30 giugno 2016

DOSTOEVSKIJ E TOLSTOJ


Ripropongo qui una riflessione dell'interessantissimo Kirill Pomeranc. L'avevo postata su FB due anni fa, ma qui rimane indicizzata:

"In Tolstoj Napoleone viene semplificato fino a renderlo come un lacchè, in Dostoevskij un lacchè comincia a pensare e a vedere le cose come un Napoleone.
Tolstoj affida il processo a Katjuša a un procuratore incompetente e in debito di sonno, a un avvocato incompetente e a un presidente di corte incompetente e di fretta; Dostoevskij si immagina un procuratore competente, un avvocato geniale, il risultato è lo stesso: un errore giudiziario; la tendenza è la stessa: mostrare che i nuovi tribunali borghesi non sono meglio di quelli vecchi e feudali, che l'uomo non può giudicare l'uomo. Ma leggere l'arringa di Fetjukovic è molto più interessante che leggere la minestra riscaldata delle arringhe di 'Risurrezione'".

Da   http://candadi.blogspot.it/2016/06/tostoevskij.html

Conoscere se stessi è difficile






Si è gli ultimi a conoscere se stessi.

Pier Paolo Pasolini

29 giugno 2016

SULLA TRAGICA COMMEDIA DELLA VITA


Mi pare evidente il legame tra questi due aforismi:

          1.  Chi cerca trova; e chi trova rimane inquieto.  ( Dai Vangeli apocrifi)

2.  Esistono due tipi di tragedie nella vita. Una è non riuscire ad ottenere ciò che più si desidera; l'altra è ottenerlo.  (G. Bernard Shaw)
Che ne pensate voi?

da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/aforismi/vita/frase-109856>

DON MILANI E PASOLINI EDUCATORI










Con questo giudizio [1] Pier Paolo Pasolini nel 1967 recensiva in un documentario televisivo la Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana, diretta da Don Lorenzo Milani: il priore
era morto il 28 giugno dello stesso anno, ucciso dalla leucemia che lo divorava da tempo, ma che non gli aveva impedito di portare avanti per lunghi tredici anni (dal 7 dicembre del 1954),
l’esperienza di una scuola severa e austera, laica e senza secondi fini, messa su tra le umili genti della parrocchia di S. Andrea a Barbiana sul monte Giovi (Mugello) al solo scopo di «dare la parola» a chi non l’aveva, figli di poveri operai e contadini analfabeti, a loro volta destinati all’analfabetismo e alla miseria.

Spesso gli amici mi chiedono come faccio a fare scuola e come faccio ad averla piena, insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi le materie la tecnica didattica. Sbagliano la domanda. Non bisogna preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola ma di come bisogna essere per potere fare scuola. Bisogna avere le idee chiare in fatto di problemi sociali e politici, non bisogna essere interclassisti, ma schierati. [2]
Schierato con gli ultimi, con i Gianni figli di contadini perennemente bocciati contro i Pierini figli della borghesia, con la classe operaia e con gli obiettori di coscienza contro i benpensanti e il clero: negli anni della guerra fredda, del patto tra DC e Chiesa cattolica, dell’isolamento dei comunisti, questa volontà di schierarsi Don Lorenzo Milani l’aveva ben pagata, sin da quando venne «esiliato» nel 1954 dalla curia in una parrocchia dell’Appennino in stato di abbandono e in via di chiusura, per una campagna di diffamazione condotta contro quel prete scomodo, che nella sua opera pastorale faceva scuola agli operai e tuonava contro l’ingiustizia sociale; e ancora, dieci anni dopo, quando venne addirittura processato per aver risposto con una lettera pubblica agli insulti dei cappellani militari contro gli obiettori di coscienza. [3]
Ma il giudizio di Pasolini sul libro di Barbiana presenta una complessità che non può essere attribuita solo alla simpatia per la trasgressione e il contenuto antiborghese dell’esperienza
donmilaniana: attraverso quel giudizio è possibile ricostruire e tessere i fili di un confronto proficuo tra due maestri, due pedagoghi della società italiana, un parallelismo che affonda le radici nell’analogia di alcune scelte biografiche e si dipana attraverso la passione per il ruolo dell’educazione, praticata da entrambi in modi alternativi e anticonvenzionali, e attraverso l’intransigenza critica testimoniata dai due nel primo come nell’ultimo degli scritti e degli interventi, anche a prezzo di trovarsi sempre esclusi e posizionati al confine dell’utopia.

Pedagogia, metodo didattico e importanza della lingua
L’insegnante [...] deve svegliare nell’alunno la coscienza dell’intelligenza; da qui nascerà la voglia di studiare. [...] Bisogna provocare la curiosità, poi qualsiasi obiettivo è buono, la costruzione del verbo videor come il rapporto tra i sessi, l’ a priori di kant come le ballerine del varietà. [4]

[...] è facile intuire quale dovrebbe essere la funzione dell’educatore– insegnante: dovrebbe essere un lavoro di liberazione e depurazione (ecco perché è assurda l’obbligatorietà dell’insegnamento religioso: la religione è una conquista non un acquisto) in seguito a cui venga riprovocata nell’impube la sua vera natura, ripercorrendo a rebours le cristallizzazioni dell’autorità.[5]

L’importanza di dare spazio alla curiosità e all’inventiva, alla relazione educativa tra maestro e allievo intrisa di amore, ma anche di rispetto per la sua intelligenza, era la cifra che Pier Paolo Pasolini riconosceva come propria di un maestro: la passione del rapporto che rivitalizza l’insegnamento e rende la scoperta di una poesia fonte di felicità [6], nasceva e si alimentava della profonda convinzione, politica, che il privilegio di classe (così come il principio di autorità) andasse infranto nel rapporto con gli allievi di classe sociale inferiore. Non ancora sedotto dal sottoproletariato, nell’esperienza friulana il giovane maestro Pasolini sentiva l’importanza della reciprocità come veicolo di insegnamento: condivisione di vita con i ragazzi, a cui non solo insegnava la grammatica ma con cui giocava al calcio, e ai cui occhi appariva giovane e soprattutto “povero” come loro.
[...]
La stessa condivisione di destini e marginalità legava ineffetti il prete Don Milani ai suoi allievi di Barbiana. Anche il priore, come tutti i grandi educatori, non sceglie un metodo teoricamente accreditato: ha alcune idee chiare e sperimenta; se si può parlare di metodo si deve dire che il suo è la ricerca costante di soluzioni di lavoro insieme collettive ed individuali, basate sul dialogo, il confronto quotidiano e l’aiuto reciproco.

La pedagogia così com’è io forse la leverei. [. . . ] Poi forse si scoprirà che ha da dirci una cosa sola. Che i ragazzi son tutti diversi, son diversi i momenti storici e ogni momento dello stesso ragazzo, son diversi i paesi, gli ambienti, le famiglie. Allora di tutto il libro basterebbe una paginetta [... ] A Barbiana non passava giorno che non si entrasse in problemi pedagogici. Ma non con questo nome. Per noi avevano sempre il nome di un ragazzo. [7]
La pedagogia di Don Milani è una pedagogia della cooperazione che mira ad educare gli alunni sul piano civico, tramite la conquista della lingua, la presa di coscienza della propria sovranità e la responsabilità nei confronti del prossimo più debole. Una scuola senza orari, compresa la domenica. E per non scambiare mezzi e finalità, Lettera a una professoressa dichiara apertamente il fine di questa scuola, che salva i ragazzi dall’alternativa di ripulire dal letame le stalle: una scuola “schierata” socialmente con i diseredati, gli oppressi e gli ultimi in nome dell’eguaglianza.

Non diversamente Pasolini aveva scritto:

la critica dovrebbe essere la prima cosa da coltivare in un ragazzo, anche se questo dovesse costare la caduta di un’infinità di idoli: primo idolo da far cadere è l’insegnante stesso. [8]

Testo tratto da Annamaria Palmieri, Maestri di scuola, maestri di pensiero
La scuola tra letteratura e vita nella seconda metà del Novecento: Pasolini,
Sciascia, Mastronardi,
Aracne, Ariccia, 2015.

Note
1. L''intervento è reperibile nel documentario “Don Lorenzo Milani e la sua scuola”,   in  Viaggio nella lingua italiana—Scrittori non si nasce , a cura di Tullio De Mauro, Giorgio Pecorini, Brunella Toscani, EMI, 1979. Si tratta di un documentario realizzato dalla Radio televisione della Svizzera italiana, poi pubblicato nella collana “Documenti. Voci, volti, memoria”.
2. da Progetto Lorenzo, Centro Documentazione Don Lorenzo Milani, Scuola di Barbiana, 1998.
3. Don L. Milani, “Lettera ai cappellani militari” in L’obbedienza non è una virtù, Editrice fiorentina, 1996.
4. “Scolari e libri di testo”, in P.P. Pasolini, Un paese di temporali e primule, Guanda, Parma, 2001., p. 270.
5. P.P. Pasolini, “Scuola senza feticci”, in Un paese di temporali e primule, cit., p. 277–278.
6. «Noi ricordiamo ancora con piacere la felicità di alcuni nostri scolari (dai dieci ai tredici anni) allorché leggemmo loro Il capitano di Ungaretti: la felicità consisteva nel meccanismo voluttuoso della scoperta. Si trattava insomma di scostare i fili d’erba per spiarvi l’insetto misterioso. Quando io scostai le difficoltà non fantastiche ma logiche, ed essi, dietro le parole difficili, lessero una storia, una leggenda, si ebbero il batticuore, l’interesse, l’impegno». Da “Scolari e libri di testo”, cit., p. 272.
7. Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, parte III, in Storia d’Italia Einaudi, p.101.
8. P.P. Pasolini, “Scuola senza feticci”, cit., p. 27

M. LUZI, Una viva attesa





Era una viva attesa che raggiava
in te paura e tremito ed in me
sensibile delizia d'inoltrarmi
fra gli alberi, di bere alle fontane.
Il barbaglio delle acque vaghe, il cielo.
le ombre quiete nell'aria animata,
anche il vento moveva in me il sorriso...

Mario Luzi, da Quaderno Gotico, 1947

UNA STORIA ISLAMICA DELLE CROCIATE



Paul M. Cobb, nel suo "La conquista del Paradiso" traccia una panoramica delle Crociate e del mondo arabo tra l’XI e il XV secolo, rivelando come già allora il jihad fosse soprattutto una carta a disposizione della politica.
Vermondo Brugnatelli
Giochi di alleanze tra Islam e Cristiani
All’epoca del feroce Saladino, quando Riccardo Cuor di Leone ottenne il permesso per i cristiani di circolare liberamente a Gerusalemme, i due eserciti – stabilita la tregua – «fraternizzarono, forse durante un banchetto». Lo si apprende, insieme a molti altri fatti d’arme, scenari geopolitici e aneddoti interessanti, dalla vivida descrizione di Paul M. Cobb nel suo volume La conquista del Paradiso Una storia islamica delle Crociate (traduzione di Chiara Veltri, Einaudi, pp. 367, euro 32,00), che disegna un vasto panorama di storia del mondo arabo nel medioevo, prendendo in considerazione un buon mezzo millennio di storia, dall’XI° al XV° secolo.
Per Cobb, che non si limita a tracciare una semplice «storia delle crociate», è importante partire dal contesto generale del confronto-scontro in atto per molti secoli tra il mondo islamico e quello cristiano, fin dalla prima espansione araba nel VII° secolo. Dopo la fase iniziale che vide un ampliamento quasi travolgente dei territori della «Casa dell’Islam», le conquiste musulmane presero a rallentare, a segnare il passo, e fu proprio intorno al mille che cominciò, su più fronti, una lenta ma sensibile «riconquista» delle posizioni perdute da parte del mondo cristiano, sia nella penisola iberica (al-Andalus), sia in Sicila, sia, infine, nelle regioni prossime all’Anatolia che un tempo era stata bizantina. Le «crociate» vere e proprie, dal punto di vista del mondo islamico, non furono che una fase di questa offensiva generale su più fronti da parte dei sovrani cristiani.
È una storia molto dettagliata e basata su un saldo impianto di fonti di prima mano quella che l’autore tratteggia nei nove capitoli del suo lavoro, permettendo di apprendere un gran numero di informazioni sulle dinamiche interne al fronte musulmano che, lungi dal costituire un’entità compatta vedeva invece interagire numerosi attori, divisi per stirpe, lingua, fazione religiosa, alleanze politico-militari. Le conquiste e le perdite di territori, appaiono così inquadrate in una prospettiva ben più approfondita di quanto apparirebbe dalla sola elencazione delle battaglie e dei nomi dei guerrieri che vi parteciparono. Dal punto di vista etnico-linguistico, accanto agli arabi – ormai in netto declino, col tramonto del califfato iniziato ben prima del sacco di Baghdad del 1258 – compaiono sullo scacchiere popolazioni e dinastie turche di varia origine (selgiuchidi, turcomanni, kipcapi, ottomani), ma anche curdi, iranici, corasmi, georgiani, armeni, berberi, mongoli… Mentre dal punto di vista religioso si sovrapponeva il frazionamento tra sunnismo, sciismo, le diverse sette sciite, nonché i cristiani di varia obbedienza.
Lo sviluppo degli eventi era dettato principalmente da un gioco di alleanze che ben poco avevano a che vedere con una guerra di religione. Seguendo il filo della storia colpisce come fosse tutt’altro che raro il caso di alleanze tra cristiani e musulmani di una fazione contro i musulmani di un’altra. Così pure erano frequenti i cambi di fronte repentini, come quello del selgiuchide Ridwan di Aleppo che per qualche tempo fece invocare nelle moschee i nomi dei califfi fatimidi (sciiti), salvo poi tornare, dopo poche settimane, a invocare il nome del califfo abbaside (sunnita) e del suo sultano Barkiyaruq.
Chi oggi non si capacita di come la diplomazia e le pressioni internazionali non riescano a venire a capo del ginepraio siriano potrebbe trarre da questo libro alcune lezioni interessanti su come, nel complesso, da secoli a questa parte, questi territori siano al centro di contese tra un incredibile numero di attori, piccoli e medi potentati locali, non di rado mossi da forze esterne alla regione. Anche allora, infatti, sullo sfondo agivano, come ispiratrici o a volte con interventi diretti, potenze ai margini della frontiera: non solo i cristiani d’Europa, Bizantini o Franchi, ma anche, per esempio, la terribile setta sciita dei nizariti (i famosi «assassini»), che agivano in Siria e in Mesopotamia, ricevendo direttive dalla fortezza iranica di Alamut, o l’impero mongolo, entrato di prepotenza nella regione e fermato solo dai mamelucchi di Baybars.
Paul M. Cobb non si limita ai dati evenemenziali delle guerre e delle paci, ma indaga e espone con chiarezza anche i molti aspetti economici e commerciali che sottostavano alle politiche dei vari governanti, obbedienti soprattutto a queste logiche, facendo uso della giustificazione religiosa solo saltuariamente e perlopiù in chiave opportunistica, quando occorreva rinsaldare le proprie forze con alleanze altrimenti labili o problematiche; ma avendo sempre presente l’opportunità di mantenere per quanto possibile rapporti di buon vicinato con tutti, indipendentemente dalla fede religiosa dei governanti.
Già allora il jihad era più una carta a disposizione della politica che un reale impegno morale. Dei tre grandi condottieri passati alla storia per avere fermato e respinto i regni crociati, Nur ad-Din, Saladino e Baybars, il secondo è forse il più noto per aver legato la sua fama alla guerra ai cristiani, ma dalla ricostruzione di Cobb si ricava come la maggior parte del suo sforzo bellico sia stata profusa nel combattere rivali del campo islamico, e come il suo jihad contro i cristiani sia stato più che altro frutto di un tentativo di rifarsi un’immagine di buon governante musulmano dopo le spietate campagne fratricide con cui si era assicurato il potere.
Lo stile del racconto di Cobb invoglia il lettore a seguire con interesse le vicende che descrive, nonostante non sia sempre facile districarsi nella loro complessità. Appartiene a questo stile anche il ricorso a alcune allusioni che, pensate per un pubblico di cultura anglofona, possono risultare poco perspicue per il lettore italiano. Per esempio, parlando degli eventi del 1066 nel corso della conquista normanna della Sicilia, l’autore lascia cadere, di passaggio «mentre i familiari di Ruggero e Roberto in Normandia erano occupati ad invadere un altro regno insulare…»: per quanto scolpita nelle menti di qualunque scolaro del mondo anglosassone, la battaglia di Hastings che sanzionò la conquista normanna dell’Inghilterra a opera di Guglielmo il Conquistatore è una nozione decisamente meno presente a quelli del nostro paese.
Alla traduzione, nel complesso molto buona, nuocciono purtroppo un certo numero di scivoloni, malapropismi e rese poco felici del senso originale, che sono statisticamente quasi inevitabili in un lavoro di tale mole, ma quando compaiono, qua e là, possono rendere problematica la comprensione. Il lettore si domanderà, ad esempio per quale motivo gli Almoravidi, in arabo al-Murâbitûn, avrebbero dovuto chiamarsi «trattatevi con pazienza tra di voi», mentre il senso del termine, reso in inglese con «those who fight together», è «coloro che combattono strettamente uniti». Un merito notevole del libro, rivendicato con fierezza dall’autore, è l’ampio ricorso alle fonti arabe, spesso ignorate dagli storici occidentali o conosciute solo tramite traduzioni invecchiate e non sempre affidabili.

Da questo punto di vista, giova ricordare che il pubblico italiano gode di un enorme vantaggio avendo a disposizione, fin dagli anni cinquanta, eccellenti traduzioni di numerosi fonti islamiche sulle crociate da parte di un arabista della statura di Francesco Gabrieli. Il suo volume Storici arabi delle Crociate è un classico, tuttora reperibile grazie a continue ristampe, e la sua lettura arricchirebbe, con la vivacità delle descrizioni di prima mano degli autori arabi, molti dettagli del panorama tracciato con precisione accademica dall’autore statunitense.
«I lettori moderni potrebbero trarre altre lezioni da una storia islamica delle crociate»: questa affermazione racchiusa nell’ «epilogo» del libro non è una frase di circostanza. La sua lettura infatti, oltre a far conoscere le vicende passate di queste terre martoriate, permette di scoprire come le stesse vicende venivano vissute dagli appartenenti ai due campi rivali, e consente di meditare sulle sconcertanti analogie che molti fatti di allora presentano con la cronaca odierna, individuando alcune costanti tuttora presenti nella realtà geopolitica e nella mentalità generale. Molti schemi e preconcetti diffusi presso chi ignora questa storia si ridimensionerebbero o sparirebbero. Historia magistra vitae dicevano gli antichi. Forse non avevano tutti i torti.

Il manifesto – 19 giugno 2016

28 giugno 2016

LAURA ANELLO, La Sicilia non profuma più


All’origine del fenomeno la massiccia cementificazione e la scarsa redditività

Aranci, limoni e mandarini. La Sicilia non profuma più 

Laura Anello

Sono il manifesto estetico della Sicilia, il profumo sensuale vagheggiato da poeti e viaggiatori, il luccichio tra i rami evocato da pittori e romanzieri, il vanto dei sollazzi arabi. Fecondi, gravidi di succo, luminosi. Gli agrumi. «Le arance dell’Isola sono simili a fiamme brillanti tra rami di smeraldo, e i limoni riflettono il pallore di un amante che ha trascorso la notte in lacrime per il dolore della lontananza», scrive nel 1160 il poeta siculo-arabo Abd ar-Rahman. «Splendon tra le brune foglie arance d’oro», gli fa eco sette secoli dopo Goethe, uno che si era innamorato dell’aria di quaggiù tanto da dire che l’Italia, senza la Sicilia, «non lascia alcuna immagine nell’anima».
Peccato che le distese di alberi fitti stiano scomparendo drammaticamente. Secondo i dati Istat, ripresi da Coldiretti, negli ultimi 15 anni si è volatilizzato il 50% dei limoni, il 31 % degli aranci e il 18 % dei mandarini. In totale, un terzo dei terreni. Al posto degli agrumeti, distese di cemento, parchi eolici o fotovoltaici, o alberi abbandonati dai contadini che hanno gettato la zappa alle ortiche. Strangolati da compensi da fame: nel 2016, annus horribilis delle arance (colpevole anche il clima asciutto che ha ridotto le dimensioni dei frutti e il tristeza virus che ha attaccato le piante), le industrie di trasformazione hanno pagato ai coltivatori solo dieci centesimi al chilo. Chi ha comprato il prodotto fresco, per lo più catene della grande distribuzione, non è andato sopra i 30 centesimi, 40 al massimo.
Allarme allora. Allarme rosso. Tanto da convincere il Fai a dedicare a questo tema parte della quinta edizione della manifestazione AgruMi che si svolge oggi e domani a Milano, a Villa Necchi, con la consulenza scientifica di Giuseppe Barbera, docente dell’Università di Palermo e studioso del paesaggio mediterraneo. Già, l’Sos parte dal Nord. Da quel Nord che paga un bicchiere di spremuta anche 5 euro - la stessa che per un coltivatore siciliano vale 3 centesimi - da quel Nord che vede negli agrumi siciliani un miraggio del caldo, dorato, vitaminico, mediterraneo Sud. «Si incontreranno le Università siciliane - spiega Barbera - i centri di ricerca, il distretto agrumicolo che riunisce le principali imprese della filiera regionale, i responsabili dei grandi mercati del Nord Italia. Bisogna comprendere che gli agrumi non producono solo frutti ma che costituiscono l’anima del paesaggio siciliano».
Un’anima minacciata dall’avanzata del cemento, da politiche comunitarie più vocate al sussidio che all’intervento strutturale, ma soprattutto dalla concorrenza estera: alla Spagna, pure patria storica degli agrumi, si aggiungono oggi Tunisia, Marocco, Turchia, forti di costi di produzione bassissima. Allora addio. Addio alle lumìe di Pirandello, ai limoni dipinti da Renato Guttuso, allo stupore di Stendhal, la cui sindrome per la bellezza sembrava arrivare anche dagli agrumeti. «Esiste davvero un Paese dove alberi così meravigliosi crescono in piena terra?», si chiedeva, lui abituato a vederli d’inverno dentro una serra.
L’unica risposta possibile sembra la qualità. Che fa rima con tipicità. «Stiamo lavorando per collegare sempre più strettamente le produzioni ai nostri territori - spiega Federica Argentati, presidente del distretto Agrumi di Sicilia, che raccoglie i produttori - valorizzando le produzioni di eccellenza, cioè i prodotti Igp, quelli Dop, le coltivazioni biologiche che rappresentano ormai il 40% del totale. Vogliamo puntare sul brand degli agrumi di Sicilia. C’è l’arancia rossa, quella di Ribera, il limone di Siracusa, il limone Interdonato di Messina, il mandarino tardivo di Ciaculli, il limone dell’Etna. Ogni frutto una storia, una peculiarità, un metodo di coltivazione, un paesaggio». Strada in salita, ma almeno in buona compagnia se c’è chi - come Pinella Costa, presidente dell’Associazione Gusto di Campagna - lavora su agricoltura e turismo proponendo itinerari che hanno come tappe consorzi, ristoratori, artigiani.
Di sicuro chi oggi a Palermo cerca la mitica Conca d’oro si vedrà indicare un centro commerciale. Della distesa di arance intorno alla città è rimasto solo il nome.

La Stampa 02/04/2016

I FUOCHI DI SAN GIOVANNI


Martedì 28 giugno, alle ore 16.30, a Villa Groppallo, via Aurelia 72, Vado L. , verrà presentato “I fuochi di San Giovanni” di Giorgio Amico. Ne anticipiamo parte dell'introduzione.

Una notte cara ai poeti


“Tersa per chiari fuochi
festosi, la notte odora
acre, di sugheri arsi
e di fumo”.

Sono versi di Giorgio Caproni. Festa del fuoco e dell'acqua, la notte di San Giovanni è da sempre cara ai poeti che ne hanno cantato il prepotente simbolismo luminoso:

“Son Juon nou tup i quiar e pohuen sierne:
Beliere, arlusi, fiour di quiar, luzerne“.

[San Giovanni ci spegne la luce e possiamo scegliere: fuochi notturni, lampi, fiori di luce, lucciole]

Così Antonio Bodrero, poeta occitano delle valli cuneesi, esalta il carattere solstiziale della festa collocata nel momento in cui il sole [la luce] lentamente inizia a declinare sulla linea dell'orizzonte.

“Questo lungo giorno,
al sol che gioca tra i Gemelli e il Granchio”

scrive ancora Bodrero in un'altra poesia, questa volta in italiano, sempre dedicata a San Giovanni Battista, in cui con poetica precisione individua le caratteristiche astronomiche e astrologiche della festa.

Un lungo giorno, seguito dalla notte più corta dell'anno, quella in cui «ci sono più falò che stelle», la più magica delle notti, in cui il tempo è sospeso e davvero tutto può accadere. Lo sapeva bene Shakespeare, attivo partecipante dei circoli esoterici e rosacruciani dell'Inghilterra elisabettiana, che vi ambientò Sogno di una notte di mezza estate, una delle sue commedie più belle e più complesse quanto a riferimenti simbolici.

Festa dai mille volti, solare e lunare, della luce e delle tenebre, nata con l'agricoltura ai primordi della società umana, da tempo immemorabile la festa di San Giovanni si inserisce nel ciclo delle stagioni e dei lavori dei campi. Piena ancora di echi pagani, la celebrazione cristiana dei due San Giovanni riprende il mito antichissimo del Dio che nasce al Solstizio d'inverno per morire una volta raccolte le messi al Solstizio d'estate. (...)

Inizio di un ciclo cosmico, momento magico in cui il tempo è sospeso, in quella notte gli elementi della natura acquistano poteri del tutto straordinari e prodigiosi. L’acqua, il fuoco, le erbe diventano veicolo di operazioni magiche. Il fuoco dei falò rende puri i campi e i vigneti, feconda gli animali domestici e le giovani coppie che ne attraversano le braci o ne saltano le fiamme. Certe erbe, intrise della magica rugiada di quella notte, acquisiscono il potere di proteggere la casa da ogni influenza negativa e dai malefici delle streghe, oltre che arrecare prosperità e gioia a chi la abita. In quella notte fatata tutto è davvero possibile. Ce lo ricorda la gioiosa canzone di Oberon, il Re della Fate, che chiude la commedia scespiriana (…).

Tutti questi elementi li troviamo presenti nella festa di San Giovanni ad esaltare il fluire eterno e multiforme della vita di contro alla vittoria apparente della morte. Tra i moderni un giovanissimo Giorgio Caproni alle sue prime prove poetiche ne ha saputo meglio di tutti trasmettere in una manciata di versi di grande freschezza la spontanea e innocente carica erotica:

“Voci e canzoni cancella
la brezza: fra poco il fuoco
si spenge. Ma io sento ancora
fresco sulla mia pelle il vento
d'una fanciulla passatami a fianco
di corsa”.

Giorgio Amico

da http://cedocsv.blogspot.it/2016/06/i-fuochi-di-san-giovanni.html

27 giugno 2016

LA FRATERNITA' SOLARE DI MARIANGELA GUALTIERI









Su cosa cresce questo giugno
col suo ricco frutteto
e quei succhi dolcissimi?
...
Versi di M. Gualtieri

Una ragazza persiana spiega cosa fa invecchiare...



Le persone non invecchiano piano piano.
Le persone invecchiano con uno sguardo,
con una chiamata,
con un non posso,
con un devo andare,
con un mi dispiace.
Non sono gli attimi ad invecchiare le persone,
sono le persone che fanno invecchiare le persone.


Jasmin Efte, in Alba Persiana

M. RECALCATI, Il fascino perduto del corpo nudo




Massimo Recalcati

Il fascino perduto del corpo nudo ai tempi del porno


Se il tabù definisce una zona proibita, inaccessibile, impossibile da violare è perché solamente dove esiste senso della Legge può esistere senso del tabù. Il corpo animale è privo di tabù. Innanzitutto di quello che ha per secoli dominato la vita individuale e collettiva dell’Occidente, quello della nudità. Il corpo animale è sempre nudo; non ha senso del pudore, né della vergogna. La nudità è per lui una condizione naturale e l’istinto la bussola che orienta senza incertezze la sua vita. Diversamente da quello dell’uomo il suo corpo non deve rispondere all’esigenza, socialmente condivisa, di ricoprire la nudità.

È il corpo umano, che è assoggettato all’imperativo di ricoprirsi, abbigliarsi, vestirsi. È una delle condizioni basiche che definiscono il processo di umanizzazione della vita: non si può andare nudi per strada. L’”annientamento dell’animale”, il suo “sacrificio” – come direbbe Kojève lettore di Hegel – , traccia il cammino della vita che diviene umana. Sono i corpi di Adamo ed Eva che il Dio biblico ricopre di pelli con un gesto di tenerezza estrema dopo averli scacciati dal giardino terrestre. Al tempo stesso però, rovesciando i termini della questione, il corpo dell’animale essendo sempre nudo non è mai veramente nudo.

Se la nudità è qualcosa a cui si può giungere solo dopo una svestizione, se la sua manifestazione implica la caduta dei veli, allora il corpo animale non può incontrare mai il senso più profondo della nudità. Per questo nel mondo animale esiste una vita sessuale, ma non può esistere alcuna forma di erotismo. L’erotizzazione del corpo necessita la sua velatura. Il desiderio per accendersi esige una distanza, una lontananza dal suo oggetto. È quello che distingue l’immagine erotica – che è sempre almeno un po’ vestita – da quella brutalmente pornografica – che riproduce in primo piano la meccanica degli organi genitali. Il desiderio erotico non si mobilita dalla vista della nudità, ma solo dalla nudità intravista. È necessario che il corpo sia un po’ coperto per poter apparire davvero nudo. Un dettaglio scoperto del corpo è più attraente che la vista di un corpo nudo nella sua interezza.

Il nudismo è totalmente privo di erotismo. Persegue illusoriamente un naturalismo che vorrebbe poter animalizzare l’uomo dimenticando che l’abito del linguaggio non è un abito che l’essere umano può togliere o mettere a suo piacimento. Il senso dell’osceno non scaturisce dall’erotismo – non c’è alcuna oscenità nella vita erotica –, ma nel corpo che vorrebbe manifestarsi come corpo nudo, libero dal linguaggio, corpo naturale. È quello che ritroviamo nel dipinto di Gustave Courbet L’origine del mondo dove appare un corpo anonimo di donna a gambe spalancate che mostra il proprio sesso senza alcun velo.

L’ideologia nudista non si accorge che nel nostro tempo l’oscenità non deriva più da una cultura repressiva che rende il corpo nudo un tabù, ma da un eccesso di nudità del corpo che rischia di estinguere lo slancio erotico del desiderio. È una constatazione facilmente condivisa: il nudo è divenuto un oggetto troppo prossimo per suscitare il desiderio. È il paradosso del tabù della nudità: quando il corpo nudo vuole essere nudo non è più un corpo nudo, ma solo una vita nuda, o, come direbbe Agamben, una “nuda vita”. Ne abbiamo una conferma in questa stagione dove le spiagge si popolano di corpi svestiti.

Che cosa troviamo veramente osceno? Non certo l’erotismo o la bellezza del corpo, quanto piuttosto la presenza del corpo brutto, sgraziato, che, senza cura e senza alcun velo, si mostra placidamente perduto nella sua nuda vita: dormire, mangiare, sudare, esporsi al sole, bagnarsi nel mare. È quello che accade assai più traumaticamente negli ospedali dove la malattia strazia, aggredisce i corpi denudandoli senza pietà. Qui la vita, diversamente che nella routine confortevole della spiaggia, è davvero drammaticamente nuda. Come accade nell’atrocità della guerra quando la sua violenza “sveste” brutalmente i corpi: viscere scoperte, ferite, mutilazioni.

Il corpo è davvero osceno quando diviene un presagio di morte. È quello che Schindler’s List di Spielberg ci ha mostrato nell’ammucchiata caotica dei corpi degli ebrei nei campi di sterminio spogliati e sospinti a forza verso il forno crematorio. Corpi che offrono il senso più radicale della nudità come inermità, vulnerabilità, passività, assenza di protezione; esposti inesorabilmente alla morte. Non è forse questo reale innominabile – quello della morte – che il sesso scoperto de L’origine del mondo di Courbet vorrebbe ricoprire?

È quello che insegna un racconto di Lacan che un giorno ritornando dalla sua casa di campagna di Guitrancourt verso Parigi incontra, in una strada solitaria, verso sera, un coniglio cieco che staglia la sua sagoma sullo sfondo del tramonto e che ignaro gli appare senza difese rivolto ai fari dell’automobile in arrivo. Non è qui la nudità erotica ad essere in primo piano, ma quella dell’esistenza, della nuda vita. Un animale ferito, malato, ci appare sempre un po’ più umano. La sua vita non è più la vita piena dell’istinto, ma è vita mutilata, offesa, ferita dal linguaggio come accade per la vita umana. Non siamo tutti simili a conigli ciechi persi su di una strada di campagna e rivolti, smarriti, verso il tramonto?


La Repubblica – 26 giugno 2016

L' ULTIMA INTERVISTA DI LAURA BETTI


“Nuotare e godere nel forse”. Intervista a Laura Betti (Roberto Chiesi)


Roma, 5 giugno 2004
Se André Breton ha scritto di lei, tra l’altro, che è “una leonessa che si oppone alla miseria specifica del nostro tempo rispondendogli con la provocazione e la sfida”, le più belle parole su Laura Betti appartengono probabilmente a Pier Paolo Pasolini: “A trionfare è una ragazza bionda, (…), infante, asessuale e provocante; che è evidentemente fuori dal gioco letterario e politico (è un’attrice, mettiamo), e quindi interviene in quel gioco con la più sfrenata libertà, una libertà addirittura blasfema, scatologica, offensiva, ma intelligente”.
Pasolini l’ha assimilata al suo universo ritraendola come personaggio in alcune sceneggiature non realizzate, scrivendo canzoni e teatro per lei, dirigendola in cinque film e nell’unica sua regia scenica, Orgia. Ma esiste anche una Laura Betti attrice di Fellini, Bellocchio, Téchiné, Taviani, Jancsó, Bertolucci, Amelio, Scola, Straub-Huillet, Breillat. Se la sua lunga, generosa e talvolta impetuosa battaglia per difendere l’opera e la figura di Pasolini in Italia e diffonderle nel mondo, deve ancora essere conosciuta in tutta la sua complessità, il talento espressionista e ironico, aggressivo e dolce, di Laura Betti è visibile nelle immagini che mostrano le sue splendide interpretazioni dei testi pasoliniani come nel ventaglio di maschere che ha arricchito di sfumature segrete e della forza viscerale delle contraddizioni.

Gli attori dotati di una forte personalità creano quasi inevitabilmente l’identità di un personaggio che viene identificato con il loro io reale e spesso si sovrappone prepotentemente ad ogni ruolo che interpretano. Quali rapporti hai con il “personaggio Laura Betti”, come lo vedi dall’esterno? Ti corrisponde, è una maschera, oppure è una figura che t’infastidisce?
M’infastidisce. Adesso m’infastidisce. Perché è una pura creazione di me stessa. È mia. Allora l’avevo inventato per non dare al pubblico, alla gente, alla stampa, niente di mio. Avevo deciso io stessa questa tattica (sorride) e fu una decisione molto imprudente perché si finisce per pagarla, in seguito. Infatti sono rimasta condannata da certe etichette e luoghi comuni che mi rompono l’anima e mi fanno venire i nervi, e molto. Certe etichette che non mi appartengono, però, ormai sono entrate a far parte del mio personaggio.
Me le sento tirare in faccia e ogni tanto mi chiedo: “Ma questo che cosa significa?”. Ed è successo proprio da parte di persone che dovrebbero essere i miei comuni amici, ma non sono poi così amici fino in fondo... Chi lo sapeva molto bene questo, era Pier Paolo. L’aveva capito bene. Infatti l’ha scritto in quel testo per “Vogue”, Necrologio su una certa Laura Betti. Io dicevo sempre che non capiva un cazzo, quindi... Questa è una cosa che adesso mi pesa moltissimo, anche perché a volte vorrei veramente uscirne fuori. Ma il marchio si è talmente cristallizzato...

Come la fama di aggressività...
L’aggressività, sì anche... ma io, per la verità, per chi mi conosce davvero profondamente, realmente, sono molto dolce. Scatto spesso, sì, anche con violenza, ma, in fin dei conti, non ho delle aggressività reali, è tutto inventato. Non ho mai avuto pause nell’inventare il mio personaggio, dalla mattina alla sera. Mi sono inventata anche il vestito. Non avendo i soldi, io non avevo vestiti, però me li sono inventati, una specie di uniforme e via che andavo: un vestito nero col colletto bianco, la calzamaglia, il pullover nero per la scena. Ero tutta costruita, ma da me stessa. Nessuno mi aveva mai messo le mani addosso per costruirmi. Non è mai stato possibile. Me lo sono costruita io, da sola.

È un personaggio che spesso gioca con riferimenti ironici all’infanzia, alla fantasia e alle disinibizioni dell’infanzia, forse perché è l’età in cui traspaiono già le prime forme di sessualità, ma non esistono steccati morali o moralistici...
Forse. La mia infanzia è stata veramente molto drammatica. Ho sempre avuto la tendenza alla risata, a ridere sfacciatamente, alla comicità, a far ridere le persone, ma, anche in quel caso, mentendo. Quando tu fai ridere, c’è qualcosa che nascondi. Quasi sempre. Sì, è vero che esiste in me una dominante anarchica (sorride) molto forte, di cui io non mi sono mai resa veramente conto. Infatti ho perfino ceduto al fanatismo del pugno alzato, PCI PCI PCI... Macché PCI! (sorride). Sì, è vero che traspariva una componente di godimento infantile, senza freni... Insomma, per la verità, c’è sempre stata in me una percentuale di anarchia enorme, ma queste cose non è che le approfondisci, le passi al volo, le vivi così, alla giornata... Per questi motivi, forse, mi è sempre stato così necessario recitare, perché quando reciti, scopri i momenti di abbandono del personaggio, diventi l’altro ed è la cosa più comoda... Perché stare sempre a scavare al fondo di se stessi, a sondare fino in fondo quella che sei, non è facile.

Nel tuo personaggio esisteva sempre una componente maliziosa molto vivace, la trasgressione di rovesciare tutti i luoghi comuni del rapporto uomo-donna...
Sì, il rapporto uomo-donna l’ho rivoltato e squadernato in lungo e in largo, senza scrupoli... sarà forse anche per Pier Paolo, perché mi rendevo conto dell’impossibilità di avere un rapporto normale con chiunque, finché c’era Pier Paolo. Me ne rendevo conto perfettamente. Perché non potevo neanche prendere in considerazione il fatto di avere una reale storia con Pier Paolo, no, mi faceva in qualche modo orrore. La sua omosessualità mi dava un disagio interiore che... un senso di grande disagio. Infatti anche quando andavamo al mare, le nostre corse al mare, io avevo sempre terrore di queste corse al mare... cercavo di non farle, le facevo, ma insomma...

Il tuo personaggio era fuori da ogni schema: non eri una vamp, ma giocavi con alcuni stereotipi della vamp, univi la seduzione e un’ironia che poteva essere giocosa e cattiva, una fantasia follemente carnevalesca, ma, al tempo stesso, rivelavi spesso un temperamento tragico, una malinconia più nascosta...
Sì, non c’era nessuna come me (ride). La prima volta che Pier Paolo è venuto a casa mia, è rimasto allibito, con gli occhi sbarrati dietro gli occhiali neri, non se ne capacitava...

È stato difficile essere quel personaggio nella società dello spettacolo di allora? Mi riferisco all’anomalia che un’attrice fosse anche autrice di se stessa...
A nessuno era dato saperlo. A quei tempi veniva dato così, ero così e così dovevo essere. Anche se non era vero. Di questa doppia immagine, sempre allo specchio, ne ho un po’ risentito dopo. Avrei voluto, non dico fare marcia indietro, ma almeno riposarmi dal rischio di essere un’altra da me stessa, anche perché rischi di perdere il filo. Non voglio arrivare a Pirandello... ma la domanda “chi sono?” finisce per imporsi alla mente, prima o poi. Questa è una domanda perturbante, ma qualche volta viene.

È una domanda che ritorna spesso nel tuo libro, “Teta veleta”, e in alcune interviste televisive...
Io non lo so davvero. Ignoro molte cose di me. Credo che il Fondo Pasolini mi abbia fatto bene perché mi ha dato un’esperienza di consistenza pratica, mi ha impegnata in modo molto forte. Ho dovuto fare tante cose che non avevo mai fatto, per esempio avere a che fare con le istituzioni. A poco a poco l’asse della mia recitazione si è spostato: dal recitare me stessa in spettacoli o esibizioni mondane, qua e là, mi sono trovata a dovere recitare moltissimo con le istituzioni! E credo di essere stata, in questo senso, bravissima... in Italia, nei primi anni, le istituzioni non ne volevano sapere di Pier Paolo: io le aggiravo e le raggiravo grazie ad una sapiente recitazione. Questo l’ho fatto, mi è tornato anche comodo e mi divertiva molto. E il buonumore è essenziale in queste cose... Ma io ho sempre avuto un ottimo umore... è adesso che non ce l’ho più.

Dicevi che il tuo personaggio è stato segnato dall’incontro con Pasolini, ma esisteva già, era già delineato nella sua identità ben prima...
Io l’avevo delineato all’arrivo a Roma (ride). Avevo già capito che i conti non tornavano. Alcune cose che ho scritto nel mio libro, sono verissime... (ride) avevo capito che era meglio mettere tutto al femminile, la “oma” e le “ome”... piombi da un luogo come Bologna nel centro di Roma dove trovi tutte le frocie d’Italia... era un caos! Io non ho mai capito niente della mia sessualità, di quella degli altri, un casino, ma mi sono lasciata andare... niente è certo, tutto è forse, bisogna nuotare e godere nel forse...

In un mediometraggio televisivo, parli di Bologna tutta chiusa, protetta, e di Roma “divaricata, scosciata”...
Tutta aperta, tutta sfacciata... sì, è bella Roma... come fai a lasciarla? È unica... Ma mi disgusta dal punto vista politico perché mi pare che la città non reagisca più.

Le tue prime esperienze sono state di cantante jazz con Walter Chiari...
Ma anche prima, a Bologna, ho fatto le jam session, con Nunzio Rotondo, un artista di Bologna, un jazzista molto bravo, bravissimo. Ero cresciuta nella cultura jazz, mi piaceva moltissimo, il jazz bianco, avevo i miei modelli e via che andavo, la Sarah Vaughan... La rivista con Walter, I Saltimbanchi, fu molto divertente, aveva un pubblico enorme, enorme, quattro-cinquemila persone come ridere, e mi impressionava. È stata anche la prima volta che ho cominciato a cantare davanti ad un pubblico così vasto. Dietro le quinte, andò malissimo perché io e Aroldo Tieri, ci siamo tirati dei cazzotti in testa, insomma un putiferio... Però è stato anche molto divertente. Io ero molto legata a Julie Robinson e siamo rimaste molto amiche. Stava per sposare Harry Belafonte, era innamorata pazza. Prima aveva avuto una storia con Marlon Brando. Non lei, Marlon Brando si era innamorato di Belafonte. Arrivò a Roma per dire alla Julie che basta, doveva ritornare a New York. Lei non tornò, ma scappò col mio aiuto e per vari pasticci rischiai di andare in galera... Marlon rimase in Italia e abbiamo avuto una storia molto carina, che però non continuò perché di andare a letto con lui e Christian Marquand non mi andava per nulla! Non è il mio genere. Io raccontavo un sacco di balle sulle mie avventure, ma, in realtà, una situazione di sesso a tre, no, neanche per sogno... A pensarci bene, ero tendenzialmente fredda. Ma io non so nulla di me stessa.

E l’esperienza con Luchino Visconti, fu importante?
Sì, ma non poi così tanto, perché ero affascinata e attirata dal canto più che dalla prosa. Mi attirava il fatto che, secondo me, la canzone fosse più difficoltosa del teatro, i recital erano molto impegnativi, molto difficili. Visconti era durissimo, ed era un attore straordinario, riusciva ad interpretare in maniera sublime tutti i ruoli, tutti i personaggi. Ma soffriva molto in quel periodo per suoi problemi sentimentali ed era sempre ubriaco. Mi trattò malissimo, cosa che non gli perdonai, ma, al tempo stesso, rimanemmo molto amici. Mi consigliò di cambiare il mio cognome da “Trombetti” in “Betti” e lo feci.

Nei testi di “Giro a vuoto”, che ebbe quattro edizioni, si ha l’impressione che, pur essendo coinvolte personalità così diverse, ci fosse come un filo unitario...
Sì, perché provenivano dalla stessa esperienza... Fu un’idea mia quella di cantare testi degli scrittori che amavo. Cominciai a chiedere loro i testi e a pensare a questo spettacolo insieme a Filippo Crivelli. È stato il putiferio perché tutti gli scrittori volevano partecipare. Moravia non capiva nulla di metrica... Io gli avevo anche regalato un pallottoliere, niente, non gli veniva. Pier Paolo invece era bravissimo. Le difficoltà con la metrica di Moravia determinarono il coinvolgimento di musicisti contemporanei perché, se no, non se ne sarebbe venuti a capo. Andai alla biennale di Venezia e incontrai Strawinski che mi regalò alcune pagine di battute musicali. Io non avevo capito quanto fossero importanti e credo addirittura di averle perse...

Gli scrittori si ispiravano alle suggestioni che provenivano dal tuo personaggio e dalla tua persona: per alcuni diventavi uno strumento contro il conformismo piccolo -borghese, per altri eri una voce tragica...
Sì, loro si trovavano bene perché gli davo molto materiale umano mio, che fosse falso o vero o creato. La formula consisteva anche nel parlare sempre di me, che invece non ero affatto io... Fortini era stato travolto da me, collaborai a lungo con Fabio Mauri, che era bravo ed era un amico profondo... Flaiano era al di fuori di quel gruppo e lo presi io.

Nel caso di Moravia recitavi un personaggio che discendeva direttamente e ironicamente dalla sua narrativa...
Sì, è vero. La mogliettina annoiata che vuole buttarsi di sotto. Esisteva un rapporto molto preciso con tutti loro. Gli spettacoli di Giro a vuoto vennero anche tradotti, andai a Parigi e New York. A Parigi, André Breton aveva perso la testa. Abitava attaccato al teatro dove recitavo e veniva tutte le sere, facendo schiamazzi tremendi. Io, che non l’avevo riconosciuto, credevo mi stesse prendendo in giro, invece si divertiva follemente! Era una persona deliziosa, me lo ricordo molto bene.

Moravia ti ha definita un’artista che appartiene “alla tradizione dei grandi solitari, dei fantasisti più insoliti”... Ti riconosci in queste parole?
Sì, ero sola. Intanto si è soli perché si è soli e poi ero sola sulle scene. Facemmo un disco con Bruno Maderna dai Sette vizi capitali di Weill/Brecht. Lui creò gli arrangiamenti, bellissimi. Mi affascinava molto il cabaret berlinese e poi le canzoni erano belle, belle. Kurt Weill era un grande musicista. Vittorio De Sica collaborò a Tango Balade. Il rapporto con Bruno era meraviglioso. Eravamo molto amici ed era anche diventato amico di Pier Paolo. Iniziò a scrivere un balletto per Pier Paolo, Vivo e Coscienza, che purtroppo rimase lì, non è andato avanti. Bruno lo conoscevo dai tempi di Milano, era un personaggio molto noto e io andavo da lui di tanto in tanto alla radio. Stava lavorando ad esperimenti di musica dodecafonica. Una persona geniale. Beveva come una spugna e non poteva durare più di quello che è vissuto. Lavorava soltanto di notte. Non ne voleva sapere di lavorare di giorno. Bruno aveva un grande ascendente sui musicisti, lo amavano, lo rispettavano tutti e abbiamo sempre e solo fatto i turni di notte, senza controversie. Il delirio era che queste partiture dovevano essere copiate in fretta e furia e distribuite, così io dovevo galoppare per consegnarle. Era una follia. I musicisti, che erano i migliori sulla piazza, le ricevevano all’ultimo minuto.

Nel 1964 hai recitato e cantato in un altro spettacolo che fece scalpore, “Potentissima signora “...
L’unico difetto di quello spettacolo fu di essere in anticipo sui tempi e sulle mode. Era uno spettacolo molto bello e ci siamo divertiti pazzamente. Avevamo le scene di Lida De Nobili, i pannelli di Schifano, era tutto fuori dal tempo... Non avevamo una lira e si facevano le collette. È rimasta storica la mia richiesta di una sovvenzione a Gianni Agnelli. Gli avevo chiesto, credo, un milione e lui mandò cinquecentomila lire, con tanti auguri ecc. Io gli mandai un foglio a metà: mi hai dato metà di quanto ti avevo chiesto, quindi il testo di ringraziamento è a metà.

Nel teatro di prosa hai recitato con Luca Ronconi nella sua prima messinscena di Giordano Bruno...
Ronconi volle che interpretassi il suo Candelaio e il mio personaggio era molto bello. Ma gli dissi: essendo uno spettacolo con tanti attori, ricordati che pretendo molte prove perché non voglio fare la stella solitaria. L’ho asfissiato, con prove, controprove...
Quando siamo andati in scena, gli ho detto: “Luca, caro, io non ho capito quel che mi hai detto. Scusami, abbi pazienza, ma io stasera cerco di fare quello che posso”. Ho fatto tutt’altra cosa e ho ottenuto un trionfo. Non potevo proprio fare ciò che voleva, non potevo obbedire ad una regia molto tradizionale, d’autorità. Nello stesso periodo interpretavo Orgia perché Pier Paolo diceva che non potevo perdere Ronconi, e io dicevo ma sì lo perdo, è ovvio, come posso fare, hanno le stesse date. Andò a finire che mi divisi tra i due spettacoli.

È vero che, nei primi anni Sessanta, il cinema non ti attraeva?
A me non piaceva un cazzo il cinema, anzi, più che altro non mi interessava. Ero molto presa dal mio teatro, quelle canzoni non erano facili. A me piaceva sempre la battaglia. Per me, il cinema è cominciato con Teorema e dopo non ho più fatto altro.

Ci sono stati tentativi da parte dei registi della commedia italiana di coinvolgerti nei loro film?
No, perché ero sempre stata schedata come l’”intellettuale”, e in quell’ambiente non giocava tanto a favore. Dovevi fare necessariamente ruoli di comica... ma a me non interessava minimamente. La ricotta mi piacque perché era una cosa strana, bizzarra, dove nemmeno una come me poteva ritrovarsi. Però lì ci siamo fermati per anni. Poi sono arrivati gli episodi di Pier Paolo, La terra vista dalla luna, Che cosa sono le nuvole?...

Nella “famiglia” di non attori che appartenevano al cinema di Pasolini come Franco Citti, Mario Cipriani e altri, tu, oltre ad essere l’unica attrice professionista, fin dai primi film hai continuamente cambiato identità e aspetto da una pellicola all’altra. Mentre Ninetto Davoli è sempre Ninetto, il ragazzo furbetto, allegro e innocente; il Franco Citti di “Accattone” e “Mamma Roma”, rimane anch’egli, più o meno, sempre una variante di se stesso, - quando interpreta un diavolo in Canterbury e un demone nel “Fiore delle Mille e una notte” si tratta di variazioni di un’unica identità - e lo stesso discorso vale anche per attori professionisti come Massimo Girotti - che ha sempre impersonato il padre - e Silvana Mangano - la madre/Madonna - invece i tuoi personaggi cambiano continuamente...
È vero, sì, è vero. La verità è che lui non voleva magari ammetterlo, ma di riffa o di raffa, la sola attrice per lui ero io. E giù scenate se per caso io dicevo di no ad una sua proposta. Come è stato per Teorema. Ogni volta, da parte sua, mi giungeva un’idea diversa, una proposta differente dall’altra. Ogni volta mi vedeva in un modo, o in un altro, o in un altro ancora.

Nei testi scritti da Pasolini per le canzoni di “Giro a vuoto”, troviamo la “Ballata del suicidio”, dove la voce femminile, l’io femminile è quella di una “diversa”, è la tragedia della diversità di una donna che ha deciso di uccidersi. In “Cristo al Mandrione”, interpreti un’altra voce di morta, la voce d’oltretomba del cadavere nudo, sporco e abbandonato, di una povera donna; in “Marilyn” sei un io femminile fragile, sfruttato dalla società dello spettacolo; le due prostitute di “Valzer della toppa” e “Macrì Teresa detta Pazzia” potrebbero essere sorelle di “Mamma Roma”: in alcuni testi, i versi derivano o anticipano altre opere pasoliniane, in altri si può avvertire una forma di identificazione tra la tua voce e quella del poeta. Sei d’accordo?
Sì, assolutamente. La cosa che gli piaceva di più era il fatto che non fossi un’attrice di birignao. Non lo sopportava. La mia voce e la mia pronuncia hanno sempre mantenuto delle inflessioni bolognesi, non è che l’ho perso in omaggio all’accademia... Invece in Italie magique diventavo il suo strumento di aggressione contro il colonialismo, il fascismo, Mussolini, Hitler che beffeggiavo in lungo e in largo. Una sera i fascisti si organizzarono per menarmi: quando scesi in platea con una coppa di champagne per recitare uno degli ultimi monologhi, come prevedeva il copione, vidi che mi aspettavano al varco e corsi come una lepre dietro al sipario per sfuggirli.

Aveva un rapporto molto complesso con te come attrice...
Io me ne sono accorta in Teorema. Era molto complesso. Molto denso. Ho anche capito che non era vero, come io pensavo, che lui non facesse dei veri e propri scavi all’interno delle persone. Invece li faceva. Aveva capito come e perché Teorema dovevo farlo soltanto io. Perché c’era un rapporto molto preciso tra me e la terra, che io ignoravo. Io gli dissi di no. Siamo andati avanti a litigare quasi un mese. Lui era incazzato duro. Avrebbe rinunciato al film. Era furioso. Era così convinto. Non lo potevi schiodare da quell’idea. Poi era molto riottoso nel dare spiegazioni. Non voleva spiegarmi. Io gli chiedevo che cazzo c’entrassi con questa serva, con la fronte bassa e le sopracciglia folte... Esistevano delle idee molto chiare al di sotto, nitide e profonde. È stata un’esperienza molto strana. Mi ha molto turbata.

Ad Antonio Bestini, hai detto che Pasolini prendeva gli attori per la loro natura, per la loro realtà...
Sì, Pier Paolo non era affatto un regista. Prova ne sia che in Salò, dove domina un distacco assoluto dalla materia e dai personaggi, per la prima volta affrontava la distanza di una regia vera. Non è mai stato un regista, ma è stato qualcosa di più. Quel di più andava conosciuto...

Nel libro aggiungi anche che negli attori professionisti che hanno recitato con Pasolini, nasceva una forma di resistenza che si traduceva in qualcosa di stridente...
Sì, c’era questa resistenza. C’era perché uno non riusciva a capire quello che voleva. Visto che lui voleva solo ciò che eri dentro, all’interno di te stesso, non era un’esigenza che venisse compresa. Loro non riuscivano a capirlo. Invece era così. Era molto affascinante lavorare con lui, perché si lavorava sull’intelligenza.

In “Teorema” ha usato la forza del silenzio che può avere il tuo volto e il personaggio di Laura Betti spariva completamente, come era sparito nella strana fisionomia del turista de “La terra vista dalla luna”. Per la donna di Bath de “I racconti di Canterbury”, invece, fece ricorso ad alcuni elementi del tuo personaggio, come l’aggressività e il sarcasmo...
Il personaggio de La terra vista dalla luna nasce dal fatto che io da sempre volevo recitare il ruolo di un uomo e quella volta me l’ha fatto fare. Mi piaceva molto fare l’uomo. Non so quante ore di trucco, i peli della barba da attaccarsi, fu molto faticoso, però mi sono molto divertita... Il personaggio della donna di Bath era molto carino, però non c’è più. Peccato. Era talmente bella la parte del pellegrinaggio, il carrozzone dei pellegrini che viaggiano a Canterbury e si raccontano le storie, si fanno i dispetti, non puoi sapere com’era bella, era veramente un film bellissimo... tutto sparito. Fu Alberto Grimaldi che chiese dei tagli, perché il film era troppo lungo, più di due ore e mezza. La parte inventata, selvaggia, barbara, del viaggio con il carrozzone... è andata persa in un allagamento degli stabilimenti della Technicolor. L’ho fatta cercare, ho fatto rivoltare la Technicolor... niente. Era la parte più bella e questo Pier Paolo lo sapeva. Era l’ossatura del film. A me non piace Canterbury.

Beh, soffre di discontinuità, ma il tuo racconto è divertente, così cinico, e alcuni racconti sono molto belli...quelli del frate e dell’indulgenziere...
Mah, il mio non si può giudicare, durava un’ora, disseminato dall’inizio alla fine, un’enormità. Il personaggio era sempre in scena...

Il personaggio di Hélène Surgère in “Salò” avresti dovuto interpretarlo tu?
Sì, doveva esserci anche Ninetto, nella parte del soldatino fascista che ha poi avuto Claudio Troccoli, ma Pier Paolo aveva paura per noi, aveva ricevuto delle minacce e temeva dei pericoli. Non per se stesso, lui non aveva mai paura di nulla. Per noi.

Oltre a “Vivo e Coscienza” esistono altri progetti che non avete potuto realizzare insieme?
Sì, dovevo fare un ruolo perfido, malvagio nel film che avrebbe dovuto girare nell’inverno 1975-76, Porno-teo-kolossal. Poi mi diceva sempre che avrebbe voluto interpretassi Eichmann, vestita da nazista di tutto punto. Voleva anche che scrivessi il testo. Era ormai diventato un ritornello scherzoso, questo su Eichmann...

Dopo aver recitato ne “La dolce vita”, hai dichiarato spesso di non trovarti in sintonia con il metodo felliniano perché trattava gli attori come oggetti...
Non mi trovavo. Ci usava come degli oggetti, mentre con Pier Paolo si era coinvolti in un processo molto più misterioso. Con Federico, era chiaro che eravamo degli oggetti e lui manipolava l’attore in tutti i modi, ma io non mi lasciavo manipolare. Non andavamo d’accordo, non eravamo sulla stessa lunghezza d’onda. Era carino, a me era anche abbastanza simpatico, dico “abbastanza”, ma non del tutto... Non mi piaceva il suo spirito da “Marc’Aurelio”. Non so che cosa non mi piacesse in lui, c’era qualcosa in lui che non mi piaceva. Forse un certo tipo di ironia che usava, ma in realtà non era molto ironico. L’episodio della Dolce vita era nato da un episodio reale, una litigata spaventosa che facemmo io e Marcello a tavola, sotto gli occhi di Federico e Pier Paolo, avvenuta in nome di che, non l’abbiamo mai saputo. Io e Marcello avevamo un ottimo rapporto. Eravamo amici. Scoppiò questa specie di bomba. E a Fellini quella scena piacque pazzamente e la ricreò per il film.

Come fu il rapporto con Rossellini per “Era notte a Roma”?
Rossellini era molto carino. Giovanna Ralli aveva vietato qualsiasi pubblicità sul mio nome. Nella sequenza in cui scendevamo dalla camionetta, io feci una bella mossa: mi sono tirata su tutte le sottane, e così apparvero le cosce. Mi sono guadagnata un applauso a Cannes. Entrai in un magazzino, da cui bisognava uscire di corsa. Arrivata davanti alla porta, Rossellini mi disse: “Laura, prima tu!” La Ralli mi ha dato uno spintone che ancora un po’ mi caccia per terra, ed è uscita prima lei, così si è presa subito il primo piano. (ride) E Sergej Bondarciuk che rideva, rideva. C’è poco da ridere, caro... Rossellini era un uomo molto dolce. Era un regista, un uomo molto paziente.

Dopo “Teorema”, inizia veramente la tua carriera cinematografica. In quello stesso 1968 interpreti “Orgia” e dichiari alla stampa che vuoi lasciare la canzone...
Sì, perché era difficile portare avanti le due cose. La canzone era molto impegnativa. Non ce la facevo. Il teatro non mi interessava tanto, me l’ha fatto fare quel rompicazzo di Luca [Ronconi], perché io volevo fare solo cinema. D’altra parte ero piena di proposte per il cinema, anche perché avevo vinto la Coppa Volpi.

Con Mario Bava hai recitato in due film dell’orrore...
Eravamo molto amici. Ero stata io a pescarlo dopo la Coppa Volpi: “Senta caro, io adesso voglio fare un film con lei”. Lui si è sentito molto lusingato, bene o male. Mi piaceva molto il genere horror e Bava era un uomo molto simpatico. In Reazione a catena, io e Pistilli ci trovavamo nella foresta. Per la verità, della foresta non c’era manco l’ombra, manco n’albero, eravamo su una spiaggia. Mario stava con una frasca in mano e l’agitava davanti alla mdp per simulare, appunto, l’esistenza di una foresta. Noi non riuscivamo a resistere perché scoppiavamo dal ridere... Lui aveva milletrecento espedienti, anche nell’altro film, dove interpretavo il ruolo del fantasma, si era sdraiato per terra, e muoveva la mano velocissima davanti all’obiettivo così sembrava che volassi...

Hai anche accompagnato l’esordio di André Téchiné...
Téchiné è venuto a dormire da me, a Campo de’Fiori, e lì ha finito la sceneggiatura di Paulina s’en va e voleva che la interpretassi. Io avevo i miei dubbi - mi sembrava una gran cagata - però ha tanto e tanto insistito che l’ho interpretata. È stato un insuccesso travolgente... tant’è che alla fine, dopo la presentazione a Venezia, mi ero voltata per sparire quatta quatta, ma c’era Ernesto G. Laura che mi ha impedito di squagliarmela... alla fine della proiezione, un silenzio, un grande silenzio... arrivano dei fiori, delle rose rosse per me e Marie-France Pisier. Il pubblico si volta, ci ha guardato e se n’è andato... Non fu proprio piacevole...

Una forte complicità ti ha unita, in seguito, a Bellocchio per tre film, uno dei quali è una delle tue interpretazioni più belle, più complesse, “Il gabbiano”...
L’incontro con Marco è stato molto importante, mi corrispondeva anche più di Bernardo... quest’anima un po’ russa, che mi stava bene addosso... Il gabbiano è un film bellissimo, ma è stato trattato male da tutti, da Marco per primo, che aveva il problema dell’uscita in Televisione sulla RAI e poi al cinema, e l’ha mollato. Ma senz’altro è uno dei suoi film più belli... il rapporto del mio personaggio col figlio, quando si sbranano, è il cuore del film...

Bertolucci è l’altro autore con cui hai un'intensa complicità...
Totalmente opposto. Marco è un autore che scava dentro, Bernardo ha la necessità di metterti a tuo agio in uno spazio, in una camera. Quando vede che sei a tuo agio, allora può iniziare a girare. Non è una tecnica sbagliata, ma insomma... io mi trovo meglio con Marco, ho più bisogno di andare a fondo... Mi ha tagliato in una breve apparizione in Ultimo tango a Parigi, un cammeo molto carino...

In “Allonsanfan”, i fratelli Taviani hanno valorizzato la dolcezza del tuo temperamento...
Sì, io ero una tata affettuosa, ma anche incestuosa... i Taviani sono due persone squisite. Con Marcello stavo benissimo, mi venivano delle ridarole, mi ricordo che una volta, ridevamo sgangheratamente... ai Taviani non interessava e diedero motore ciak azione: Marcello rimase con tutte le rughe delle risate sulla bocca, tant’è che il truccatore si è avventato sulla scena e gli ha stiracchiato la faccia per fargliela ritornare senza le grinze della risata...

Hai sempre avuto, ancora oggi, un rapporto molto forte con il cinema francese. Per esempio, Jacques Deray ti ha diretta in due film e ha parlato di te con grande ammirazione nelle sue memorie...
Era molto simpatico, abbiamo fatto due film, Un papillon sur l’épaule [titolo italiano Morti sospette] era bello. Lino Ventura era un bellissimo attore. Sul set del precedente film che ho fatto con Jacques, Le Gang, stavo malissimo perché Alain Delon e Deray litigavano di continuo. Era Delon che aveva voluto quel film, era Deray che aveva voluto Delon... insomma, una fatica tremenda, c’era una tensione terribile. Ma con me erano tutti e due molto gentili. Anche Delon era molto gentile: il caldo, quell’estate, era asfissiante e lui, che era anche il produttore, sguinzagliò tutte le sue guardie del corpo per cercare dei ventilatori per la troupe. Finalmente ne ha trovati uno o due e li ha fatti mettere nella mia camera d’albergo. Delon è una persona deliziosa. Deray era molto appassionato di letteratura, leggeva molto, era amico di Flaiano, una persona gradevole. Peccato che litigassero sempre... e sì che avevano fatto molti film assieme, ricordo La piscina che era un bel film...

Hai anche interpretato due film con Jean-Claude Biette, che era stato collaboratore di Pasolini...
Era meraviglioso... lo amavo proprio tanto. Se n’è andato e non capisco proprio... com’ha fatto a morì non lo so... aveva un rapporto bellissimo con Pier Paolo che si fidava di lui per le traduzioni francesi e i dialoghi dei suoi film, ma non sul set: sul set di Edipo re, gli diceva di spostare una massa di figuranti e Biette, con la sua vocina, “Messieurs, s'il vous plaît...” Ma come s'il vous plaît, cacciare un urlo doveva!

Catherine Breillat, oltre ad averti dato un ruolo breve, ma molto bello, in “A mia sorella!”, ti rende anche una sorta di omaggio, mostrando nel film una tua intervista alla televisione...
Catherine è molto brava, molto furba come narratrice: il tono del film sembra molto piatto, ti chiedi “ma dove andiamo a finì, ma dove andiamo a finì”, fino a quando arriva la violenza finale... (ride) Soltanto Catherine può arrivare a delle rotture di tono simili. Ho visto altri film suoi, più belli di questo forse, come Parfait amour! magnifico. La protagonista è un’attrice fantastica.

Due incontri significativi sono stati anche quelli con Miklós Jancsó e Gianni Amelio...
Jancsó è un uomo molto interessante, molto dolce, molto poetico. Lo amavo molto. Lo sentivi inquieto perché non aveva le sue radici qui in Italia. Non stava bene. Il piccolo Archimede è davvero bello. Io ho lavorato molto bene con Gianni, solo che dovevamo salvarlo perché lo volevano menare. Non era un uomo facile. Il film era prodotto dalla RAI con una troupe della RAI che per la prima volta usciva fuori dalla sua routine... Gianni non reggeva: i tecnici della troupe erano tremendi, facevano sempre le pause-panino... Erano impiegati RAI che non rappresentano proprio l’ideale per un film... Lui si arrabbiò violentemente e loro lo volevano menare. Io e un’altra del set facevamo scudo con il nostro corpo per salvarlo, però i rapporti rimasero pessimi. E lui aveva torto: sapeva con chi aveva a che fare, sapeva che razza di troupe fosse... Gli dicevamo di stare tranquillo, non puoi competere con un’intera troupe...
Durante quel mio primo piano alla grata della tomba, quando sto lì aggrappata, per girarlo Gianni aveva bisogno, come me, di una certa concentrazione, e sul più bello quegli animali hanno gridato: “Pausa per il panino!!”

Nel 2002 hai recitato in uno spettacolo curioso, “I cosmonauti russi”, un dramma jazz...
Ah, per quello spettacolo mi sono proprio divertita... ho fatto un affondo di nuovo nel jazz. Abbiamo fatto due o tre repliche al Regio di Torino e all’Auditorium di Roma... una grande orchestra, dei solisti bravissimi... io ero la “stella cattiva”, che “brilla a vostro danno” e dice agli astronauti: “il vostro viaggio vi rende saporiti”...

Postilla
Questa intervista è stata realizzata nella casa di Laura Betti, poco più di un mese prima che morisse. Era molto indebolita nel corpo, ma aveva una volontà irriducibile di fare, progettare, preparare, e anche recitare, che andava oltre le sue condizioni fisiche. Una volontà che non l'ha mai abbandonata. Laura Betti era una donna estrema in tutto, negli amori come negli odi. Come tutte le forti personalità, aveva dei risvolti segreti, preziosi. Era di una dolcezza sorprendente, aveva una generosità straordinaria, un'ironia fantasiosa e inesauribile. Nei suoi ultimi mesi, non so per quale fortuna, io ho potuto conoscere questi aspetti della sua personalità, che mi mancano molto. [R.C.]


Da “Cineforum”, n. 437, agosto-settembre 2004, ora nel blog di Angela Molteni., donde l'ho ripreso togliendo le note.