31 maggio 2018

TORNANO I "CONTI" NELLA REPUBBLICA ITALIANA!

Il prof. Giuseppe Conte, nuovo Presidente del Consiglio, con il Capo dello Stato


      Per quanto riguarda la crisi politica (che poteva diventare anche istituzionale) alla fine, mi sembra, che sia prevalso il buonsenso da parte di tutti. Speriamo adesso che il nuovo Governo non faccia troppi danni! (fv)

L'antologia di Franca Alaimo alla "Marina di libri"


   L'eros al femminile, in un bellissimo libro curato da Franca Alaimo, verrà presentato giovedì 7 giugno, alle ore 21, all'Orto Botanico di Palermo. Interverranno, oltre alla curatrice, le poetesse Anna Maria Bonfiglio, Noemi De Lisi, Maria Grazia Insinga, DaìtaMartinez, Patrizia Sardisco e il critico Nino Cangemi
   Un appuntamento da non perdere!

ULTIMO TANGO A PARIGI


Scrivere di cinema: Ultimo Tango a Parigi

di Elvira Del Guercio

Negli anni ’70 la grande novità di cineasti come Ferreri, Pasolini e Bertolucci, solo per citarne alcuni, era quella di leggere la vita dell’individuo a partire dal ruolo che l’erotismo investiva nella definizione, o meglio, nella rivelazione della sessualità di ciascuno.
Era l’ombra lunga del Sessantotto, «trasgredire era importante», come afferma Bertolucci in una recente intervista; infatti, in un momento storico e culturale in cui la trasgressione era diventata la conditio sine qua non per la maggior parte delle rappresentazioni artistiche, unita al bisogno di risvegliare una sotto-umanità plagiata dai miti superomistici dei media, il cinema osava, squarciando senza remore i veli del pudore e della moralità. Il cinema scandalizzava. Si potrebbe dire lo stesso per gli autori di oggi? È da vedere.
Non è un caso che all’inizio abbiamo nominato quei tre cineasti, tre nomi macchiati, sporchi e sudici di tutto ciò da cui il perbenismo comune avrebbe voluto divincolarsi. Tre mostri da esorcizzare. Nel 1968 Teorema traccerà con nettezza la definitiva posizione di isolamento intellettuale di Pasolini, condannato dalla censura e accusato di misticismo, reazionarietà e “religiosità” dalla critica di sinistra, mentre il mondo cattolico considerò spregiudicata e blasfema l’associazione tra il sacro e la sessualità.
Al 26° Festival di Cannes la proiezione di La grande abbuffata fu accolta da urla, fischi e improperi, parte della critica lo affossò. A disturbare era la forte dose di morbosità e volgarità insite nella psicologia di quattro borghesi che decidono di abbuffarsi fino a morire, manifesto estremo e totale della disillusione di Ferreri, per cui l’uomo altro non è che una macchina dedita a farsi e rifarsi sempre uguale a sé stesso. Il seme dell’uomo è una vanità e non potrà mai germogliare.
Per la sgradevolezza delle tematiche trattate i Cahiers du cinéma inserirono La grande abbuffata in una sorta di “trilogia della degradazione”, insieme a La maman et la putain e, guarda caso, Ultimo tango a Parigi (1973).
Non ci saranno mai più i corpi di Marlon Brando e Maria Schneider, il suo collo candido e piumoso e le labbra voluttuose o il volto di Paul deformato dalla solitudine, né quella nevrastenica e primitiva voglia d’erotismo consumatasi in un appartamento di Rue Jules Verne, uno spazio e tempo ideali in cui non dovere tener conto a nessuno. Uno spazio altro, di fuga dalle proprie identità e qualifiche nel mondo: «No names», dirà Paul, nessuna implicazione o coinvolgimento ulteriori rispetto al solo desiderio carnale che di lì a poco si sarebbe logorato. Il nome, chi o cosa si è o si fa nella società equivale a infliggersi una condanna, a essere implicati e costretti in una forma, ingabbiati nell’illusione di credere di sapere chi si ha di fronte, e il suicidio della moglie di Paul ne rappresenta il crollo definitivo.
I titoli di testa del film sono accompagnati da delle immagini di Francis Bacon, quasi a simboleggiare il connubio tra ciò che il pittore inglese voleva veicolare attraverso la deformità dei soggetti delle sue tele e il vissuto dei due amanti. Se i quadri di Bacon sono attraversati da un moto che li sfigurava, qualcosa di simile accade a Paul e Jeanne, pervasi da un’onda di erotismo che li stravolge e distorce, facendogli provare piacere e dolore nella maniera più pura possibile.
Non ci sarà mai più il sassofono di Gato Barbieri, disperato e tagliente, eccitante nell’andirivieni tra le sfumature brutali e placide della relazione dei protagonisti; la forma che sviscera il contenuto e la fisionomia di quell’ultimo tango che sradica le implicazioni esistenziali di Paul e Jeanne, in una sintesi definitiva tra superficie e sostanza. Non ci sarà mai più nulla di tutto questo non perché parteggiamo per il conservatorismo dell’immagine o l’intoccabilità del classico, ma perché, come scrive Roy Menarini, il cinema d’autore coevo sembra aver completamente dimenticato il ruolo dell’erotismo sul grande schermo.
In pochissimi sopravvive questa necessità, se pensiamo a Paul Verhoeven, Steve McQueen o all’ultima delirante prova di Francois Ozon, in cui ogni cosa è duplice, sconclusionata e torbida nella volontà della protagonista e del regista che ne mette in scena le perversioni, in un thriller saturo di pulsioni morbose ed eccessi fin dalle battute iniziali.
In questo senso, poiché, paradossalmente, si era più audaci in un periodo di non indifferente severità istituzionale e isterismo censorio rispetto alla libertà di cui godono – o potrebbero godere – oggi gli autori, rivedere Ultimo tango a Parigi significa ripensarci nelle sue trame interne ed esterne, riprovando a raccontare la sessualità al cinema nonostante la paura della derisione, del rischio e dell’isolamento.

31 MAGGIO 2018    da   http://www.minimaetmoralia.it/wp/scrivere-cinema-ultimo-tango-parigi/

S. LO LEGGIO, Cosa vuol dire oggi essere "marxisti"


“Siamo marxisti? Esistono marxisti?” 

Salvatore Lo Leggio


Per il duecentesimo compleanno di Marx non c'è stato il clamore di altre ricorrenze del passato riferibili al rivoluzionario di Treviri, né il fervore religioso di certe antiche celebrazioni. La fine dell'Unione Sovietica, che nel pensiero di Marx, anzi nel marxismo, anzi nel marxismo-leninismo, pretendeva di trovare la giustificazione della sua nascita e della sua esistenza, e del comunismo novecentesco che a quell'esperienza si collegava, ha laicizzato la ricorrenza. Il che non è necessariamente un male.
Un approccio laico, del resto, era quello di Antonio Gramsci un secolo fa, per il primo centenario della nascita, nell'editoriale scritto per il “Grido del popolo”, il settimanale dei socialisti torinesi, dal titolo Il nostro Marx. Basta rileggerne l'incipit: “Siamo noi marxisti? Esistono marxisti? [...] La questione sarà probabilmente ripresa in questi giorni, per la ricorrenza del centenario, e farà versare fiumi d’inchiostro e di stoltezze. Il vaniloquio e il bizantinismo sono retaggio immarcescibile degli uomini. Marx non ha scritto una dottrinetta, non è un messia che abbia lasciato una filza di parabole gravide di imperativi categorici, di norme indiscutibili, assolute, fuori delle categorie di tempo e di spazio...”.
Unica celebrazione solenne di questo secondo centenario è stata quella svoltasi a Pechino, in un immenso Stato tuttora governato da un Partito Comunista, ma il cui sviluppo lascia molte perplessità sulla natura sociale di quel modello economico e politico. A Pechino, per l'Italia, c'era Massimo D'Alema, che ha prodotto su Marx uno dei pochi interventi italiani “simpatetici” di questo centenario. Sulla stampa nazionale che un tempo chiamavamo “borghese” non sono, infatti, mancati interventi sul Marx pensatore, storico, teorico dell'economia, in gran parte encomiastici, e qualcuno di essi ricordava che per alcune sue formulazioni e ricerche egli oggi funge paradossalmente da maestro di quei capitalisti contro cui organizzava la classe operaia e il proletariato. Ma in genere gli elogi si accompagnano all'archiviazione del Marx ispiratore di movimenti politici, ad una sua collocazione monumentale nella storia della cultura, anzi della Cultura, occidentale. D'Alema no, in un certo senso è rimasto “chierico”: ha perciò parlato di Marx come maestro, tentando un'interpretazione della nozione di “capitale fittizio” e dichiarando che la lente critica di Marx può aiutare a governare il capitalismo, controllando le pulsioni distruttive che accompagnano il “feticismo del denaro”.
Trovo più convincente Immanuel Wallerstein che a Marx ha sempre guardato senza rispetto religioso. Nel concludere un suo prezioso libretto, Il capitalismo storico, più di trent'anni fa, quando l'URSS c'era ancora, scriveva: “ Karl Marx è stato una figura monumentale nella storia intellettuale e politica contemporanea. Ci ha lasciato una grande eredità, che è concettualmente ricca e moralmente ispirata.[…] Egli sapeva, a differenza di molti di quelli che si sono spesso autoproclamati suoi discepoli, di essere un uomo del secolo XIX […]. Adoperiamo dunque i suoi scritti nell'unica maniera ragionevole - consideriamolo un compagno di lotta, che ne sapeva quanto lui ne ha saputo”. Oggi – in un dialogo con un giovane studioso italiano, Marcello Musto, pubblicato un mese fa su “La lettura” del Corsera – Wallerstein ricorda come Marx ci abbia insegnato “meglio di chiunque altro che il capitalismo non corrisponde al modo naturale di organizzare la società” e come dal capitalismo come totalità (imperfetta, ma totalità) sia possibile uscire. Marx, soggiunge, nel capitalismo globalizzato e pieno di ingiustizie, è ancora nostro compagno e può ancora aiutarci ad uscirne.
Quanto a noi – parlo di me, ma credo possa essere riferito a diversi compagni di “micropolis” e “Segno critico” - non abbiamo difficoltà a definirci “marxisti” impenitenti, specie oggi che esserlo è fuori moda. Ricordiamo l'affermazione di Marx di non essere “marxista” e abbiamo letto con profitto su una rivista on line di storia delle idee, “InTrasformazione”, patrocinata dall'Università di Palermo e diretta da Piero Violante, l'utilissimo glossario storico sulla babele dei marxismi e sulla confusione semantica e concettuale che ne è nata, elaborato da Enrico Guarneri, un vecchio compagno della scuola di Mario Mineo. Ma, a modo nostro, ci piace continuare a dirci “marxisti”, provando a ricomporre, seguendo l'esempio del nostro compagno Karl, la scissione tra ricerca teorica e impegno pratico, di cui scrive Paolo Favilli sul “manifesto” (“Bisogna entrare nel merito di nuove forme di «marxismo politico». «Forme» aperte, diverse, qualche volta magari conflittuali, ma con le radici salde nelle logiche dell’antitesi e della critica dell’economia politica”). Ci riconosciamo in quanto, all'inizio del millennio, ribadiva un grande intellettuale (ed eccellente poeta) come Edoardo Sanguineti: “Nel momento niente offre una visione più matura, più ricca del marxismo che, mi pare, è ancora quella che spiega meglio a che punto siamo della storia umana, quali sono i temi fondamentali da affrontare e anche qual è la direzione verso la quale muoversi, che poi è la questione veramente radicale. Cioè: che fare”.
Il nostro "marxismo" è un'approssimazione, un modo di dire, non certo un pensiero in sé compiuto, ma, così concepito, non rientra nel circuito dell'ideologia. L'ideologia non cerca verifiche o smentite nella realtà, si contenta della coerenza formale; il pensare alla marxista invece di necessità comporta scarti e accidenti. Si può essere davvero "marxisti", solo lasciando aperte porte e finestre.

"micropolis", maggio 2018 - Nella rubrica "La battaglia delle idee"

30 maggio 2018

CONTRO LA DITTATURA LIBERISTA






 

Storia della lotta di classe. Un conflitto multiforme 

Roberto Monicchia

Da molti anni Domenico Losurdo è impegnato in una generosa e meritoria battaglia contro la straripante egemonia culturale della destra. A partire dall‘equiparazione tra marxismo e totalitarismo, e anche grazie alle abiure di molti intellettuali di sinistra, la rivoluzione conservatrice ha compiuto un lungo percorso di decostruzione reazionaria, per legittimare l'assolutismo liberista.
Questo percorso di critica dell'ideologia (già sperimentato, per citarne solo alcune, nelle opere su Hegel, Nietzsche, Stalin) continua con La lotta di classe. Una storia politica e filosofica (Laterza, Roma-Bari 2013). Negata e contrastata fin dall'apparizione nel Manifesto dei comunisti, la teoria della lotta di classe è stata interpretata e applicata in accezioni tanto diverse da poter fungere da chiave di lettura della vicenda del movimento operaio del XIX e XX secolo.
Losurdo si dedica in primo luogo a chiarire il significato e la portata del concetto così come viene elaborato da Marx ed Engels. Al centro del ragionamento vi è la concezione plurale della lotta di classe, che vale sia in senso storico che in senso attuale: il conflitto capitale-lavoro è solo una delle forme della lotta di classe, che non annulla altre contraddizioni tra le quali hanno particolare importanza la questione femminile e soprattutto quella nazionale. A differenza di Fourier e Proudhon prima e dei socialisti imperialisti alla Lassalle poi, Marx ed Engels riconoscono l'importanza e la legittimità della questione nazionale (la solidarietà con la causa irlandese e polacca è ricorrente) e coloniale (India e Cina). Molto significativa è la decisa presa di posizione per il nord “capitalista” nella guerra di secessione, che indica come obiettivo prioritario l'abolizione della schiavitù: la barbarie dello sfruttamento capitalista si riflette in quella coloniale; la liberazione del proletariato non è una questione economica, ma una “lotta per il riconoscimento”. La dinamica delle lotte di classe è integralmente storica, il che implica un possibile superamento della divisione in classi e l'universale riconoscimento della dignità dei popoli. In questo senso il marxismo nasce e si sviluppa in netta opposizione ad ogni determinismo, tanto quello di chi nega o attenua l'esistenza del conflitto (come nel giusnaturalismo e nel contrattualismo), quanto quello di chi, come Nietzsche, vede nella subordinazione un dato naturale e necessario. L'approdo a questa visione articolata e mobile non è però immediato né pacifica. Nel 1848, e di nuovo al tempo della Comune, Marx è propenso ad affermare una prospettiva rivoluzionaria unificata sull'asse del conflitto capitale-lavoro.
La molteplicità delle forme e manifestazioni, spesso contraddittorie, in cui si presenta la lotta di classe, acquisisce importanza decisiva nell'epoca aperta dalla rivoluzione sovietica, che a sua volta si sprigiona dalla grande guerra, evidenziando fin dal suo innesco l'intreccio tra questione nazionale e lotta operaia. Lenin è l'interprete più avvertito dell'età dell'imperialismo, di cui coglie la “doppia diseguaglianza” che attraversa il XX secolo: i paesi coloniali o comunque subordinati (come la Russia zarista), non possono realizzare l'emancipazione delle classi subalterne senza uscire dalla dipendenza economica e dall'isolamento politico internazionale. Fin da Brest-Litovsk il governo dei soviet sperimenta per primo il dilemma che tante tragiche scelte imporrà ai regimi postrivoluzionari del ‘900: come espropriare le vecchie classi dirigenti, reperendo contemporaneamente le risorse (in termini di capitali e conoscenze) per sviluppare le forze produttive necessarie a uscire dal sottosviluppo? Lenin affronta il problema con la Nep: bisogna riaprire all'iniziativa economica e al “know how” della borghesia, senza mettere in discussione il monopolio politico bolscevico, perché senza un'adeguata base materiale non è possibile alcuna forma di socialismo. Vista col criterio della doppia diseguaglianza (sociale e nazionale), lo spostamento verso “sud-est” delle lotte rivoluzione nel novecento non è la confutazione dell'ipotesi marxiana, piuttosto la conferma della natura multiforme e su più piani della lotta di classe. Il realismo “costruttivo” di Lenin è uno dei due poli attorno a cui oscilla il movimento operaio; all'opposto si manifesta a più riprese - come nel 1919-20 - l‘ipotesi di una “guerra civile mondiale” tra le due schiere omogenee della borghesia e del proletariato. Questa visione riduttivistica si accompagna spesso (in Urss e fuori) ad un'identificazione del socialismo con un egualitarismo assoluto, che porta a trascurare la varietà delle lotte o a considerare tradimento e sconfitta qualsiasi altra tendenza. Rientrano in questo schema quanti esaltano la miseria “condivisa” del comunismo di guerra contro la “restaurazione capitalistica” della Nep, come coloro che svalutano la lotta dell'Urss al nazismo perché macchiata da un carattere patriottico. In questo modo si manca la comprensione dell'importanza storica del movimento anticoloniale; del resto il progetto nazista, che proietta in Europa il colonialismo, evidenzia come il capitalismo imperialista si fondi contemporaneamente sull'oppressione di classe quanto su quella nazionale e razziale.
Nella parabola della rivoluzione cinese è contenuto l'intero spettro dei modi di intendere e condurre la lotta di classe. La peculiare esperienza dell'esercito popolare maoista ha al centro la necessità di superare insieme l'oppressione di classe e la dipendenza economica, riconoscendo la funzione progressiva dell'alleanza con la borghesia nazionale in funzione antimperialista. Queste caratteristiche, oscurate da svolte estremiste e catastrofici scacchi, riemergono pienamente con la svolta di Deng, che si rifà ripetutamente all'esperienza della Nep. Precipitosamente liquidata da sinistra come “restaurazione capitalistica”, la strepitosa crescita cinese va invece considerata come l'esperienza più avanzata di uscita dalla “doppia diseguaglianza”. Confermano questa lettura, del resto, gli esiti politici ed economici opposti della crisi del 1989 per Cina e Urss. La catastrofe sociale e nazionale della Russia postsovietica mostra le similitudini tra quest'epoca e la restaurazione del 1815. Sul piano ideologico il crollo di regimi politici oppressivi e decrepiti diviene discredito di ogni ipotesi di cambiamento, ennesima riproposizione dell‘estinzione della lotta di classe, e insieme rilegittimazione della superiorità occidentale (colonialismo incluso); al modello unico liberale corrisponde sul piano politico il lancio di un progetto globale unipolare. Ma come la restaurazione postnapoleonica chiuse solo momentaneamente l'età delle rivoluzioni, così in pochi anni “superimperialismo” Usa e “fine della storia” sono falliti miseramente. Il paradigma della lotta di classe resta il più adatto a comprendere la storia mondiale. Del tutto di là da venire è invece la possibilità che i diversi conflitti attuali trovino una qualche sintesi, almeno sul breve periodo.

“micropolis”, giugno 2013

F. ARMINIO, Provate con la poesia


Se non ci riuscite in altri modi, provate con la poesia (fv)


Provate con la poesia
a baciare gli uomini e le donne,
a guardare gli alberi,
a parlare con i morti.


Provate con la poesia
a credere in dio,
a guardare il cielo,
a parlare con i figli.


Provate con la poesia
a sentire il cuore di un altro,
a capire cosa ci dice la luna,
cosa vogliono i gatti.


Provate con la poesia
a sentire la vostra inquietudine,
come un grappolo d'uva,
a riempire il giorno di ardore,
a sentire il buio che abbiamo nelle ossa.


Provate con la poesia
alle nove del mattino,
a mezzanotte,
nessun giorno sia senza un rischio,
una follia,
fidatevi di chiunque sia commosso,
consegnatevi ad occhi chiusi
alla poesia.


Franco Arminio

NINO LO PINTO: L' IMMAGINAZIONE AL POTERE


    Un caro amico marinese, Nino Lo Pinto, poco fa, commentando una surreale  ipotesi di soluzione dell'attuale crisi politica, ne ha proposto una che supera di gran lunga qualsiasi immaginazione:

IMMAGINAZIONE AL POTERE 

     Magari ci invade la Svizzera e ci porta fuori dall'Europa, ma i marziani si alleano con Renzi e chiamano Gianfranco Fini alla guida di un governo con ministro dell' economia Fausto Bertinotti , i mercati approvano la Merkel sposa Bertinotti e i due formano il regno dell'asse. A Di Maio viene proposto di diventare Rais della Svizzera ove il regnante viene accolto con grande entusiasmo e lo stesso approva i matrimoni omosessuali nel paese del formaggio con i buchi, Berlusconi si reca nel cantone elvetico, dove, a detta sua, suo padre si era battuto come partigiano, lo raggiunge Mattarella, i due si sposano e l'Europa nazionalizza le banche svizzere appianando i debiti di Grecia, Italia, e della Repubblica Catalana.   

30 maggio 2018  Nino Lo Pinto

UN PO' DI SILENZIO, PER FAVORE




Da una poesia giovanile di Luciano Bianciardi:

Riconosco il silenzio
che mi è caro,
quell’acqua che sussurra
sul gemito d’un flauto
e l’accordo dell’armonica.

Così non si è soli:
lontani dal chiasso
ostile di tante voci
ci ritroviamo
con l’anima
pura
nell’indefinibile accordo
di questo silenzio.

Luciano Bianciardi

 

Taranto, Novembre 1944

PER UNA RETE PIU' CIVILE


Il Manifesto della comunicazione non ostile è un impegno di responsabilità condivisa per creare una Rete rispettosa e civile, che ci rappresenti e che ci faccia sentire in un luogo sicuro. Scritto e votato da una community di oltre 300 comunicatori, blogger e influencer, è una carta con 10 princìpi utili a ridefinire lo stile con cui stare in Rete.

Leggi il resto qui:  http://paroleostili.com/manifesto/

Alessandra Fini, Amami...

Ritratto di Kater Kālī Pillar

Amami come sa fare la pioggia
che cade sulla città dei biancospini
e come perle
rimbalzano dalle fila delle siepi suonando
piccole voci soprano

Dai vetri la luce e la mistica
di un alone di fiato
come l'ala del tuo silenzio
che nell'acqua diffonde cerchi
abbracci di un prima
di ogni altro tempo,di ogni pensiero
o forma,amami senza la mina di matita
senza disegno e senza firma
senza sapere quasi come chiamarmi
Amami proprio perché non sai se sono
io quel fiore uguale agli altri
appeso alla siepe a guardarti

Alessandra Fini

C. LEVI-STRAUSS, uno dei più grandi antropologi del 900



Una famiglia ebrea di antica tradizione. L’amore per la musica e per i romanzi. Il viaggio in Brasile fra gli indigeni del Mato Grosso. New York e lo strutturalismo. Le donne. Il dietro le quinte di una esistenza lunga un secolo.


Pietro Citati

Lévi-Strauss cent’anni vissuti sempre altrove

Claude Lévi-Strauss nacque, a Bruxelles, il 28 novembre 1908. Era completamente ebreo. Il trisnonno, Loeb Israel, nato a Strasburgo il 22 gennaio 1754, prese il nome di Strauss. La trisnonna, Judith Hirschman, era figlia di un famoso rabbino, Rabbi Rafael, celebre in tutta l’Alsazia del diciottesimo secolo.

All’improvviso, lo strano e lo stravagante si diffusero nella sua razza: il bisnonno, Isaac, nato a Strasburgo nel 1801, diventò violinista nell’orchestra del Teatro italiano a Parigi, diretta da Gioacchino Rossini. Inventò (o quasi) il valzer, la mazurka, la polka, la quadriglia: compose moltissimi brani tra cui la quadriglia di Orphée aux Enfers di Offenbach. Sia lui che i figli erano integrati nella società del tempo.

Claude si sentiva esclusivamente francese; e non conobbe mai gli impulsi che spinsero Gershom Scholem a risalire fino all’ebraismo della Cabala e del Chassidismo. Non amava nemmeno la Bibbia o i testi di Qumran. Quando visitò Israele nel 1985, si sentì un estraneo.
    Con i familiari

La madre di Claude, Emma, bella, piccola, abilissima cuoca, cantava tutto il giorno, specialmente le arie di Orphée aux Enfers e di La belle Héléne. Il padre Raymond era un pittore modesto: per tutta la vita fece ritratti e piccole ceramiche in stile cinese. Il talento di bricoleur apparteneva a tutta la famiglia.

Claude fu un figlio unico, preciso, silenzioso, affettuoso, gentile, senza apparenti tratti di genialità. Leggeva molti libri, in primo luogo il Don Chisciotte: scriveva racconti, tra cui Il carbone e i fiammiferi.Amava moltissimo Le Nozze di Stravinsky e Pelléas et Mélisande di Debussy, che gli fecero sembrare antiquata la musica occidentale.

Disegnò scene per il Gabinetto del dottor Caligari di Wiene: scrisse un saggio su Marx e il materialismo storico; e al liceo scoprì alcuni testi di Freud, pochi anni dopo la pubblicazione. Era ateo. Amò il Voyage au bout de la nuit di Céline. Una sensazione lo accompagnò per tutta la vita: «Si ha bisogno di poco per esistere»; «La vita è corta. Ci vuole solo un po’ di pazienza».

Nell’ottobre 1931, a quasi ventitré anni, cominciò il suo servizio militare a Strasburgo, da cui scriveva regolarmente ai genitori ( Lettere ai genitori 1931- 1942, a cura di Monique Lévi-Strauss, traduzione di Massimo Fumagalli, il Saggiatore, pagg. 422, euro 37). Queste lettere non sono dissimili dalla prima parte del Diario di guerra e di prigionia di Carlo Emilio Gadda, iniziato qualche anno prima. Si sentiva solo, sebbene - come Dostoevskij - «mai abbastanza».

Nell’ottobre 1932, Lévi-Strauss venne nominato professore di filosofia al liceo di Mont-de-Marsan, vicino a Poitiers. Mont-de-Marsan era come Yonville in Madame Bovary: con il grande mercato e i negozi e i commercianti e le fiere e la folla multicolore e pettegola. Nel settembre sposò Dina Dreyfus, anch’essa ebrea, una donna allegra e divertente.

Si occupava di quattro cose: la moglie, il cibo, i romanzi polizieschi e il socialismo. Il cibo era, per lui, la cosa essenziale. Con quale estasi parlava di peperoncini e confit di maiale e zuppe di zucca e conigli al sugo e fegato d’oca all’agro e tartufi alla lorenese e calamari e tacchino farcito. Come per quasi tutti i francesi, il cibo era per lui, insieme una straordinaria ghiottoneria, un’attività sociale e una questione scientifica.

Con passione sempre crescente leggeva romanzi polizieschi e poi pensò di essere lo “Sherlock Holmes dell’etnologia”. Al cinema amava Ejzenštejn e René Clair e sopratutto Buster Keaton e Chaplin. Nel 1928, a vent’anni, diventò segretario della sezione socialista: Léon Blum gli scriveva lettere affettuose; teneva conferenze di argomento politico e soltanto dopo molti anni abbandonò la sua passione socialista.

Il 4 febbraio 1935, partì per il Brasile: gli era stato proposto di insegnare sociologia all’università di São Paulo; a marzo cominciò a tenere lezioni accanto a Fernand Braudel e Roger Bastide, e conobbe un grande etnologo, Alfred Métraux. Fu affascinato da São Paulo. Si avventurò nel Mato-Grosso, tra gli indigeni Kaingang, Caduveo, Nambikwara e Bororo. Alla ricerca di una specie di cultura originaria, esplorò ciò che era tenebroso e sconosciuto. Aveva nel cuore l’immagine di Conrad: gli sembrava di essere nella stessa condizione di lui, quando molti anni prima aveva scritto Cuore di tenebra; e pensò di essere una specie di sua reincarnazione.
Nel maggio 1941, dopo un breve soggiorno in Francia, raggiunse insieme a Victor Serge e a André Breton (che sembrava un signore del Grand Siécle) dapprima Porto Rico e poi New York, dove insegnò alla New School for Social Research. Conobbe Jacques Maritain, Henri Focillon, Alexandre Koyré e sopratutto lo spiritosissimo e scintillante e drammatico Roman Jakobson, di cui seguì i corsi di linguistica.

Jakobson diventò il modello del suo pensiero; e gli insegnò i rapporti tra i colori e i suoni. A quell’epoca - egli disse - era ancora uno “strutturalista ingenuo”. Incontrò André Weil e Simone, di cui credo non comprendesse il pensiero religioso e lo straziante spirito di sacrificio.
Tra il 1941 e il 1947 abitò a New York. Amava molto la città: la contemplava dall’alto, trovando che non era affatto, come si diceva, monotona e standardizzata, ma lasciava infinito spazio alla immaginazione. Frequentava insaziabilmente i musei, dove trovò le più belle collane precolombiane che avesse mai visto. Una meravigliosa gatta nera venne ad abitare con lui. Parlò dai microfoni della Voce dell’America: saliva spesso al Rockfeller Center, da cui contemplava l’immensità formicolante: New York stava, per lui, al di qua e al di là della civiltà occidentale, come «il paesaggio immenso di minerali ed acque» di cui aveva parlato Baudelaire; era giunta alla decrepitezza senza passare attraverso l’antichità e la civiltà.

Nella prima giovinezza non aveva mai rinunciato ad essere uno scrittore: ma lì, a New York, di fronte a quella vivente enormità, abbandonò un romanzo e un dramma, intitolato Apoteosi d’Augusto. Si ribellò contro ogni pensiero metafisico, con un furore quasi ossessivo. Detestava la parola filosofia e la parola religione: con uno slancio che meraviglia, visto che per tutta la vita si occupò sopratutto di metafisica e di religione. Trovò una specie di modello in Jean de Léry, che verso la metà del sedicesimo secolo scrisse il Voyage faict en la terre du Brésil.
Avrebbe desiderato essere come lui: un etnologo che, per la prima volta, scopre il nuovo mondo e ne parla con un’inesauribile freschezza e novità di sensazioni. Via via che passavano gli anni, ammirava sempre di più Michel de Montaigne, il quale finì per diventare l’esempio della sua vita e della sua opera. Come amava il suo stile, intenso e succoso: la sua immensa memoria: la sua biblioteca, le sue mistificazioni, la sua serena disperazione, il suo ironico dilettantismo, la sua ironica nonchalance. Come lui, pensava che «non c’è niente di più vano, diverso e ondeggiante dell’uomo».

In Brasile diventò etnologo senza sapere di esserlo; e poi, a New York e a Parigi, tenne regolarmente i suoi corsi. Sull’esempio di Roman Jakobson cercò un sistema: una struttura: un modello (sebbene, nella realtà, non esista nessun modello); un gioco mobile e ricco di relazioni, di varianti e differenze. Usava qualsiasi metodo, con la certezza che, se fosse stato necessario, lo avrebbe cambiato. Affrontò l’inconscio, e lo portava alla coscienza, sperando di giungere ad un punto di certezza come quello di Alfred Einstein. Voleva mettere ordine nel mondo, sebbene sapesse che era impossibile. Sempre, in ogni luogo, sopratutto in se stesso, esaltava ciò che è sovrapersonale.

Mentre scriveva le ultime Mitologiche, Claude Lévi-Strauss sentì che la sua opera era compiuta. Mancava soltanto qualche ritocco. Se si guardava intorno, con i suoi “occhi d’elefante”, non tornava mai sugli stessi argomenti: era sempre imprevedibile. Proprio per questo, si formò delle abitudini, dietro alle quali scivolava, libero come un pesce. Alternava il lavoro a casa, quello al Cnr, le passeggiate, la lettura dei libri contemporanei, la lettura (puntualissima) del giornale, le rare frequentazioni del teatro e del cinema. Era attentissimo alle nuove scoperte tecniche, sebbene non amasse l’idea moderna di progresso.

Sebbene come Madame de Staël non amasse viaggiare, viaggiò moltissimo: in Pakistan, in Canada, in Colombia britannica e cinque volte, tra il 1977 e il 1988, in Giappone. Qualche volta pensò a un Buddhismo cristianizzato o meglio a un Cristianesimo buddhizzato.
Aveva amato molte donne: in ognuna di esse trovava le altre. Forse l’ultima moglie, Monique Roman, fu la più cara: aveva diciotto anni meno di lui; discendeva da una madre ebreo-americana e da un padre belga. Abitava a rue des Marronniers nel cuore di Parigi: era bella e sapeva moltissime cose. Vicino a lei, scrisse Regarder écouter lire pubblicato nel 1993: un libro straordinario, libero da qualsiasi schema o ricordo etnologico, che parla di Poussin, Rameau, Diderot, suoni, oggetti e colori. Adorava Poussin come nessun altro pittore; e credo approvasse le sue parole sul fatto che Caravaggio era venuto al mondo per distruggere la pittura. Claude Lévi-Strauss diventò, quasi senza accorgersene, vecchissimo.

Era un’abitudine di famiglia. Le due nonne erano morte quasi centenarie; e lui superò agevolmente il secolo. Pensava, fantasticava, leggeva: anche gli ultimi libri usciti: e seguiva i film di Eric Rohmer. Morì un mese prima di compiere centouno anni, il 30 ottobre 2009, e venne sepolto a Lignerolles, un villaggio della Côte-d’Or. Sino alla fine uscì da se stesso e dal proprio paese. Nel 1989, Eugenio Scalfari lo invitò a collaborare a Repubblica: scrisse sedici articoli, raccolti col titolo Siamo tutti cannibali (Il Mulino, pagg. 176, euro 14, con una postfazione di Bernardo Valli), abbandonando, come forse non aveva mai fatto, gli argomenti trattati per tutta la vita. Così, sino alla fine, visse altrove.

la Repubblica – 17 aprile 2018

A. A. TARKOVSKIJ, POETA e REGISTA

Andrej Arsen’evič Tarkovskij

Andrej Arsen’evič e io

di Fabio Zuffanti

Andrej Arsen’evič Tarkovskij nasce nel piccolo villaggio russo di Zavraž’e nel 1932. E’ figlio del poeta Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij, uno che con le parole sapeva costruire paesaggi di pallida malinconia e struggimento ma riusciva anche a usare i suoi componimenti come lame affilate nei confronti delle ingiustizie del potere politico. Un uomo scomodo così come è scomodo il figlio, che trasla l’immaginario paterno in sembianze cinematografiche di parimenti stupore e commozione per ciò che l’uomo custodisce in sé: il suo afflato spirituale, le sue emozioni, la sua piccola esistenza dispersa tra le galassie dell’universo che si fa essa stessa universo di paure, gioie, incertezze e speranze.
Anche in Andrej Arsen’evič è forte l’attrito tra le sue idee pure e la rigida burocrazia del paese natio, che prevede un ferreo controllo delle sceneggiature e dei girati per i suoi film. L’opera del regista viene setacciata fin nei minimi dettagli, a volte criticata, tagliata e discussa allo sfinimento prima di potere essere visionata dal pubblico. Una creatività senza barriere come quella di Andrej Arsen’evič non può non soffrire profondamente questo stato di cose. Ognuno dei suoi cinque film realizzati in Russia si rivela un assurdo calvario, tale che a un certo punto il regista, per potere finalmente assaporare quella completa libertà artistica a cui tanto anela, è costretto a emigrare, prima in Italia e poi in Svezia, per girare le ultime due pellicole della sua vita.
I film di Andrej Arsen’evič sono ognuno uno squarcio nella tela dell’esistenza, sua e dei suoi estimatori. Lavori nei quali le vicende narrate hanno importanza solo fino a un certo punto, quello che più conta è la visione pura, i quadri che il regista costruisce fotogramma dopo fotogramma. In ogni frangente dell’opera di Andrej Arsen’evič vi è la ricerca dell’elevazione dell’essere umano, il costante interfacciarsi con le profondità del proprio io, un costante uso di elementi naturali; l’acqua, l’ambiente, la luce… A volte la raffigurazione di piccole scene casalinghe, una brocca, un vecchio tavolo in legno, diventano commoventi squarci verso l’assoluto. Vi si scorge quella levità alla quale il nostro spirito spesso anela e che con grande difficoltà riusciamo, nella vita di tutti, i giorni ad afferrare.
I personaggi che Andrej Arsen’evič mette in campo sembrano spesso persi nel mistero di ciò che li circonda. A cominciare dal piccolo Ivan del lungometraggio d’esordio, L’infanzia di Ivan (1962, tratto da un racconto di Vladimir Bogomolov). Orfano dodicenne che si è unito ai partigiani russi nella lotta contro l’esercito tedesco nella seconda guerra mondiale, Ivan si affanna in tutti i modi per portare a termine le sue missioni in mezzo a una serie di adulti le cui certezze, minate dagli orrori del conflitto, barcollano pericolosamente. Solo lui scorge orizzonti più ampi, non ha nulla da perdere e ha una fede assoluta nel suo valore. Dove può si lancia in peripezie al limite dell’umano, sempre freddo e implacabile nella sua visione. La stessa fede incrollabile e impeto al sacrificio che Andrej Arsen’evič conserverà per tutta la sua esistenza. La stessa missione vitale che muove l’esistenza di Andrej Rublev, narrata nel secondo film omonimo (1966). Rublev è stato autore di miracolose opere pittoriche nella Russia del Quattrocento. La pellicola racconta dei travagli e delle umane debolezze che, a differenza della solidità del piccolo Ivan, si aprono tutto campo nelle vicissitudini del protagonista. Rublev sbanda, si avvicina e si allontana da se stesso, perde e recupera la fede nel suo lavoro di artista che dovrebbe invece possedere un costante e sincero afflato mistico per ammantare le icone di sacra armonia. Di incertezza in incertezza più si va avanti nella filmografia di Andrej Arsen’evič più l’uomo si spoglia di tutte le sue sovrastrutture per farsi nudo davanti a tutte le precarietà.
Conobbi Andrej Arsen’evič da bambino, avrò avuto sette/otto anni. Vicino casa c’era un circolo aziendale ove mio padre passava il tempo libero. Il circolo era dotato di un cinema-teatro ove, ogni fine settimana, proiettavano film a disposizione dei soci, gratuitamente. Ricordo un pomeriggio la visione della terza opera di Andrej Arsen’evič, Solaris (1972). Non capii nulla della trama, ma qualcosa di quelle immagini mi si conficcò dritto nel cuore. Tratto da uno straordinario romanzo del polacco Stanislaw Lem, Solaris narra della missione dello scienziato Kris Kelvin, inviato a indagare su strani fenomeni che stanno caratterizzando la vita di una stazione spaziale orbitante intorno al pianeta da cui prende nome il film. I componenti che vivono nella stazione sembrano in preda a una misteriosa tensione che tentano invano di arginare. Al suo arrivo Kelvin capisce in breve il motivo di ciò trovandosi a fronteggiare assurde apparizioni che stanno facendo vacillare la sanità mentale dei suoi compagni. Anche Kris è messo innanzi a una di questa presenze, che nel suo caso prendono le forme della moglie Hari, morta suicida alcuni anni prima.
Negli anni non dimenticai le scene quel film, in particolare le lunghe sequenze iniziali di Kelvin nel giardino della casa paterna e alcuni frangenti con Hari. Mi portai dietro questi fotogrammi a lungo, fino a quando, molto tempo dopo, il film passò in televisione e io riuscì di rivederlo. Da quel momento mi innamorai perdutamente del regista, del quale presto andai a ricercare l’intera filmografia e tutte le informazioni possibili. Nel periodo del cinema al circolo aziendale vidi una marea di film ma di questi ne ricordo pochissimi, solo uno si è così impresso nel mio ricordo: Solaris. E quando lo rividi capii che non avrei più potuto farne a meno, di quello e degli altri lavori di Andrej Arsen’evič, perché dentro quelle pellicole c’era un mondo che mi apparteneva e che io ritrovavo ogni volta che le immagini apparivano. E ancora adesso così, è una sorta di ritorno a qualcosa di intimamente mio che avevo perso, un’epifania. Per quanto ci provi non riuscirò mai a spiegare tutto questo come vorrei, e forse è anche giusto sia così, che tali sensazioni rimangano indistinte e misteriose. So solo che l’opera di Andrej Arsen’evič è anche un po’ la mia casa.
Una casa dalle pareti di legno, ricoperta dalla verdeggiante vegetazione della campagna russa. Quella dell’Andrej Arsen’evič bambino ne Lo specchio (1974), il capolavoro che seguì Solaris. L’ambientazione fantascientifica del film precedente cede il posto a una serie di flash, slegati da ogni tentativo evidente di trama, che riguardano l’esistenza dell’artista, con tutte le sue insicurezze e contraddizioni. In realtà la pellicola è dotata di una sua intrinseca sequenza narrativa che però non fa altro che specchiarsi continuamente in un gioco di rimandi tra fanciullezza e maturità, madre e moglie, padre (protagonista delle toccanti poesie narrate nel corso del film) e figlio, società del passato e del presente. Lo specchio è l’opera più intima e personale di Andrej Arsen’evič, la più onirica e metafisica, la più concreta e astratta allo stesso tempo. Fondamentale per conoscere e penetrare a fondo l’animo del poeta visivo. Un animo che a volte gioca a nascondere i significati. Ciò che però conta non è cosa Andrej Arsen’evič celi al mondo, quali metafore e quanti significati più o meno reconditi dovremmo sviscerare dai suoi film. E’ ciò che la pura visione delle sue opere evoca istintivamente a essere fondamentale, le emozioni slegate da pretese razionali a tutti i costi. Egli lo ha sempre ripetuto, non cercate significati nei miei film, piuttosto cercate voi stessi.
Poi Stalker (1979), la vetta assoluta di Andrej Arsen’evič, ancora tratto da un romanzo fantascientifico, Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij. Una fantascienza livida e concentrata sull’esplorazione degli abissi dell’anima, più che quelli di un spazio alieno. Tre individui – uno scienziato, uno scrittore e una guida – si incamminano in un paesaggio devastato, detto La zona. In tale territorio, visitato tempo prima da esseri giunti da regioni sconosciute del cosmo, i tre si muovono in cerca di una stanza che può esaudire ogni desiderio. Sulla soglia del traguardo decidono però di non entrare. Il luogo sembra infatti rendere vive non le volontà consce bensì quelle maggiormente celate negli anfratti della coscienza. I tre rinunciano quindi ai propri desideri per paura di scoprirli. L’uomo, per Andrej Arsen’evič, ha un animo così confuso e malato da fuggire dal confronto con le profondità del proprio sé. Guardarsi dentro sarebbe insostenibile.
Nei primissimi anni Ottanta, stanco delle continue problematiche legate al suo lavoro, Andrej Arsen’evič abbandona la Russia per non farvi mai più ritorno. Con sé porta l’abbozzo di sceneggiatura di un nuovo film e la visione di un personaggio, un poeta di nome Gorčakov che viaggia in Italia alla ricerca di notizie su un musicista di cui ha intenzione di scrivere la biografia. Nelle lande italiche però Gorčakov si perde. Si ammala di nostalgia, di uno struggimento che non gli concede requie. Lo struggimento di chi ha perso la bussola e non capisce più quale sia il senso della sua missione, artistica e umana. Nostalghia (1983), la cui sceneggiatura viene messa a punto con l’ausilio con Tonino Guerra, è ancora una volta lo specchio degli affanni di Andrej Arsen’evič. Lo struggimento di Gorčakov – il ritrovarsi in una terra così colma di bellezza, l’Italia, e non poterne veramente godere, non saperla penetrare in tutta la sua magnificenza come egli, poeta, avrebbe anelato – è lo stesso che prova Andrej Arsen’evič. Egli è lontano, in tutti i sensi, dal suo paese, dai suoi cari, dalla sua poesia, da se stesso.
Le prime immagini dell’uomo Andrej Arsen’evič le vidi nel documentario Tempo di viaggio (1983), diario filmico della ricerca delle locations per Nostalghia. Ogni volta che rivedo questo piccolo film rimango turbato, Andrej Arsen’evič sembra così a disagio da trasmettere una concreta inquietudine. Il suo sguardo, le sue mani in tasca, la sua postura, una certa noncuranza mentre lo portano a visitare le bellezze d’Italia, il suo ascoltare con fosca serietà le poesie del suo sodale… tutto di lui comunica assenza, un vagare altrove. Probabilmente verso quella Russia che aveva con tristezza abbandonato, finalmente libero da tutte le enormi difficoltà che in patria aveva sempre dovuto affrontare. Ma questa libertà contribuì a lacerare le radici che lo tenevano legato ai suoi cari e alla sua terra natia. Tale dramma esistenziale viene estrinsecato dal personaggio di Gorčakov che non riesce a commuoversi davanti a nulla; la grande arte italiana lo lascia indifferente, le lusinghe di Eugenia, la sua assistente/traduttrice, non lo toccano. Si muove come un alieno tra le stupende colline toscane. Sembra costantemente disinteressato a ogni cosa. Solo l’apparizione di Domenico – uno strambo personaggio che aveva segregato in casa la sua famiglia per sette anni, sicuro dell’imminente fine del mondo – sembra risvegliarlo dal suo torpore. Nel folle Domenico Gorčakov scorge una scintilla di salvezza che gli scrolla di dosso l’apatia. Domenico è l’uomo saggio proprio perché pazzo, è libero di essere se stesso, libero di essere ciò che vuole. La pazzia lo eleva, in qualche modo lo salva perché egli può ergersi al di sopra del pensiero comune e avvertire gli uomini della triste deriva che l’umanità ha preso.
Mi aggiro nella campagna toscana. Il cielo è ampio, enorme, sembra che le nuvole stiano per precipitare, per precipitarmi addosso. La luce è bassa, crepuscolare. La pioggia cadrà tra poco, si sente nell’aria. Mentre io continuo a girare per piccoli paesi, senza guardare in faccia le poche persone che incontro. Loro invece mi osservano incuriosite, insospettite. C’è profumo di legna bruciata, le strade sono in salita, ci sono piccole porte molto malandate, angoli colmi di mattoni e pietre. Non riesco a capire dove si trovi la cima del paese, la piazza, la chiesa. Si sente il rumore lontano delle pecore al pascolo. L’aria è molto fredda, il cinguettio degli uccelli, una fontana, una piccola campana arrugginita. E questo profumo di legna bruciata.
Andrej Arsen’evič è passato da qui mentre visitava i luoghi dove poi avrebbe girato Nostalghia. Forse il cielo era plumbeo e opprimente come oggi, ed egli ha avvertito una morsa molto forte nel petto. Posso quasi sentire questa stretta, questa lacerazione tra sé e la sua terra così lontana, la moglie e il figlio che non potevano raggiungerlo. Andrej Arsen’evič non sapeva quanto tempo sarebbe passato prima di poterli rivedere, non sapeva ancora che non sarebbe mai più tornato a casa. Lo immagino qui, in un pomeriggio come questo, vagare con la sguardo verso i vecchi paesi arroccati sulle colline, queste chiese meravigliose, tutta questa arte, e non godere di nulla. Ed è qui che probabilmente ha cominciato a svilupparsi il personaggio di Gorčakov.
Visito l’incantevole Bagno Vignoni (SI), di sera. Qui Andrej Arsen’evič ha girato alcune scene basilari di Nostalghia. Nessun passante, e le luci che il vapore della piscina di Santa Caterina rende fioche. Percorro l’acciottolato sulla sinistra della piscina, guardo il muretto dove era seduto Domenico. “Tu sei quella che non è, Io sono quello che è”, ha detto Dio a Santa Caterina, e Domenico rivolge queste parole a Eugenia, mentre essa sembra non capire. Perché lui è il pazzo e il pazzo va lasciato fare il pazzo. Ma il pazzo ha capito, anche il profondo malessere di Eugenia che, innamoratasi di Gorčakov, sta cercando di comprendere l’immobile e impenetrabile modo di essere dell’uomo e in questo tentativo sta mettendo in dubbio ogni certezza. Domenico sa tutto quello che lei non sa di sapere. Questi ciottoli sono stati calpestati da Andrej Arsen’evič. Mi chino, li tocco, li accarezzo, porto la mano all’acqua calda, la bagno e la passo sul viso. Il tempo scompare.
Infine l’abbazia scoperchiata di San Galgano, ancora nella provincia di Siena, a Chiusdino. Qui dimora l’elegiaco finale di Nostalghia. Il freddo perenne. L’abbazia, l’uomo seduto al suo interno, tra le colonne della cattedrale senza tetto. Gorčakov, lo spazio che finalmente ha riunito la casa natale e il luogo della morte. Gorčakov, per sempre in terra toscana con la Russia nel cuore. Alla fine in qualche modo egli riesce a venire a patti con se stesso e con la sua inquietudine. Porta a termine il compito di cui Domenico lo ha investito. Attraversa la piscina di Santa Caterina con un mozzicone di candela, che ogni volta una folata di vento spegne e che lui caparbio riaccende, fino a compiere tutto il percorso con la fiammella accesa e poi spirare. Il nostro viaggio in questo mondo è simile al tratto che Gorčakov compie nella piscina. Ogni volta tutto quello che siamo rischia di venire meno, ma se la condotta del nostro spirito è forte torneremo sempre indietro, riaccenderemo il mozzicone di candela a ripeteremo il percorso. Fino a che il tragitto non sarà completato.
Andrej Arsen’evič Tarkovskij fa ancora in tempo a girare il suo film definitivo, Sacrificio (1986), non il migliore ma sicuramente il più centrato nell’esplicare ciò che l’artista ha in mente in un momento come questo, a pochi passi dal baratro. Come Domenico, anche il protagonista di Sacrificio, Alexander (non a caso interpretato dallo stesso attore, Erland Josephson) sceglie di deragliare dai binari della normalità, di cedere al nonsenso e alla pazzia. Questo per salvare l’intera razza umana, minacciata dall’avvio di una guerra nucleare. Alexander compie un atto di estrema irrazionalità, si rivolge a una sorta di fattucchiera che sembra avere la possibilità di salvare il mondo se Alexander deciderà di sacrificare tutto quello che ha di più caro: i suoi affetti, la sua casa, se stesso. La pazzia alla fine libera il pianeta dal pericolo, affrancato dalle sue autoimposte catene Alexander compirà l’atto definitivo per concedere alla razza umana ancora una possibilità. Come Il sacrificio di Domenico, che alla fine di Nostalghia si da fuoco per le strade di Roma, anche Alexander rinuncia a se stesso, questo lo salva e redime il genere umano.
L’infanzia di Ivan si apriva con la ripresa di un albero che dalla base si alzava fino alla sommità. Sacrificio si chiude con la stessa scena, la telecamera che dai piedi dell’albero punta verso il cielo. Il cerchio si chiude per Andrej Arsen’evič che muore a Parigi il 28 dicembre 1986 a seguito di complicanze causate da un tumore al polmone, lontano dalla sua patria ma fortunatamente circondato dall’affetto dei suoi cari, la moglie Larisa e il figlio Andrej.


29 maggio 2018

N. MARTOGLIO, Lu disìu (di fimmina 'ncinta)



Ritratto di Martoglio   

 Una celebre poesia siciliana di Nino Martoglio (Belpasso,1870 – Catania,1921)



- Tuttu dipenni dalla circustanza
ca ci ammatti alla donna ’ntirissanti.
Mintemu: àvi un disìu di ’na pitanza,
comu fussiru funci... e fa un liafanti.

O puramenti si tocca la panza
mentri ca guarda un pezzu di ’gnuranti:
ci nasci un figghiu ca, diminiscanza,
è sceccu, vita natural duranti.

Per cui il disìu di donna in gravitanza
- mi spiegu? - è l’occhiu di la simpatia.
- Giustu, la spiega è facili abbastanza:

Mintemu una ch’è ’ncinta guarda a tia,
si ’mprissiona e, parrannu ccu crianza,
sbròccula un sceccu di Pantiddaria!
La voglia. - Tutto dipende dalla circostanza / che capita alla donna interessante. / Mettiamo: ha voglia di una certa pietanza, / per esempio funghi, e fa un elefante. // Oppure si tocca la pancia / mentre guarda un pezzo di ignorante / le nasce un figlio che, Dio me ne scampi, / è asino, vita natural durente. // Per cui la voglia di donna in gravidanza 7 – mi spiego? - è l'occhio della simpatia./ - Giusto, la spiegazione è facile abbastanza: // Mettiamo una che è incinta e guarda te / si impressiona e, parlando con creanza / scodella un asino di Pantelleria! (si diceva che in quell'isola vi fossero somari giganteschi)
da Centona, Clio, Catania, 1993