31 agosto 2023

UN MANZONI DA RISCOPRIRE

 





Un’estate con Manzoni #5 — Tutta la vita

[Ogni giovedì di agosto, Un’estate con Manzoni: qui la prima, la seconda, la terza e la quarta puntata.]

di Marco Viscardi

I promessi sposi, capitolo XXXVII: Tutta la vita

Inizio con una confessione: questa pagina mi ha sempre commosso. Siamo nel capitolo trentasette e Renzo, dopo aver ritrovato Lucia, torna al paese per preparare le nozze. La felicità è vicinissima, questione di passi. Intorno, il mondo si pulisce: con un brutto gioco di parole ‘il mondo si monda’. E ricordate il cognome di Lucia? Mondella!

Piove, la pioggia spazza via la peste, irriga i campi, inumidisce tutto quello che rischiava di morire, e Renzo corre, corre e non ci pensa:

Andava dunque il nostro viaggiatore allegramente, senza aver disegnato né dove, né come, né quando, né se avesse da fermarsi la notte, premuroso soltanto di portarsi avanti, d’arrivar presto al suo paese, di trovar con chi parlare, a chi raccontare, soprattutto di poter presto rimettersi in cammino per Pasturo, in cerca d’Agnese.

C’è una energia traboccante, emozionante, in tutta la pagina. Renzo è vigore puro, vigore in cammino. Non gli interessa la strada, non conta più. Ora che si avvicinano le nozze, e con loro arriva la felicità, conta solo l’arrivare, solo la meta. Renzo ha attraversato mondi infernali: è stato nella rivolta, ha conosciuto l’inganno di chi serve il potere, le vie dell’esilio, si è scaltrito e, dopo essere guarito dalla peste, ha rivisto il suo paese stravolto dall’epidemia e dal passaggio delle truppe mercenarie imperiali; è stato coi monatti, quei demoni!, si è inoltrato nel lazzaretto, il regno della morte, alla ricerca della luce, di Lucia, che ha visto viva. Ora tutto è compiuto, il voto è sciolto. Si avvicina il giorno delle nozze che aspettiamo da trentasette capitoli. Trentasette! Anche se Renzo si è trovato spesso solo, la sua indole non è solitaria. Ha bisogno di un mondo degli uomini da cui si è sentito troppe volte esiliato. E alla comunità di cui fa parte vuole raccontare la sua storia, riviverla nelle parole e nei gesti, farla diventare parte di una più grande memoria collettiva. Lo farà davvero e, fra i suoi interlocutori, troverà anche l’anonimo autore del manoscritto alla base del romanzo. Ma ora i suoi discorsi sono ancora tutti mentali. Se li ripete sotto la pioggia che cade monotona e copiosa e rende incerti i contorni delle cose, e piene di fango le strade:

Andava, con la mente tutta sottosopra dalle cose di quel giorno; ma di sotto le miserie, gli orrori, i pericoli, veniva sempre a galla un pensierino: l’ho trovata; è guarita; è mia! E allora faceva uno sgambetto, e con ciò dava un’annaffiata all’intorno, come un can barbone uscito dall’acqua; qualche volta si contentava d’una fregatina di mani; e avanti, con più ardore di prima. Guardando per la strada, raccattava, per dir così, i pensieri, che ci aveva lasciati la mattina e il giorno avanti, nel venire; e con più piacere quelli appunto che allora aveva più cercato di scacciare, i dubbi, le difficoltà, trovarla, trovarla viva, tra tanti morti e moribondi! “E l’ho trovata viva!” concludeva. Si rimetteva col pensiero nelle circostanze più terribili di quella giornata; si figurava con quel martello in mano: ci sarà o non ci sarà? e una risposta così poco allegra; e non aver nemmeno il tempo di masticarla, che addosso quella furia di matti birboni; e quel lazzeretto, quel mare! lì ti volevo a trovarla! E averla trovata! Ritornava su quel momento quando fu finita di passare la processione de’ convalescenti: che momento! che crepacore non trovarcela! e ora non gliene importava più nulla. E quel quartiere delle donne! E là dietro a quella capanna, quando meno se l’aspettava, quella voce, quella voce proprio! E vederla, vederla levata! Ma che? c’era ancora quel nodo del voto, e più stretto che mai. Sciolto anche questo.

Quando Renzo si scuote come un cagnone, zuppo e felice, siamo tentati di spostarci dal libro (o, nel vostro caso, dallo schermo) per non essere infradiciati. La sua è una storia di orrori, una storia tremenda, ingiusta e ingiustificabile eppure, sotto tutte le macerie, sotto ogni tristezza, c’è il pensiero della felice conclusione. Adesso, finalmente, la storia vissuta si converte in gioia. Renzo si rivede compiere tutte le ultime azioni: bussare alle porte della casa di donna Prassede per scoprire che Lucia si era ammalata, cercarla fra la folla del lazzaretto, poi nella processione dei guariti, sopportare la delusione di non ravvisarla, ed infine inoltrarsi alla ricerca di lei, col terrore di non trovarla fra i vivi.

Il ritmo della pagina è incalzante. Le parole dello scrittore trapassano senza interruzione in quelle del personaggio: magia della narrazione onnisciente, il racconto passa dalla terza alla prima persona, dallo sguardo esterno, che tutto conosce, all’interiorità, che vede le cose mentre si svolgono, ed ora, incredula, le rimette in ordine e si scopre ancora salva, alla fine di un simile naufragio. Renzo è un reduce, un sopravvissuto che ha toccato terra e non gli sembra vero. Sembra di stare in mezzo al mare: la pioggia toglie nettezza ai contorni, il visibile sfuma, il cammino lo fanno le gambe, e i pensieri sono onde che alternano i movimenti della perdita e del ritrovare. Trovare di nuovo, riappropriarsi di una felicità che la logica irrazionale dei potenti aveva vietato.

E quell’odio contro don Rodrigo, quel rodìo continuo che esacerbava tutti i guai, e avvelenava tutte le consolazioni, scomparso anche quello. Talmentechè non saprei immaginare una contentezza più viva, se non fosse stata l’incertezza intorno ad Agnese, il tristo presentimento intorno al padre Cristoforo, e quel trovarsi ancora in mezzo a una peste.

Così, ripercorrendo le vicende passate, Renzo torna a casa, torna verso il mondo originario, quello da cui tutto era partito, ma l’armonia del mondo ingenuo non esiste più. Don Rodrigo, il feudatario prepotente, è ora solo un malato reso demente dalla peste, un corpo fra i corpi che Renzo è finalmente riuscito a perdonare; il volto battagliero di Cristoforo si è fatto scarno per la malattia: annuncia la fine imminente. L’orizzonte è ferito, il pericolo e la morte fanno capolino dai lati della scena. Ma c’è nel nostro filatore qualcosa di egoista: il felice realizzarsi delle sue speranze l’assorbe completamente, e la malinconia non domina la mente.

Saltiamo ora qualche riga ed arriviamo qui:

E dirò anche che non ci pensava se non proprio quando non poteva far di meno. Eran distrazioni queste; il gran lavoro della sua mente era di riandare la storia di que’ tristi anni passati: tant’imbrogli, tante traversìe, tanti momenti in cui era stato per perdere anche la speranza, e fare andata ogni cosa; e di contrapporci l’immaginazioni d’un avvenire così diverso: e l’arrivar di Lucia, e le nozze, e il metter su casa, e il raccontarsi le vicende passate, e tutta la vita.

All’origine di tutta la storia c’era il desiderio di vita. Due giovani che volevano sposarsi e perpetuare la vita. La vita biologica, organica. Il mondo per andare avanti, per aprirsi a nuove fioriture, aveva bisogno di queste nozze, ma l’inverno non vuole cedere il suo posto alla primavera e i rappresentanti del vecchio mondo si sono opposti a tutti i costi, hanno disperso le energie vitali. Ma ora, le catastrofi che hanno scandito la vicenda sono tutte passate, non fanno più paura.

Nella prima puntata abbiamo visto come il male conosciuto da Lucia era entrato a far parte della sua anima, come una patina che opacizza la bellezza del mondo. Renzo è tutto proiettato nel futuro. Il suo romanzo, il romanzo che abbiamo letto e amato, è solo un prologo a quello che veramente conta. A tutta la vita. E quando pensiamo a Renzo che si racconta tutta la vita, lo vediamo slanciarsi in un futuro che non conosce confini. Tutto è a-venire, tutto deve ancora compiersi. Il romanzo dell’Ottocento qui rompe per un attimo le sue strutture, si annienta nello slancio verso ciò che non si conosce. La vita, la furia, la speranza pervadono tutto, invadono gli spazi dell’immaginazione. In quel momento, noi siamo Renzo e con lui vediamo gli anni che verranno in una luce radiosa. C’è qualcosa in questa pagina manzoniana che fa pensare a quello strepitoso apologo di Kafka sul Desiderio di essere un indiano:  

Se si potesse essere un indiano, subito pronto, sul cavallo in corsa, obliquo nell’aria, continuamente fremendo sul suolo fremente, sino a lasciare gli speroni, perché non ci sono speroni, sino a gettare le redini, perché non ci sono redini e appena si vede la terra di fronte a sé, come una landa rasata, già senza collo né testa di cavallo.

Così, in quel momento, per Renzo non esistono distinzioni fra sé e il suo narrare. Passato e futuro, avventura e necessità, interiorità e mondo, per un attimo di vortice coincidono, come l’indiano e il cavallo si fondono nella corsa. E il lettore sente la felicità di questo attimo perfetto e sente che questa felicità gli appartiene, almeno come possibilità. Possibilità che un giorno accada anche a lui.

E dopo il matrimonio? Solo le fiabe finiscono con le nozze e i Promessi sposi sono l’opposto di una favola. Romanzo senza idillio, l’ha definito il suo più grande lettore del Novecento: romanzo senza lieto fine, senza “e vissero felici e contenti”. E quindi sì, alla fine Renzo e Lucia si sposano, ma attorno a loro non cambia nulla. Il mondo resta irredento. Le grandi tragedie non sono del tutto passate, ma la peste è finita e nell’ultimo capitolo del romanzo si respira l’aria del dopoguerra. Il mondo deve rimettersi in piedi, la pietà per i morti deve lasciare il passo al lavoro, alla coltura, alla crescita. E anche la vicenda di fantasia deve finire, ma non può succedere di botto, nel culmine delle nozze, coi petardi e la banda municipale. No, bisogna defaticare, allentare, sciogliere. La prosa si rilassa senza perdere di tensione. Renzo e Lucia tornano nei territori del bergamasco, lasciano il paese natale per una personale inquietudine, più che per vera necessità, e i bergamaschi, che hanno orecchiato le vicende dei giovani, vanno a vedere Lucia. Ma sono delusi: volevano un’eroina, un personaggio, una maschera e trovano una donna. Qualcuno ne mette in discussione la bellezza, Renzo si arrabbia, cambia posto e i nuovi vicini sono più gentili. Il romanzo si allenta, diventa piccola cronaca, microstoria, racconto di modi di vivere e mentalità. Così vediamo Renzo, Lucia e Agnese smarrirsi nella folla del loro mondo seicentesco, ora che gli avvenimenti eccezionali sono passati. E ci sono i figli, e i guadagni, ci sono le esigenze di una nuova vita prosaica. E c’è Renzo che delira e dice di aver imparato a non cercare i guai, mentre Lucia sa che sono i guai a stanarci, a cercarci, a metterci a nudo. La fede, dice il narratore, ci aiuta a sopportarli. Non a risolverli, ma a sopportarli. Possiamo essere o meno credenti, possiamo decidere di mettere una legge morale laica al posto della fede, fare dell’etica, e non della trascendenza, la bussola in questo mondo dissennato, ma il romanzo non perde di forza. Le favole finiscono con le nozze. Qui le nozze sono l’inizio di una nuova vicenda, il narratore mago libera i suoi personaggi, ma quel mondo ci resta dentro, se l’abbiamo attraversato. E in quel mondo si rispecchiano la consolazione e la paura, la speranza e il disinganno di questo mondo qua. Quello che resta quando chiudiamo il romanzo è che il romanzo ci aiuta a vedere, a (non) capire. Il romanzo non finisce, e neppure la vita.


LA MASCHERA DELL' INNOVAZIONE ALL' UNIVERSITA'

 


di Università libera, università del futuro

 

Secondo la mania attuale (tipica nella pedagogia) non si deve venire istruiti sul contenuto della filosofia: si deve piuttosto imparare a filosofare, senza contenuto. È un po’ come dire: bisogna viaggiare, viaggiare, sempre viaggiare: ma non fare la conoscenza di uomini e città, di fiumi e paesi. In primo luogo, però, mentre si conosce una città e si raggiunge magari un fiume, poi un’altra città e così via, si impara senz’altro a viaggiare. Anzi. Si viaggia realmente. Allo stesso identico modo, mentre uno studia il contenuto della filosofia, conosce la filosofia. Viene cioè a conoscenza non soltanto del filosofare, ma filosofa egli stesso. In fondo, anche lo scopo di imparare soltanto a viaggiare, non coinciderebbe in realtà con il conoscere città, fiumi eccetera? Non coinciderebbe cioè con un contenuto? (…). Il perenne cercare e bighellonare qua e là senza contenuto, questo modo di procedere soltanto formale, questo elucubrare e sofisticare, ha come conseguenza la vuotezza di contenuto e la vuotezza di pensieri nelle teste: ha insomma il risultato che non si sappia proprio nulla.

G. W. F. Hegel, Lettera a Niethammer del 23 ottobre 1812, in Id., Propedeutica filosofica, a cura di G. Radetti, Sansoni, Firenze 1951, pp. 247-248.

 

Nel mese di maggio del 2023 l’Università di Padova ha diffuso fra tutti i docenti e ricercatori dell’Ateneo il documento Report T4L, nel quale è presentata e analizzata (con profusione di dati e diagrammi) la “sperimentazione” di una didattica informatizzata incominciata nel 2016 e divenuta (con le parole della presentazione) «in soli 6 anni permeante della cultura didattica dell’Università di Padova». Il testo, a cura del Settore Assicurazione della Qualità e Didattica Innovativa, con il coordinamento di Marina de Rossi e Valentina de Marchi e presentazione firmata anche dalla Rettrice Daniela Mapelli, ha suscitato in Università libera, università del futuro alcune considerazioni che proponiamo nelle due sezioni seguenti. Nella prima ci si concentrerà in particolare sugli aspetti contenutistici del Rapporto, nella seconda sezione sugli aspetti linguistici, nella convinzione che l’uso delle parole non sia mai neutrale, ma implichi sempre dei presupposti che riteniamo compito della critica svelare.

 

1. Effetti collaterali dell’innovazione didattica intesa come terapeutica

 

L’innovazione della didattica promossa dall’Università di Padova, si legge nel testo madre edito nel 2020 da Padova University Press (Fedeli, Mapelli, Mariconda, Teaching4Learning. L’innovazione didattica all’Università di Padova. Teorie, ricerche, pratiche), “persegue l’obiettivo di cambiare la didattica dei singoli docenti […] ci si aspetta una evoluzione verso una direzione learner centered e meno tradizionale, più partecipativa e coinvolgente, e costruita sul processo di apprendimento e sullo sviluppo delle conoscenze e delle competenze […] piuttosto che content centered costruita sui contenuti dei singoli corsi” (p. 31). Questo frammento ben evidenzia alcuni tratti distintivi del modello didattico in questione, in modo particolare la distinzione ad effetto retorico tra il vecchio (oggetto di discredito) e il nuovo (oggetto di apologia). Vecchio e tradizionale (nel senso di obsoleto) è il modo d’insegnare che pone al centro i contenuti di una disciplina. Vecchio è chi insegna qualcosa a qualcuno. Nuovo e innovativo è il modo d’insegnare che pone al centro lo studente e il “processo” di apprendimento. Nuovo è chi insegna a qualcuno affinché apprenda ad apprendere. La prima modalità, basata sui contenuti, è sempre esposta al rischio di essere noiosa e passivizzante, la seconda, si sostiene, inevitabilmente coinvolgente e attiva. Apprendere ad apprendere, apprendere il processo di apprendimento: l’atto dell’apprendere diviene un contenuto insegnabile di per sé separabile dalla cosa appresa (il contenuto disciplinare). L’azione coincide con l’oggetto. Nell’apprendere ad apprendere (come nell’insegnare ad insegnare) l’obiettivo e l’azione che lo rende raggiungibile si sovrappongono. Riprendendo il punto: anche ammesso che la didattica debba porre in secondo piano i contenuti, della qual cosa non siamo affatto convinti, quali sono le ragioni di questo mutamento di paradigma? Dove e da chi sono state decise? Non si tratta di un cambiamento secondario su questioni accessorie. È in gioco lo stesso statuto dell’insegnare. C’è stata discussione su questo? Dell’insegnare e dell’insegnamento si può dire anche in altri e ben fondati modi?

 

Entriamo nel Report T4L mettendo a fuoco alcuni passaggi significativi. L’intento didattico, leggiamo, è quello di “promuovere l’insegnamento attivo” (Report, p. 2) secondo “l’approccio teorico dell’Active Learning” (p. 3), altrimenti dicibile “apprendimento attivo”. Tale impostazione richiama alla mente i fermenti educativi sviluppatisi tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento (in particolare è il periodo 1890-1930 ad essere maggiormente interessato), dettati dall’emergere del cosiddetto “attivismo pedagogico”, ispirato a principi radicalmente differenti rispetto a quelli in vigore nelle scuole “tradizionali”. In Inghilterra presero piede alcune delle prime e più famose “scuole nuove”: Cecil Reddie nel 1889 aprì ad Abbotsholme, nel Derbyshire, una scuola per ragazzi dagli 11 ai 18 anni che diresse fino al 1927. Anche allora, come possiamo vedere, il Vecchio e il Nuovo a confronto (scuole “nuove”, educazione “nuova”), e la sostituzione della centralità del maestro, o del programma di cultura che egli rappresenta, con la centralità del fanciullo, protagonista attivo dell’educazione. Il maestro è al suo servizio. L’educazione “nuova” ispirata ai principi attivistici, ponendo al centro il fanciullo, era già a suo tempo, tornando al lessico del Nostro Report, “student centered” e non “content centered”. Il T4L, nel nome dell’innovazione, sembra riproporre un’impostazione tradizionale, pensata e praticata più di un secolo fa per l’età scolare (e non universitaria). L’insegnamento “è basato sull’attività personale del fanciullo”, si legge al punto numero 14 del manifesto redatto a Calais nel 1921 dalla Ligue Internationale de l’Éducation Nouvelle. Criticare l’insegnamento tradizionale sembra essere una mossa tradizionalista, indipendentemente dal giudizio (positivo o negativo) nei riguardi dell’impostazione in questione.

 

Scorrendo Il Report, Il coagulo terminologico-concettuale che ricorre quasi ad ogni pagina lega inesorabilmente l’insegnamento all’apprendimento. Lo si evince dall’acronimo medesimo: T4L, “teaching for learning”, insegnare per l’apprendimento. Tale formula, T4L, che non ha il valore di un’evidenza come H2O, pone una questione tutt’altro che pacifica e che ha dato voce nel tempo a posizioni diversificate. La critica al linguaggio dell’apprendimento, l’impatto sull’istruzione dell’industria della misurazione, il desiderio di rendere l’istruzione priva di rischi, sono oggetto di discussione a cominciare dalle autorevoli analisi di Gert Biesta (da “Beyond Learning” del 2006 in avanti). L’insegnante, entro questo quadro di riferimento, diviene un mero fattore, una variabile dell’analisi dei dati relativi ai risultati misurabili dell’apprendimento, l’unico elemento che conta. Perché ce qui n’est pas comptable ne compte pas. Il dibattito verte su domande di questo tipo: il rapporto tra insegnamento e apprendimento è da intendersi come un semplice rapporto di causa ed effetto?  L’apprendimento è vincolato al risultato? Quale cambiamento avviene quando diciamo che qualcuno ha appreso qualcosa? La “learnification” del discorso didattico – che lascia i processi aperti e vuoti – ha marginalizzato tutta una serie di questioni non eludibili, in particolare quelle che riguardano le finalità dell’apprendimento, e più in generale quelle della stessa formazione (chi le decide?). L’immagine dello studente è quella di chi è oggetto di un intervento facilitatore esterno. Quella del docente universitario apprendista, nel Report, richiama il destinatario di un “trattamento”, un individuo infetto da sottoporre ad azione quasi-farmacologica (il docente “trattato con T4L”, p. 40). L’apprendimento (dello studente, del docente apprendente) sembra presentarsi come un mero “atto adattivo”, secondo la teoria dei sistemi adattivi intelligenti che conduce, applicazione pratica questa, agli aspirateurs autonomes, all’interno di un ambiente che il “didatta” farmacologo ha progettato per l’apprendimento, non avendo più contenuti da insegnare (il Vecchio), in quanto mero facilitatore dei processi di apprendimento (il Nuovo).

 

I docenti universitari “trattati” con T4L vanno “premiati e misurati”, con lo scopo di verificare il miglioramento della “qualità” della loro didattica. (p.6). Le loro pratiche, inoltre, vanno “de-privatizzate” (i “processi di de-privatizzazione della didattica”, p. 2,3), il che sta solo ad indicare, con buona pace per i sostenitori del “pubblico” e dei “beni pubblici” forse per un istante rincuorati, che è auspicabile uno scambio di vedute e forme di cooperazione tra colleghi. Come se il Vecchio docente tradizionale malato di contenuti e inaccessibile, considerasse il proprio insegnamento come un’attività di sua proprietà esclusiva, svolta gelosamente in proprio e senza rendere conto a nessuno. Esaminiamo ora un punto chiave.

 

Quali sono le misure, e gli indici di “successo”, che descrivono l’efficacia di un insegnamento? In buona sintesi appartengono a due categorie diversamente popolate. La prima, che potremmo definire “della customer statisfaction”, consiste in tre indicatori che misurano, rispettivamente, la soddisfazione complessiva dello studente-cliente per come si è svolto il corso, la chiarezza espositiva del docente, e la capacità del docente-facilitatore di stimolare/motivare (non: di suscitare, vide infra) l’interesse verso la disciplina e «permettono di valutare l’impressione soggettiva degli studenti sull’attività formativa erogata» (corsivo nostro, p. 30). La seconda contiene un indicatore soltanto, che stabilisce, a giudizio degli stessi autori, «la misura più oggettiva dell’efficacia» (p. 31) del “trattamento”, vale a dire la velocità da parte degli studenti nel superamento degli esami (p. 28). L’efficacia è massima «se l’esame è stato superato nella prima sessione disponibile dopo l’offerta dell’insegnamento» (p. 31). Il docente “nuovo“ e di “qualità”, quello purgato dal “trattamento”, oltre a saper soddisfare il cliente, ha da perseguire questo obiettivo principale. Se i suoi studenti superano l’esame al primo colpo, vuol dire che è stato bravo. Tale concezione piattamente utilitaristica, legata al risultato, non ha nulla a che vedere con gli scopi formativi che ogni insegnamento (e ogni apprendimento) dovrebbe contenere in sé quando trova nei contenuti il proprio baricentro di senso. Quando il fine decade a risultato misurabile e monitorabile usciamo da una relazione intesa come formativa. La riduzione dei fini in “risultati” (di apprendimento) da migliorare, fa sì che il docente “trattato” con T4L apprenda a misurare sé stesso solo sull’efficacia del procedimento (la velocità da parte dello studente nel superare l’esame) sospendendo il giudizio su quello che la realtà formativa nella quale opera è e potrebbe essere. Aspetto, questo, non più di sua competenza. Così come esce di scena il significato formativo, culturale e scientifico dei contenuti veicolati dalla didattica universitaria.

 

Ebbene: qual è l’effetto del “trattamento” sulla tempestività nel superamento degli esami da parte degli studenti che hanno avuto la fortuna di avere un docente “trattato”? Per stessa ammissione degli autori essa è nulla: «Per quanto riguarda la tempestività di superamento dell’esame, invece, gli effetti sono piccoli e non statisticamente significativi» (corsivo nostro, p. 34).

L’avverbio evidenziato in corsivo segnala il tentativo di dissimulare questa confessione appena sussurrata, che mette in discussione l’intero impianto del T4L, collocandola in coda a una fastosa disamina degli esiti, invece, positivi dell’effetto del “trattamento” sul gradimento degli studenti: «Le sofisticate analisi riportate brevemente in questo rapporto suggeriscono in modo inequivocabile che la didattica innovativa promossa dal progetto T4L ha avuto un effetto positivo sulla soddisfazione della popolazione studentesca rispetto agli insegnamenti offerti, una dimensione ritenuta importante per qualsiasi ateneo che si impegni a migliorare la qualità della propria offerta didattica» (corsivi nostri, p. 36).

 

L’inequivocabile effetto positivo si materializza con un incremento dei punteggi nelle valutazioni dei tre parametri legati alla soddisfazione studentesca di 0.15-0.16 punti su una scala da 0 a 10. «Tuttavia, l’effetto sulle variabili relative alle opinioni degli studenti è temporaneo, in quanto svanisce due anni dopo il trattamento» (p. 34). Come i vaccini anti SARS-CoV-2, anche il “trattamento” ha effetti temporanei e richiede una seconda, una terza e forse una quarta “dose”.

Di fatto, anche a voler concedere che la misura della soddisfazione studentesca sia un buon metro di valutazione dell’efficacia dell’insegnamento, e a voler ammettere che «nel concreto la gran parte delle valutazioni si concentra tra il 6 e il 9» (p. 33), se ne ricava un incremento del punteggio all’incirca del 2%, giudicato sintomaticamente «non irrisorio» dagli autori, che tradiscono nella litote la coscienza del fallimento complessivo del progetto anche rispetto a questo parametro. Detto a margine, a fronte di un incremento così modesto, suscitano qualche interrogativo l’ampiezza degli intervalli di confidenza associati ai dati riportati in Figura 4 (p. 33) e alcuni aspetti dell’approccio metodologico.

 

Infine, l’esclusione dall’analisi di due tra le più popolose Scuole dell’Ateneo, in seguito a «operazioni di filtraggio e incrocio dei dati […] a causa di alcune incongruenze delle fonti […] concentrate in modo particolare sui corsi offerti dalle Scuole di Ingegneria e Medicina» (p. 39), non sembra forse indicare, nella migliore delle ipotesi, che il modello di formazione alla didattica unico ed esteso a tutte le discipline sia inevitabilmente troppo rigido e non tenga conto del necessario e naturale adeguarsi delle metodologie didattiche ai contenuti disciplinari?

L’analisi separata, riportata in appendice, degli esiti del “trattamento” nelle Scuole di Medicina e Ingegneria, costringe a concludere che «le stime […] sono piccole e non sono statisticamente significative. Ciò può essere dovuto sia ad un numero ridotto di osservazioni [nota: dopo il filtraggio di cui sopra], sia al numero elevato di insegnamenti integrati e canalizzati, ove innovare la didattica è più complesso» (corsivo nostro, p. 41).

 

Nemesi ironica, sul piano retorico, per un documento che esordisce con la cronistoria della genesi del T4L partendo proprio da una scintilla innovativa accesasi «nei primi mesi del 2016, quando un gruppo di ingegneri del Dipartimento di Ingegneria Industriale (DII) si è posto l’obiettivo di migliorare la didattica dei loro insegnamenti e di aprirsi al confronto con la comunità accademica» (p. 4).

Ironia a parte, è lecito chiedersi se – al netto della trentina di pagine di tabelle, diagrammi, grafici, analisi dei dati e conclusioni – la sostanziale débâcle che il Report non è in grado di dissimulare giustifichi gli ingenti mezzi fin qui impiegati per sostenerlo e diffonderlo.

 

Ciò nonostante, il “cambiamento” e l’“innovazione”, come da ritornello, devono essere perseguiti e promossi attraverso «un’adeguata formazione» (p. 8) intesa come “trattamento”. Sulla base dell’esperienza condotta a partire dal 2016, si legge, «il processo avviato è ormai inarrestabile»  (corsivo nostro, p. 7), «permeante della cultura didattica di Unipd» (p. 12). Il corso degli eventi didattici è dunque definitivamente segnato e fatalmente indifferente ad ogni discussione, opposizione o resistenza che sia. È impregnato dal suo influsso. Là dove invece dovrebbe regnare la dialettica e il confronto tra diverse idee di didattica universitaria mai riconducibile, questa, ad un modello unico di Ateneo; con conseguenti proposte formative differenziate a libera scelta. Il “trattamento didattico obbligatorio” (TDO) al T4L riservato ai giovani ricercatori è un chiaro segnale d’allarme. Non ci risulta vero che sia stato loro solo «consigliato» (p. 22). Si veda in proposito la delibera del Senato Accademico del 10.05.2022.  Coercizione inopportuna perché lesiva del principio di libertà d’insegnamento, e che può indurre a congetture circa il suo impiego strumentale volto ad aumentare forzosamente la platea dei partecipanti, assai minoritaria e invero non numericamente esaltante (stabilizzatasi tra il 2019 e il 2022, fra il 12 e il 13% rispetto all’intero corpo docente).

 

L’impianto qui discusso, che vorrebbe essere scientifico (la “scienza della didattica”, p. 4, la “scientificità della lettura dei processi”, p. 9) su quali fonti si regge e quale metodo d’indagine adotta? Le prime, mancando una bibliografia finale malgrado il sistema di citazione autore/data, sono comunque riferibili, oltre ad Autori in parte riconducibili al gruppo dei promotori del T4L, ai seguenti soggetti: ANVUR, Unione Europea (in part. Raccomandazioni), OCDE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), EUA (European University Association) – per la condivisione di “best practices”. La letteratura citata, quella non prodotta da istituzioni politiche e di governo, non si preoccupa di rendere visibile il dibattito in corso, le sue controversie e i suoi problemi, ed è richiamata solo a conferma delle proprie posizioni: «È assodato che…» (p. 9). Si nota peraltro come la “scienza didattica”, allorquando si passi agli aspetti metodologici che regolano l’analisi dei dati ricavati, si affidi alla “letteratura econometrica” e agli “strumenti” da essa sviluppati (p. 31). Non può essere altrimenti. Chi ha redatto questa parte è docente esperta di “operation management” e “international businessL’analisi condotta – che riguarda l’effetto del trattamento T4L – parte da una premessa: «Consapevoli dei molti fattori non misurabili, i quali rendono impossibile misurare in modo univoco gli impatti […] si sono utilizzate quattro misure approssimative» (p. 30). Si misura solo ciò che è passibile di misurazione. Non è possibile ricondurre “gli impatti” a misura univoca. Si procede per approssimazione. Ne viene allora che se i ritagli di realtà analizzati sono manchevoli e le misure adottate approssimative, lo sono – approssimativi –  anche i risultati. Il processo inarrestabile sembra poggiare su basi imprecise, che provano a rincorrere il vero semplificando calcoli e rappresentazioni. Se dell’oggetto misurato (l’effetto dell’azione didattica) ne misuro solo una parte, perché è a partire da ciò che è misurabile che scelgo che cosa misurare, sorgono non poche perplessità sulla portata dei risultati presentati. Che sembrano frutto di una catena non giustificata di convenzioni e presupposti non discussi, e determinati prevalentemente dalle richieste dei policy makers.

 

La fragilità dell’analisi presentata nel Report è riscontrabile nella variazione del campione nel tempo oltre che nella esiguità dei dati a sostegno. I quali contraddicono il tono trionfale che spesso traspare. Gli ipotetici miglioramenti “post-trattamento” sono in realtà irrisori. Di questo sembrano essere consapevoli, forse involontariamente, gli stessi estensori del documento. Come si può ben cogliere nelle conclusioni (p. 37): «è abbastanza modesto» il livello di significatività forniti dagli studenti e studentesse rispetto al loro grado di satisfaction, ed è «sconosciuta» l’effettiva implementazione delle strategie di “didattica innovativa”. Ci sembra ben curioso che, data l’impostazione “econometrica” perseguita, mai si accenni ad un’analisi circa i costi-benefici del T4L; il che conduce dritto ad una domanda non eludibile: quanto è costato e quanto costa all’Ateneo il “progetto ambizioso” con le sue “sofisticate analisi” in termini di mesi/persona dedicati, fondi aggiuntivi, eccetera a fronte dei modesti risultati ottenuti e di una continua e insistente campagna di promozione?

 

2. Le parole della terapia all’esame del vocabolario

 

Se ora osserviamo da vicino le parole del documento in esame, possiamo indicare alcuni aspetti generali di un linguaggio che porta in sé, senza dichiararli, modelli e valori sui quali pensiamo che occorrerebbe quantomeno un’ampia e condivisa discussione con docenti e studenti. La prima di queste parole è professione:

 

p. 2 Pensando oggi al programma di sviluppo professionale e organizzativo della docenza universitaria; p. 5 sviluppo professionale della docenza […] professioniste e professionisti dell’istruzione superiore.

 

Della «professione docente» si fregiano, specie nel mondo della scuola, titoli di riviste e documenti ministeriali. Da una parte quella definizione risponde alla legittima rivendicazione di competenza e dignità di un lavoro intellettuale non di rado umiliato a prassi amministrativo-burocratica, la cui prima conseguenza è il trattamento economico degli insegnanti della scuola italiana, fra i più bassi d’Europa. Ma dall’altra, l’inquadramento “professionale” svincola l’insegnamento dallo studio e dalla ricerca, ancorandolo a metodi e tecniche (v. avanti): didattica als Beruf, ‘come professione’, estrema propaggine della Wissenschaft als Beruf, la scienza come professione, denunciata da Max Weber nel 1917 (conferenza pubblicata due anni dopo). Da cui la distinzione che già aleggia nel mondo accademico italiano fra teaching professor e research professor, ciascuno con proprie peculiari e ben compartimentate competenze; distinzione già di fatto operativa nella scuola, nella quale il carico di lavoro burocratico sulle spalle dei docenti inibisce la possibilità di dedicare del tempo allo studio e all’approfondimento (e in questa direzione va l’indirizzo della totalità delle risorse destinate all’“aggiornamento”: corsi più o meno obbligatori su temi normativi, pedagogici, o sulle intramontabili e sempre nuove tecnologie).

 

La professionalizzazione dell’insegnamento universitario è la leva della sua rideclinazione a tecnica (p. 37, 40 ecc. tecniche della didattica), che nel documento è a sua volta riformulata come una pratica:

 

p. 2 pratiche didattiche; p. 3 pratiche trasferibili nei contesti d’aula (a seguito del dialogo con «gli attori del mondo del lavoro»); la condivisione di pratiche e metodi didattici; p. 13 scambio di buone pratiche.

 

L’una e l’altra generano esperienze (p. 10, p. 12) – e lo stesso insegnamento è ora un’esperienza formativa (p. 11). Quest’operazione di sospensione del pensiero verso la banalizzazione operativa dell’insegnamento, questa retorica della concretezza e dell’operatività, dei fatti contro le parole, contro gli inutili sofismi, trova il suo vertice nella pretesa trasferibilità e condivisione delle pratiche: addirittura dal mondo del lavoro all’aula (dall’uno si trasferiscono le pratiche all’altra: come ci si trasferisce da un appartamento all’altro, da un ufficio all’altro); poi tra ambiti disciplinari differenti – potente manovra di omologazione, che mistifica come intercambiabili i metodi di insegnamento fra materie lontane come, facciamo un caso, la stilistica dei testi poetici e le misure e il collaudo di macchine e impianti elettrici.

 

Le pratiche sono pianificate secondo precise strategie:

 

p. 2 strategie di insegnamento; p. 3 strategie di condivisione; strategie trasferibili tra contesti disciplinari diversi; strategie operative; p. 4 pratiche e strategie (p. 12).

 

L’ineludibile connotazione militare (o se si vuole, più benevolmente, sportivo-agonistica) della parola risponde all’inquadramento della didattica in una dinamica competitiva. Poiché ogni strategia punta alla vittoria, la didattica, il suo “miglioramento”, è come un battaglia/partita che mira alla sconfitta di un nemico o avversario o meglio competitor. Il suo risultato finale deve essere il successo (p. 5 s. nella formazione, p. 10 esperienze di s. ecc.; ma tutta l’operazione del T4L è «Una storia di successo», p. 2) – parola chiave che rappresenta l’insegnamento come un processo valutabile sull’alternativa sì/no, vittoria/sconfitta, ecc.: ma ogni buona didattica è votata insieme all’una e all’altra polarità; e i suoi risultati sono nel lungo periodo, nemmeno verificabili perché compositi e non misurabili, sciolti nelle mille differenti biografie dei discenti e degli stessi docenti, mai veramente restituibili in un report. Quel successo è invece l’esito di una sfida che si è riusciti a vincere: e non una sola, ma una delle numerose sfide che vengono dall’agone della globalizzazione (e infatti la parola è sempre al plurale: p. 2 le sfide che abbiamo affrontato, p. 6 una serie di sfide, p. 8 le sfide della società e del mondo ecc.).

 

Ma ancora. Le buone pratiche didattiche e il progetto della loro diffusione in università riscuotono interesse (p. 6 «il progetto di Padova ha sempre riscosso interesse»; «ha sempre riscosso un grande interesse»): il banale calco di un’espressione corrente sostituisce almeno una seconda possibilità, che è quella di destare interesse (meraviglioso verbo dall’accezione maieutica; o ancora suscitare), riconducendo la “didattica innovativa” e la sua promozione universitaria ad un’offerta di prodotti monetizzabili: poiché, in senso letterale, si riscuote una somma di denaro (Sabatini e Coletti, s.v. § 3), e solo il valore figurato rimanda a ‘conseguire, ottenere qualcosa di positivo’ (ivi). La banalità del linguaggio trasferisce sottotraccia modelli non banali. Le sue espressioni correnti trasmettono valori e ideologia, assorbiti nel preconscio e metabolizzati come inevitabili. Vanno in questa direzione altre parole del documento in esame. Come erogare (oggetto: la didattica o la formazione):

 

p. 9 processi di erogazione [della formazione degli insegnanti]; p. 30 attività formativa erogata; p. 39 settore [disciplinare] erogato con didattica innovativa; ivi in nota: erogazione dell’insegnamento; ecc.

 

parola corrente nel linguaggio burocratico (e abbiamo notizia di un Dirigente Scolastico che ha corretto in una bozza di verbale “offrire la didattica” con il nostro verbo), e segno impercepito della mercificazione dell’insegnamento: poiché si erogano propriamente o una somma di denaro, oppure il gas, l’acqua, l’energia elettrica, ecc. (così il Grande dizionario della lingua italiana del Battaglia, nelle sue uniche due glosse; e v. a conferma i dizionari dell’uso), oggetti tariffati, espressione di uno scambio commerciale. O come ancora l’anglicismo implementazione, che compare una prima volta in senso proprio (p. 4: «i. delle tecnologie didattiche») come calco dell’ingl. implementation ‘attuazione, realizzazione’. I lessici sottolineano la specificità informatica della voce (Sabatini e Coletti: ‘progettazione e pieno sviluppo di un sistema per l’elaborazione dei dati’; il Nuovo De Mauro la marca come tecnicismo), confermata in questa sua prima occorrenza. Ma più avanti essa ricorre una seconda volta riferita (oggetto dell’implementazione) alla «qualità della didattica» (p. 8): che viene così inquadrata come problema tecnico e algoritmico.

 

L’anglicismo adattato funziona in casi come questo come segnale di appartenenza, ganglio di un gergo globale grazie al quale ci si dichiara parte del sistema vincente. Ma serve anche a certificare la “scientificità” e la complessità di concetti e pratiche che in verità sono spesso in sé molto semplici. Tale è la motivazione ad esempio di parole come learner centeredblended learning (p. 10), hard skills e soft skills (p. 8), o di coacervi sintattici come «[…] l’uso dei dati per lo sviluppo organizzativo della didattica in prospettiva Faculty Development-FD» (p. 10 – “FD”?). A supportare la presunta oggettività scientifica del discorso stanno i frequenti rinvii bibliografici e gli acronimi, il cui scioglimento non è dato di ottenere nel documento stesso (in qualche caso giova la rete; in qualche altro nemmeno quella). E ancora, gli agglomerati lessicali come tecnico-disciplinari (p. 8), tecnico-gestionale, insegnamento-apprendimento (p. 9), progettuale-metodologica-valutativa (p. 8). Assieme a tali parole-macedonia, la patina di “complessità” di quanto si va reclamizzando è supportata da veri e propri ingorghi sintattici e testuali, come: «[…] interrogarsi sulle evidenze dell’impatto dell’esperienza formativa in termini di output di ricaduta nei processi formativi e quindi sulla necessità di procedere con approfondimenti su come leggere e interpretare i dati derivati dall’analisi della relazione formazione-didattica agita» (pp. 10-11). Tirato il fiato, riformuliamo così: ‘interrogarsi sull’efficacia del T4L nell’insegnamento, quindi sulla necessità di un ulteriore approfondimento dell’interpretazione dei dati’. Semplice, non complesso.

 

Gli anglicismi sono uno degli aspetti di maggiore evidenza linguistica del documento, come in generale della comunicazione accademica. Aggiungiamo ai già citati leadership educativa (p. 7), change agent (p. 6 ecc.), staff (p. 7), e naturalmente governance (ivi, minuscolo nel testo). Una presenza così massiva e quasi sempre priva di necessità semantica risponde, in aggiunta a quanto abbiamo scritto, ad almeno altre due motivazioni. In prima evidenza quelle parole rappresentano il trasferimento in università di sistemi e linguaggi global, segno del grande, ormai secolare e inesorabile processo weberiano di trasformazione dell’università pubblica in azienda competitiva. Ne ha scritto in questo sito Emanuele Zinato (Reputazione accademica e libertà intellettuale), cui rimandiamo il lettore. In seconda analisi, essi si pongono come segnale di discontinuità rispetto alle tradizioni e ai linguaggi accademici tradizionali, fino a qualche decennio fa proverbialmente paludati, simbolo di passatismo e separazione dal mondo. Dalla turris eburnea del professore d’antan, eccoci ad una lingua al passo con i tempipropria di un’istituzione che strizza l’occhiolino ai suoi potenziali clienti e sembra dir loro: «L’università parla come il mondo, l’università è mainstream!»

 

Insomma, dietro l’apparente oggettività di un’operazione e di un linguaggio così come si delineano nel documento che abbiamo esaminato, si celano questioni di grande portata relative al mondo universitario tutto, questioni che Università libera, università del futuro intende segnalare criticamente ai propri interlocutori per rinnovare e rilanciare una riflessione sullo statuto, sulla funzione e in ultima istanza sul senso stesso dell’università che coinvolga tutte le sue componenti.

ECCO COSA VUOL DIRE ESSERE DEI "MARXISTI CRITICI"

 


“Siamo marxisti? Esistono marxisti?” 

                             Salvatore Lo Leggio (2018)

 

Per il duecentesimo compleanno di Marx non c'è stato il clamore di altre ricorrenze del passato riferibili al rivoluzionario di Treviri, né il fervore religioso di certe antiche celebrazioni. La fine dell'Unione Sovietica, che nel pensiero di Marx, anzi nel marxismo, anzi nel marxismo-leninismo, pretendeva di trovare la giustificazione della sua nascita e della sua esistenza, e del comunismo novecentesco che a quell'esperienza si collegava, ha laicizzato la ricorrenza. Il che non è necessariamente un male.

Un approccio laico, del resto, era quello di Antonio Gramsci un secolo fa, per il primo centenario della nascita, nell'editoriale scritto per il “Grido del popolo”, il settimanale dei socialisti torinesi, dal titolo Il nostro Marx. Basta rileggerne l'incipit: “Siamo noi marxisti? Esistono marxisti? [...] La questione sarà probabilmente ripresa in questi giorni, per la ricorrenza del centenario, e farà versare fiumi d’inchiostro e di stoltezze. Il vaniloquio e il bizantinismo sono retaggio immarcescibile degli uomini. Marx non ha scritto una dottrinetta, non è un messia che abbia lasciato una filza di parabole gravide di imperativi categorici, di norme indiscutibili, assolute, fuori delle categorie di tempo e di spazio...”.

Unica celebrazione solenne di questo secondo centenario è stata quella svoltasi a Pechino, in un immenso Stato tuttora governato da un Partito Comunista, ma il cui sviluppo lascia molte perplessità sulla natura sociale di quel modello economico e politico. A Pechino, per l'Italia, c'era Massimo D'Alema, che ha prodotto su Marx uno dei pochi interventi italiani “simpatetici” di questo centenario. Sulla stampa nazionale che un tempo chiamavamo “borghese” non sono, infatti, mancati interventi sul Marx pensatore, storico, teorico dell'economia, in gran parte encomiastici, e qualcuno di essi ricordava che per alcune sue formulazioni e ricerche egli oggi funge paradossalmente da maestro di quei capitalisti contro cui organizzava la classe operaia e il proletariato. Ma in genere gli elogi si accompagnano all'archiviazione del Marx ispiratore di movimenti politici, ad una sua collocazione monumentale nella storia della cultura, anzi della Cultura, occidentale. D'Alema no, in un certo senso è rimasto “chierico”: ha perciò parlato di Marx come maestro, tentando un'interpretazione della nozione di “capitale fittizio” e dichiarando che la lente critica di Marx può aiutare a governare il capitalismo, controllando le pulsioni distruttive che accompagnano il “feticismo del denaro”.

Trovo più convincente Immanuel Wallerstein che a Marx ha sempre guardato senza rispetto religioso. Nel concludere un suo prezioso libretto, Il capitalismo storico, più di trent'anni fa, quando l'URSS c'era ancora, scriveva: “ Karl Marx è stato una figura monumentale nella storia intellettuale e politica contemporanea. Ci ha lasciato una grande eredità, che è concettualmente ricca e moralmente ispirata.[…] Egli sapeva, a differenza di molti di quelli che si sono spesso autoproclamati suoi discepoli, di essere un uomo del secolo XIX […]. Adoperiamo dunque i suoi scritti nell'unica maniera ragionevole - consideriamolo un compagno di lotta, che ne sapeva quanto lui ne ha saputo”. Oggi – in un dialogo con un giovane studioso italiano, Marcello Musto, pubblicato un mese fa su “La lettura” del Corsera – Wallerstein ricorda come Marx ci abbia insegnato “meglio di chiunque altro che il capitalismo non corrisponde al modo naturale di organizzare la società” e come dal capitalismo come totalità (imperfetta, ma totalità) sia possibile uscire. Marx, soggiunge, nel capitalismo globalizzato e pieno di ingiustizie, è ancora nostro compagno e può ancora aiutarci ad uscirne.

Quanto a noi – parlo di me, ma credo possa essere riferito a diversi compagni di “micropolis” e “Segno critico” - non abbiamo difficoltà a definirci “marxisti” impenitenti, specie oggi che esserlo è fuori moda. Ricordiamo l'affermazione di Marx di non essere “marxista” e abbiamo letto con profitto su una rivista on line di storia delle idee, “InTrasformazione”, patrocinata dall'Università di Palermo e diretta da Piero Violante, l'utilissimo glossario storico sulla babele dei marxismi e sulla confusione semantica e concettuale che ne è nata, elaborato da Enrico Guarneri, un vecchio compagno della scuola di Mario Mineo. Ma, a modo nostro, ci piace continuare a dirci “marxisti”, provando a ricomporre, seguendo l'esempio del nostro compagno Karl, la scissione tra ricerca teorica e impegno pratico, di cui scrive Paolo Favilli sul “manifesto” (“Bisogna entrare nel merito di nuove forme di «marxismo politico». «Forme» aperte, diverse, qualche volta magari conflittuali, ma con le radici salde nelle logiche dell’antitesi e della critica dell’economia politica”). Ci riconosciamo in quanto, all'inizio del millennio, ribadiva un grande intellettuale (ed eccellente poeta) come Edoardo Sanguineti: “Nel momento niente offre una visione più matura, più ricca del marxismo che, mi pare, è ancora quella che spiega meglio a che punto siamo della storia umana, quali sono i temi fondamentali da affrontare e anche qual è la direzione verso la quale muoversi, che poi è la questione veramente radicale. Cioè: che fare”.

Il nostro "marxismo" è un'approssimazione, un modo di dire, non certo un pensiero in sé compiuto, ma, così concepito, non rientra nel circuito dell'ideologia. L'ideologia non cerca verifiche o smentite nella realtà, si contenta della coerenza formale; il pensare alla marxista invece di necessità comporta scarti e accidenti. Si può essere davvero "marxisti", solo lasciando aperte porte e finestre.

"micropolis", maggio 2018 - Nella rubrica "La battaglia delle idee"

 

Marx oggi

 Un pensiero con sette vite come le talpe

Marcello Musto (a cura di), Marx revival. Concetti essenziali e nuove lettureDonzelli Editore, pp. 757, euro 30,00 stampa, euro 17,99 ebook

Quante volte abbiamo sentito affermare da autorevoli studiosi, analisti politici, economisti, giornalisti e quant’altro che Karl Marx e il suo pensiero sono da relegare in soffitta? Che le sue teorie sociali, politiche ed economiche, il suo sistema di analisi del capitalismo sono ormai inadeguati a descrivere la contemporaneità e l’era della globalizzazione? Innumerevoli volte, da almeno un quarantennio, la demolizione sistematica delle teorie marxiste è avanzata con un fuoco incrociato di TV, giornali, dipartimenti universitari, riviste scientifiche, un compiaciuto coro funebre troppo coordinato per non riuscire sospetto.

Da un decennio a questa parte, però, in seguito alla gigantesca crisi economica del 2008 nella quale siamo ancora invischiati, e in particolare nel biennio 2017-18, attraverso le iniziative organizzate per tutto il globo in occasione del 150° anniversario della pubblicazione de Il Capitale e del bicentenario della nascita, Marx sembra tornato alla ribalta. Anche grazie a manoscritti sconosciuti e testi inediti, si è avuto un rifiorire degli studi a lui dedicati, sono apparse interpretazioni innovative del suo imponente lascito che hanno aperto la via a nuovi orizzonti di ricerca, e si è scoperto che il pensiero marxiano risulta ancora indispensabile per comprendere le contraddizioni del capitalismo, i suoi meccanismi distruttivi dell’uomo e dell’ambiente.

Karl Marx

Sull’onda di questo rinnovato interesse, l’editore Donzelli ha pubblicato un volume, Marx revival. Concetti essenziali e nuove letture, curato da uno dei maggiori studiosi italiani della materia, Marcello Musto. Diviso in capitoli che analizzano 22 concetti fondamentali (capitalismo, comunismo, democrazia, rivoluzione, ecologia, globalizzazione, e così via), il libro raccoglie i contributi di prestigiosi studiosi internazionali, con il duplice intento di una ridiscussione critica e innovativa dei temi classici della riflessione di Marx, e l’analisi di alcune tematiche non ancora accostate al suo pensiero. Il risultato è una panoramica ad amplissimo raggio, capace di suscitare la curiosità di chiunque sia interessato alla storia della cultura, delle organizzazioni sociali e delle relazioni umane, e da cui emerge una figura ben diversa da quella classica tratteggiata dalle correnti dominanti del marxismo novecentesco.

Questi studi dimostrano inequivocabilmente l’attualità della visione marxiana e mettono in evidenza alcuni aspetti oggi più cogenti che mai, riassunti lucidamente nella prefazione al volume firmata da Musto. Marx è stato infatti un autore “capace di esaminare le contraddizioni della società capitalistica su scala globale, ben oltre il conflitto tra capitale e lavoro”. Egli affrontò in modo innovativo i problemi oggetto delle sue ricerche, mettendo a punto un sistema di analisi della società che gli permise di cogliere delle caratteristiche tutt’oggi riscontrabili, come la degradazione a mero oggetto dell’essere umano nel sistema capitalistico e la sua conseguente alienazione, la tendenza all’automazione, il feticismo delle merci, l’idea del capitalismo non come mero sistema di produzione, ma come “ordine” sociale che pone vincoli concreti e pratici sulle vite, sugli atteggiamenti e sui modi di pensare delle persone. Egli colse e concettualizzò la separazione formale tra economia e politica, peculiare del capitalismo, che permette di confinare la democrazia in un dominio astratto, lasciando intatte le disuguaglianze in termini di ricchezza; la ridefinizione del ruolo dello Stato e delle funzioni della politica, con la modernissima concezione per cui le politiche pubbliche degli Stati nazionali dovrebbero privilegiare la “soddisfazione dei bisogni collettivi”, assicurare a tutti il diritto alla salute, “il tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per la libera espressione delle energie vitali, fisiche e mentali”, come egli scriveva. 

Karl Marx

È inoltre poco noto che Marx assegnò grande rilevanza alla questione ecologica; che si interessò diffusamente di fenomeni migratori, dimostrando come gli esodi forzati, generati dal capitalismo, costituissero un elemento rilevante dello sfruttamento delle masse lavoratrici; che si occupò in modo approfondito di numerose altre tematiche, sottovalutate – quando non ignorate – da molti dei suoi studiosi, “che rivestono un’importanza cruciale anche nell’agenda politica dei nostri giorni”, come la relazione tra democrazia e libertà individuale, l’eguaglianza di genere, la critica dei nazionalismi, l’analisi delle guerre e delle relazioni internazionali, il riconoscimento del ruolo distruttivo del colonialismo.

Oltre al recupero e all’aggiornamento dei sistemi elaborati dal filosofo di Treviri, si è poi aperto un campo di studi molto fecondo delle sue idee alla luce dei mutamenti successivi alla sua scomparsa. Come scrive Musto, “andrebbero nuovamente indagate le riflessioni di Marx sulla società comunista quale ‘associazione di liberi esseri umani’”. Perché, ad un attento studio, “l’idea di società di Marx è l’antitesi dei totalitarismi sorti in suo nome nel XX secolo”, e le sue concezioni si rivelano ancora molto utili non solo per comprendere la società capitalista, “ma anche per individuare le ragioni del fallimento delle esperienze socialiste sin qui compiute”.

Karl Marx

Insomma, Karl Marx ricorda i gatti, di cui si dice abbiano sette vite. In realtà, la sua periodica riscoperta e fama mediatica si devono al fatto che molte delle tendenze da lui indagate si sono ripresentate puntualmente, proprio quando le si dava per morte e sepolte. Dopo oltre trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino è dunque oggi possibile recuperare un Marx ben differente da quello dogmatico, economicista ed eurocentrico che a lungo ha dominato la scena, e questo volume si rivela uno strumento invero prezioso per riavvicinare la sua figura a quanti ritengono che ormai sia stato detto tutto sulla sua opera, e, soprattutto, per presentare un formidabile pensatore a una nuova e più aperta generazione di lettori. Fare tesoro dei suoi studi, delle sue insostituibili armi critiche per cercare di cambiare lo status quo è un imperativo categorico per chiunque abbia a cuore la messa a punto di un sistema alternativo al capitalismo illiberale e distruttivo che governa il mondo, la creazione di società più giuste ed equilibrate, nella sfera dei diritti come in quella dell’accesso alle risorse economiche, con la salvaguardia della salute di tutti e degli ecosistemi che ci consentono la vita. Progetto quanto mai urgente, alla luce dell’esperienza drammatica della pandemia.

Perché, al di là delle sterili dispute ideologiche, qui è in gioco il futuro della specie umana.

Karl Marx