondo - quella di Gesù - come nessuno ha osato fare fino a lui. E può fermare queste sue fantastiche e liberissime immaginazioni non in un disegnetto schizzato a lapis, come accade a tutti gli artisti, ma nel più nobile dei materiali: il bronzo.
Lo fa in una serie di rilievi che formano due pulpiti per la sua amatissima Basilica di San Lorenzo, nel cuore di Firenze.
La scena più impressionante racconta l’episodio che da solo dà senso a tutta la religione cristiana: la resurrezione di Cristo. E cioè il fatto che Gesù, all’alba del terzo giorno che trascorreva nella tomba, dopo esser morto in croce, tornò alla vita. Il più grande trionfo della storia dell’umanità: la sconfitta della morte. «O morte, dov’è la tua vittoria? Dov’è ora il tuo pungiglione?», griderà poi san Paolo, con la voce di tutte le generazioni.
Dunque, quando un artista - non importa se pittore o scultore - doveva rappresentare la resurrezione, raffigurava Gesù come un condottiero vincitore, come un atleta che era arrivato primo, come un ginnasta che schizza fuori dal sepolcro mentre i soldati romani dormono ignari. Un Gesù che sembra non esser mai stato morto: quasi che fosse stata tutta una messinscena.
Donatello no. Il suo Gesù è vero uomo, oltre che vero dio. Come vero dio è risorto davvero: ma come vero uomo era morto sul serio. Donatello ce lo mostra appena uscito dal sepolcro. Ancora completamente coperto dal sudario e dalle bende funebri: una specie di mummia che cammina, come nei nostri film dell’orrore. Morire e risorgere: una fatica terribile. Tutta la sofferenza del mondo, tutta la stanchezza del mondo: e ora non ha nemmeno la forza di sbendarsi. Prima deve riprendere fiato, con un piede appoggiato al suo sarcofago. Chiunque, vedendo questo Cristo fragile e umanissimo, può credere che la resurrezione lo riguardi personalmente.
Quella carne stanca è la nostra carne stanca. Quell’affanno è il nostro affanno. Nulla di bello riesce senza fatica, al mondo: nemmeno la resurrezione.
E, su un incredibile sfondo di architetture di vimini, i soldati dormono come pupi siciliani caduti dal chiodo. Chiusi nelle loro armature non si accorgono di nulla. Proprio come noi.

TOMMASO MONTANARI, L'ora d'arte, Einaudi 2019