31 agosto 2017

ANTONIETTA ZUCCARO FINALISTA AL 43° PREMIO DI POESIA MARINESE 1 e 2


     Ho detto e scritto più volte che non amo i premi letterari. Tanto meno quello che da 43 anni si svolge nel mio paese natale!
     Al suo inizio poteva avere anche un senso, grazie al generoso contributo che vi diede il grande Ignazio Buttitta. Ma il Premio ha fatto il suo tempo, ed uno dei suoi creatori - che per vent'anni è stato anche Sindaco di Marineo - avrebbe dovuto capire che era ora di finirla, considerato oltretutto che la poesia non porta voti!
      Oggi ne voglio parlare con un pò d'indulgenza anche perchè, negli ultimi anni, sono stati finalmente  riconosciuti i meriti di alcuni poeti locali.
       Di seguito ripropongo i versi dell'amica Antonietta Zuccaro,  cui abbiamo dato ampio spazio in questo blog, tratti dal suo ultimo libro premiato in quest'ultima edizione del Premio. (fv)



Lu veru amuri nun s’astuta mai

Vogghiu
cantari ancora
puisia a l’amuri
chiddu ca aumenta ogni vota
ca spunta u suli;
chiddu veru
sinceru
chiddu ca...
jornu pi jornu
ti fa tuccari
lu celu,
nudda cosa
fa addisiari
e duna spuntu
e forza pi luttari.

E si ancora
si ‘ncontranu
e si perdinu
l’occhi tò
cu chiddi mè,
è signu
ca tra nuatri
di ssù amuri
ancora assai
cci nnè.

40
Sunnu tant’anni ormai;
comu u ritu
si ripeti
e si rinnova
stà magia
ca nn’accarizza l’arma
comu ‘na duci miludia.
La passioni di gioventù
è focu ardenti,
ma è focu divinu
u sgardu d’amuri
ca nasci
di nà cosa di nenti.
Picchì nn’arrivela
di aviri complici li cori,
e d’amuri li nutri
finu a quannu
si mori.

Antonietta Zuccaro, finalista alla 43 ed. del Premio Città di Marineo.
Testo tratto dal volume “Nta lu diariu di li mè ricordi”  


P.S. : voglio riproporre di seguito un commento della Poetessa Anna Maria Bonfiglio, che nei primi anni di vita del Premio vi partecipò attivamente, e alcune foto che mostrano la partecipazione popolare dei primi anni:


Anna Maria Bonfiglio: Eppure negli anni è stato un premio che ha avuto il suo perché. Ne ho frequentato diverse edizioni, sia in veste di premiata sia in veste di spettatrice e sempre ne ho ricavato l'idea di una manifestazione molto seguita, sia dalla gente del luogo che da persone non locali. Fino all'ultima edizione cui ho partecipato, 2001-2002, non ricordo con esattezza, l'impressione è stata positiva, dopo non sono più stata presente. Cmq dal Premio Marineo sono passati poeti di livello nazionale.
Francesco Virga: Sono vere le cose che dici, cara Anna Maria. E nei suoi primi 20 anni, malgrado tutto il resto, l'iniziativa ha registrato una partecipaxione popolare straordinaria. Conservo ancora un vivo ricordo dell'anno in cui vi partecipo' anche il poeta russo E. Evtushenko!

Anna Maria Bonfiglio:: Quell'anno io c'ero. ho la foto con Evtushenko
1
Francesco Virga: Mandamela, per favore che la pubblico!

 Nell' atrio della Scuola Elementare di Marineo



E. Evtushenko con Anna Maria Bonfiglio

GIOVEDI' PROSSIMO A PALERMO THERESIA BOTHE INSIEME AD UN CORO TEDESCO





GIOVEDI' 7 SETTEMBRE 2017, ore 21.00,

allo SPASIMO DI PALERMO

CONCERTO PER CORO E VOCI

“Ay amor que se fue por el aire”


DAL  PROGRAMMA DI SALA *

“Lo Spasimo di Palermo”

Discorso concertato
dal discorso di C. Giallombardo
Testo e musica di T. Bothe

FEDERICO GARCÍA LORCA

“¡Ay, amor, que se fue por el aire!” il cosmo lirico-poetico di Lorca si presenta in
questo programma che vi porterà nel mondo della passione che caratterizza il
"cante jondo" - tipico del flamenco Andaluz. Il poeta nazionale spagnolo per
eccellenza nasce a Granada nel 1898. Nella sua opera tratta le sue profonde
connessioni alle sue tradizioni e cultura. Anche il mondo degli zingari, così
intensamente presente in Andalusia, si rispecchia chiaramente nei suoi testi. Nel
1928 pubblica il "Romancero Gitano” in cui tratta i temi che lo accompagneranno
per tutta la vita: l'amore non pagato, la solitudine e la morte.


L’opera di Castellnuovo-Tedesco “Romancero Gitano” fornisce il punto di partenza
di questo progetto che nasce a Passau, in Germania. L’intenzione cosciente è stata
quella di costruire una collaborazione multiculturale usando come base la poesia di
Lorca, mesa in musica da diversi compositori. Nel ambito della musica corale
presentiamo 3 compositori: uno Italiano, uno Spagnolo e uno Finlandese - interpretati
da uno splendido coro Tedesco, paese in cui la tradizione della musica corale
è esemplare. Il concerto viene arricchito dal canto solistico, che interpreta canzoni
scritte di Lorca stesso e canzoni sefardite che da per sé rappresentano il multiculturalismo.


·        * Per la lettura integrale del Programma della serata si invita a collegarsi al manager organizzatore del Concerto:  <lucianoformica@libero.it>


NICOLA GRATO RIPENSANDO AL SUO NONNO DI ALIMENA


ph. di francesco virga

       Nicola Grato ha scritto e pubblicato diversi libri di poesia. Ma i versi che ho letto stamattina sulle pagine del suo diario fb mi sembrano i più belli di tutti quelli che ha finora scritto. (fv)


mio nonno Nicolò è nato
ad Alimena, e fu subito orfano
senza nome, lasciato alla ruota
di Palermo. Anni trascorsi
molti e senza faccia, senza le storie
per la ninnananna.
Alimena oggi sapeva di sole
e campi gialli, di vento e festa antica.
In ogni volto cercavo
somiglianza, la danza di un bambino
sul corso mi faceva pensare
a mio nonno e ai suoi passi
che mai furono in questo luogo.
E forse non ci sono neanch'io
e vano è cercare,
non si è soltanto di un posto-
ma di tutte le pietre e di nessuna,
appartenere a una collina brulla
visitata dalla luna.


Nicola Grato

30 agosto 2017

PASSATO E PRESENTE DEI TARANTATI


Ogni anno a Melpignano nel Salento si rinnova il rito che ha un’eco già nelle Baccanti di Euripide e in Medea E che ha piegato al mito anche San Paolo trasformandolo nel grande taumaturgo immune a ogni veleno. Terza puntata di " Pagani d'Italia" di Marino Niola, racconto dei luoghi, più o meno noti, del nostro Paese dove sopravvive la memoria di leggende e culti ancestrali. 

Marino Niola

L’estasi dionisiaca nei morsi e rimorsi dei tarantolati


Una menade in estasi danza nella notte. Tamburello nella destra e fiaccola nella sinistra. È una scheggia delle Baccanti di Euripide caduta sotto il tacco d’Italia. E incastonata, come una farfalla nell’ambra, sulla superficie di un vaso greco. Si trova in una sala del bellissimo museo Sigismondo Castromediano di Lecce, appartato foyer del politeismo salentino, dove si cammina piano piano per far perdere le proprie tracce alle ombre del passato che, nell’austera costruzione gesuitica, vivono la loro cattività archeologica. In attesa del viaggiatore incantato che le le faccia tornare a ballare. Come Agave e le sue sorelle che, nella tragedia euripidea, vengono pizzicate dal pungolo divino, l’oistros, da cui il nostro estro, che scatena epidemie di danza notturna.

Un po’ come fanno ora le menadi femministe quando ballano la pizzica nella Notte della taranta, che domani, anche in diretta tv, riunirà a Melpignano il popolo del ragno ballerino. Sulle tracce di quel che resta dell’aracne mediterranea e del rito musicale che per secoli ha rappresentato l’antidoto ritmico ai palpiti di una terra in trance. «Deliquii giocolieri, estri smarriti» diceva il poeta barocco Giacomo Lubrano che nel ’600 assistette al ballo terapeutico delle donne in preda alla stravaganza velenosa della tarantola. Una musicoterapia che dal Medioevo costituisce un enigma per medici, letterati e filosofi. Nonché un problema per la Chiesa. Costretta a fare i conti con una storia non sua.

Fatta di dee vendicative e di numi trasgressivi, morsi e rimorsi. Come quelli delle contadine che dopo aver subito il primo morso, pativano il cosiddetto rimorso, la recidiva del male che si manifestava una volta all’anno. Le chiamavano le spose di San Paolo perché andavano a ballare vestite di bianco a Galatina, come menadi pizzicate davanti alla statua dell’apostolo. Santu Paulu meu de le tarante, facitene la grazia a tutte quante. Era il loro stralunato Help!
Nel tarantismo salentino s’intrecciano i fili di una vicenda che viene da lontano. Da Dioniso e Medea. All’origine c’è proprio lei, la madre di tutti gli infanticidi che, dopo aver ucciso i figli, li gettò nelle acque di Punta Ristola, all’estremo del “finimondo” di Leuca. I due innocenti si trasformarono nei cosiddetti scogli dannati. «È stata lei la prima a sentire il rimorso », dicono le donne di Soleto, Calimera e Sternatia. Un vaso pugliese del III secolo a.C., ora a Monaco, la raffigura mentre fugge via su un carro guidato da un auriga che si chiama proprio Oistros. Pura coincidenza? Difficile, visto che il mito non lascia nulla al caso.

Platone, nelle Leggi, parla di malattie provocate dagli dei e che si curano con il movimento. Saltellando come cerbiatti al suono di strumenti dionisiaci. Proprio quel che facevano le tarantolate, che zompettavano come ninfe epilettiche. Obbedendo incantate al suono del tamburello e del violino, maneggiati da musicisti sciamani che conoscevano, per esperienza, la scala dei temperamenti, la gamma dei toni, le dissonanze degli umori e le consonanze degli amori. Era la rivincita degli antichi dei, declassati a demoni dal cristianesimo che li aveva occultati nei simulacri di santi benedicenti e di angeli svolazzanti. Ma, come diceva García Lorca, niente può l’angelo quando sente un ragno, per piccolo che sia, sul suo tenero piede rosato. Niente può e dunque si ritrae, smarrito, esitante.
E proprio in questa esitazione si è prodotto il compromesso storico tra pathos pagano ed ethos cristiano. Che ha avvicendato Aracne e Dioniso, patroni dei sussulti mantici e delle esaltazioni coreutiche, con San Paolo. L’intellettuale della Chiesa, campione del logos e vincitore dell’oistros. Perché a Malta aveva neutralizzato il veleno di un serpente diventandone immune. Così, al termine di un morphing secolare, l’apostolo di Tarso diventa il signore delle tarantole, un Dioniso cristiano. Per effetto di quel dispositivo cumulativo della storia, che non scarta ma ricicla.

Non a caso il Salento è un incrocio di tempi e di culture. Su questo tavolato è passato il mondo: Messapi, Spartani, Romani, Bizantini, Longobardi, Normanni, Svevi, Spagnoli, Turchi, Levantini. Il risultato è il particolare mood salentino. Ragione e arzigogolo, sobrietà e signorilità. Un bizantinismo frugale, che arrotonda gli spigoli del tempo e i caratteri degli uomini. Sovrappone segni, recupera eredità, ricicla identità. Stratifica e giustappone. Al punto da fare di megaliti preistorici come dolmen e menhir, pietrefitte e specchie, matrici di mitologie e leggende. Si dice che ogni menhir custodisca un tesoro.
    Giurdignano

Sotto la Specchia dei mori, a Martano, un paese della Grecia salentina, dove si parla ancora il griko, un dialetto greco giunto nel Medioevo da Bisanzio, sia nascosta una chioccia con dodici pulcini d’oro. E a Giurdignano, la Stonehenge italiana, con le sue lastre allineate in asse solstiziale, si trova il menhir di San Paolo. Una bocca da forno ciclopica al cui interno è dipinta un’immagine del santo. Sullo sfondo rosso, una ragnatela con tarantola. Sopra si innalza un dito preistorico che punta l’assoluto. Pare sia l’ultimo rifugio degli adepti del ragno che fa ballare. C’è chi assicura che vi si svolgano sabba della possessione mediterranea.

È la fotografia di un sincretismo vivente che fa del Salento un pandemonio mitologico. Un’officina di simboli. Aveva ragione Aldous Huxley, quando diceva che il cristianesimo ha commesso l’errore di desacralizzare la danza, emarginandola dal suo rituale. Come un residuo pagano da obliterare. Ma quella pizzica che Paracelso ribattezzò Lasciva Chorea, frenesia sfrenata, oggi torna. E diventa il motore culturale di un revival pagano. Feste, sagre, libri, siti che rimettono insieme frammenti di storie per costruire una nuova mitologia del ragno. Upgradando la rete di Aracne con quella del Web. Per costruire il neotarantismo 2.0.
La Repubblica – 26 agosto 2017

29 agosto 2017

CONTRO TUTTI I PREGIUDIZI E GLI SCHEMI PRECOSTITUITI



Che fenomeni epocali come le migrazioni di massa scatenino contraddizioni e conflitti è naturale. Non è di certo la prima volta che accade: pensiamo all'ondata anti-italiana negli USA degli anni 20 che portò all'uccisione di Sacco e Vanzetti o al massacro di lavoratori italiani ad Aigues Mortes nella Provenza di fine Ottocento. Ma, proprio il carattere “oggettivo” del fenomeno, frutto della globalizzazione e cioè dell'integrazione stabile nell'economia mondiale di quelle che fino ad oggi erano le periferie del mondo (e dunque dello sviluppo e non del sottosviluppo, come spesso si sente dire anche da parte di “autorevoli” esperti), dovrebbe indurre ad un approccio più razionale che tenga conto dell'estrema complessità della questione. Ed invece è tutto un fiorire di posizioni emozionali e moralistiche, che, spesso con toni ultimativi e minacciosi, invitano a prendere posizione e a schierarsi da una parte o dall'altra senza se e senza ma, quasi fossimo allo scontro finale fra il bene e il male. Chi esita è un traditore, della patria o del progresso (secondo i punti di vista), insomma un nemico da odiare. Un infantilismo manicheo amplificato dalla rete, la politica come il tifo da stadio. Noi non ci stiamo.L'intolleranza e l'odio (anche da sinistra) ci preoccupa. Da questa guerra civile virtuale noi disertiamo. Toglieteci pure l'amicizia su FB, se volete.
Mattia Feltri
La scuola dell'obbligo
È stata una bellissima giornata. Sembrava fosse arrivato il giudizio universale e il Padreterno avesse detto: tutti i comunisti di qua, e tutti i fascisti di là. In fondo è facile. Pensi che a Roma la polizia abbia torto e i rifugiati ragione? Sei comunista. Pensi che la polizia abbia ragione e i rifugiati torto? Sei fascista. Non scocciate con le sfumature, il dibattito è questo. O fascista o comunista.
Dunque, se pensi che la polizia non avesse tutti i torti, ma ti dispiace un po’ di più per i rifugiati, sempre comunista sei, e viceversa. Per esempio, ieri è bruciata la scritta Dux fatta con i pini sulla montagna sopra Antrodoco (vicino ad Amatrice), e se ti dispiace perché era suggestiva, si vedeva da lontano, era lì da settantotto anni, sei fascista. Al contrario sei tutto contento perché era uno dei simboli di una tirannia? Sei comunista. Ancora: pensi che il prevosto che ha fatto il selfie coi migranti in piscina poteva almeno risparmiarsi il selfie? Fascista. Pensi che quelli di Forza Nuova che hanno promesso di tenerlo d’occhio siano dei dementi? Comunista. Ieri era tutto così, nelle agenzie di stampa, nei social, fascista a te, comunista a me.
È un gioco che va di moda. Qualche mese fa mia figlia, era in prima media, mi ha chiesto: sei fascista o comunista? E io, né l’uno né l’altro. Lei non capiva, non è possibile, o fascista o comunista, me lo hanno detto i miei compagni, devo decidere se essere fascista o comunista. Vabbè, almeno lei a settembre va in seconda media, noialtri non so.

La Stampa – 26 agosto 2017

IL CRIMINE PEGGIORE DELLO STALINISMO

 
        Ci è capitato recentemente di soggiornare brevemente a Budapest e Praga, città vivacissime ormai pienamente inserite nei ritmi di vita frenetici dell'Occidente, ma osservando meglio e soprattutto parlando con persone non più giovani ci è parso di notare una tristezza di fondo diffusa, una mancanza di aspettative, un grigiore dell'animo. La cosa ci ha colpito, poi, leggendo il bel libro di Heda Margolius, moglie di un esponente comunista impiccato negli anni '50 per tradimento, abbiamo incominciato a capire come il crimine peggiore dello stalinismo sia stato privare un popolo della speranza. Perchè senza speranza non c'è vita, ma solo sopravvivenza.
Pietro Citati
Praga, anni ’50 le vite spezzate di Heda e Rudolf


Nel 1945 in Cecoslovacchia molti diventarono comunisti, come racconta Heda Margolius Kovály in un bellissimo libro ( Sotto una stella crudele, Adelphi, pagg. 216, euro 20), per una profonda disperazione nella natura umana. Il Partito comunista divenne l’ideale assoluto. Non era, in nessun modo, l’ideale. Nel partito erano entrati collaborazionisti, truffatori, burocrati. Le onnipotenti portinaie diventarono la spina dorsale del Partito: spiavano, ricattavano, come segretarie delle cellule. I comunisti sostenevano che gli ideali della Repubblica cecoslovacca prima della guerra, gli ideali democratici e umanistici, erano un’illusione senza fondamento.

Nel febbraio 1948, avvenne il colpo di stato comunista. Heda Kovály ebbe la sensazione di brancolare nel buio: un buio doppiamente angoscioso, perché abitava fuori di lei e dentro di lei. I confini vennero chiusi. Cominciò uno spietato processo di collettivizzazione, che provocò danni gravissimi all’agricoltura. La voce di Klement Gottwald tuonava dagli altoparlanti. La polizia politica irrompeva nelle case, arrestando bottegai e droghieri, i quali venivano rinchiusi in carcere, senza sapere di cosa venissero accusati. Calò la cortina di ferro. Il modello di stato era l’Unione sovietica.
I giornali dichiararono che la lotta di classe si era intensificata: ma non c’era nulla da temere, perché il Partito vegliava. Come in Unione sovietica, gli arrestati dalla polizia confessavano quasi sempre, sebbene innocenti. Il sospetto si diffuse; nessuno si fidava più di nessuno, perché il nemico — si diceva — era anche dentro il Partito. Circa cinquantamila cecoslovacchi finirono in carcere. Un mese dopo il colpo di stato, il cadavere del ministro degli Esteri, Jan Masaryk, venne trovato sul selciato sotto le finestre del ministero. Il governo annunciò che si era suicidato per un attacco di depressione. Era falso.
    Heda e Rudolf Kovaly

Heda Kovály non si iscrisse al Partito. Non le era mai piaciuto marciare a ranghi serrati: non amava gli appelli e le folle, gli slogan urlati, la parola “massa”. Trovò lavoro, come grafica, in una piccola casa editrice. Il marito, Rudolf Margolius, lavorava all’Istituto per lo Sviluppo industriale: era così preso dal suo lavoro che tornava a casa la sera tardi, rimanendo a leggere fino a notte inoltrata. Studiava economia. Seguiva un programma a favore di Israele, che si interruppe presto. Tutto, attorno a lui, era Segreto e Segretissimo. Diventò vice-ministro responsabile del Commercio con l’occidente. Era comunista, ma senza fanatismi: convinto che presto gli arrestati dalla polizia sarebbero tornati a casa. Ciò non avvenne. Diede le dimissioni, che non furono accettate. La notte camminava su e giù per la casa, mentre la moglie stava a letto, senza riuscire a dormire, con gli occhi spalancati nel buio.

L’anniversario del colpo di stato, il Febbraio Vittorioso, veniva festeggiato ogni anno. Nel 1950 anche Heda Kovály fu invitata, insieme al marito, nel Castello di Praga. La moglie del presidente, Marta Gottwaldová, vestita di uno splendido abito verde con strascico, avanzava tra due file ossequiose. Klement Gottwald entrò barcollando, sostenuto dal presidente dell’Assemblea nazionale: si avvicinò alla Kovály e farfugliò: «Cos’ha? Non sta bevendo. Perché non beve?». Quel viso paonazzo, quegli occhi spenti affogati nel grasso, quel balbettio roco le ricordarono le acclamazioni della gioventù comunista: «Noi siamo il futuro della nostra nazione: di Gottwald noi siamo la generazione». Ora quest’uomo, la speranza del 1945, uccideva la disperazione e la paura nell’alcol.

Nel novembre 1951, Rudolf Slánsky, il segretario del Partito, venne arrestato. La polizia segreta, ora chiamata Sicurezza di Stato, si scatenò. Ma Rudolf Margolius, il quale non conosceva Slánsky, era sempre convinto che si trattasse di una crisi passeggera. «Se tutto è una truffa — disse con innocenza alla moglie —, allora sono stato complice di un crimine orribile. E se dovessi convincermi di questo, non potrei più vivere, e nemmeno lo vorrei».
Una sera, all’inizio del 1952, alla porta dei Margolius bussarono cinque uomini, uno dei quali aveva in mano la valigetta di Rudolf. Il capo dei cinque salutò la Kovály con esagerata gentilezza, annunciando che il marito era stato arrestato. Perquisirono a fondo la casa: aprirono cassetti e armadi, esaminarono uno per uno centinaia di libri, guardarono le scarpe e gli oggetti da toeletta: lessero le lettere private e ne confiscarono un paio; consultarono il diario dove la Kovály aveva annotato l’altezza e il peso del figlio, scambiando questi numeri innocenti per le cifre di un codice segreto.

La mattina dopo, la Kovály telefonò ai ministri e ai funzionari suoi amici. Nessuno dei colleghi del marito volle parlare con lei. Ormai era una lebbrosa, evitata da tutti: l’incontro più casuale poteva suscitare sospetti. La Sicurezza di Stato controllò tutti quelli che conosceva: alcuni furono interrogati brutalmente. Nella casa editrice nessuno le diceva una parola: ogni volta che entrava in una stanza, le conversazioni si interrompevano, le facce impietrivano. Infine si licenziò. Di notte continuava a scrivere ostinatamente ai ministri, al comitato centrale, al presidente della Repubblica, al primo ministro, a tutte le persone influenti che conosceva. Non ricevette risposta. Seppe soltanto che il dossier del marito era contrassegnato con la lettera S. La S. stava per “caso Slánsky”.

Quando presero suo marito tutti smisero di parlare con lei di Rudolf Slánsky. Gli imputati erano quattordici, tra cui Rudolf Margolius, accusato di “sabotaggio”, “spionaggio”, “tradimento”, e di essere ebreo. Gli imputati si accusarono di tutti i crimini, inventando colpe immaginarie. Venne pubblicata la lettera del figlio di un accusato, Ludvík Frejka. Diceva: «Esigo che a mio padre venga inflitta la pena più severa, la condanna a morte. Voglio che questa lettera gli sia recapitata».
Dopo quasi un anno, la Kovály sentì la voce di Rudolf alla radio. Come un robot, stava recitando un discorso a memoria. Confessava una menzogna dopo l’altra: si era iscritto al Partito per tradirlo: aveva dedicato tutte le proprie energie allo spionaggio e al sabotaggio: era al servizio degli imperialisti: aveva organizzato un complotto contro la Repubblica Ceca; durante la guerra, a Londra, era stato addestrato come spia.

Il processo durò appena una settimana. La notte del 27 novembre, dall’apparecchio radio, una voce inondò la stanza della Kovály dal pavimento al soffitto: «Nel processo per il complotto antistatale, Rudolf Slánsky pena di morte: Rudolf Margolius pena di morte». La sera del 2 dicembre la Kovály vide il marito, che le disse: «Avevo paura che tu non venissi». Tornò a casa: prima dell’alba si addormentò per qualche minuto, proprio nel momento — seppe più tardi — in cui Rudolf morì senza dire una parola.
Dopo la morte del marito, la Kovály passò settimane distesa sul letto. Quando usciva di casa, vestita a lutto, era seguita lungo i marciapiedi da sguardi di disprezzo. Due anni dopo ricevette il certificato di morte: «Occupazione del defunto: viceministro; causa della morte; asfissia per impiccagione». Nell’aprile 1963, sette anni dopo il discorso di Nikita Chruscëv, avvenne il grottesco capovolgimento. Il comitato centrale del Partito comunista cecoslovacco decretò che «l’innocenza di Rudolf Margolius è stata stabilita senza ombra di dubbio».

La Repubblica – 24 agosto 2017