31 agosto 2015

G. SARTORI, IL PREZZO DELLA TERRA


IL PREZZO DELLA TERRA (autismi della terra # 1)

di Giacomo Sartori


Se potessi farei solo buche nella terra. Col vento e con la pioggia, nel solleone più incandescente, dove ogni respiro è fuoco nei polmoni, quando l’inverno mi morde le dita: l’importante sarebbe essere solo io e lei, senza distrazioni, senza alcun rompiscatole attorno. Io e la terra abbiamo un buon rapporto, da sempre. Io faccio le cose che devo farle, e lei mi lascia fare. Quando ho finito la saluto (mentalmente) e vado via. Come si prende commiato da una persona con la quale abbiamo simpatizzato in treno, e che non rivedremo più. Forse se quel viaggio invece di qualche ora fosse durato due giorni, di quell’individuo che ci ha scaraventato nel pozzo avvincente della sua esistenza non ne avremmo potuto più, ma l’amicizia estemporanea è fiorita l’intervallo esatto per scongiurare l’assedio degli ineluttabili difetti, o anche solo per cominciare a soffrire delle ripetizioni (che prima o poi spuntano sempre). Anche a me dispiace ogni volta voltare le spalle, quando ho finito le mie alchimie.
So bene che la mia vita deve continuare, e non posso consumarla tutta in quella buca, sarebbe assurdo, ma provo un po’ di rimpianto. Certo porterò via con me le fotografie (io che non ho mai scattato e collezionato immagini), e i campioni per il laboratorio, e quindi non è una vera e propria separazione ineluttabile, ma sono cosciente che quel paio d’ore trascorse mezzo seppellito sotto il livello della superficie sono un miracolo che non si ripeterà più. Non con quella sua vividezza dei sensi e dell’intelletto, quella pregnanza quasi sensuale, per non dire carnale, quella sua purezza minerale. Ne resterà solo un ricordo sempre più sfuocato, nella mia mente che si fa scivolare via i ricordi tra le sue dita troppo lisce. Perdita certo compensata da altri incontri simili o anche molto differenti, questo non posso prevederlo, come succede nella vita.
Purtroppo il mio lavoro comprende anche tutt’altro. Certo queste brevi storie d’amore sono il fulcro, la culla per così dire da dove nasce tutto il resto, e verso cui tutto deve convergere, ma a ben vedere finiscono per farsi agognare: sono la droga che mi tiene legato alla professione che faccio, ma sono sempre troppo poche, troppo spaziate. Come ogni tossicomane vorrei che fossero più numerose, più frequenti: sono in carenza. Purtroppo è così.


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 Tanto per cominciare ci sono le coatte immobilizzazioni al computer. Ore e giorni di carezze alla scatola che è a casa mia, ma è connessa con immensi archivi di dati, istituzioni, centri di ricerca, biblioteche, migliaia di persone in carne ed ossa sparse per il mondo, anche loro come me inchiodate davanti a uno schermo e a una tastiera, resi irreali. Quella protesi che sembra essere al mio servizio con le sue capacità infinite, e in realtà mi isola dal resto dell’umanità, alienando con la sua bulimica pletora il mio fisico e la mia mente, tagliando in definitiva le ali ai miei sogni. Le trame asettiche nelle quali mi incatena sono agli antipodi del senso di avvicinare il vero, di essere libero, di stare effettivamente vivendo, che provo quando sono in compagnia della terra.
Faccio anch’io come tutti, mi piego. Come ogni innamorato mi nascondo che il mio amore comprende anche sprazzi pedissequi, per non dire assai sgradevoli, accanto a quelle felici. Altro che transitori effetti collaterali, se dovessi analizzare i fatti con rigore stechiometrico risulterebbe che la maggior parte del mio tempo la trascorro seduto nella semioscurità, come uno schiavo che rema in una galera. L’era digitale ha creato nuovi paria, e io ne sono uno, lo so bene. Ma non si può pretendere che la visione di un innamorato sia oggettiva: quando mi domandano cosa faccio mi immagino l’odore di miceli e di sasso, l’alito vegetale del vento, il tenero sotto le scarpe. Senza rievocare la macchina infernale che fa di me quello che vuole, rispondo con un sorriso citrullo che gioco con la terra.
Un’incombenza ancora peggiore delle catene digitali, sono gli incontri con le persone che mi commissionano i lavori. Per farlo devo recarmi in questo o quell’ufficio di questo o quel servizio o istituto, contornato in genere da una miriade di altri uffici simili o poco differenti. Devo entrare in portoni con placche di denominazioni ufficiali, devo percorrere corridori ognuno con un suo odore ben particolare, e con fotografie o poster alle pareti, in genere con ieratiche montagne e boschi (o anche un lago alpino accecato da un sole arrogante), incrociando fantasmi di esseri umani che vanno e vengono come uccelli che si spostano per motivi chiari solo a loro da un ramo all’altro. Devo prendere ascensori con rivestimenti dozzinali o anche sontuosi ma mai belli, mai accoglienti, con specchi che non incontrano mai facce entusiaste, e quindi sembrano essi stessi tristi. Sono labirinti di corridoi e scale che ormai conosco bene (a partire da un certo punto la vita tende a ripetersi), ma ai quali non mi sono mai davvero abituato, e che per certi versi mi stupiscono come fosse la prima volta.
Ogni volta che mi sprofondo in uno di quegli itinerari obbligati la mia esistenza lavorativa, che è legata in modo indissolubile a quella non lavorativa (non ho mai saputo separarle né temporalmente né spazialmente), annega in quell’inerzia solo lavorativa che ha nei suoi atomi il beneplacito della società, è ritenuta anzi necessaria, o comunque funzionale, ineluttabile. La mia vita un po’ lavorativa e un po’ no, e proprio per questo carente di legittimità, e quasi sconveniente, se non addirittura un po’ losca, urta contro quella fiacca come depurata di tutte le scorie non lavorative (alle quali è consentito di affiorare solo nella forma di noia e velata tristezza), e in quell’impatto violento c’è qualcosa che mi fa sentire anomalo e alieno, che condanna senza appello le modalità raffazzonate nelle quali organizzo la mia esistenza.
Lì dentro i toni di voce e gli sguardi rivelano gerarchie di valori ben diverse dalle mie, ben altre meccaniche esistenziali, altre cosmologie. Le persone che devo incontrare si occupano anche loro di terra, ma lo fanno portandosi dietro quel suggello di tedio ufficiale, quella rassegnata responsabilità derivante dal fatto di avere una scrivania e il nome stampato su un cartellino a destra della porta, di far parte di un gran congegno con le sue regole e obblighi, un preciso organigramma, una criptica burocrazia. Del resto la loro rispettabilità professionale è per così dire aprioristica, per certi versi quasi divina, non deve essere difesa giorno dopo giorno come la mia. Questi convalescenti sanno cos’è la terra?, mi chiedo. Se ne occupano, ma l’hanno mai toccata? E mentre lo penso darei chissà cosa per essere in una buca.


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Quei funzionari fingono con se stessi e con gli altri di avere un congruo interesse per quello che fanno, e chiamano questa loro impostura impiego, o lavoro: la terra è un pretesto come un altro. Il mio rapporto con la terra è invece passionale, per certi versi extraconiugale, forse anche un po’ incestuoso. Niente regole da rispettare per me, nessun sovrano che pianifichi le mie giornate, niente sorrisi un po’ ipocriti con i colleghi, niente capi di cui sparlare, niente stipendio fisso. Solo i rituali che mi impongo io stesso, e gli spifferi sempre presenti provenienti dal vuoto dell’assurdo.
Non lo vorrebbero dare a vedere, ma è chiaro che mi vedono come uno che non sa valutare bene il giusto peso delle cose, e mosso da incongrui moventi, legati a chissà quali scompensi: uno che non si sa bene perché faccia quello che fa, con che fine. Uno spostato che finge un entusiasmo esagerato per la terra, che è pur sempre terra: un fanatico. Io stesso mi sento fuori luogo, una volta che il mio buon umore si è prosciugato: sorrido, parlo con scioltezza, sguaino come gioielli nei loro scrignetti foderati di feltro i pezzettini del mio sapere, perché sono cosciente che se non li convincessi sarei separato dalla mia amata, ma dentro di me soffro per quel mio non avere nessuna targhetta o titolo amministrativo, per quel mio rispondere solo a me stesso. E la mia stessa relazione con la terra mi appare remota e per tanti versi assurda. Sono io che sono un’eccezione, sono io che sono diverso, la normalità è questa, mi dico.
So bene che non sopporterei di stare chiuso in quel carcere nemmeno una giornata, so che non potrei fare miei quei modi di fare senza gioia, io che anche nella depressione – forse ben più grave – ho le mie fisime, quei sospiri con il marchio della ripetizione coatta e dell’ubbidienza a invisibili superiori, come sempre indissolubilmente intrecciato a rancori e servili invidie. Mi sembra pur sempre di essere io dalla parte del torto, quasi mi mancasse qualcosa, e proprio per questo perdo fiducia nelle mie frasi: ho la sensazione che siano poco convincenti, che svelino le mie complicate mediazioni con me stesso. Più il tempo passa più mi appaio un dilettante che fa le cose per leggerezza, che per certi versi finge. Un ciarlatano, un truffatore. Se non addirittura un mitomane che ha bisogno di ingannare anche se stesso.
Quando esco mi accorgo che la tensione mi si è accumulata nel cranio dolorante: non mi resta che andare a casa e prendere una pastiglia, distendermi sul pavimento con il cuscinetto ghiacciato sulla fronte, ritagliandomi una parentesi non lavorativa che certo loro non potrebbero permettersi. Per poi però ricuperare con gli interessi la sera, quando loro giaceranno sedati nei loro divani, affrancati dalle preoccupazioni del lavoro, e io invece sgobberò. Ritrovando un po’ alla volta la mia fiducia nella terra.


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 Talvolta le persone che devo incontrare sono dirigenti, e allora gli uffici trasudano in ogni dettaglio il lusso austero e anche spietato del potere, il distacco dalle basse quisquiglie quotidiane. Io ce la metto tutta per abbigliarmi meglio che posso (già in questo tradisco le mie convinzioni egualitarie e i miei ecologismi), e incedo guardando lontano davanti a me, come quando si è resi invulnerabili dal proprio abbigliamento. Bisogna però vedere cosa si diranno quelle teste abituate a soppesare le persone con occhiate invisibili da statua sul suo piedestallo, mi dico però mentre mi fanno aspettare (succede sempre). Quei loro occhi di statua indifferente colgono subito il dettaglio che rivela come stanno davvero le cose: una suola un po’ troppo consunta, un rammendo sulla maglia, il bottoncino mancante.
Se fossi meno indulgente con me stesso capirei che i miei sforzi sono quelli di un contadino che si mette addosso le cose migliori che ha nell’armadio, indumenti magari di fattura discreta, ma senza quell’inconfondibile nota superiore dei capi di lusso, e comunque – basterebbe quello a far precipitare il palco – legati a mode legate già seppellite nel tempo, reperti archeologici senza nulla in comune con le normative pubblicità che irrompono di continuo nel mio campo visivo. I miei modelli introiettati provengono del resto dalla contestazione e dalla controcultura: si tratta di paradigmi estetici per molti versi opposti a quelli dei dominatori. Io ho sempre aborrito il potere e i suoi simboli, e quello che considero un vestirmi neutro porta certo le tracce di questa idiosincrasia, senza peraltro indulgere alle informatiche sciatterie lanciate dai nuovi magnati californiani. Per non parlare del mio inurbano taglio di capelli, dei miei occhiali riaggiustati con la colla.
Cerco insomma di adeguarmi alla dittatura estetica neoliberale, e mi compiaccio che i miei interlocutori fingano che ci sia riuscito: dopo i saluti di rito ci mettiamo a parlare del lavoro che ho fatto o che farò. O meglio, in genere io parlo del lavoro che ho fatto o farò, e loro mi ascoltano con le loro ieratiche teste di statua. In linea generale a me viene bene ascoltare quello che dicono gli altri, ma lì sono io che devo espormi, che devo convincerli a mollare i cordoni della borsa. Per una volta non posso essere solo perverso spettatore.
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 Prendo allora la parola come golia impugna la fionda, come un condannato a morte si gioca l’ultima carta per invocare la grazia. Descrivo i pregi dei buchi che ho fatto o vorrei fare, lascio intendere che sono molto meglio di quelli che si fanno di solito, e che porteranno molti vantaggi. Mi sprofondo in inessenziali dettagli tecnici, e poi invece raggrumo troppo idee in una frase spiccia e un po’ ironica, velleitariamente spiritosa, altrettanto stonata. O anche mi lancio in considerazioni di ordine universale, per non dire filosofiche, sottintendo che la terra e i massimi sistemi sono intimamente legati. Cerco insomma di fare più bella figura possibile. In generale ci vado troppo forte, decanto quello che faccio calcando troppo le tinte.
Mentre sproloquio le statue mi guardano come se le mie frasi fossero un enigma, come se io stesso fossi un mistero da risolvere. Quasi che il mio disquisire tecnico, che chiaramente le annoia, fosse la traduzione di una trama nascosta con tutt’altri significati, ben più importante della sua maschera. Le mie parole non occultano però altre parole, o almeno non con il mio beneplacito. I monumenti avvezzi a cercare le parole dietro le parole (come certi maniaci sollevano le pietre per vedere se sotto c’è una lumaca), socchiudono allora gli occhi di marmo come si fa davanti a un problema che non riusciamo ancora a svelare. Mi nasce l’impressione che me ne vogliano, a giudicare da certi scivolamenti delle labbra e da certi respiri. Ma forse hanno semplicemente la sensazione di perdere tempo, si dicono che dietro quella mia opacità (la chiarezza per loro è colpevole buio fumogeno, o pazzia), non c’è niente.
Parlando al cospetto di questi obelischi turgidi di loro stessi sento l’oppressione della loro abitudine a servirsi degli uomini come pedine (e delle azioni come raffiche di mitragliatore), del loro esplicito non esitare di fronte a nulla, pur di perseguire voraci strategie ascensionali. Ma naturalmente sento anche il peso del mio bisogno di costruirmi castelli in aria, di sfuggire alle responsabilità, di isolarmi per proteggere i miei deliri, di rubare a destra e a manca lacerti di senso da incollare su quello che faccio, mimetizzando così la mia inanità, il mio pedissequo fallimento esistenziale. In fondo sono anch’io un essere interessato, un furfante, mi dico. E è proprio questa seconda percezione, riguardante solo me stesso, che finisce di solito per prevalere, delle bramosie dei potenti non mi importa più di tanto (e a essere bistrattato ci sono abituato: si direbbe anzi che mi piaccia). E’ normale che loro tramenino per acquisire ancora più potenza e diventare ancora più temibili, è la loro ragione di vita, mi dico. Quello che non è normale è che io racconti ancora a me stesso delle panzane: in fondo anch’io mi servo della terra come alibi, anch’io penso solo a me stesso, mi dico.
Poi finalmente posso scappare. Se i cordoni della borsa sono stati sciolti (o anche solo me ne resta la speranza), sono felice, e con cristallina incongruenza penso alla terra, come un padre potrebbe pensare al figlio per il quale fatica tanto. Adesso potrò fare altre buche, mi dico, e già mi immagino di essere seppellito fino alle spalle, con i capelli scompigliati da una brezza reduce dalle pieghe di odorose colline. Ma anche se non ho ottenuto niente sono soddisfatto, perché posso finalmente sbucare all’aria aperta: quei labirinti burocratici che percorro a ritroso mi appaiono meno claustrofobici di prima, quasi normali, quasi belli. I poster e i manifesti non mi danno più noia con la loro menzognera versione del mondo. E anche le facce che incontro mi sembrano meno mostruose. Certo non sono gioiosi, non sono entusiasti, ma sono pur sempre visi umani, mi dico.


(questo racconto è stato pubblicato su “Lo Straniero” di luglio 2015, numero 181, con il titolo “Gli incontri per la terra”. Noi l'abbiamo ripreso dal sito  http://www.nazioneindiana.com/2015/08/31/gli-incontri-per-la-terra-autismi-della-terra-1/

ANNA MARIA ORTESE SECONDO R. MILONE

Anna Maria Ortese

Il sito http://www.minimaetmoralia.it/  inaugura oggi una nuova rubrica in collaborazione con il portale Cattedrale: Rossella Milone, a breve in libreria per minimum fax con Il silenzio del lottatore, di volta in volta analizzerà un racconto italiano. La prima puntata  è dedicata a Un paio di occhiali, racconto di Anna Maria Ortese tratto da Il mare non bagna Napoli.


Il racconto dei racconti: Anna Maria Ortese secondo Rossella Milone



Eugenia è una bambina cresciuta in un vicolo della Napoli del dopoguerra. Le bombe hanno lasciato macerie e residui di un’umanità appesa alle ringhiere dei balconi. La città sfregiata non si è solo rotta, ma ha fatto venire a galla – come da un tombino troppo pieno – ciò che già c’era, e sempre c’è stato. I miserabili, i pezzenti, una forma di vita sfasciata, l’indolenza sotto al sole, macchiata da un atavico vittimismo borbonico. Eugenia sta lì, con il padre Peppino, la madre Rosa, zia Nunzia, una caterva di fratellini, una serie di personaggi limitrofi che danno lo sfondo al racconto. Il paesaggio, diciamo, che, secondo la poetica di Anna Maria Ortese, si esprime attraverso il racconto delle persone.
Un coro greco che sottolinea le parole; incide l’azione dei personaggi nella trama, mettendola in risalto come un’immagine che sbuca da un cameo; a volte giudica o sostiene i protagonisti, ma il ruolo di questo coro è sempre a sfondo drammatico: è funzionale ai personaggi principali per coordinarne i gesti e le motivazioni.
Anche in un altro racconto de Il mare non bagna Napoli ‘La città involontaria’, il racconto dei luoghi avviene attraverso una lente particolare che si fissa sugli individui. Per raccontare il III e IV Granili di Napoli, per esempio, un inferno in Terra che dimostra la «caduta di una razza», la Ortese ci fa incontrare Antonia Lo Savio:
“una donnetta tutta gonfia, come un uccello moribondo, coi neri capelli spioventi sulla gobba e un viso color limone, dominato da un grande naso a punta che cadeva sul labbro leporino, stava pettinandosi davanti a un frammento di specchio, e tra i denti stringeva qualche forcina. Sorrise, vedendomi, e disse: «Nu minuto»”.
L’intero percorso delle esistenze che abitano quell’inferno, lo si vede prima sulle facce, nei capelli, nelle dita ritorte e nelle andature storpie degli individui. Come se fossero i corpi a subire, prima ancora delle menti e delle anime, le mutazioni dei luoghi, le brutture, i drammi, per tatuarsi per sempre sulla vita della gente.
In Un paio di occhiali Eugenia ha bisogno di occhiali nuovi perché, come dice il dottore, è completamente cecata. Poveri come sono, è solo grazie ai risparmi di zia Nunzia che riescono a comprarne un paio («Ottomila lire vive vive!»). Quelle lenti, desiderate più del latte, più di un piatto di pasta, sono per la bambina l’antidoto al buio: personale, collaterale alla sua famiglia e, in senso più allegorico, per la città intera. Eugenia non può vedere, cecata com’è, ciò che la gente del rione vede e, con lei, che anche noi percepiamo. Una realtà mischiata, in cui i vicoli spezzano la città in due: da un lato le strade coi vasi pieni di gerani, le signore imbellettate, la luce dorata del cielo aperto, i signori con le pipe, le case piene di ricchezza. Dall’altro un mondo scuro in cui il cielo è stretto, pieno di larve dove strisciano e s’arrampicano persone senza tempo, senza più l’aria.
Anna Maria Ortese, a questo punto, fa compiere la prima meraviglia che un racconto deve fare: evocare un mondo, o una parte di esso, senza dire, con la sola arte della omissione.
Eugenia è convinta che con gli occhiali scoprirà qualcosa che le è sconosciuto: l’origine di quel malessere che pure avverte ma che non sa spiegarsi, a cui non riesce a dare un nome. Non lo vede, non lo vediamo nemmeno noi. Ne sente il brusio, sulla pelle ne sente il formicolio sinistro, ne avverte la minaccia, riconosce il peso blu di un cielo sporco, sfocato. Nonostante il punto di vista del racconto non sia focalizzato internamente alla sola Eugenia ma, di volta in volta, pure negli altri personaggi, anche noi lettori ci sentiamo soccombere da un presagio in arrivo, come avvertito in lontananza. Eppure non c’è. Non lo vediamo. O, meglio, non siamo sicuri di vederlo. È omesso, ma leggibile.
A proposito di questa omissione che rende percepibile ciò che non è scritto, Anna Maria Ortese è una maga. E per far funzionare questo incantesimo compie qualcosa di molto diverso da ciò che fa Ernest Hemingway a proposito della ‘teoria dell’iceberg’: invece di lasciare sotto la superficie della narrazione tutto un universo di significazione, di storia, di conflitti, per far rimanere a galla solo la punta estrema di questo enorme masso di ghiaccio, la Ortese compie un altro gesto narrativo: quello di inforcare una visione.
A differenza di molti narratori – specie quelli nord americani – questo nascondimento, questo atto ellittico del non detto, Ortese lo interpreta, nel racconto, in altro modo. Lei è una scrittrice che vuole vedere. Che porta a galla, anziché seppellire, che mostra, gettando sulla pagina una massa abbondante di informazioni soprattutto di tipo percettivo.
“Uscì sul balcone. Quant’aria, quanto azzurro! Le case, come coperte da un velo celeste, e giù il vicolo, come un pozzo, con tante formiche che andavano e venivano… come i suoi parenti… Che facevano? Dove andavano? Uscivano e rientravano nei buchi portando grosse briciole di pane, questo facevano, avevano fatto ieri avrebbero fatto domani, sempre. E intorno, quasi invisibile nella gran luce, il mondo fatto di Dio, col vento, il sole, e laggiù il mare pulito, grande. Stava lì col mento inchiodato sui ferri, improvvisamente pensierosa, con un’espressione di dolore che la imbruttiva, di smarrimento”.
Ciò che viene omesso non è un fatto (come avverrebbe, appunto, in un racconto di Hemingway) ma una parte del mondo che la scrittrice contempla – in questo caso la Napoli ricca, quella più agiata; la città colorata del benessere e della cultura – che pure, in qualche modo, rientra nel campo visivo del narrato. Questa percezione di ciò che non vediamo, la presenza pesante di questo mondo ‘altro’ dal vicolo, che sta lì fuori, sospeso come un cielo cattivissimo, a sussurrare appena, rende, attraverso il contrasto, ancora più maledetto, più incomprensibile e oscuro il mondo in cui vive Eugenia, perché fa da contraltare a ciò che, invece, la bambina (e noi con lei) avverte benissimo, nonostante sia mezza cieca. Quella maledizione, appunto, quel malessere che non sa nominare sta lì: nella omissione che la Ortese compie sulla pelle della protagonista.
Questo gesto narrativo della Ortese, avviene non attraverso gli occhi (come se anche lei fosse miope e avesse bisogno di occhiali), non attraverso un semplice sguardo: è la traiettoria di questo sguardo a fornire alla scrittura della Ortese gli strumenti adatti, ed esatti, con cui evocare questo mondo altro.
Ha una traiettoria strana, questo sguardo: si posa dove non dovrebbe, s’infila con l’agilità del gatto di strada negli angoli più incavati di cose e luoghi, raccoglie le briciole più piccole, quelle quasi invisibili a un occhio normale; è lo sguardo irrequieto di chi coltiva l’inquietudine come lente di messa a fuco sul reale. È uno sguardo doloroso, che fa fatica a convivere in pace con la vita, eppure è il solo che ne possa catturare l’essenza.
“Seduta sullo scalino di un altro basso, Eugenia guardava un pezzo di giornale per ragazzi, con tante figurine colorate. Ci stava col naso sopra, perché se no non leggeva le parole. Si vedeva un fiumiciattolo azzurro, in mezzo a un prato che non finiva mai, e una barca che andava, andava chissà dove. Era scritto in italiano, e per questo lei non capiva troppo, ma ogni tanto, senza un motivo, rideva”.
Questa visione è prima di tutto privata, personalissima, di donna ed essere umano (tanto che il libro, apparso nei Gettoni della Einaudi nel 1953, fu interpretato dalla critica come un testo contro Napoli, che le costò un ostruzionismo tale da non farla mai più tornare nella sua città adottiva, ma che, soprattutto, la relegò ai margini di una vita povera e incompresa). Seppure isolata dagli ambienti mondani e letterari, la sua dedizione alla letteratura era attiva e totalizzante, e questa totalità si riverberava anche sulla sua postura di scrittrice.
Diversi anni fa, curai, con altre realtà cittadine, un evento legato ad Anna Maria Ortese presso il Palazzo delle Arti di Napoli. Per raccogliere materiale e studiare la sua poetica, lavorammo per un certo periodo all’Archivio di Napoli, in cui è raccolto parte del patrimonio ortesiano depositato nell’Archivio, nel 2002, dalla nipote Rita Ortese. La maggior parte dei documenti sono rappresentati da epistolari, appunti, pagine di diari e opere inedite. Ma la mia memoria si è fossilizzata su un suo pacchetto di sigarette (ovviamente vuoto) con ancora la pellicola di plastica, e un appunto scritto da lei, a penna blu, sul cartoncino, parecchio lungo, tanto da occupare quasi tutto il bianco del pacchetto. Non si capiva nulla, di quello che c’era scritto. Singole parole, le congiunzioni, qualche verbo. Ma il senso del pensiero completo non riuscii a decifrarlo, era incomprensibile. Dopo tanti libri letti della scrittrice, in realtà fu quello a farmi comprendere quanto fosse radicata, profonda e dolorosa quella visione che caratterizzò tanto la sua scrittura: la grafia, così sbilenca e isterica e nervosa, era la prova di uno sguardo che raccoglie il pensiero in modo veloce, rapace e aggressivo, quasi che potesse sfuggirle dalle dita e non acchiapparlo mai più.
Il senso di questa rapacità si evince, completamente, nella sua scrittura. È nella scrittura che si trova la sola chiave di lettura di un testo e il tentativo di una sua eventuale verità. Fu lei stessa a dichiarare che nei racconti de Il mare non bagna Napoli:
‘la scrittura ha un senso di esaltato, di febbrile, dà nell’allucinato: e quasi in ogni punto della pagina presenta, pur nel suo rigore, un che di troppo: sono palesi i chiari segni di una autentica nevrosi. […] Se all’origine di tale lacera condizione vi era appunto la infinita cecità del vivere, ebbene era questo vivere che io chiamavo in causa, […] e perciò tramite questa nevrosi, io gridavo’.
Nei racconti soprattutto, questa specifica angolazione, questa traiettoria dello sguardo, sorretta da una scrittura tanto bellicosa, rende possibile le omissioni che Hemingway lasciava sotto la superficie. La Ortese tiene la narrazione lì, a galla, ma spostata di qualche millimetro, raccontata con occhi sghembi, tanto da ottenere quell’effetto di presagio imminente, quel brusio in lontananza che di pagina in pagina quasi ci soffoca, pur non capendo da dove provenga.
Questa visione, in Un paio di occhiali, è funzionale a una cosa soltanto: al finale. E, in questo senso, Ortese usa il racconto nel modo più classico della tradizione moderna, assecondando Joyce o Woolf o Mansfield. Si avvia verso un traguardo epifanico, che esplode nell’ultima pagina quando, finalmente, Eugenia riuscirà a inforcare gli occhiali nuovi. Riuscirà a vedere. E quindi a sapere.
Per arrivare lì, per giungere col fiato sospeso fino a quella pagina, Ortese, quindi, crea un coro; crea un mondo visibilissimo e oscuro; parallelamente ne forma un altro meno visibile, omettendolo, di cui ne percepiamo solo le risonanze; inforca una visione; attraverso quella traiettoria dello sguardo che si posa obliqua sul narrato, crea una tensione scomoda imponendo al lettore una serie di livelli percettivi che gli permettono di sapere, pur non vedendo; accumula, accumula, e, nel finale, accende la luce epifanica.
Anna Maria Ortese avverte una certa vicinanza con Ernest Hemingway, tanto che nel luglio del 1961, commentando l’improvvisa scomparsa dello scrittore, lo descriveva come colui che le sembrava appartenere a quel tipo di persone che possiedono una certa «santità animale», estranee a una intelligenza «che oggi ha scarnificato l’uomo»: con le sue opere, infatti, Hemingway raccontava l’esistenza del Tutto di cui l’uomo è parte, descrivendolo attraverso una «tranquilla e maestosa Natura».
Come lui, anche la scrittrice percepisce il peso che il mondo ha sull’essere umano. Anche lei avverte questa vicinanza a un mondo che è altro dall’uomo; è interessata a capire come, questo mondo, cambia le persone e ancora di più, come l’essere umano venga condizionato dalle brutture e dalle storpiature della realtà circostante. Però, diversamente dallo scrittore americano, la sua postura è ravvicinata, contaminata da un bisogno civile più che affabulatorio, che, spesso, ne condiziona lo stile, assolutamente contrapposto a quello più minimalista e disciplinato, quasi sempre in sottrazione, che tanto caratterizza la short story nord americana; e che oggi, a torto, consideriamo l’unica forma di narrativa breve contemporanea.
‘Come un imbuto viscido il cortile, con la punta verso il cielo e i muri lebbrosi fitti di miserabili balconi; gli archi dei terranei, neri, coi lumi brillanti; il selciato bianco di acqua saponata, le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel gruppo di quei cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione, che la guardavano amorosamente’.
Nella Ortese tale visione dà il meglio di sé nei racconti, ne risalta la scrittura e la narrazione.
Per lei la forma racconto – e questo racconto, in particolare – è intesa nel modo più classico, ma anche più ancestrale e significativo rispetto alla sua funzione letteraria: arrivare al grumo di sangue che lascia l’ago quando punge la pelle. Un puntino soltanto, un dolore circoscritto che porta a galla un grido – di Eugenia o di chiunque altro, magari anche il nostro.

di pubblicato lunedì, 31 agosto 2015  su http://www.minimaetmoralia.it/

F. KAHLO SAPEVA AMARE




Ti meriti un amore 

Ti meriti un amore che ti voglia
spettinata,
con tutto e le ragioni che ti fanno
alzare in fretta,
con tutto e i demoni che non ti
lasciano dormire.

Ti meriti un amore che ti faccia
sentire sicura,
in grado di mangiarsi il mondo
quando cammina accanto a te,
che senta che i tuoi abbracci sono
perfetti per la sua pelle.

Ti meriti un amore che voglia ballare
con te,
che trovi il paradiso ogni volta che
guarda nei tuoi occhi,
che non si annoi mai di leggere le
tue espressioni.

Ti meriti un amore che ti ascolti
quando canti,
che ti appoggi quando fai la ridicola,
che rispetti il tuo essere libera,
che ti accompagni nel tuo volo,
che non abbia paura di cadere.

Ti meriti un amore che ti spazzi via le
bugie
che ti porti il sogno,
il caffè
e la poesia.

- Frida Kahlo -

28 agosto 2015

IL MIRACOLO DI LAURA POLA







Laura oggi ha saputo trasformare l'indignazione e la pena per quanto accade in questi tristi giorni, per mare e per terra,  in poesia:


Dov'è il miracolo delle acque
sciacalli che vi nutrite
dell'odio putrido
della vostra morte in vita ?

Sorella, figlia
madre senza tempo
quell'acqua vorrei
riscaldarti fossi la dea
del cielo e del sole
Posso solo darti
la mia infinita pena
a baciarvi le gelide fronti
che non mi sono straniere

Laura Pola

26 agosto 2015

A. ASOR ROSA, MARGINI E CENTRO




Il margine è il luogo dove la società colloca i "diversi". Ma guardare il mondo dal margine aiuta a comprendere il senso vero delle cose.

Alberto Asor Rosa

Elogio del marginale vero centro della vita

Nel corso delle ultime settimane sono apparsi in Italia due libri che portano nei propri titoli la parola "margine". Si tratta di "Al margine", di Francesco Magris (Bompiani) e di "Margini d'Italia", di David Forgacs ( Laterza). Naturalmente si tratta di una combinazione. Ma anche le combinazioni, se guardate bene,possono riserbare delle sorprese. "Al margine" (ma forse si potrebbe leggere anche "sul margine", ovvero, latinamente, " de margine") è un agile libretto, in cui l'autore investiga aspetti diversi di una parola – e delle realtà che di volta in volta le corrisponde – ricchissima di valenze di ogni genere, sia positive sia negative.

Ma Magris, se non erro, segue di preferenza il percorso positivo. Ossia va sfogliando, di capitolo in capitolo, come sia possibile (e sia avvenuto, e possa avvenire) che, trovandosi o addirittura mettendosi ai margini, si scoprano potenzialità e forze nascoste che, restando cocciutamente ancorati al centro, non si sarebbero mai neanche sospettate.

In virtù di una cultura poliedrica Magris può, nella sua elaborazione, fornire dati e riprove da letterati e artisti di ogni tempo e paese (il libro si apre nel nome del «grande poeta gradese» Biagio Marin, ma va avanti con quelli di Saba, Hawthorne, Pirandello, Carver, Kafka, Robert Walser, Bukowski), oppure discutere le impostazioni economiche della scuola marginalista e concludere con una riflessione su pregi e limiti della democrazia occidentale. Non si andrebbe troppo lontani dal vero, segnalando la straordinaria rilevanza che, nell'ottica di Magris, occupa il punto di vista della sua città di origine, Trieste; la «frontiera» per eccellenza (ovvero il «margine estremo», anche nel senso letterale del termine) nell'immaginario italiano degli ultimi due secoli, forse proprio oggi drammaticamente rilanciata dalla sua contiguità con il potenziale inferno balcanico.

Margini d'Italia è un ponderoso volume di storia italiana contemporanea. L'autore, David Forgacs, è uno di quegli storici inglesi e americani (o, talvolta, le due cose insieme), cui si devono assaggi così rilevanti – da un'ottica opportunamente spostata rispetto alla nostra – del nostro modo d'essere e della nostra identità. Il sottotitolo spiega forse meglio contenuti e obiettivi dell'opera. Recita: L'esclusione sociale dall'Unità a oggi .

Per Forgacs, dunque, il «margine » è il luogo (ideale, politico, culturale, antropologico) su cui le classi italiane dominanti, sia pure variamente motivate, hanno collocato (dal punto di vista ideologico, ma anche pratico e fattuale, spesso pesantemente fattuale) i subalterni, i diversi, gli alieni, i «marginalizzati», appunto.

Forgacs ne descrive cinque fondamentali esempi: le Periferie urbane ; le Colonie (Forgacs ha fatto un lungo soggiorno in Abissinia per documentarsi); il Sud ; i Manicomi; i Campi nomadi . Se si esclude l'ultimo capitolo, forse più marginale rispetto agli altri, si tratta di un lavoro di solidissimo impianto, ed esiti inequivocabili, che apre orizzonti sul modo di «essere italiani» meno scontati di quanto si potrebbe pensare.

Per uno come me, vedersi messo sotto gli occhi un quadro così preciso di ciò che ha significato per Roma e la (un tempo) leggendaria «campagna romana» la realizzazione, a varie tappe e per il corso di più di un secolo, dei mostruosi quartieri popolari a Sud e a Est della città (poi anche, inesorabilmente, a Nord e a Ovest), ha consentito di ripercorrere con evidenza assoluta le tappe di una storia individuale e collettiva, le cui ultime battute sono sotto gli occhi di tutti (io non ho dubbi che anche i processi corruttivi nascano, come nel nostro caso, da una lunga, lunghissima storia).

Dunque, i due libri, nonostante le loro incancellabili diversità, ci mettono di fronte alle prospettive inedite che «guardare ai margini» (l'espressione è di Forgacs) consente di acquisire e che, restando cocciutamente al centro, non riusciremmo mai neanche a intuire da lontano.

La bibliografia su «margine» e «marginalità» è sterminata, e i due autori ce ne danno più di un esempio. Difficile aggiungere qualcosa. E tuttavia: la dinamica che questa suggestiva alternanza fra centro e periferia, fra periferia e centro, suggerisce, è in molte situazioni un criterio ermeneutico pressoché permanente. Ossia: in molti casi, invece di «leggerla », una volta che sia stata interpretata e sistemata nei libri, essa è un dato del nostro vissuto, un'esperienza senza la quale non potremmo capire non solo quanto ci è accaduto intorno ma neanche ciò che è accaduto dentro di noi.

Faccio un solo esempio, ma rilevante: l'Italia. L'Italia vive da qualche anno un processo di marginalizzazione crescente. Cioè: sta scivolando al margine (e finora su quel margine non ha trovato la carica diversamente positiva che, ad esempio, nelle prospettive di Magris si potrebbe costruire anche «al margine»).

Se ho qualcosa da rimproverare ai due autori è di non aver inserito nelle loro potenziali tabelle di valutazione (forse qualche accenno solo nel capitolo Margine, povertà e dissenso del libro di Magris) il più gigantesco processo di marginalizzazione che abbia riguardato l'Italia nel corso degli ultimi cinquant'anni, e cioè quello sperimentato e vissuto dalla sua classe operaia, processo perseguito con implacabile perseveranza e in taluni casi una dose molto elevata di ferocia: dall'innegabile centralità degli anni Sessanta – fatta di forza e presenza politica e sociale – alla condizione appartata e spesso subalterna, in continua discussione e ridiscussione, di oggi.

È un esempio di cosa significhi stare dentro il flusso delle scelte e degli eventi, e spesso rendersene poco conto, o niente. La mia opinione è che la crescente marginalizzazione della classe operaia – che, in altri termini, giustifica e incrementa la crescente marginalizzazione del lavoro in quanto tale, nei suoi vari aspetti, sia economici sia culturali – determini e spieghi la crescente marginalizzazione dell'Italia rispetto al resto del mondo. Ma è ovvio che di questo si dovrebbe discutere.


La Repubblica – 18 agosto 2015

PASOLINI E IL MALE DEL NOSTRO TEMPO


La poesia secondo E. Montejo






La poesia attraversa la terra in solitudine,
appoggia la sua voce sul dolore del mondo
e niente chiede
- nemmeno parole.
Arriva da lontano e senza orario, non avverte mai;
ha la chiave della porta.
Entrando si sofferma sempre ad osservarci.
Poi apre la sua mano e ci offre
un fiore o un ciottolo, qualcosa di segreto,
ma tanto intenso che il cuore palpita
troppo veloce. E ci svegliamo.


Eugenio Montejo

25 agosto 2015

PASOLINI INTERVISTA MORAVIA IN COMIZI D'AMORE




Dal documentario "COMIZI D'AMORE" 1963:




PASOLINI
Sono reduce da un mondo di scandalizzati. Tu, Moravia, ti scandalizzi o no?
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MORAVIA
No, mai, assolutamente mai, l'unica... Insomma, potrei dire che mi scandalizza la stupidità, ma poi non è vero neanche. Io penso che bisogna sempre cercare di capire, che c'è sempre possibilità concreta di capire le cose, e le cose che si capiscono non scandalizzano. Tutt'al più vanno, vanno riferite ad un giudizio, e il giudizio è legittimo, non lo scandalo.
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PASOLINI
Senti, ma tu riesci ad immaginare, a concepire, a raffigurare dentro di te il fenomeno dello scandalizzarsi?
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MORAVIA
La persona che si scandalizza, il personaggio che si scandalizza è il personaggio che vede qualche cosa di diverso da se stesso e al tempo stesso di minaccioso per se stesso; cioè non soltanto è una cosa diversa, ma minaccia la propria persona, sia fisicamente, sia nel senso dell'immagine che questa persona si fa di se stesso. Lo scandalo, in fondo, è una paura di perdere la propria personalità, è una paura primitiva.
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PASOLINI
In conclusione, chi si scandalizza è psicologicamente incerto, cioè praticamente un conformista.
MORAVIA Effettivamente è vero. La persona che si scandalizza è una persona profondamente incerta.
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MUSATTI
Le opinioni relative alla vita sessuale hanno una determinata funzione difensiva, per la gente, e cioè il ritenere che le cose debbano essere in una determinata maniera conformemente a certe convenzioni, a certe istituzioni, ha una sua funzione psicologica; difende, per esempio, da quello che è l'aggressione... dei propri impulsi istintivi. Ora noi abbiamo paura della nostra istintività e ce ne difendiamo precisamente con... con queste forme di conformismo...
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PASOLINI
Lo scandalo come elemento dell'istinto di conservazione, dunque. Tu cosa diresti, Moravia, per concludere?
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MORAVIA
Ecco, io direi questo, che una credenza che sia stata conquistata con la ragione e con un esatto esame della realtà è abbastanza elastica per non scandalizzarsi mai... Se invece è una credenza ricevuta senza una analisi seria delle ragioni per cui è stata ricevuta, accettata, sì, per tradizione, per pigrizia, per educazione passiva è... un conformismo...
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PASOLINI
Il conformismo, insomma, come testarda certezza degli incerti. 
 
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Dal documentario COMIZI D'AMORE che si può parzialmente vedere in you tube

UN SALMO DI PAUL CELAN







SALMO

Nessuno ci impasta di nuovo da terra e fango,
nessuno evoca la nostra polvere.
Nessuno.

Sia lode a te, Nessuno.
E’ per amore tuo che noi vogliamo
fiorire.
Incontro
a te.

Un Nulla
eravamo, siamo,
resteremo, fiorendo:
la rosa di Nulla,
 di Nessuno.

Con
lo stilo chiaro d’anima
il filamento da cielo deserto,
rossa la corolla
per la parola purpurea, quella che cantammo
sopra la spina,
oltre.

PAUL CELAN
(Traduzione di Francesco Marotta)

Nel sito seguente potete continuare a leggere i versi del grande poeta tedesco, con testo originale a fronte:  https://rebstein.files.wordpress.com/2015/01/paul-celan-poesie.pdf

QUANDO LE DONNE HANNO LA LUNA




L'astro mutevole per eccellenza ha anche un genere sessuale incerto in molte culture. E data la sua natura di continue metamorfosi, forgia licantropi e vampiri, che poi non sono altro che figure della vita e della morte.

Claudio Corvino

Lunatici per scelta


Tra i ghiacci del grande Nord, quando per gli Inuit le cose non ave­vano ancora una forma distinta, Luna (Taq­quiq) e Sole (Siqi­niq), fra­tello e sorella, si uni­rono in matri­mo­nio e ben pre­sto lei rimase incinta. Chiusa nell’iglù desti­nato alle par­to­rienti, ogni notte subiva la visita di uno sco­no­sciuto nel suo letto. Decisa a sma­sche­rare quell’essere impu­dente, Sole si sporcò le mani di fulig­gine e quando costui riandò a tro­varla, gli sporcò il viso. Andato via, Sole lo seguì fino all’iglù delle feste, dove si riu­ni­vano gli Inuit, e sco­prì che quell’insolente era pro­prio suo fra­tello Luna. Così senza pen­sarci troppo entrò e davanti a tutti si tagliò i seni, get­tan­do­glieli ai piedi e dicendo: «desi­deri tanto il mio corpo, e allora man­gia­telo!». Dopo­di­ché prese una lam­pada a olio e fuggì via nella notte artica. Luna la inse­guì, ma nella fretta fece spe­gnere la sua lam­pada. Si inse­gui­rono a lungo, fino a che non giun­sero al cielo, dove rima­sero per l’eternità come Siqi­niq e Taq­quiq, il sole e la luna.

Que­sta sto­ria, rac­colta dall’antropologo Franz Boas nel 1888, mostra l’origine dei due astri agli «inizi del tempo» inuit, in quella notte eterna dove uomini, ani­mali e per­sino gli astri ave­vano uno sta­tuto oscil­lante e si scam­bia­vano ruoli, genere e spe­cie: un uomo poteva diven­tare un orso, oppure una donna, e vice­versa. Ana­lo­ga­mente l’offerta ses­suale diven­tava ali­men­tare quando Siqi­niqoffriva le sue carni al fra­tello, in un’antica con­fu­sione tra antro­po­fa­gia e incesto.

In cop­pia for­zata

La luna è il più mute­vole dei feno­meni cele­sti, il suo genere ses­suale è incerto: un maschio potente come il Toro del Cielo (ancora oggi in tede­sco Mond, luna, è di genere maschile) che accu­di­sce e pro­tegge le sue muc­che, le stelle, una fem­mina cac­cia­trice con l’arco o un cre­scente di luna in mano, o un bises­suale come tra le isole Anda­mane, dove la luna cre­scente è maschile e quella calante fem­mi­nile. La ragione di que­sta dif­fe­renza di generi la spie­gava Pla­tone nel Con­vi­vio, descri­vendo il genere maschile, figlio del sole, quello fem­mi­nile, figlio della terra e un terzo sesso figlio della luna, par­te­cipe di entrambi, che anche nel nome ricorda le due divi­nità Her­mes e Afrodite.

Nella mito­loga euro­pea abi­tual­mente il sole è maschio e la luna fem­mina e, ovvia­mente, non si uni­scono mai. Il per­ché lo spiega una sim­pa­tica leg­genda nor­manna: un giorno, men­tre il sole per­cor­reva l’universo incon­trò Dio, che lo salutò calo­ro­sa­mente e gli chiese come andasse. Il sole rispose che le cose non anda­vano benis­simo e che negli ultimi tempi aveva delle eru­zioni piut­to­sto imba­raz­zanti. Dio gli fece: «spo­sati, che aspetti?». «Con chi?», richiese il sole per­plesso e Dio, sicuro di sé, «ma con la luna!». Il sole replicò con­tra­riato: «Spo­sarmi con la luna? Una sco­stu­mata che dorme tutta la notte, cam­bia fase tutte le set­ti­mane e che è piena ogni mese… O Signore, non pen­sa­teci proprio!».

Nel loro biso­gno di dare ordine alle cose del mondo, gli umani hanno ela­bo­rato un sistema di paren­tela astrale che ha visto nella luna di volta in volta una madre, una figlia, una moglie, un marito, dei gemelli, dove l’altro ele­mento della cop­pia era imman­ca­bil­mente il sole. Ma men­tre que­sto è sem­pre uguale a se stesso, la luna cam­bia con­ti­nua­mente forma, posi­zione, colore, luce: rap­pre­senta il ritmo stesso delle cose secondo natura, fedele a quei ritmi cosmici che si con­trap­pon­gono all’umano e all’urbano. La luna ci ha inse­gnato a scan­dire i periodi: dopo il giorno e la notte è stata la prima misura natu­rale del tempo. Non è un caso se month, monat, mese, deri­vino tutti dallo stesso etimo, che rimanda sem­pre alla luna, come lunari furono i primi calen­dari greci, meso­po­tami, indiani, ebrei.

La sua cicli­cità l’ha resa amica del ciclo ripro­dut­tivo fem­mi­nile e quindi patrona di quelle divi­nità che sovrin­ten­dono alla nascita come Hera, Arte­mide o Luci­nia, pro­tet­trici del matri­mo­nio o del parto.

Con­ce­pi­menti facili

Nel medioevo le stre­ghe, prima di diven­tare quelle banali schiave del demo­nio che cono­sciamo, erano donne che vola­vano perio­di­ca­mente di notte al seguito di miste­riosi esseri dai nomi lunari come Diana, Berta, Per­chta, il cui nome con­serva tutto il fascino dell’antico tede­sco perhata naht, «lumi­nosa notte». Gli stessi ritmi bio­lo­gici dell’uomo dipen­de­vano dalle fasi di que­sto astro: si cre­deva che il suo desi­de­rio ses­suale fosse più forte durante la luna piena, men­tre il midollo spi­nale, sede dell’energia vitale, era più debole durante la luna calante. In que­sta stessa fase dimi­nuiva la pro­du­zione di sperma: si pen­sava così che i bam­bini fos­sero con­ce­piti più facil­mente durante i tre giorni della luna nuova.

La sua ciclica «assenza» del novi­lu­nio ha pre­pa­rato gli uomini a gestire la morte, a viverla come una scom­parsa tem­po­ra­nea cui sarebbe seguita una nuova esi­stenza: ha inse­gnato loro a spe­rare e a cre­dere in una rinascita.

La luna stessa è diven­tata un luogo dove ripo­sano le anime: i Campi Elisi dei pita­go­rici o il paese dei morti chia­mato pitriyana dagli Indiani. L’astro not­turno è una tappa impor­tante di un cam­mino dei morti che con­duce al sole e poi alla luce infi­nita di Ahura Mazda nella reli­gione zoroa­striana.

Per Plu­tarco dopo la morte le anime vagano nello spa­zio sub­lu­nare per puri­fi­carsi dai mia­smi pro­dotti dal corpo e infine appro­dare sull’astro lucente. Non tutte rie­scono a giun­gervi: alcune ne ven­gono cac­ciate, tra gemiti e lamenti, men­tre altre, quelle dei puri, fanno un giro d’onore inco­ro­nate di piume, come atleti vit­to­riosi: l’anima a poco a poco per­derà coscienza della pro­pria iden­tità e si dis­sol­verà nella luna, da dove ne nascerà una nuova pronta per la rein­car­na­zione.

Non solo le anime sono custo­dite sul suolo lunare, ma anche le cose per­dute alla terra, come il senno di Orlando recu­pe­rato da Astolfo.

Mostri che ingur­gi­tano

Un astro che spa­ri­sce per poi riap­pa­rire, diviene natu­ral­mente meta­fora e tutore delle ceri­mo­nie di ini­zia­zione degli uomini e al tempo stesso inse­gna loro che la morte è la con­di­zione prin­ci­pale di ogni cam­bia­mento di stato, di ogni rige­ne­ra­zione. I ragazzi o le ragazze che par­te­ci­pano a una ceri­mo­nia ini­zia­tica sanno che dovranno sim­bo­li­ca­mente «spa­rire» (nella fore­sta, nella capanna delle ini­zia­zioni, nella pan­cia di un orso o di una balena, come Giona e Pinoc­chio) per un breve periodo, per poi ritor­nare nella civiltà con forma e sostanza mutate. Per le ragazze spesso l’iniziazione coin­cide con il menarca, la prima mestrua­zione. Que­sto deli­cato momento della vita verrà per­ciò indi­cato con la peri­frasi Quando le donne hanno la luna, come titola il libro dell’antropologa Gian­franca Rani­sio.

L’iniziazione spesso pre­vede che il neo­fita venga sim­bo­li­ca­mente inghiot­tito da un mostro. Diver­sa­mente può acca­dere che quest’ultimo ingoi la luna e quindi, secondo molte cul­ture popo­lari, avvenga un’eclissi. È inte­res­sante allora osser­vare come sia esat­ta­mente spe­cu­lare la rea­zione rituale degli esseri umani verso due feno­meni lon­tani anni luce (nel senso pro­prio del ter­mine), eppure miti­ca­mente e inti­ma­mente legati: eclissi e matrimonio.

In molte cul­ture, quando un’unione matri­mo­niale non è accet­tata o con­si­de­rata «ano­mala», si rea­gi­sce con un ceri­mo­niale popo­lare che con­si­ste essen­zial­mente nel far bac­cano con stru­menti improv­vi­sati, soprat­tutto con pen­tole e padelle (ulti­ma­mente abbiamo assi­stito a una coe­rente rifun­zio­na­liz­za­zione del rituale in chiave poli­tica per pro­te­stare con­tro il decreto «la buona scuola» del governo Renzi). Que­sta ceri­mo­nia popo­lare viene deno­mi­nata scam­pa­nata, cha­ri­vari, rough music, Katzen­mu­sik, cen­cer­rada, cace­ro­lazo (famoso quello del 13 marzo 2004 a Madrid, con­tro il governo di José Maria Aznar) e in vari altri modi.

Lican­tropi e vam­piri

In modo paral­lelo, quando avviene un’eclissi di luna, in varie parti della terra si pro­duce un bac­cano infer­nale per scon­giu­rare la scom­parsa dell’astro, rite­nuto in peri­colo di essere divo­rato da un mostro cosmo­lo­gico. Esi­stono varie teo­rie che spie­gano antro­po­lo­gi­ca­mente entrambi i ceri­mo­niali. Ten­tando una spie­ga­zione comune, potremmo dire che in entrambi i casi il rumore segnala, rende mani­fe­sta, un’anomalia: una rot­tura dell’ordine cosmico cau­sato dall’eclissi o un infran­gersi dell’ordine socio­lo­gico umano a causa di un’unione «non orto­dossa», non con­di­visa dalla «pub­blica morale».

Ovvia­mente, un astro che pre­siede ai muta­menti sarà rite­nuto respon­sa­bile di infi­nite forme di tra­sfor­ma­zione, com­prese quelle zoo­morfe in vam­piro o in lican­tropo. Il primo inne­stato sulla rap­pre­sen­ta­zione popo­lare della morte – si diviene vam­piro post mor­tem –, il secondo su quella della nascita – diviene lican­tropo il neo­nato o il feto espo­sto alla luna piena – entrambe le figure nascondo l’idea che l’ambivalenza insita nella con­di­zione umana, il male che è den­tro di noi e che si mani­fe­sta inces­san­te­mente in forme «mostruose», possa in qual­che modo tro­vare ori­gine e spie­ga­zione in quel lon­tano astro not­turno che influenza ogni momento del nostro vivere.
Un po’ come l’Otello di Sha­ke­speare: «È tutta colpa della luna, quando si avvi­cina troppo alla Terra fa impaz­zire tutti».

Il manifesto – 13 agosto 2015

STORIA DEL BIKINI



Ha origini romane il costume che dal 1946 veste le donne sulle spiagge di tutto il mondo. Agli inizi fece tanto scandalo da causare persino uno sciopero delle modelle che rifiutarono di indossarlo nelle prime sfilate parigine.

Michela Ciavarella

Bikini. Il costume post atomico

Gra­zie alla totale incer­tezza sulla sua data di nascita e sul suo uso, il bikini è adatto a entrare nella clas­si­fica delle cose intra­mon­ta­bili. Ha, infatti, tutte le carat­te­ri­sti­che delle dive di cui sono vaghe la pro­ve­nienza e la data di nascita e che restano per sem­pre ado­rate, cono­sciute e vene­rate, come la Lola Mon­tés di Max Ophüls o Elina Makro­pou­los di Leoš Janáček, per­so­naggi inven­tati ma reali quanto le loro sto­rie. Come loro, il bikini è vene­rato per i suoi meriti incerti.

Al pari di molte sto­rie che sono scop­piate nella moda, infatti, il bikini ha un’origine tutta con­fusa e pre­te­stuosa, dovuta un po’ alla sem­pli­fi­ca­zione gior­na­li­stica e molto anche al disin­te­resse gene­rale della cul­tura uffi­ciale per le cose della moda. Più recen­te­mente, è suc­cesso anche alla mini­gonna, che si dice sia stata inven­tata dall’inglese Mary Quant ma era già stata dise­gnata e pro­dotta anni prima da André Cour­rège e Paco Rabanne che ave­vano, per quell’epoca di domi­nio cul­tu­rale della Swin­ging Lon­don, il difetto di lavo­rare a Parigi.

La leg­genda metro­po­li­tana, che tutti sanno ripe­tere a memo­ria, dice che il bikini è nato il 5 luglio del 1946, inven­tato da un sarto fran­cese, tale Louis Réard, sco­no­sciuto allora quanto è sco­no­sciuto oggi. Il quale deve avere appro­fit­tato, in tempo record, della noti­zia dei primi espe­ri­menti nucleari con­dotti dall’esercito ame­ri­cano in Micro­ne­sia dove, pro­prio agli inizi di luglio di quell’anno, ven­gono sgan­ciate ben due bombe all’idrogeno sull’isola di Bikini, che si trova in quell’arcipelago.

La sto­ria ha una sce­neg­gia­tura epica che, fran­ca­mente, sarebbe più degna di un com­mer­cial per un dado da brodo. E se gra­zie a essa Réard ha potuto dare il nome Bikini alla sua inven­zione di moda (che oltre­tutto, si dice, le modelle ave­vano rifiu­tato di indos­sare e, per poterlo mostrare, il sarto è stato costretto a chia­mare Miche­line Ber­nar­dini, una spo­glia­rel­li­sta del Casino de Paris), l’indumento ha pro­vo­cato una defla­gra­zione simile a una bomba in una società che era diven­tata stra­na­mente pudica e ben­pen­sante in fondo sol­tanto da poco più di un secolo.

L’intuizione di chi ha scritto que­sta fra­gile sto­ria che sa di luogo comune, attri­bui­sce anche a un tale Jac­ques Heim l’invenzione pre­ce­dente di un costume da bagno che si chia­mava Atollo (ancora un richiamo alla bomba all’idrogeno) per­ché era il più pic­colo costume da bagno del mondo ma comun­que era un pezzo intero. Réard l’ha reso ancora più pic­colo stac­can­dolo addi­rit­tura in due pezzi.

Fatto è che da allora a oggi, il bikini è sem­pre pre­sente, intra­mon­ta­bile costume da bagno da spiag­gia e da piscina, fetic­cio dell’erotica maschile, indi­spen­sa­bile indu­mento fem­mi­nile e sor­pren­dente trap­pola di stile, autore degli ine­ste­ti­smi e delle clas­si­fi­che delle “peg­gio vestite” di ogni sta­gione che, per puro voye­ri­smo, aumen­tano le pagine viste dei siti dei bla­so­nati gior­nali di news e dei maga­zi­nes di gos­sip da spiag­gia, ita­liani soprattutto.
    Mosaici di Piazzale Armerina 

In realtà, tutta que­sta pro­pa­gan­data novità il bikini non la pos­siede. Non la pos­siede certo la sua forma, di cui si ha noti­zia sto­rica in qual­che bas­so­ri­lievo meso­po­ta­mico del 1400 aC. La sua rap­pre­sen­ta­zione più cono­sciuta si trova nei mosaici del III secolo della Villa del Casale a Piazza Arme­rina, in Sici­lia, dove le “Fan­ciulle in Bikini”, cono­sciute anche come le Bagnanti – impro­pria­mente per­ché all’epoca caso­mai si nuo­tava nudi – deco­rano i pavi­menti della pale­stra. Quindi, vero­si­mil­mente, una fascia sul seno e qual­cosa che suona come l’antenato delle mutande odierne in quell’epoca meno pudica ser­viva alla ragazze per fare sport e non certo per fare il bagno (oggi Eres, un mar­chio fran­cese, ne fa una linea molto simile).

Poi, evi­den­te­mente, la sto­ria si è dimen­ti­cata di quell’immagine e tutto ciò che ci rimanda al bikini ci arriva da un’epoca molto recente, l’inizio del Nove­cento, il secolo scorso. Ed è, più o meno, legato alla guerra (che è un mondo di maschi) e all’illustrazione di un imma­gi­na­rio ero­tico che, nelle inten­zioni, doveva tenere alto lo spi­rito dei sol­dati o, quan­to­meno, ser­vire da val­vola di sfogo imma­gi­na­rio capace di tenere lon­tane e distac­cate le fisi­cità di troppi uomini soli rin­chiusi in caserma: quando quelle imma­gini non basta­vano, suc­ce­deva quello che Gore Vidal rac­conta in La sta­tua di Sale, con il con­se­guente allarme di “messa in peri­colo” per la masco­li­nità mon­diale.

Forse fu anche per scon­giu­rare la dif­fu­sione dei troppi nume­rosi epi­sodi sco­perti di un came­ra­ti­smo sem­pre più fisico e affet­tuoso tra i sol­dati che, agli inizi degli anni Qua­ranta e poi di più con l’ingresso degli Stati Uniti in guerra, le famose pin up ven­gono dise­gnate sem­pre più spesso con meno vestiti addosso, sem­pre meno con lin­ge­rie e reg­gi­seni e culotte e sem­pre più con un misto di indu­menti che ricor­da­vano sì la culotte ma sem­bra­vano pan­ta­lon­cini, sape­vano sì di reg­gi­seni, ma sem­bra­vano cami­cette anno­date sotto al seno, ave­vano sì l’aspetto discinto, ma erano comun­que com­pa­ti­bili anche come indu­menti da indos­sare in loca­lità al caldo, in Cali­for­nia soprat­tutto.

È in que­sti anni che i dise­gna­tori Gil Elv­gren, Frahm Arte, George Petty e Alberto Var­gas, già attivi durante la “Pin up gol­den age”, e cioè dagli inizi degli anni Trenta e per tutti i Qua­ranta, met­tono per così dire il costume da bagno Bet­tie Page, che soli­ta­mente indos­sava cor­setti e guȇ­pière. Cioè, comin­ciano a dise­gnare le donne con quella forma di indu­mento che, alla fine della guerra, doveva ino­pi­na­ta­mente assu­mere il nome di bikini.

Certo, nulla a che vedere con il modello che cono­sciamo oggi che, sem­mai, è più simile a quello delle fan­ciulle di Piazza Arme­rina. Il “due pezzi” dise­gnato sulle Pin up incol­late sulle ali degli aerei bom­bar­dieri ave­vano culotte alte fino a sopra i fian­chi e un reg­gi­seno che scen­deva fino a sotto le costole. Rima­neva sco­perto l’ombelico, punto cen­trale della figura umana che, chissà per­ché, per gli uomini diventa sexy se è quello di una donna.

Que­sta visione maschi­li­sta della moda, che non è asso­lu­ta­mente rara, ha comun­que por­tato al suc­cesso la nuova bomba del guar­da­roba fem­mi­nile, tanto che a par­tire dagli Anni 50 le donne hanno cre­duto che potesse essere uno stru­mento per la loro libe­ra­zione sia ses­suale sia di genere. Tanto è vero che negli Usa, e ovvia­mente ver­rebbe da dire, ne fu vie­tato l’uso sulle spiagge o in luo­ghi pub­blici.

Anche se, molti anni prima, fu pro­prio il sogno ame­ri­cano di Hol­ly­wood che aveva fatto tra­pe­lare le foto delle sue dive in alle­va­mento nelle ville di Beverly Hills, di pro­prietà delle case di pro­du­zione, pro­prio con costumi da bagno simili ai bikini e ada­giate come sta­tue di dee attorno alle piscine. Del resto, Hol­ly­wood doveva comin­ciare a ven­dere una mito­lo­gia e quelle imma­gini, seb­bene fatte fil­trare ad arte, a quello ser­vi­vano.
    Rita Hay­worth

Intanto, men­tre la regina del nuoto sin­cro­niz­zato Esther Wil­liams si rifiuta di indos­sare il due pezzi nei suoi film per tutti gli anni Cin­quanta, Rita Hay­worth già si fa foto­gra­fare con l’ombelico sco­perto nel 1946: ma lei era pec­ca­mi­nosa per natura e, soprat­tutto, nella fan­ta­sia dei sol­dati era già una bomba ato­mica anche con l’abito da sera. Comun­que, gli Stati uniti proi­bi­rono espres­sa­mente l’uso del bikini alle par­te­ci­panti al con­corso di Miss Mondo del 1951. Il senso ame­ri­cano della pru­de­rie non può sop­por­tare che la nudità, o la quasi nudità, che con­sente il bikini possa essere sdo­ga­nata da una moda che men­tre lascia il corpo delle donne quasi com­ple­ta­mente sco­perto dà l’alibi che deriva dall’uso spe­ci­fico in spiag­gia o nelle piscine, che in Ame­rica sono sem­pre state di moda, e non solo in Cali­for­nia.

Così, se Pin up e addi­rit­tura le dive del bon­dage, come Bet­tie Page e le sue epi­goni, pos­sono essere auto­riz­zate a esi­birsi con bustier, culot­tes ridot­tis­sime, sot­to­ve­sti e tutto il resto degli indu­menti che appar­tiene al mondo della lin­ge­rie, l’esibizione delle donne in bikini disturba quel comune senso del pudore che è sem­pre dif­fi­cile defi­nire. Soprat­tutto in un Paese che è nato facendo dei vizi pri­vati e delle pub­bli­che virtù più una fede che una cul­tura.

Alla fine, la libe­ra­zione di un indu­mento così pec­ca­mi­noso arriva più dall’accettazione sociale del voye­ri­smo maschile che da una presa di coscienza sulla libertà fem­mi­nile. La riprova è che men­tre i costumi da bagno delle donne negli anni con­ti­nuano a ridursi, fino al far cadere il reg­gi­seno con la nascita del topless e fino a ridurre lo slip al tanga o al peri­zoma, il costume da bagno maschile diventa sem­pre più coprente: pas­sata l’epoca dello slip e rele­gato il famoso modello Speedo all’attività spor­tiva nelle piscine olim­pio­ni­che, oggi la mag­gior parte degli uomini ete­ro­ses­suali usa pan­ta­lon­cini di media lun­ghezza, dallo short al ber­muda da surf, e si stende a pren­dere il sole accanto a donne ete­ro­ses­suali semi­nude. Un po’ di mali­zia porta a dire che gli uomini, con­tra­ria­mente alle donne, non sop­por­tano la valu­ta­zione pub­blica delle loro forme anatomiche.
    Sofia Loren Miss Eleganza 1950

Ma pro­se­guendo con la sto­ria del bikini, in Europa tutto va più liscio, secondo il per­corso in discesa che di solito nel Vec­chio Con­ti­nente hanno sem­pre avuto le nascite delle mode. In Ita­lia, con­tra­ria­mente a quanto si possa pen­sare, Lucia Bosé si fa vedere in due pezzi da edu­canda, avendo l’ombelico appena coperto, al con­corso di Miss Ita­lia del 1947, che vince. E Sofia Loren (allora ancora con la f e non ancora con la ph) nel 1950 vince il titolo di Miss Ele­ganza indos­sando un bikini di raso.

La bom­ba­stica bel­lezza della Loren, non ancora diva ma già molto bella, sdo­gana il due pezzi anche Oltreo­ceano. Almeno al cinema, visto che in Ame­rica nel 1953 esce Nia­gara di Henry Hatha­way e Jean Peters appare in un due pezzi scan­da­loso, men­tre la sua copro­ta­go­ni­sta Mari­lyn Mon­roe era già in bikini sulla coper­tina di Pic­ture Post nel 1949 e arri­verà in mono­kini (cioè il bikini senza reg­gi­seno) in Something’s Got to Give del 1962 by Law­rence Schil­ler, il suo ultimo film nean­che finito di girare.

Ma ad aprire com­ple­ta­mente il mer­cato ame­ri­cano, visto che in Europa un mer­cato c’era già da metà Anni 50 gra­zie alla spre­giu­di­ca­tezza delle spiagge di Saint Tro­pez, è l’uscita di Et Dieu créa la femme di Roger Vadim che arriva sugli schermi ame­ri­cani nel 1958 (in Ita­lia è uscito, come in Fran­cia, nel 1956 con l’orrendo titolo Piace a troppi) con la finta inno­cenza di Bri­gitte Bar­dot.

A quel punto, Itsy Bitsy Tee­nie Wee­nie Yel­low Polka Dot Bikini, la can­zone di Brian Hyland del 1960, fa il resto. Il suc­cesso è com­ple­tato da Ursula Andress, mai più supe­rata Bond Girl in Agente 007 Licenza di ucci­dere del 1962. Che poi tutte le donne del mondo, per indos­sarlo libe­ra­mente sulle spiagge, abbiano dovuto aspet­tare ancora qual­che decen­nio, e la foto sui roto­cal­chi della prin­ci­pessa Mar­ga­ret d’Inghilterra già duchessa Sno­w­don che pren­deva il sole in bikini sullo yacht dell’Aga Khan in Sar­de­gna, è un altro discorso. Ma qui siamo già agli inizi degli Anni 70.

La moda, quella dei cou­tu­rier e dei desgner, arriva a occu­parsi del bikini molto tardi. In realtà, lascia il campo alle aziende spe­cia­liz­zate in cor­set­te­ria che aggiun­gono reparti e mac­chine per la pro­du­zione di reg­gi­seni pre­for­mati, con le coppe a cuore, a bal­con­cino, con o senza spal­line, che sono in tutto simili ai reg­gi­seni dell’underwear tranne che per le fan­ta­sie e i tes­suti. L’utilizzo in massa della fibra Ela­stam (che comu­ne­mente tutti chia­mano Lycra dal nome che le ha dato la DuPont, il pro­dut­tore più famoso, nel 1960) per­mette una model­li­stica più facile, con il van­tag­gio di una mag­giore imper­mea­bi­lità e velo­cità di asciu­ga­tura.

Non è che i fashion desi­gner si pre­oc­cu­pano molto di que­sto indu­mento che, dagli Anni 70 in poi, spo­pola sulle spiagge mon­diali: la moda sop­porta poco il nudo e il caldo, pre­fe­ri­sce eser­ci­tarsi sul coperto e sulle tem­pe­ra­ture più basse. A meno che non si par­lasse di avan­guar­dia. In quel caso, la fan­ta­sia dei fashion desi­gner cor­reva più della realtà. Tanto è vero che, Rudi Gern­reich, ebreo austriaco natu­ra­liz­zato ame­ri­cano e tra i primi atti­vi­sti della libe­ra­zione omo­ses­suale, dopo aver smesso di fare il bal­le­rino con la Lester Horton’s Modern Dance Com­pany a Los Ange­les nel 1942, diventa un pre­mia­tis­simo fashion desi­gner e, met­tendo a frutto la sua espe­rienza anche come dise­gna­tore di costumi per il bal­letto, già nel 1964 pre­senta il primo mono­kini, indos­sato dalla modella Peggy Moffitt.

Da allora, tutto si mischia e si tra­sforma velo­ce­mente. Le dimen­sioni si ridu­cono, l’immaginario del bikini da spiag­gia si con­fonde con quello dei set del por­no­mo­vie, i mate­riali diven­tano tec­no­lo­gici, la moda pre­tende il ritorno al costume da bagno intero e, spesso, dalle forme spor­tive, e le donne di tutto il mondo con­ti­nuano a pre­fe­rirlo tra i mille modelli dispo­ni­bili. E si ritorna all’oggi. Quando la sto­ria del bikini, intra­mon­ta­bile abito della spiag­gia, si con­fonde con gli ine­ste­ti­smi giu­sti­fi­cati dal fal­sa­mente anar­chico con­vin­ci­mento che “nella moda tutto è permesso”.


Il manifesto – 15 agosto 2015