31 maggio 2019

LEONARDO SCIASCIA RACCONTA LA STORIA DEI FRATI DI MAZZARINO








IL ROMANZO NERO DEI MONACI DI MAZZARINO
di Leonardo Sciascia

Caltanissetta, gennaio 1961
 
Sono stato a Mazzarino due volte. La prima volta, quando ancora lo scandalo dei monaci non era scoppiato, in compagnia di un amico, professore universitario, che appunto nel convento sperava di trovare non so che libri: poiché Mazzarino fu, nel Seicento, un fiorente centro di stampa. Accompagnati da notabili del luogo, entrammo nel convento. Un monaco silenzioso, e forse dalla nostra visita irritato (mi pare, guardando ora le fotografie sui giornali, fosse padre Agrippino), ci aprì una stanza dove i libri stavano ammucchiati come vi fossero stati rovesciati a ceste, a carrettate. Era impossibile dar dentro a quel mucchio: il mio amico aprì un paio di volumi che stavano a portata di mano, la vita di un santo, un breviario; le mani gli si inguantarono di polvere. Uscimmo nel corridoio. C’era una finestra aperta sulla vallata. Una signora che era con noi, che ci aveva accompagnato in macchina, disse: “Che bellezza! Che pace!”, e aggiunse che l’onorevole, nell’ultima sua visita al convento, aveva promesso che vi sarebbe tornato per un suo ritiro spirituale. L’onorevole usa ritirarsi ogni anno a fare esercizi spirituali in un convento. Non c’era bisogno di chiederne il nome: era uno dei più brillanti e inquieti uomini della Democrazia cristiana in Sicilia.
La campagna era davvero molto bella: si intrideva del colore della sera e vibrava di solitudine. Ma, chiusa la finestra, mi parve impossibile che un uomo potesse sentire aleggiare dentro le mura del convento, in quei corridoi e in quelle celle, lo spirito: e quello con la esse maiuscola per di più. Io vi sentivo invece aleggiare il disfacimento della materia: il polveroso disfarsi del legno, della carta; la grommosa lebbra dell’intonaco, la ruggine, la rancida cera, l’infracidire dei tessuti. E, al di là di queste sensazioni fisiche, l’acuta sensazione di un disfacimento morale: quel che è di sordido, di parassitario, di tenebroso in una chiusa comunità maschile. Sensazione che, per la verità, ho sempre provato visitando un convento di monaci.
Tre mesi dopo sono tornato a Mazzarino accompagnando Enrico Emanuelli. Stavolta non sono entrato nel convento: lo scandalo era già esploso, i monaci non ricevevano giornalisti. Abbiamo fatto un giro intorno al convento. Era già notte. Un’atmosfera da Castello di Otranto gravava sul convento e sulla campagna: quei luoghi appartenevano ormai alla più nera letteratura.
Emanuelli è uno dei più scrupolosi giornalisti che io abbia mai conosciuto. Volle conoscere in ogni dettaglio, da persone ben informate, la storia dei monaci. Un familiare di uno dei ricattati ci raccontò un episodio che Emanuelli riferì su La stampa e che Giovanni Ansaldo commentò poi sul Tempo. Ed è davvero il dettaglio più feroce dei terribili avvenimenti di cui sono stati protagonisti i quattro monaci: quello che da solo basterebbe a consumare quel piccolo residuo di giustificazione umana, di compassione, di pietà che solitamente – specie in un paese come il nostro – concediamo ai rei.
Come è noto, la banda fece oggetto dei ricatti due persone anziane che avevano bambini: e appunto li ricattava minacciando la vita dei bambini. Terribile e sottile accorgimento psicologico quello di minacciare un padre anziano nella vita di un bambino, di un figlio che ha appena tre o quattro anni di età. E poiché uno dei padri resisteva al ricatto, un giorno uno dei monaci, incontrandolo insieme al bambino, questo atroce complimento pronunciò – “Quant’è bello! Pare vivo”. – che voleva dire il bambino essere già morto, per il fatto che il padre non pagava il ricatto, e soltanto illusione era il crederlo vivo.
Non so se questo episodio figura negli incarti istruttori, né so quale peso possa avere nel giudizio penale: ma è certamente, nell’umano giudizio sui fatti di Mazzarino, il peso decisivo.
Tenebrose storie di monaci furono di moda nell’Inghilterra del settecento. La leggenda nera, creata intorno ai conventi dalla letteratura dei paesi cattolici, veniva ripresa con furore antipapista dagli inglesi e complicata da incidenze erotico-patologiche. Nacque così, nei conventi cattolici visti con fantasia protestante, il romanzo dell’orrore, il romanzo nero.
Di fronte ai fatti di Mazzarino possiamo dire che ancora una volta la realtà si è adeguata alla fantasia: e che la nera torbida storia dei frati di Mazzarino è, in pieno ventesimo secolo, molto somigliante ai tales of terror del settecento inglese. Ci sono tutti gli ingredienti: il subdolo ricatto, l’omicidio spietato, il fosco erotismo, la allucinata avidità, la pazzia. E in più – quasi a seguire l’evoluzione del “genere”: dal romanzo nero al romanzo giallo – c’è un margine di mistero destinato a durare al di là del processo e della sentenza. Perché a Mazzarino, nessuno sembra convinto che la delittuosa associazione abbia fatto capo al Lo Bartolo, giardiniere del convento morto suicida nelle carceri di Caltanissetta. Il suicidio del Lo Bartolo pare anzi che aggiunga un elemento di concretezza ai vaghi sospetti che evidentemente si agitano nei pensieri – soltanto nei pensieri: e appena tralucono nei discorsi – dei mazzarinesi.
Perché si è suicidato il Lo Bartolo? Perché si è visto perduto o perché temeva di perdere qualche altro?
Ma non si può su dei fatti che sono già abbastanza romanzeschi, costruire romanzesche ipotesi. Questo romanzo nero ha già fatto, indirettamente, un’altra vittima: il giovane Cosimo Cristina che, pubblicando sul suo giornaletto una indicazione, chi sa come raccolta o fantasticata, ebbe querela dal professionista che si riconobbe indicato come capo della gang; e fu condannato; e atrocemente si suicidò.
In effetti la ricerca di un capo, di una mente dirigente, nasce dalla presunzione borghese che un contadino – come in questo caso il Lo Bartolo – non abbia, a dirigere una anonima assassini, più capacità di quanta ne abbia a dirigere un’azienda agricola o commerciale. Paradossalmente, la borghesia rivendica a sé la capacità organizzativa del delinquere associato. E può darsi che sia vero: che, cioè, ogni associazione delittuosa che prosperi in Sicilia abbia un capo sconosciuto, ben mimetizzato nella rispettabilità borghese: ma non si può, per questa presunzione, sistematicamente scartare la possibilità che un contadino, come il Lo Bartolo, abbia tanta astuzia e attitudine da tenere in pugno una organizzazione.
Il vigile urbano Giovanni Stuppia, che è stato il Maigret dei fatti di Mazzarino, esclude che l’inchiesta giudiziaria non sia riuscita a raggiungere il capo: secondo lui, capo della banda era il giardiniere del convento. Si parla, negli atti dell’inchiesta, di un certo “Vincenzo” rimasto ignoto: ma pare sia stato un gregario e non un capo.
Il vigile Stuppia, di cui spesso i carabinieri si avvalevano nelle indagini, cominciò ad avere sospetti sull’attività delittuosa del Lo Bartolo per il fatto che costui, padre di nove figli e sempre in condizioni di ristrettezze economiche, aveva cominciato a fare delle spese: una casa, un pezzo di terreno, dei vitelli, delle pecore. Così pure un giovane amico del Lo Bartolo, certo Azzolina: cronicamente disoccupato, si permetteva il lusso di comprare un radiofonografo-bar e una potente motocicletta.
Questi indizi, all’indomani dell’omicidio del cavaliere Cannada, decisamente aggravati a carico del Lo Bartolo dal fatto che la vedova Cannada ricordava come privo di due dita della mano sinistra uno degli uccisori del marito, e il Lo Bartolo aveva quella mutilazione, portarono al fermo di costui. Ma dopo sette giorni, chissà come e perché, il Lo Bartolo venne rilasciato. E cominciarono i guai di Stuppia: per strada gli sussurravano insulti e minacce, “cornuto”, “sbirro”, “ti ammazzeremo”, e così via, finché non gli spararono, ma non, a quanto pare, con l’intenzione di ammazzarlo (alle gambe: ed anche al cavaliere Cannada pare avessero sparato per dargli una lezione, non per liquidarlo).
Il ferimento di Stuppia portò all’arresto di Azzolina: il quale “cantò”. Il Lo Bartolo scomparve da Mazzarino: e fu arrestato più tardi a Genova; ma appena trasferito nelle carceri di Caltanissetta si impiccò. Più tardi furono arrestati quattro monaci: padre Agrippino (Antonio Jaluna), frate Carmelo (Luigi Galizia), frate Venanzio (Liborio Marotta) e padre Vittorio (Ugo Bonvissuto).
“Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro…”: ma i quattro frati e padri, di cui uno addirittura teologo, si erano ricalzati. Il Procuratore della Repubblica dice che “sarebbe addirittura da ingenui ritenere i religiosi succubi delle minacce dei banditi”: e dunque la loro responsabilità è stata pienamente, e senza attenuanti, accertata. I reati di cui debbono rispondere sono molti: estorsione a danno del signor Francesco Bonanno; assassinio del cavalier Angelo Cannada; estorsione a danno della vedova Cannada; altre estorsioni a danno del dott. Ernesto Colajanni, del signor Giuseppe Bartoli, del padre provinciale dei Cappuccini di Siracusa, del padre Costantino del convento di Caltagirone; e infine tutto un giro di abigeati. Come si vede, non avevano ritegno a spremere soldi anche ai loro superiori e confratelli: ed è strano che costoro abbiano pagato senza fiatare, senza toglierseli dai piedi con un trasferimento da Mazzarino a Rimini (che, in forza di quel che accadde a padre Cristoforo per ben altre ragioni, è la prima città del nord che viene sotto la penna). Ma forse i superiori e i confratelli ricordavano quel che, non molto tempo prima era capitato al vescovo di Agrigento: quasi mortalmente impiombato da un monaco della Quisquina che, appunto, si sentiva minacciato di trasferimento. E c’è da dire, manzonianamente ancora, che uno il coraggio non se lo può dare.
In questa terribile vicenda se ne inserisce un’altra, non sappiamo precisamente con quali collegamenti, che ha per protagonisti un altro frate o padre (diceva messa: e dunque era un padre, anche se i giornali lo chiamano frate) Benigno, al secolo Giuseppe Occhipinti, e certa Pasqualina Tasca, assistente ecclesiastica: Il Procuratore della Repubblica Lamia la definisce “vicenda amorosa di sapore boccaccesco sulla quale sarebbe di cattivo gusto indugiare nella narrazione”. Ma i giornalisti non hanno il buon gusto del dottor Lamia (e, confesso, nemmeno io); e si sono dati alla ricerca delle lettere che padre Benigno scriveva alla Pasqualina: o perlomeno di quei brani la cui pubblicazione non faccia incorrere nel reato di oscenità. Da lettere come questa – “Egregio Signore, la invitiamo a versare un piccolo contributo di dieci milioni, altrimenti ne va di mezzo la vita di sua moglie” – con padre Benigno passiamo a ben diverse espressioni: “Mia dolcissima, ti penso e ti sogno sovente. Con te tutto mi sembra soave…”: “Difendi il mio amore con le unghie e la passione e ricorda le ore di intimità trascorse insieme”: “Mia dolcissima Lina, quando dirò Messa mi ricorderò del mio tesoruccio perduto e lontano”.
E questo tocco da “messa nera” è quel che ci voleva a far completa la storia.

Da "Mondo nuovo" N.3 - 15 gennaio 1961

LEONARDO SCIASCIA, Attenti al Duce





ATTENTI AL DUCE!
di Leonardo Sciascia



Ho del fascismo ricordi molto vivi, e che anzi si fanno più nitidi ed articolati nell’avvento della vecchiaia, per quella sorta di presbiopia che la memoria viene acquistando. Si annebbiano e presto si cancellano i fatti vicini, gli incontri, le letture; e imprevedibilmente si dispongono a fuoco, come nel mirino di una macchina fotografica o nelle lenti di un binocolo, le cose lontane e che credevamo perdute. A volte, ripeto, imprevedibilmente, sollecitate da vaghe percezioni, da inavvertiti richiami; a volte per più scoperte, evidenti sollecitazioni.
Questa ricerca sugli attentati a Mussolini – attentati più vagheggiati che progettati e vagheggiati anche da parte della polizia fascista – condotta sul superstite carteggio dell’Ovra, è in tal senso ricca di sollecitazioni: a ritrovare nella memoria tutti quei fatti, personaggi, discorsi, riti, feste e luoghi comuni che s’appartengono alla dimensione comica del fascismo. Di questa dimensione non si è voluto o saputo sufficientemente tener conto. Non si è saputo o saputo sufficientemente ridere: che sarebbe stato salutare. Il solo che ci ha provato, in letteratura e per trasposizione nel cinema, è stato Vitaliano Brancati: ma, appunto, isolatamente e senza apprezzabili effetti nella società italiana. Si è preferito dare del fascismo una rappresentazione piuttosto tetra, quasi strettamente informata a una diagnosi stalinista. E non che tetraggine e tragedia nel fascismo non ci fossero; ma almeno ugualmente catartica, se non più, sarebbe stata una rappresentazione del versante comico. Il ridicolo uccide: e ci ostiniamo a credere uccida anche in Italia, nonostante le contrarie apparenze.
Non ricordo se in quella specie di enciclopedia del fascismo comico che si può cavare dall’opera di Brancati la voce “attentati” vi abbia parte. E’ certo una voce importante: e come in quelli che ebbero un minimo di progettazione e di cui gli italiani furono informati si scopre il volto bieco e feroce della dittatura fascista, in questi soltanto vagheggiati che Rizzo ha saputo, direi con vena brancatiana, spigolare, se ne scopre il volto farsesco, irresistibilmente comico. E nel comico trova coinvolgimento anche un certo antifascismo, specialmente degli esuli. Non tutti avevano l’intelligenza, la lucida comprensione del corso effettuale delle cose, che aveva un Salvemini: da capire, insomma, che l’attentato – peraltro difficilmente attuabile – serviva alla polizia fascista, al fascismo, al mito mussoliniano come lubrificante e corroborante.
All’apice dei sogni dell’antifascismo era la morte di Mussolini. Ragionevolmente, considerando che in Italia in fascismo per pochi è stato ideologia, sistema, dottrina e per i più, specialmente negli anni del quasi totale consenso, mussolinismo. Morto Mussolini, il fascismo sarebbe crollato: da ciò il sorgere, negli oppositori interni, del mito dell’ulcera di cui si diceva Mussolini fosse affetto. Negli anni in cui veniva scemando il consenso, la notizia che Mussolini avesse un’ulcera , e abbastanza grave, prese proporzioni tali che la sola parola – ulcera – era come un segnale, come un’intesa tra coloro che lo volevano morto. Gli oppositori interni, più avvertiti e guardinghi nei riguardi dell’efficienza e capillarità della polizia politica, vagheggiavano l’ulcera, avevano il culto dell’ulcera – “galoppante” si aggiungeva: e si era presi da quel galoppo come nel finale di un film western – così come gli esuli vagheggiavano l’attentato. Ricordo lo sconforto di un antifascista del mio paese che, tra la meraviglia di coloro che come antifascista lo conoscevano, nell’estate del ’37 andò alla stazione ferroviaria a vedere Mussolini passare. Ci andò per controllare a che punto fosse arrivata l’ulcera nel suo galoppare: ma Mussolini gli apparve così in buona salute, abbronzato, alacre da perdere ogni speranza riguardo all’ulcera. “Ma quale ulcera!”, confidò agli amici, “Quello campa cent’anni!.
Al vagheggiamento dell’attentato da parte degli esuli corrispondeva, come abbiamo detto, il vagheggiamento da parte della polizia. Bastava un nulla – un sentito dire a Parigi – perché l’ipotesi dell’attentato prendesse corpo, muovesse una sproporzionata attività. In certi casi, è da credere si trattasse di pura invenzione da parte degli informatori: che non potevano meglio giustificare i compensi che ricevevano. Erano, gli informatori, per lo più gente di poco affare, senza alcuna intelligenza delle cose: al punto che uno di loro si meraviglia nel sentire, in ambienti di antifascisti, che c’è intenzione di colpire, oltre che Mussolini e il re, anche il ministro della Giustizia: “So di sicuro, per quanto non ne comprenda la ragione, che tra essi c’è l’on. Rocco”. Non ne capiva la ragione: che è una ragione con la quale, a tanti anni dalla caduta del fascismo, ci troviamo a fare i conti. E direi che per questo particolare, per questo non capire, l’informatore trova un accento di verità che non si trova in molti dei rapporti antologizzati da Rizzo, tra i quali spicca – come di un Conrad di seconda mano, forse anche perché ha la Polonia come scena – quello che s’intitola al “sicario mistico”.
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Prefazione di Leonardo Sciascia al libro di Vincenzo Rizzo Attenti al Duce, Vallecchi editore, 1981

LEOPARDI CONTRO LA DISCORDIA TRA DETTI E FATTI






     Anche Leopardi sentiva il bisogno di non lasciarsi schiacciare dall'esistente al punto d'immaginare un mondo che nessuno finora ha visto:

"Sarebbe impresa degna del nostro secolo quella di rendere la vita finalmente un'azione non simulata ma vera, e di conciliare per la prima volta al mondo la famosa discordia tra i detti e i fatti".

29 maggio 2019

RILEGGERE CAMUS OGGI




Dalla parte di Meursault. Ricordare “Lo straniero” di Albert Camus oggi

di Anna Toscano

Rileggere Lo straniero di Albert Camus a settantasette anni dalla sua uscita è una esperienza straniante: la domanda che affiora quasi a ogni pagina è se siamo in Algeria tre quarti di secolo fa, o oggi nelle nostre strade, nelle nostre case, nella nostra città. Il protagonista, Meursault, è un individuo che appare come tutti, un lavoro che gli occupa molto tempo e lo tedia, una casa, una madre in un ospizio, una vita affetta da abitudini che hanno trovato la pace in loro stesse.
Nessun moto di ribellione, nessun guizzo di cambiamento, nessun interesse per il mondo, nessuna voglia di fuga in Meursault, ma una quieta accettazione dell’ordinarietà. Non solo, una continua ricerca di conferma di questa ordinarietà, non si può dire di certo un desiderio ma una tendenza piuttosto passiva a far sì che nulla cambi, e se qualcosa cambia che presto si riassesti una abitudine che garantisca apatia e indifferenza.
Il romanzo è ambientato in un paese vicino ad Algeri, una città di mare dove il sole e la natura hanno una parte preponderante sulla vita degli abitanti, abituati a stare spesso fuori per le strade, in spiaggia, nelle piazzette. Questo è il dove di Meursault, il suo luogo che gli è così congenito e lo contraddistingue presto come un uomo adatto alla natura quanto inadatto alla società. Il quando è la fine dei ’40, ma del clima sociale e politico di questa epoca trapela assai poco, perché la società non interessa per nulla il protagonista.
L’incipit è noto: “Oggi la mamma è morta. O forse ieri non so”.  In prima persona Meursault racconta il suo viaggio in autobus per ottanta chilometri fino all’ospizio, la veglia notturna, il funerale sotto un caldo torrido, la sepoltura, il rientro. Costernato più dalla fatica di interrompere la propria routine che dal lutto, Meursault al rientro fa un bagno in mare e incontra una ragazza con la quale inizia una storia. I personaggi sono pochi perché il protagonista non ama circondarsi di persone o cose: la sua casa è disabitata a eccezione della sua camera da letto dove, alla partenza della madre, ha trascinato tavolo e sedie per risparmiare sulle traiettorie; della sua casa conosciamo il letto e la finestra che dà sulla strada dove sovente si ferma anche per ore a guardare il sole, a guardare il via vai, a guardare la vita che passa.
Marie, la ragazza che ha conosciuto sulla spiaggia, lo frequenta con gioia e a un certo punto gli chiede se lui voglia sposarla, lui risponde “che la cosa mi era indifferente e che avremmo potuto farlo se voleva”. Il datore di lavoro gli propone un nuovo incarico che gli consentirà di andare spesso a Parigi, ma lui si dimostra indifferente: “Io gli ho detto di sì, ma in fondo per me era lo stesso. Allora mi ha chiesto se non mi interessava un cambiamento di vita. Ho risposto che non si cambia mai vita, che del resto tutte le vite si equivalgono”.
Non ha amici, ma solo persone che incontra più spesso di altre; come i due condomini, Salamano, un anziano con un cane malconcio a cui inveisce contro giorno e notte trascinandolo su e giù per le scale, e Raymond, amante lasciato e inferocito con una donna alla quale giura vendetta. Meursault guarda a questi due conoscenti, al loro passare, alle loro vicende, come da spettatore lontano senza nessuna simpatia né tantomeno empatia: per il cane che viene maltrattato nessuna parola di compassione, nemmeno quando il cane misteriosamente sparirà nessuna inflessione di costernazione o gioia. Tutto è distante, nulla lo tocca.
Quando Raymond si vendica della donna portandola in casa con un inganno per picchiarla, le sue urla e l’arrivo delle forze dell’ordine non turberanno affatto Meursault, che anzi continua con grande indifferenza a frequentare il picchiatore fino a trascorrere una giornata con lui e Marie sulla spiaggia. Qui finisce la prima parte del libro, su una spiaggia assolata dove ucciderà un arabo a colpi di pistola. L’arabo era il cugino della donna malmenata e stava inerme dietro uno scoglio, Meursault, uscito nella canicola con la rivoltella di Raymond in tasca, gli spara ripetutamente in preda al cado, alla luce del sole, al sudore che lo acceca, non per rabbia o astio o difesa.
Dopo la prima parte quasi interamente sotto un sole consolatorio e tagliente segue la seconda, e ultima, parte immersa in un buio claustrofobico: Meursault è in prigione, vede il cielo dalle inferriate salendo in piedi su una panca, esce per i processi, l’unico suo dilemma è cosa pensare durante tutto il tempo. Non è un uomo angosciato o costernato, tantomeno pentito davanti a un commissario disperato da tanta indifferenza per un uomo ammazzato. Come la prima parte è inondata di luce e di presente, la seconda è abitata dal buio e dai ricordi; sarà il ricordare l’attività che farà trascorrere il tempo al protagonista perché, come lui stesso ricorda, “Si finisce per abituarsi a tutto”. ù
Non sono giorni disperati quelli della cella, nemmeno angustiato dai processi, ma solo dal tempo: “non ero eccessivamente infelice. Il solo problema, ancora una volta, era di ammazzare il tempo. E ho finito per non annoiarmi più affatto dall’istante in cui ho imparato a ricordare”.  Alla notizia della sua condanna alla ghigliottina Meursault, in piena consapevolezza delle conseguenze della sua apatia, rifiuta la religione nonostante gli estenuanti tentativi del cappellano di trovare in lui il desiderio di Dio.
Il personaggio principale porta in sé molte tracce del suo autore: Camus aveva svolto molti lavori umili, proveniva da una povera famiglia in un quartiere popolare di Algeri, e aveva vissuto in casa con la madre l’anziana nonna, che prende i panni della madre di Meursault. Questo amore per la natura, per la vita sotto il cielo che caratterizza Meursault lo spiega Camus stesso: “esso appartiene a quella razza indifferente allo spirito, a quel popolo algerino che interamente proiettato nel presente vive senza miti, senza consolazione”.
Infatti quella di Meursault non è una indifferenza nella sua accezione più consueta, quanto una indifferenza dovuta alla lucidità di sapere che non ci sono più illusioni, che una vita è uguale all’altra, “Che non si vive felice più o meno a lungo. Che lo si è e basta”, che le vicende degli altri umani, come degli animali, così come le proprie, sono prive di ogni interesse.  Tutto ciò fa del protagonista un uomo assolutamente attuale, un piccolo uomo comune che vive il senso dell’assurdo e per il quale tutto è equivalente. Per lui il rapporto con gli altri è meccanico, gli altri esistono in quanto li incontra sulla sua strada, al ristorante, al lavoro.
Il risvolto più interessante di questo personaggio, quello che più lo avvicina a noi contemporanei, è il fatto che non si tratti di un essere spregevole, anzi, ma un essere che vive calato in una condizione di estraneità.
Come scrisse Sarte in fin dei conti Meursaul “è uno dei terribili innocenti. Sono lo scandalo della società perché non accettano le regole del gioco”. È l’uomo che non vuole giustificarsi e per questo gli si preferisce l’idea che ci si fa di lui e non quello che lui è. E la società che emerge durante i processi e si rivela molto simile alla attuale quando si tratta di giudicare la persona che agisce secondo proprie spinte, per sostituirgli una apparenza fittizia creata con l’idea che gli altri hanno di lui.
Meursault non è solamente straniero alla società ma anche a se stesso, soprattutto nella prima parte del romanzo è un uomo che non ha un trascorso, non ha ricordi, non ha oggetti o persone che lo leghino al passato a eccezione della madre che muore con l’incipit senza peraltro portare nella narrazione nessun dettaglio del passato.
Lo sguardo del protagonista è per il cielo e per il sole, è uno sguardo con una distanza pari a zero, diretto sul mondo e sulla luce del mondo: lui e il lettore sono dentro la vita. Nella seconda parte è uno sguardo con una distanza creata dal ricordo e dal progressivo allontanarsi dalla vita, un istintivo prendere le distanze da ciò che non avrà più a breve: in questo modo anche il lettore diventa quasi spettatore in tanto buio.
La felicità? La felicità esiste nel lasciar trascorrere in modo passivo e inconsapevole le cose, ma si fa pressante nel ricordo. L’uomo che vuole vivere in esilio da se stesso e dagli altri non ha bisogno di passato e ricordi, il peso del ricordare è peso di una realtà comunque menzognera; preferisce rinunciare a una felicità pressante e vivere una felicità inconsapevole pur di non ricordare, pur di non chiedersi mai perché. La felicità pressante infatti, quella che gli nasce alla notizia e all’avvicinarsi dell’esecuzione, arriva con il suo esercizio di ricordare per ingannare il tempo, un esercizio della memoria, un lavoro sul ricordo che inizia a stratificargli il presente componendo tasselli della sua identità, lavorando debolmente alle sue radici.
È un altro aspetto spaventosamente contemporaneo il non guardare alla storia con la esse maiuscola ma nemmeno alla propria storia, l’accettazione di un eterno presente che preservi un torpore abitudinale. Meursault parla anche dell’uomo di oggi, del non voler vedere a chi si è e figli di quale vicenda per non avere pensieri, per non varcare quella soglia delle preoccupazioni umane che potrebbe portare a chiedersi qualcosa. Invero il romanzo che inizia con l’annuncio della morte e finisce con l’annuncio della morte: la prima morte è già avvenuta in data incerta, la seconda deve ancora avverrà presto ma in data ancora non conosciuta: il protagonista si trova così in esilio dalla morte, straniero non solo a se stesso ma anche alla vita, da qui il suo non farsi illusioni e cedere all’indifferenza.
Nel 1957 Albert Camus vince il Nobel perché “La sua opera mette in luce i problemi presenti ai giorni nostri alla coscienza degli uomini”. I giorni nostri di allora si riflettono nei giorni nostri di oggi, nell’uomo di ieri un presente che è un passato a noi caro per chiederci dei perché.

Da

28 maggio 2019

SAGGEZZA PERDUTA




O animo, animo agitato da mali irrimediabili, sorgi, difenditi, opponendo agli avversari il petto; e negli scontri coi nemici poniti, saldo, di fronte a loro.
E non inorgoglirti in pubblico, se vinci; né, se sei vinto, piangere prostrato in casa. Rallegrati delle gioie e non abbatterti per le sventure, senza eccesso.
Impara a riconoscere quale ritmo governa gli uomini.
Archiloco,128, Fr.

S. PENNA, Un dì la vita mi era beata





Un dì la vita mi era beata.
Tutta tesa all'amore anche un portone
rifugio per la pioggia era una gioia.
Anche la pioggia mi era alleata.


Sandro Penna, Poesie, Garzanti, 2000

L. SCIASCIA E LA CASA EDITRICE SELLERIO


Da sx: Elvira ed Enzo Sellerio, A. Buttitta, L. Sciascia, V. Tusa



La felicità di far libri, secondo Leonardo Sciascia

di

Immaginate, accanto al duomo o in qualunque altro luogo nella cerchia dei bastioni, una roccia scoscesa e brulla che porta al mare; immaginatela lavica e ricoperta di piante escrescenti che offrono frutti gialli e arancioni; immaginate i fichidindia nel centro di Milano: polposi, colorati, nutriti da un sole che non picchia.
Ora pensate a Palermo nel 1969, con tutta la sua energia e tutta la sua ingovernabilità, pensate al caos, al brusio, alla mafia, ai dislivelli sociali, all’irriducibilità delle strade e dei quartieri. Pensate a un fotografo e a sua moglie, a un antropologo, a uno scrittore, a questi quattro amici che decidono di aprire una casa editrice e seguire una follia: investire in cultura. Fra loro – Enzo ed Elvira Sellerio, Antonino Buttitta, Leonardo Sciascia – è quest’ultimo a sfidare la similitudine che bisogna darsi l’ardire di capovolgere: “fare libri a Palermo è come coltivare fichidindia a Milano”.
Allora, quell’anno, mentre Palermo si rivoluzionava, da qualche parte a Milano dev’essere spuntato il primo ficodindia; sì, dev’essere andata senz’altro in questo modo, perché tutto è possibile quando ci sono la volontà, le idee, il talento e soprattutto la disperazione, senza disperazione non si fa nulla e nella Palermo disperata del 1969 nacque tutto. Di quella casa nata fra amici e diventata la madre degli eleganti volumi della collana “La memoria”, volumi che tutti presero a voler sfoggiare (“divenne anche di moda, e basta, per accorgersene, sfogliare una rivista di arredamento dell’epoca, in cui se c’era da mostrare una libreria, un divano, volentieri l’oggetto destinato a simboleggiare quotidiano buon gusto era costituito da uno di quei libretti blu”, scrive Maurizio Barbato), Sciascia fu per vent’anni, fino alla morte, oltre che fondatore, reinventore delle pratiche editoriali.
“Consulente” sarebbe come minimo riduttivo e Salvatore Silvano Nigro usa invece l’espressione corretta, “editore in casa Sellerio”, per presentare la ripubblicazione del volume Leonardo Sciascia scrittore editore ovvero La felicità di far libri. Tornato dopo sedici anni sugli scaffali, non è un semplice tracciato del lavoro di Sciascia,è la sua biografia editoriale: contiene i risvolti di copertina, le schede, le introduzioni ai brani delle antologie da lui ideate e curate. Risponde alla domanda su quanti e quali siano i suoi libri, se quelli che ha scritto, quelli che ha curato, quelli che ha scoperto, quelli che ha antologizzato, e la risposta è: tutti, pure quelli che non ha pubblicato.
La gabbia grafica della pagina di presentazione è stata la sua palestra di scrittura, quella dove poté esercitare, nella costrizione della brevità, la densità e la seduzione di una passione erudita, e come avviene agli scrittori che vivono lavorando in mezzo ai libri, gli scrittori che fanno del leggere un mestiere, il confine fra i propri e gli altrui presto non dovette esistere più; questo pubblicato da Sellerio è un volume postumo di Sciascia, un suo longseller, secondo la definizione che ne diede Giorgio Manganelli: un testo che torna in pista e al secondo giro lascia tutti senza fiato.
“Sciascia i libri li pensava vestiti”, scrive Silvano Nigro, e qui c’è l’armadio di abiti e soprabiti, di paltò e completi da lavoro o da cerimonia con cui la sfida dei Sellerio andava in libreria. Intanto i fichidindia, a Milano, dovevano diventare ogni mese più fitti.
Aprendo quell’armadio, bisogna mettersi seduti e cercare con pazienza i fili rossi. Innanzitutto troviamo Don Lisander, eterna ossessione sciasciana: il tributo ad Alessandro Manzoni passa per il risvolto della Storia della colonna infame, un testo conosciuto “da non più di uno su cento italiani mediamente colti” (era il 1981, non voglio pensare alla media attuale), e poi per quello della Sentenza memorabile, dello stesso Sciascia – che, come Pavese e altri scrittori-editori, praticava l’arte dell’autorisvolto, il luogo dove finisce l’indicazione che dalle pagine è rimasta fuori ma bisogna a tutti i costi conoscere, per esempio che all’autore piace sempre più pubblicare libri come questo, perché “a un certo punto della vita si vuole essere in pochi”, pochi come i venticinque lettori manzoniani (“mantengo la cifra non per immodestia, ma tenendo conto della onnipresente inflazione”).
Secondo filo rosso: le illuminazioni. Quasi sempre, nelle bandelle che Sciascia dapprima scriveva da sé e poi, col passare del tempo, supervisionava ricevendole dai redattori, compare un paragone insospettato, una definizione tagliente che da quel momento si farà indelebile. Quasi sempre, l’intuizione arriva nelle ultime righe: Maria Messina è “una Mansfield siciliana”, Luisa Adorno sfoggia “un brio da far pensare a certe pagine di Brancati”, Domenico Campana coniuga Hawthorne con una metafora “siciliana, gattopardesca”.
In queste brevi schede, piene di briosità, di colta inventiva, gli scrittori siciliani diventano poliglotti, perché Sciascia li inserisce in una tradizione più ampia, grande quanto un continente. Nei risvolti di Sciascia, la Sicilia entra in Europa e l’Europa entra in Sicilia (“una sensibilità più radicalmente europeo-continentale di Sciascia è difficile da immaginare”, scrive ancora Barbato), le frontiere temporali sono abbattute, sono tutti coevi, i contemporanei e i classici.
Alcuni esempi: Le storie del castello di Trezza svelano un Giovanni Verga diverso dalla sua immagine scolastica e ne mettono a nudo l’anima gotica, per cui meritano una nota “estrosa e precisa” di Vincenzo Consolo; Il romanzo e le idee, saggio polemico di Mary McCarthy, è manchevole secondo Sciascia di due esempi, da lui aggiunti nel risvolto, Il Gattopardo e Il nome della rosa; Il villaggio di Stepàcinkovo di Fjòdor Dostojevskij, per raccontare il quale servono il manzoniano “Carneade! Chi era costui?” e lo sciasciano “Fomà Fomíč! Chi era costui?”, nonostante sia un libro del 1859 viene presentato come attuale, da leggersi “nella chiave del senno del poi, a fronte degli avvenimenti tragicamente grotteschi o grottescamente tragici che l’intolleranza ha generato dal suo secolo al nostro”. È messa in minoranza la letteratura statunitense, da cui Sciascia si sentiva ed era lontano, e quando si tratta di accompagnare un libro come quello di Anita Loos, I signori preferiscono le bionde. Ma… i signori sposano le brune la sfida si fa più alta, così oltre al mito cinematografico bisogna tirar fuori un’interpretazione marxista, le lodi di Joyce e il giudizio di Santayana: “il miglior libro di filosofia scritto da un americano”.
Producendo lo stesso effetto straniante, lo stesso capovolgimento, Sciascia definisce Kermesse, il suo libro sui proverbi siciliani (“Occhio di capra: domani piove”), un lavoro scientifico, “di quella scienza certa che è l’amore al luogo in cui si è nati, alle persone, alla cose, alle parole di cui la nostra vita, nell’infanzia e nell’adolescenza, si è intrisa”. Infine, il terzo filo rosso del lavoro editoriale della Sellerio di Leonardo Sciascia: la capacità di indovinare i cassetti giusti. L’esempio più famoso di un inedito sospettato e tirato fuori a forza dalla casa editrice è Diceria dell’untore, l’esordio tardivo di Gesualdo Bufalino (l’autore dichiarò poi che con un po’ di fortuna, continuando a nascondersi, avrebbe potuto andargli ancora meglio ed esordire postumo).
Bufalino, “professore a Comiso, oggi sessantenne”, apparteneva alla genia di scrittori schivi, refrattari o indifferenti alla pubblicazione ma non privi di segreta vanità a cui apparteneva anche il messinese Eugenio Vitarelli, di cui Sciascia pubblicò nel 1983 il romanzo Placida, presentando così l’opera e l’autore: “Conosco Vitarelli da trent’anni. E certamente da più di trent’anni Vitarelli scrive. Assiduamente, regolarmente, giorno dopo giorno: e senza l’assillo di pubblicare, forse anzi senza nemmeno la voglia. Per il piacere di scrivere, di raccontare, di raccontarsi. Non so che cosa ci sia nei suoi cassetti, né so se nell’ordine del tempo questo racconto si appartiene alle prime cose o alle ultime. Lontane, lontanissime sono nella nostra vita le cose che racconta: ma è come se improvvisamente irrompessero nel fuoco di una lente, da confuse e lontane a farli vicine, nitide, precise”.
Infine, le antologie: Delle cose di Sicilia, un progetto curato dal 1980 al 1986 che raccoglie testi inediti o rari di fonti storiche sull’isola, o La noia e l’offesa. Il fascismo e gli scrittori siciliani, di nuovo una visione del mondo, della Storia, dell’isola. Sono di Sciascia pure le curatele mai compiute, quelle che non riuscì a portare a termine per naufragio della tesi, come l’antologia sulle donne nella letteratura siciliana. Ne aveva individuato i tipi che avrebbero nominato i capitoli: la madre, la sorella, la lupa, e infine una galleria di personaggi femminili che fossero leggiadri e vitali, pieni di volontà e desiderio – questi ultimi non riuscì a trovarli, perlomeno non abbastanza da riempire un’intera sezione, tanto che dovette ricorrere, per indicarli, a una russa, la Natascia di Guerra e pace.
Niente Natasce siciliane, niente antologia: un vuoto significativo, che non si poteva mostrare senza dibatterne, e ancora adesso lascia in sospeso più di una domanda. Un vuoto che fece decadere il progetto, ma continua a indicare un altro libro sciasciano, quello che oggi rimane da scrivere.

Testo ripreso da IL FOGLIO.

27 maggio 2019

CERCHIAMO DI COMPRENDERE MEGLIO QUANTO STA ACCADENDO

Ma è sinistra questa?



Di fronte a certi risultati elettorali è facile indignarsi. Ma non serve a molto indignarsi. Anche se non è facile, cerchiamo di capire, di comprendere meglio quanto sta accadendo.
Un mio fraterno amico, dotato di ironia e di una non comune intelligenza, stamattina si chiedeva:
gli italiani non votano la sinistra perchè non si fa capire?
O perchè si fa capire sin troppo bene?


POSSIAMO SPIEGARE TUTTO COSI'?




Il Fascismo conviene agli italiani perché è nella loro natura e racchiude le loro aspirazioni, esalta i loro odi, rassicura la loro inferiorità. Il Fascismo è demagogico ma padronale, retorico, xenofobo, odiatore di culture, spregiatore della libertà e della giustizia, oppressore dei deboli, servo dei forti, sempre pronto a indicare negli ‘altri’ le cause della sua impotenza o sconfitta.

Il fascismo è lirico, gerontofobo, teppista se occorre, stupido sempre, ma alacre, plagiatore, manierista. Non ama la natura, perché identifica la natura nella vita di campagna, cioè nella vita dei servi; ma è cafone, cioè ha le spocchie del servo arricchito. Odia gli animali, non ha senso dell'arte, non ama la solitudine, né rispetta il vicino, il quale d'altronde non rispetta lui.

Non ama l'amore, ma il possesso. Non ha senso religioso, ma vede nella religione il baluardo per impedire agli altri l'ascesa al potere. Intimamente crede in Dio, ma come ente col quale ha stabilito un concordato, do ut des. È superstizioso, vuole essere libero di fare quel che gli pare, specialmente se a danno o a fastidio degli altri. Il fascista è disposto a tutto purché gli si conceda che lui è il padrone, il padre.

(Ennio Flaiano )

25 maggio 2019

F. FORTINI, C'era una donna che sola ho amata









C’era una donna che sola ho amata
Come nei sogni si ama se stessi
E di bene e di male l’ho colmata
Come gli uomini fanno con se stessi.


Essa era quella che avevo voluta
Per essere chiamato col mio nome:
E lo diceva quando l’ho perduta
Ma forse quello non era il mio nome.


E vo per altre stagioni e pensieri
Altro cercando al di là del suo viso
Ma più mi stanco per nuovi sentieri
Sempre più chiaro conosco il suo viso.


Forse è vero e i più savi l’hanno scritto:
Oltre l’amore c’è ancora l’amore.
Si sperde il fiore e poi si vede il frutto:
Noi ci perdiamo e si vede l’amore.


Franco Fortini, Foglio di via, Einaudi, 1946

24 maggio 2019

ELLIS ISLAND raccontata da G. PEREC





L’Americaaaa!


di Romano A. Fiocchi

Pochi sanno cosa sia Ellis Island. A scuola non te lo insegnano. A scuola ti parlano soltanto di quella migrazione in massa di milioni di europei verso un mondo dove c’era libertà, democrazia, lavoro. E allora l’immagine più comune scolpita nella memoria collettiva è il grido che Baricco mette in bocca ai passeggeri del Virginian che per primi avvistano la Statua della libertà: l’Americaaaa!
Ma l’America era altro. In primo luogo era Ellis Island. Tra il 1978 e il 1980 Georges Perec e il regista Robert Bober cercarono di capire cosa fosse e soprattutto lo documentarono in un lungometraggio che fu trasmesso nel novembre 1980 dalla rete francese con il titolo: Récits d’Ellis Island. Histoires d’errance et d’espoir (alcuni spezzoni sono reperibili su YouTube, mentre il video completo è acquistabile in versione DVD sul sito dell’Ina, l’ente nazionale francese incaricato di archiviare le documentazioni audiovisive). Quello che fecero, Bober con le immagini e Perec con il testo della voce fuori campo, fu raccontare come tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del secolo successivo, in alcuni edifici appositamente costruiti su un isolotto alla foce dell’Hudson, a un passo da Manhattan, oltre sedici milioni di emigranti vennero trasformati in oltre sedici milioni di Americani. Il testo di Perec, pubblicato in Francia, uscì nell’edizione italiana solo nel 1996 grazie alla traduzione di Maria Sebregondi, in un volumetto verde della collana Gli Aquiloni di Rosellina Archinto. Poi, come tante pubblicazioni di Perec, sparì dal mercato. (La sparizione è un motivo caro a Perec, ricordiamoci che fece sparire la lettera “e” da un intero romanzo…)
Nel 2005 Ellis Island riapparve parzialmente in rete: una decina di pagine tradotte dal nostro Andrea Inglese, uscite appunto su Nazione Indiana, qui. Mentre il 10 maggio 2017 Laura Barile rievocava il fascino di questo testo su Alfabeta 2, l’Archinto S.a.s. lo ripubblicava e ricolmava il vuoto editoriale. È stato così che l’ho trovato, rovistando sulle scaffalature della Libreria del Mondo Offeso.
Ellis Island è un prezioso libretto di settantadue pagine composto di due parti: L’isola delle lacrime, una sorta di introduzione storica, e Descrizione di un cammino, la parte più corposa e poetica. Perché Perec, fedele alla sua scrittura, riesce a fare della poesia attraverso la semplice elencazione di oggetti, luoghi, persone: “All’inizio, si può solo provare a nominare le cose, una per una, semplicemente, enumerarle, censirle, nel modo più banale possibile, nel modo più preciso possibile, cercando di non dimenticare niente”. Tanto meno i numeri, quelli più impressionanti: cinque milioni di emigranti provenienti dall’Italia, quattro milioni dall’Irlanda, un milione dalla Svezia, sei milioni dalla Germania, tre milioni dall’Austria e dall’Ungheria, tre milioni e cinquecentomila dalla Russia e dall’Ucrania, cinque milioni dalla Gran Bretagna, e così via. Tutta gente disperata che per i più svariati motivi scappava dal vecchio continente. Poi elenca le compagnie di navigazione (compresa la nostra Italian Line), i porti di partenza (i nostri: Palermo, Napoli, Genova, Trieste), i nomi dei piroscafi (i nostri: Umbria, Lusitania, San Giovanni, Giuseppe Verdi, Duca degli Abruzzi), la raffica incalzante delle ventinove domande che bersagliavano l’emigrante: Come si chiama? Da dove viene? Perché viene negli Stati Uniti? Quanti anni ha? Quanti soldi ha? Dove li tiene? Me li faccia vedere. Chi ha pagato la sua traversata? eccetera. Sì, perché i soldi erano una garanzia: chi viaggiava in prima o in seconda classe veniva ispezionato a bordo da un medico e da un ufficiale di stato civile, e sbarcava senza problemi. Gli altri sostavano a Ellis Island sino a passare il controllo degli ufficiali sanitari che segnalavano i casi sospetti tracciando una lettera con il gesso sulla schiena: C la tubercolosi, E gli occhi, F il viso, H il cuore, K l’ernia, L la claudicazione, SC il cuoio capelluto, TC il tracoma, X il ritardo mentale. Il sospettato avrebbe prolungato la sua permanenza a Ellis Island per accertamenti più minuziosi, talvolta sino ad essere respinto.
Tutti insomma passarono da Ellis Island. Che funzionava, dal punto di vista organizzativo, con la proverbiale efficienza degli States: “Una fabbrica all’americana, rapida ed efficace come un salumificio di Chicago: a capo di una catena, si mette un irlandese, un ebreo ucraino, un pugliese, all’altro capo – previa ispezione degli occhi, ispezione delle tasche, vaccinazione, disinfezione – ne esce un americano”. Col tempo le regole di questa fabbrica diventarono sempre più severe. Alla fine i respingimenti furono duecentocinquantamila, tremila i suicidi. I fortunati sentirono invece pronunciare l’agognata e fatidica frase: Welcome to America.
Perec non commenta, lascia che commenti e paragoni siano elaborati nella mente e nel cuore del lettore, quello di allora e quello di oggi. Perché il testo, inutile dirlo, è di una valenza universale e attuale: “L’emigrazione verso gli Stati Uniti era cominciata molto prima che incominciasse Ellis Island e non è terminata con la sua chiusura. I messicani, i portoricani, i coreani, i vietnamiti, i cambogiani hanno dato il cambio”. Ci sono poi le vicende dei nomi storpiati, suoni tipici di mezza Europa trascritti all’americana trasformando Skyzertski in Sanders, Goldenburg in Goldberg, Kowalski in Smith (entrambi significano fabbro). Compresa la storiella del vecchio ebreo russo che disse shon vergessen (in yiddish: l’ho scordato), e lasciò Ellis Island come John Ferguson.
Tutto questo per poi scoprire che l’America non era poi l’America che era stata loro raccontata. Certo, la terra apparteneva a tutti, peccato che i primi arrivati si erano ampiamente serviti e ai nuovi emigranti non restava se non ammassarsi in tuguri senza finestre e lavorare quindici ore al giorno. “I tacchini – scrive Perec – non cadevano già arrostiti direttamente nei piatti e le strade di New York non erano lastricate d’oro. Anzi, il più delle volte, non erano lastricate affatto. E allora capivano che era proprio per fargliele lastricare che li avevano fatti venire. E per scavare gallerie e canali, costruire strade, ponti, grandi dighe, ferrovie, dissodare foreste, sfruttare miniere e cave, fabbricare automobili e sigari, carabine e vestiti, scarpe, chewing-gum, corned-beef e saponette, e costruire grattacieli ancora più alti di quelli che avevano scoperto all’arrivo”.

Recensione di 
Georges Perec, Ellis Island. Storie di erranza e di speranza, Archinto, 2017.

Testo ripreso da  https://www.nazioneindiana.com/

22 maggio 2019

TRE POESIE DI BARTOLO CATTAFI



AL MERCATO

C’è un calmiere che regola i rapporti
col prossimo tuo e con te stesso.
Sei solo e vinto,
debole, deforme,
devi andare al mercato.
Stordirti e scegliere
le voci nel brusio.
Stipulare contratti,
vendere, comprare
i beni che consumano la vita




MARZO E LE SUE IDI

Di tutto diffido
del pugnale di bruto
della tenera carne di cesare
dello stesso destino
che passi presto il tempo
vengano alfine marzo e le sue idi.





NEL VUOTO

Qualcuno si perde prende il volo
qualche amante del vuoto
la catena s’allunga
oltre l’orlo d’abisso srotolata
estremità
dondola al vento e sbatte
ferro contro roccia
con un suono-richiamo a chi s’è perso
nell’aria nella nebbia nell’avido risucchio
del nome libertà.