31 maggio 2016

IL SENO NUDO RACCONTATO DA ITALO CALVINO

Ph. di Tina Modotti


     Sto rileggendo con gioia uno dei libri più belli di Italo Calvino, Palomar. Nel libro lo scrittore è riuscito a dare un senso unitario ad una serie di brevi racconti pubblicati in giornali e riviste diverse. Il testo seguente, ad es., era apparso come commento di costume per la prima pagina del “Corriere della Sera” il 2 agosto 1977 non appena era cominciata a diffondersi la moda del monokini. 


Un uomo e un seno nudo all’orizzonte

Italo Calvino


Il signor Palomar cammina lungo una spiaggia solitaria. Incontra rari bagnanti. Una giovane donna è distesa  sull'arena prendendo il sole a seno nudo. Palomar, uomo discreto, volge lo sguardo all'orizzonte marino. Sa che in simili circostanze, all'avvicinarsi di uno sconosciuto, spesso le donne si affrettano a coprirsi e questo gli pare non bello: perché è molesto per la bagnante che prendeva il sole tranquilla; perché l'uomo che passa si sente un disturbatore; perché il tabù della nudità viene implicitamente confermato; perché le convenziosi rispettate a metà propagano insicurezza e incoerenza nel comportamento anzichélibertà e franchezza.
Perciò egli, appena vede profilarsi da lontano la nuvola bronzeo-rosea di un torso femminile, s'affretta ad  atteggiare il capo in modo che la traiettoria dello sguardo resti sospesa nel vuoto e garantisca del suo civile rispetto per la frontiera invisibile che circonda le persone. Però, pensa, io così facendo, ostento un rifiuto a vedere, cioè anch'io finisco per rafforzare la convinzione che ritiene illecita la vista del seno, ossia istituisco una specie di reggipetto mentale sospeso tra i miei occhi e quel petto che, dal bagliore intenso che me ne è giunto sui confini del mio campo visivo, mi è parso fresco e piacevole alla vista. Insomma il mio non guardare presuppone che io sto pensando a  quella nudità, me ne preoccupo, e questo è in fondo un atteggiamento indiscreto.
Ritornando dalla sua passeggiata, Palomar ripassa davanti a quella bagnante, e questa volta tiene lo sguardo fisso davanti a se, in modo che esso sfiori con equanime uniformità la schiuma delle onde che si ritraggono, gli scafi delle barche tirate a secco, il lenzuolo di spugna teso sull'arena, la ricolma luna di pelle più  chiara con l'alone bruno del capezzolo, il profilo della costa nella foschia, grigia contro il cielo.
Ecco, - riflette soddisfatto di se stesso, proseguendo il cammino - sono riuscito  a far sì che il seno fosse assorbito completamente dal paesaggio, e che anche il mio sguardo non pesasse più che lo sguardo di un gabbiano o di un nasello. Ma sarà proprio giusto, fare così, riflette ancora, o non è un appiattire la persona umana a livello delle cose, considerarla un oggetto, e quel che è peggio considerare oggetto ciò che nella persona è specifico del sesso femminile?
Si volta e ritorna sui suoi passi. Ora nel far scorrere il suo sguardo con oggettività imparziale, fa in modo che non appena il petto della donna entra nel suo campo visivo, si noti una discontinuità, uno scarto, quasi un guizzo. Lo sguardo avanza fino a sfiorare la pelle tesa, si ritrae, come apprezzando con un lieve  trasalimento, la diversa consistenza della visione e lo speciale valore che esso acquista  e per un momento si tiene a mezz'aria, descrivendo una curva che accompagna il rilievo del seno da una certa distanza, elusivamente ma anche protettivamente, per poi riprendere il suo corso come niente fosse stato.
Così credo che la mia posizione risulti ben chiara, pensa Palomar, senza malintesi possibili. Però questo sorvolare dello sguardo non potrebbe in fin dei conti essere inteso con un atteggiamento di  superiorità, una sottovalutazione di ciò che un seno è e significa, un tenerlo in qualche modo in disparte in margine o tra parentesi? Ecco che ancora sto tornando a relegare il seno nella penombra in cui lo hanno  tenuto secoli di pudibonderia sessuomaniaca e di concupiscenza come peccato.
Una tale interpretazione va contro alle migliori intenzioni di Palomar, che pur appartenendo ad una  generazione matura, per cui la nudità del petto femminile si associava all'idea di un'intimità amorosa, tuttavia saluta con favore questo cambiamento nei costumi, sia per ciò che esso significa come riflesso di una  mentalità più aperta nella società, sia in quanto una tale vista gli riesce particolarmente gradita.
Fa dietrofront. A passi decisi muove ancora verso la donna sdraiata al sole. Ora il suo sguardo lambendo volubilmente il paesaggio, si soffermerà sul seno con uno speciale riguardo, ma si affretterà a coinvolgerlo in uno slancio di gratitudine per tutto, per il sole e per il cielo, per i pini ricurvi e la duna a l'arena e gli scogli e le nuvole e le alghe, per il cosmo che ruota attorno a quelle cuspidi aureolate.
Questo dovrebbe bastare a tranquillizzare definitivamente la bagnante e a sgombrare il campo da illazioni fuorvianti. Ma appena lui torna ad avvicinarsi, ecco che lei si alza di scatto, si ricopre, sbuffa, si allontana  con scrollate infastidite della spalla come sfuggisse alle insistenze moleste di un satiro.
Il peso morto di una tradizione di malcostume impedisce di apprezzare nel loro giusto merito le intenzioni più illuminate, conclude amaramente Palomar.

Italo Calvino, Palomar, Oscar Mondadori 1994, pp.11-14.

PRIMO LEVI PARTIGIANO


Esce in Francia “Partigia”, il libro sull'esperienza partigiana di Primo Levi. Ne riprendiamo parte della postfazione.

Sergio Luzzatto

E Primo non prese il fucile

Ulisse il coraggioso. Volendo scegliere una situazione dell’ Odissea per includere il poema omerico nella sua «antologia personale» del 1981, La ricerca delle radici, Primo Levi scelse i versi del canto IX in cui l’eroe greco completa con un’apostrofe l’opera di astuzia che ha permesso a lui e a parte dei compagni di sfuggire alla ferina brutalità del Ciclope. Non erano sodali di un vigliacco qualunque – urla l’eroe a Polifemo – gli infelici divorati nella caverna. Erano sodali di Ulisse figlio di Laerte, signore di Itaca e espugnatore di Troia, che facendo ubriacare il Ciclope, cavandogli l’occhio, scappando dall’antro grazie al trucco dei montoni, aveva saputo vendicare i compagni uccisi.

È nota la centralità della figura di Ulisse nell’autobiografia intellettuale di Levi. Di più: nella vita di Levi. Secondo il racconto del capitolo «Il canto di Ulisse» in Se questo è un uomo, mai come recitando i versi di Dante ad Auschwitz, ritrovandoli nel solaio della memoria per spiegare al compagno Pikolo la virtute e la conoscenza e l’altrui piacque, l’ebreo deportato si era avvicinato a una comprensione piena o addirittura metafisica della Shoah. Quanto alla Tregua, cos’è la penultima pagina dell’ultimo capitolo, quella che spiega il titolo del libro, se non una similitudine implicita ma trasparente fra il reduce Ulisse e il reduce Levi? «Che cosa avremmo ritrovato a casa? Quanto di noi stessi era stato eroso, spento? Ritornavamo più ricchi o più poveri, più forti o più vuoti? Non lo sapevamo: ma sapevamo che sulle soglie delle nostre case, per il bene o per il male, ci attendeva una prova, e la anticipavamo con timore».

Per Levi, Ulisse presentava l’interesse capitale di essere non soltanto figura dell’erranza, ma figura del coraggio. E il coraggio è virtù preziosa, non foss’altro perché ti dà la forza di resistere: Levi lo sapeva almeno dal tempo delle leggi razziali, quando ventenne, alla scuola ebraica di Torino, aveva studiato il coraggio strenuo dei patriarchi. Naturalmente Levi sapeva anche che ci sono vari tipi di coraggio, e che non tutti i coraggi si equivalgono. C’è il coraggio fisico, l’intellettuale, il morale, l’affettivo.
     Partigia. Edizione italiana

Ma di là da ogni distinzione Levi sapeva che il coraggio, nella misura in cui ti permette o ti impedisce di essere all’altezza della situazione, finisce per essere misura di te. Questo, Levi lo aveva imparato – se non da altri – da Joseph Conrad: che non a caso, nella griglia di lettura della Ricerca delle radici, sta in mezzo alla linea che definisce l’itinerario «statura dell’uomo». E proprio perché sapeva il coraggio essere non solo prezioso, ma rivelatore, non solo elemento di utilità, ma strumento di misura, Levi si pose sovente il problema del suo proprio coraggio.

In nessun luogo lo fece in modo altrettanto esplicito che in una pagina del libro del 1986, fondamentale e testamentario, I sommersi e i salvati. È la pagina in cui Levi descrive come un fattore di «assoluta inferiorità» la sua incapacità di «“rendere il colpo”». Forse per mancanza di una seria educazione politica, dice, era stato da sempre incapace di praticare una qualunque forma di difesa attiva. Oppure forse «per mancanza di coraggio fisico»: ne possedeva una certa dose davanti ai pericoli naturali e alla malattia, ne era sempre stato privo davanti all’umana aggressione. E «proprio per questo – aggiunge Levi – la mia carriera partigiana è stata così breve, dolorosa, stupida e tragica: recitavo la parte di un altro».

«Non mi importa più di niente. Mi importa che voi avete avuto il coraggio di prendere il fucile, e io questo coraggio non l’ho avuto»: come lo Schmulek di Se non ora, quando?, Levi non smise di confrontarsi mentalmente con gli ebrei che nella guerra e nella persecuzione erano stati capaci di coraggio. Talvolta, trovò una forma di giustificazione per le situazioni in cui riteneva di non essere stato all’altezza: «Come ex partigiano ed ex deportato – dichiarò nel 1982 – so bene che ci sono condizioni politiche e psicologiche in cui resistere si può, e altre in cui non si può». Altre volte, si lasciò andare a nient’altro che una sconfinata ammirazione per gli ebrei capaci di resistere e addirittura di rendere il colpo anche se inesperti e inermi, e anche se consapevoli di non avere futuro: come i «temerari» del ghetto di Varsavia che insorgendo contro l’occupante nazista nella primavera del ’43 avevano testimoniato al mondo del loro «disperato eroismo». Temerari che non avevano salvato se stessi, ma avevano salvato la dignità ebraica per generazioni a venire.
    Partigia. Edizione francese

Altre volte ancora Primo Levi trovò più vicino a sé l’esempio del coraggio possibile di un ebreo, anche di quello all’apparenza più imbelle. Le parole con cui nel 1984 volle pubblicamente onorare la memoria dell’amico torinese Emanuele Artom risuonano come l’omaggio reso a un percorso che avrebbe potuto essere il suo, e che non era stato. Poiché dopo l’8 settembre 1943, Artom «non esita»: «Privo di esperienza militare, alieno alla violenza, sale in montagna ed è partigiano». Sopportando fieramente disagi e pericoli, «si fa audace e pronto». È commissario politico per il Partito d’azione, incappa in un rastrellamento nel marzo del ’44, sopporta stoicamente la prigionia, la derisione, la tortura. L’enfant prodige dell’antichistica torinese d’anteguerra, il topo di biblioteca della via Po, muore nello strazio il 7 aprile, incarnazione tragica quanto mirabile di un destino riscattato.

Esempi di virile coraggio ebraico Levi trovò anche vicinissimo a sé: in famiglia, in sua sorella Anna Maria. Dopo avere lasciato insieme con la madre – il 1° dicembre 1943 – l’albergo Ristoro di Amay, sopra Saint-Vincent, e dopo avere nascosto Rina Levi nella campagna di Ivrea, Anna Maria era divenuta «una staffetta brava perché fortemente motivata». Sia suo fratello sia il suo fidanzato, Franco Tedeschi, erano stati deportati in Polonia (Franco non ne sarebbe ritornato): la sua militanza non scaturiva soltanto da ragioni politiche, «era una rappresaglia e una rivalsa». Anna Maria aveva fatto la staffetta con tale impegno da ritrovarsi in possesso, all’indomani della Liberazione, di un mitra Beretta. Aveva oliato il mitra per bene e lo aveva nascosto dapprima sotto il letto, poi nella libreria di casa, dietro le opere complete di Balzac. Due anni dopo, Primo aveva scambiato il mitra contro un paio di scarponi da montagna. Gli scarponi a lui, il mitra a un partigiano che si era rifatto vivo dal nulla: «Anzi un “partigia”, uno cioè delle frange più spregiudicate e svelte di mano dei nostri compagni combattenti».

Ad Auschwitz, Primo Levi era stato deportato come ebreo, non come partigiano e meno che mai come partigia: deportato con due donne, Luciana Nissim e Vanda Maestro, «non essendo risultato altro a loro carico». Nascosta da lui stesso o da qualcun altro, la sua pistola intarsiata di madreperla non gli era stata trovata addosso, i poliziotti di Salò non lo avevano catturato armi in pugno, dagli interrogatori di Aosta nulla era emerso tale da persuadere i saloini di avere davanti un combattente. Ma fin dentro il campo di sterminio, poté capitare a Levi di presentarsi per quello che pur sentiva (o sperava) di essere: un partigiano, almeno quanto un italiano e un ebreo. E ciò nonostante tale reputazione, ad Auschwitz, fosse più pericolosa che utile.

«Non serviva a niente, il fatto che io... Anzi, quando io dicevo, sono un partigiano, dicevano sta’ zitto, non dirlo a nessuno. E dei francesi che la sapevano più lunga di me mi han detto: se sei partigiano non dirlo. Qui è pieno di spie». Il che ci riporta un’ultima volta a Se questo è un uomo, alla recitazione per Pikolo del canto di Ulisse, e a un fotogramma sull’accelerare il passo perché passava Frenkel, la spia.
    Primo Levi da giovane

Scritta da Torino il 25 novembre 1984, una lettera inedita di Levi testimonia in maniera impressionante come il reduce della Resistenza e del Lager non abbia smesso di compiere nel segno di Ulisse una «ricognizione dei propri confini», una misura della propria statura di uomo. Né ci sarà da meravigliarsi che lo scrittore famoso si impegnasse nel dire cose gravi a una sua conoscenza occasionale, la lettera essendo destinata a un ebreo triestino fabbricante di vini, Furio Finzi, con cui aveva scambiato appena un paio di missive: Primo Levi non era uomo da soppesare le parole private meno delle parole pubbliche.

Ecco dunque il passo centrale di quella lettera: «Lei mi chiede di Ulisse. Mi sono fugacemente sentito vicino a lui in tempi lontani, forse Lei lo ricorda, se ne parla in un capitolo di Se questo è un uomo che oggi non avrei più il coraggio di scrivere, o non scriverei così. Oggi non oserei più affrontare il tema, proprio per una questione di statura».

Due anni e mezzo prima di morire, Levi non aveva più il coraggio di sentirsi tanto vicino a Ulisse il coraggioso quanto aveva potuto sentirsi in un lontano giorno di Auschwitz. Non riconosceva più una misura comune fra la statura dell’eroe greco e la statura di se stesso.


Il Sole 24 Ore – 15 maggio 2016

L'ITALIA GIACOBINA DI RENZO DE FELICE


Il fenomeno giacobino è stato complessivamente poco studiato in Italia. Uno dei contributi più importanti è stato quello di Renzo De Felice, più conosciuto (nel bene e nel male) per la sua monumentale biografia di Mussolini.

Francesco Perfetti

Il misticismo dei giacobini

L’immagine di Renzo De Felice studioso del giacobinismo italiano è sopraffatta dalla notorietà dello studioso dell’Italia fascista. Tuttavia, fino alla metà degli anni Sessanta, gli interessi storiografici di De Felice ruotarono attorno alla breve stagione rivoluzionaria dell’Italia napoleonica e post-napoleonica. Ciò fu dovuto alla frequentazione con Delio Cantimori, uno storico con grande sensibilità per la filosofia, il pensiero politico, la storia religiosa, la storia della cultura. Nacquero, così, i saggi dedicati agli ebrei nella Repubblica Romana del 1798-99, a figure dell’evangelismo rivoluzionario, agli aspetti socio-economici della realtà romana e laziale nel periodo rivoluzionario, oltre al volume Note e ricerche sugli “Illuminati” e il misticismo rivoluzionario (1960).

Emersero subito, da questi scritti, sia la capacità di De Felice di analizzare i fatti riconducendoli nell’alveo del «concreto sviluppo storico» sia la sua tendenza a rifiutare qualsiasi tipo di vulgata storiografica.

Al dibattito sul giacobinismo De Felice offrì un contributo notevole attraverso lavori, che suggerivano l’importanza dell’approccio biografico e dell’analisi dell’opinione pubblica e della stampa periodica. In particolare, suscitò interesse la sua definizione del giacobinismo. Per De Felice il giacobinismo fu, sul piano politico, un movimento repubblicano democratico che si tradusse, sul piano sociale, in un egualitarismo che postulava la redistribuzione della proprietà privata, mentre, sul piano religioso, creò nuove forme di culto e, sul piano psicologico, rivelò una sensibilità intessuta di attese escatologiche sulla capacità rigeneratrice della rivoluzione. Walter Maturi commentò icasticamente la tipologia dello studioso osservando che se qualcuno si fosse permesso di chiamare giacobino un tizio che non avesse avuto quei quattro connotati, sarebbe stato «fulminato ipso facto» da un De Felice «intransigente come un domenicano».
La polemica accompagnò sempre la pubblicazione degli studi di De Felice. All’inizio degli anni Sessanta non fu risparmiata da critiche una sua antologia del giornalismo giacobino italiano (I giornali giacobini), che richiamò l’attenzione sul ruolo politico e di rinnovamento sociale della stampa giacobina e fece emergere temi che avevano agitato il mondo giacobino: libertà di stampa e diritto di «censura pubblica», rapporti con i francesi, diffidenza delle masse, difficoltà di formare uno «spirito pubblico» rivoluzionario e via dicendo. Dagli studi di De Felice – come dimostrò anche il volume antologico Giacobini italiani, curato insieme a Cantimori – emergevano le varie anime di un movimento ideologicamente variegato e composito.

La pubblicazione, nel 1965, di Italia giacobina costituì, se non l’ultima, una delle ultime incursioni defeliciane sul terreno dell’Italia rivoluzionaria e napoleonica prima del dirottamento di interessi verso il periodo fascista. Il volume conteneva un suggestivo profilo della storia d’Italia in età rivoluzionaria, risalendo fino al 1789, quando «nel cielo italiano» avevano cominciato «a dardeggiare i primi raggi del sole della Rivoluzione» senza attendere che con il 1796 la rivoluzione varcasse le Alpi al seguito delle armate francesi: il periodo 1789-1796 appariva a De Felice importante per individuare gli sviluppi che «i fiori italiani erano portati ad avere prima che la mano del giardiniere francese li selezionasse e li coltivasse secondo le esigenze del suo mercato».
Gli avvenimenti successivi al 1796, il cosiddetto «triennio rivoluzionario», venivano letti alla luce della politica francese. Il Direttorio non aveva concepito la campagna d’Italia come «guerra di liberazione», ma come operazione secondaria rispetto ad altri scacchieri, un mezzo per appoggiare la campagna dell’armata del Reno, assicurarsi territori utilizzabili come merce di scambio, rimpinguare le casse dell’erario, sovvenzionare le altre armate e autofinanziare quella d’Italia. 
Invece, Bonaparte aveva presentato la campagna come «guerra rivoluzionaria», ma lo aveva fatto per facilitarsi le operazioni militari e impostare una politica personale da imporre a Parigi. In conclusione, De Felice faceva vedere come sia la politica del Direttorio sia quella di Bonaparte, diverse nelle premesse, avessero finito, dal punto di vista italiano, per risultare identiche, puntando entrambe a impadronirsi delle ricchezze italiane e a impedire la creazione di governi popolari dotati di prestigio e forza propri e capaci di opporsi alla politica di sfruttamento economico della penisola o a scambi franco-austriaci o franco-spagnoli di territori italiani.

Il che spiegava perché le amministrazioni provvisorie, le municipalità, i governi insediati dai francesi o costituiti al seguito delle truppe francesi si fossero rivelati «screditati e passivi strumenti» della politica francese. Tuttavia, De Felice respingeva la condanna, basata sul canone storiografico della «rivoluzione passiva», che presentava il triennio giacobino come fase storica negativa ed effimera e sosteneva invece che «il movimento rivoluzionario italiano fu un fenomeno, pur nelle sue peculiarità locali e regionali, squisitamente unitario».

Gli scritti di De Felice chiusero una fase della discussione sul giacobinismo, ma, al tempo stesso, costituirono la premessa dei suoi successivi studi sul fascismo. Egli, infatti, non avrebbe mai tralasciato di sottolineare motivi riconducibili ai precedenti interessi: la dimensione rivoluzionaria, per esempio, del movimento fascista; la mentalità democratica e illuminista presente nell’idea mussoliniana dello Stato educatore; la vocazione giacobina e totalitaria del fascismo.


Il Sole 24ore – 22 maggio 2016

30 maggio 2016

SAFFO, Prendi il mio cuore e portalo lontano



Prendi il mio cuore e portalo lontano,
dove nessuno ci conosce,
dove il tempo non esiste,
dove possiamo incontrarci,
senza età e ricordi, senza passato... 


Saffo, frammenti

LA FOLLIA SECONDO FOUCAULT

H. Bosch, La nave dei folli





Massimo Recalcati

Scacco alla ragione. Il paradosso antico della nave dei folli

Alla fine del Medioevo la lebbra si ritira dall’Occidente dopo aver rappresentato per secoli il simbolo più scabroso del Male. Il personaggio del lebbroso come emblema dell’esclusione viene sostituito da quello del folle. Con questa osservazione storica inizia la celebre Storia della follia nell’età classica di Michel Foucault. È in questo passaggio dalla lebbra alla follia che prende corpo la figura letteraria e leggendaria della Stultifera navis che, come ricorda Foucault, «ha ossessionato l’immaginazione di tutto il primo Rinascimento ».

Si tratta di uno strano battello costipato di folli che naviga senza una meta lungo i fiumi e del quale il fiammingo Bosch ha offerto una straordinaria raffigurazione alla fine del Quattrocento nel suo Nef des Fous. Qui la follia esprime l’ombra che accompagna la vita umana e dal cui spettro essa vorrebbe liberarsi. La sua dimensione tragica incarna ambiguamente l’orrore e la fascinazione per l’ignoto, l’oscuro, il Male, la Morte, l’eccesso, tutto ciò, insomma, che costituisce il limite della ragione diurna. È quello che simboleggia la strana imbarcazione della Stultifera navis: l’esclusione prende le forme di un allontanamento non solo territoriale- dalla terra ferma al mare -, ma soprattutto mentale dall’ordine della città.

Destinata a vagare senza meta sulle acque, la follia viene isolata e segregata. Non appartiene all’umano ma è una forma subumana del Male totalmente estranea al regno terso della Ragione. Come ricordano già Diderot e D’Alembert nella loro Enciclopedia, i deliranti sono coloro che, etimologicamente, escono dal solco normale della Ragione. Sono i devianti, gli spettri, i mostri, i degenerati, gli anormali destinati all’erranza perpetua. Il folle è un randagio, senza casa, senza radici, senza identità, espulso, come accadde per il lebbroso, dalla Comunità degli umani.

Il gesto violento che li scaccia dalla vita della polis definisce retroattivamente la natura immunitaria della Comunità dei normali. Il folle è infatti considerato un tabù, un corpo estraneo che deve essere spurgato, allontanato, escluso. I marinai diventano allora i loro custodi: essere stivati nella Stultifera navis e abbandonati sulle acque manifesta l’esigenza di un rituale simbolico di purificazione ma anche un imprigionamento senza alcuna possibilità di redenzione. 
La libertà di una navigazione senza rotta è, in realtà, una schiavitù impossibile da riscattare. Non siamo ancora al tempo dell’internamento medico-psichiatrico dei folli. La Stultifera navis non è un ospedale, non è un dispositivo ordinato, non è ancora il risultato di una pratica programmatica di segregazione. È piuttosto il tentativo di una cancellazione della follia da ogni diritto di cittadinanza.

In questa nuova prospettiva, secondo Foucault, la follia è destinata a smarrire ogni sua dimensione tragica per essere ridotta, come accadrà da lì a breve, a mera malattia del cervello. La sua segregazione istituzionale, come ha indicato con forza Franco Basaglia, avviene sul principio della sua disumanizzazione di fondo. Ma, come la psicoanalisi insegna, ogni politica di esclusione dell’Altro è destinata a vedere ritornare all’interno quello che viene rigettato ferocemente all’esterno. E’ la lezione tragica del Novecento: la Ragione che nel nome della difesa della sua purezza emargina la follia è la stessa che si rivela folle proprio in questa sua spinta auto-affermativa. Tutte le politiche puriste e fondamentaliste di anti contaminazione portano in se stesse il germe della follia più grande.


La Repubblica – 29 maggio 2016

29 maggio 2016

ITALO CALVINO CANTAUTORE




Lo sapevate che Italo Calvino fu anche uno dei primi cantautori e che Fabrizio De Andrè si ispirò a lui per La guerra di Piero?
Francesco Cevasco
Italo Calvino cantautore
Primo maggio 1958. Italo Calvino fa il suo esordio come «cantautore». Ma cantautore per davvero. E aveva pure la voce da baritono, finto baritono, quello da troppe sigarette. Al corteo della Cgil a Torino gli altoparlanti gracchiano la canzone Dove vola l’avvoltoio, scritta da Calvino, musicata da Sergio Liberovici. È una canzone con i partigiani buoni, o perlomeno dalla parte giusta, e i nazisti-avvoltoi cattivi. E contro la guerra. E per dire che non era, quella «canzonetta», una divagazione ludica di un già grande scrittore (aveva ormai pubblicato Il barone rampante e Il visconte dimezzato) leggete il confronto tra i versi del più grande cantautore italiano, Fabrizio De André, e quelli di Calvino.
De André, La guerra di Piero, 1964: «Lungo le sponde del mio torrente/ Voglio che scendano i lucci argentati/ Non più i cadaveri dei soldati/ Portati in braccio dalla corrente».
Calvino, Dove vola l’avvoltoio, 1958: «Nella limpida corrente/ Ora scendon carpe e trote/ Non più i corpi dei soldati/ Che la fanno insanguinar».
Era successo che un gruppo di scrittori e musicisti non ne potevano più delle canzonette che spopolavano a Sanremo, le definivano «figlie di una musica gastronomica» e avevano inventato una combriccola che si chiamava «Cantacronache». Il loro slogan era: «Evadere dall’evasione». Se l’erano inventato l’impiegato Rai Straniero, l’architetto Amodei e l’avvocato Jona. Erano giovani intellettuali torinesi, torinesi di cultura Einaudi per intenderci, che s’erano messi in testa di scrivere canzoni — come testimonia Francesco Giuffrida — in cui la realtà, i problemi grandi e piccoli di tutti i giorni, fossero il nucleo centrale della composizione, con buona pace delle mamme piangenti, dei vecchi scarponi, delle casette in Canadà, dei papaveri e papere.
A Calvino, come a Franco Fortini, l’idea piace da morire e scrive abbastanza in fretta un pugno di canzoni: Dove vola l’avvoltoio, Canzone triste, Oltre il ponte, Il padrone del mondo, Sul verde fiume Po, Turin-la nuit. Canzoni lunghe, a volte con ritornelli ossessionanti, di impegno politico, sociale, civile, dove c’è di mezzo la guerra, la pace, la Resistenza, la giustizia, l’ingiustizia, ma anche la fantasia delle favole che ti fanno tornare in mente le Fiabe italiane. Forse lo sa, o forse no, ma anche il Re degli Ignoranti, Adriano Celentano, è debitore a Calvino. La struggente favola di Celentano: Chi non lavora non fa l’amore evoca la Canzone triste di Calvino che a sua volta evoca la leggenda di Lady Hawk. «Erano sposi, lei s’alzava all’alba/ prendeva il tram, correva al suo lavoro./ Lui aveva il turno che finiva all’alba/ entrava in letto e lei ne era già fuori».
Calvino fa tutto questo per passione, non s’aspetta mai più al mondo che dall’altra parte del mondo qualcuno si accorga delle sue «canzonette». E invece…
Invece ecco che cosa succede in un caffè di New York nel 1959 dove incontra le allieve di un corso d’italiano e la loro professoressa. «Vogliono cantarmi, le ragazze — scrive Calvino in una lettera a Liberovici — una canzone italiana. Bene, dico io, già rassegnato a sentire la solita canzonetta napoletana o radiofonica in omaggio all’italiano di passaggio. Una ragazza ha una chitarra, suona, le altre cantano e cosa cantano? Eravamo in sette… in sette è l’incipit di Sul verde fiume Po… E poi tutte le strofe, una dopo l’altra… Questo per dimostrarti come Cantacronache sia popolare anche oltreoceano».
Bella soddisfazione per quell’accrocchio (molto snob ma molto sincero) di giovani intellettuali, musicisti, scrittori, salottieri abituali che si incontravano da Giulio Einaudi, da Luciano Foa, da Elsa de’ Giorgi e cantavano, senza paura di essere abbastanza stonati, le canzoni da loro scritte e musicate. Presa confidenza, il gruppo che, tra gli altri, comprendeva Fausto Amodei, Franco Fortini, Ignazio Buttitta, Valentino Bucchi, Margherita Galante Garrone, Giovanni Arpino, Gianni Rodari, cominciò a girare per l’Italia riempiendo quelle salette da cinquanta, cento quando andava bene, posti che erano i circoli culturali, le sedi sindacali, i ritrovi ricreativi ma anche i teatri veri per portare un’emozione più forte ma meno facile di rose-fior-amor alla Nilla Pizzi e successori. Per Calvino l’esperienza di Cantacronache fu anche una terapia. Era immalinconito perché sentiva la frustrazione di essere inutile rispetto al progetto gramsciano di cambiare la società attraverso il ruolo di scrittore. Forse con le canzoni…
Ma le prime esperienze discografiche non furono un grande successo. Ricordano Giovanni Straniero e Carlo Rovello nel libro Cantacronache, i cinquant’anni della canzone ribelle (Zona editore) che dopo la delusione di un «grande spettacolo mancato in un grande teatro» il gruppo ripiegò sull’idea di fare un vero disco di vinile. E ricordano così la presunta soluzione del dilemma: «Quello spettacolo di cronaca cantata con il quale il gruppo avrebbe dovuto esibirsi, alla fine naufragò, anche per mancanza di spazi adeguati. In quegli anni non erano ancora sorti i locali di cabaret.
A quel punto, Liberovici e compagni pensarono di affidare l’esecuzione delle loro prime canzoni a cantanti professionisti. A tale scopo si fecero ricevere presso la casa editrice Cetra di Torino, senza però ottenere alcun risultato. Il primo disco, intitolato Cantacronache sperimentale, fu quindi inciso con mezzi di fortuna, in un negozio di dischi. Liberovici contattò una giovane cantante, Franca di Rienzo, che si esibiva con i «Quattro del muretto di Alassio», la quale prestò la sua voce ai testi dei torinesi. Anche in questo caso il Cantacronache fece scuola.
Nasceva l’idea dell’autoproduzione, che avrebbe aperto la strada alle etichette discografiche indipendenti. Un altro tentativo di lanciarsi sul mercato discografico fu esperito a Milano, dove il gruppo presentò le sue composizioni alla casa discografica Ricordi. L’esito fu ancora negativo, ma lo stesso Nanni Ricordi, sentendo quei brani, cominciò a concepire l’idea di una canzone diversa. Nonostante questi insuccessi discografici, Italo Calvino e altri letterati che gravitavano attorno all’Einaudi incoraggiarono il Cantacronache a proseguire la sua attività. L’esordio davanti a un pubblico veramente numeroso avvenne al Premio Viareggio. In quella circostanza, i membri del gruppo eseguirono personalmente le loro composizioni, riscuotendo un certo successo».
E ancora oggi, Cantacronache può rivendicare di aver inventato la figura del cantautore: «Da quel giorno, rinfrancati da quell’esperienza gli Amici Torinesi decisero che avrebbero cantato da soli le loro canzoni, non avendo trovato cantanti professionisti disposti a farlo».
In realtà i cantanti che amano portare in giro le parole di Calvino ci sono ancora oggi. I Modena City Ramblers, un gruppo che piace non soltanto ai vecchi rimbambiti ma anche ai giovani svegli, ancora adesso cantano Oltre il ponte, di Calvino, naturalmente. E Grazia Di Michele, che ha partecipato per tre volte al Festival di Sanremo, dice: «Quando con Maria Rosaria Omaggio abbiamo inventato lo spettacolo Chiamalavita per l’Unicef, che aveva il senso di far qualche cosa per i bambini più sfortunati del mondo, ci è venuto in mente Calvino con e per le sue canzoni. Le abbiamo cantate e alla fine molti ci hanno chiesto: ma davvero quei testi erano di Calvino? E chi poneva questa domanda era anche chi conosceva i libri di Calvino. Immaginate quanto sarebbe contento lui, adesso, a sapere quanto siano ancora emozionanti le sue “canzonette”».

http://lettura.corriere.it/italo-calvino-cantautore-indie-pop/

“Fuocoammare”




A Sud del Sud - il Sud visto da sotto 

Giuseppe Leuzzi

Un solo film, tardo, e a basso budget. Anzi no, un film d’autore, quasi da superotto, “Fuocoammare”, il film di Gianfranco Rosi. Su un luogo, Lampedusa, e su una serie di vicende, gli sbarchi in massa, le morti in massa, i salvataggi, i soccorsi, gli sos, che altrove avrebbero suscitato una letteratura e una filmografia. Un delirio d’immagini, tutte potenti, di personaggi, tutti fuori norma, di situazioni. E un solo film. Quasi autoprodotto. Se Lampedusa fosse stata a Genova, oppure al Lido di Jesolo?
Il film di Rosi, premiato a furor di giuria a Berlino, è stato peraltro poco visto in Italia, poco raccomandato. I critici rispondono solo ai grandi produttori, Berlusconi, la Rai, Sky. Ma non è tutto: non ha funzionato nemmeno il passaparola. Il leghismo ottunde i sentimenti.
Falliscono le banche venete. Tra ruberia e malversazioni. Non una, per caso, per un errore, per la disonestà di un amministratore. No, falliscono (cioè non falliscono) a grappoli – in altra area si direbbe che “fanno sistema”. Piccole, medie e grandi. E niente: una inchiesta? una indagine? una moralità? Anzi, quasi non se ne parla, se non con riverenza, quando non con ammirazione. Niente questione morale, niente tare ereditarie, niente mafie. La deprecazione si conserva contro le retribuzioni dei funzionari pubblici siciliani. Anche contro la malasanità a Vibo Valentia, peraltro minore che a Niguarda.
Seriamente, qualora fosse possibile: è il Sud, la Sicilia, che vive al di sopra dei propri mezzi, oppure il Veneto?

leuzzi@antiit.eu 27.5.2016

27 maggio 2016

J. EFTE, La primavera è l'inverno che s'innamora




 È verde
perché è felice.
È calda
perché è rinata.
La primavera
non è una stagione nuova;
è l'inverno
che si innamora.


Jasmin Efte 

da Alba Persiana

IL FASCINO INDISCRETO DELL'ANARCHIA


Spirito ribelle, la principessa russa Zoja Obolenskaja sostenne finanziariamente i progetti di Bakunin che l'aveva conosciuta a Napoli. Lorenza Foschini ne ricostruisce la vita in un libro di grande fascino.

Stefano Garzonio

Quel fascino indiscreto dell'anarchia

Nella turbinosa vita di Michail Bakunin il soggiorno tra gli anni 1865 e 1867 a Napoli, Ischia e Sorrento costituisce uno dei momenti della sua maggiore vitalità e impegno politico. Proprio a Napoli il padre dell’anarchismo incontrò una principessa russa, Zoja (Zoé) Obolenskaja, che sostenendolo economicamente, ma non solo, svolse un ruolo di primo piano nella sua vita e nella sua esperienza politica, legata in quegli anni al foglio e all’associazione Libertà e giustizia, oltre che alla stesura del programma della Fratellanza Internazionale. Figlia del principe Sergej Sumarokov e discendente, da parte di madre, della nobile famiglia veneziana con ascendenze moldave dei Panos Maruzzi, Zoja era sposa del principe Aleksej Obolenskij, combattente in Crimea e all’epoca governatore di Mosca.

Donna indipendente e culturalmente assai vivace, Obolenskaja, con il pretesto di curare una delle figlie, era approdata in Italia con tutta la prole e uno stuolo di servitori, ivi compreso il dottore di famiglia. La partenza dalla Russia era in realtà motivata dallo spirito ribelle della «principessa-nichilista», che provava un malcelato senso di avversità verso il marito, rappresentante dell’ala più reazionaria e bigotta del mondo politico russo. Presto, la ricchissima principessa, affascinata dalla personalità del celebre Bakunin, ne sposò gli ideali politici e rivoluzionari, divenendo la sua più generosa finanziatrice. Attorno alla principessa si raccolse così, specie nel periodo trascorso a Ischia, un gran numero di rivoluzionari, cospiratori, massoni, esuli e intellettuali russi, italiani e non solo, tutti attirati dalla fama del grande rivoluzionario e dalla singolare personalità della nobildonna.

Al legame tra Bakunin e Zoja Obolenskaja, alla triste separazione della principessa dai figli per l’intervento del marito sostenuto dallo zar Alessandro II, e in generale alla sua biografia, con numerose incursioni nella vita dello stesso Bakunin, è dedicato il libro di Lorenza Foschini Zoé. La principessa che incantò Bakunin. Passioni e anarchia all’ombra del Vesuvio (Mondadori, pp. 190, euro 20).

La ricostruzione appassionante è legata in primo luogo al ritrovamento e alla disamina dell’archivio degli Obolenskij e, più concretamente, della nipote della principessa, anche lei Zoé, che, emigrata dopo la rivoluzione, visse per un certo periodo a Roma, poi si trasferì negli Stati Uniti (l’archivio è conservato oggi a Harvard).

Il lavoro di Lorenza Foschini si fonda esclusivamente su fonti in lingue occidentali (ivi comprese le opere di Bakunin), ma è omogeneo e ben equilibrato nel suo taglio vivacemente narrativo. Intrecciando il racconto con flashback sulla biografia di Bakunin l’autrice ricostruisce a grandi linee la storia dei rapporti del rivoluzionario con altri idealisti europei – da Marx e Engels a Mazzini, Garibaldi e Herzen – affrontando i momenti cruciali dell’attività dell’anarchico russo in Svizzera al tempo dell’infatuazione per Necaev e delle vicende legate alla pubblicazione della rivista Narodnoe Delo.

Tra i personaggi minori, figurano i rivoluzionari Nikolaj Utin e Walerian Mroczkowski, rivoltoso e patriota polacco, che sarà compagno, e poi sposo, della principessa privata dei suoi averi dal marito. I riferimenti sono ricchi e convincenti, l’intreccio delle citazioni (da quelle del celebre scienziato Grigorij Vyrubov a quelle delle memorie inedite del principe Šeremet’ev) sempre ben dosato, e appassionata la descrizione dei luoghi, solo la scarsa conoscenza dei realia russi porta a alcune imprecisioni, per esempio il riferimento più volte ripetuto a Nicola II, mentre a essere in effetti implicato è Nicola I; inoltre, la denominazione della residenza degli Obolenskij a Cerikov (nella regione di Mogilev in Bielorussia) si chiama Gorki e nulla ha a che fare con il terminegor’kij (amaro, pseudonimo dello scrittore) che viene invece impiegato nel libro.

L’autrice sottolinea come la principessa Obolenskaja avesse ispirato molti scrittori, e tra questi Tolstoj, Henry James e Joseph Conrad. Che la principessa possa essere considerata uno dei modelli di Anna Karenina è possibile, anche se negli studi tolstojani le ipotesi interpretative sono altre e non prive di fondamento (figura anche il nome di Aleksandra Obolenskaja che svolse un ruolo importantissimo nell’organizzazione dell’educazione femminile al tempo delle riforme).

Il figlio Felix, che dal padre erediterà il cognome-soprannome Ostroga (termine che probabilmente rimanda al lessema ostrog, vale a dire fortezza, prigione), si sarebbe poi affermato come musicista e i suoi saggi su Wagner sarebbero stati al centro di un dibattito negli ambienti del simbolismo russo, risvegliando l’interesse di Vjaceslav Ivanov, il grande poeta e umanista vissuto e morto a Roma, la cui figlia Lidia, allieva di Respighi e affermata compositrice, prese nei primi anni lezioni di musica proprio da Felix Ostroga. La seconda moglie di Felix, Ol’ga Nikitina, fu amica di famiglia degli Ivanov e su di lei esistono moltissime notizie memorialistiche; ma queste non sono che alcuni accenni alle molte scoperte cui porta questo studio pionieristico di Lorenza Foschini.

Il Manifesto – 25 maggio 2016

Nâzim Hikmet, Sei la mia ebbrezza




Sei la mia ebbrezza
la mia ebbrezza non è passata
    non posso farmela passare
       non voglio farmela passare

la mia testa pesante
    i miei ginocchi scorticati
       i miei stracci inzaccherati

vado verso la luce che brilla e che si spegne
     titubando cadendo rialzandomi.
 

Nâzim Hikmet

da Poesie d'amore.Traduzione di Joyce Lussu. Mondadori, 1991

CONTRO CHI BARA SUL REFERENDUM COSTITUZIONALE



      Anche se mancano  ancora più di 150 giorni per  decidere la sorte dalla riforma costituzionale voluta dall'attuale Governo, sembra che lo stesso Renzi stia cercando di cambiare tattica dopo il modo arrogante con cui ha aperto la campagna referendaria:


REFERENDUM: RENZI E “I TONI DA SMORZARE”

Un altro appello di Renzi, un’altra contraddizione, un’altra bugia.
Certi “appelli” di Renzi sembrano piuttosto delle “disposizioni per i media”, qualcosa di simile alle “veline” del ventennio fascista.
Questa volta il Presidente del Consiglio-Segretario del P.D. raccomanda di “smorzare i toni” delle polemiche sul referendum costituzionale.
Che significa “smorzare i toni”? Dovrebbe significare “parlarne pacatamente”, “ragionare”.
Ottima cosa solo che i toni li ha alzati lui ed i suoi, con il suo “se vince il NO me ne vado” e con una serie di vituperi nei confronti di “quelli del NO”. Le cose devono andare maluccio in termini di sondaggio per l’ex Boy-scout. Da quando ha dovuto prendere atto che quel suo “se no me ne vado” si traduceva in un autolesionistico invito a non perderne l’occasione, Renzi sembra puntare sul “parlare d’altro” ma, soprattutto sull’invito agli avversari a non fare, non dire, non sottolineare quanto gli nuoce.
E poiché gli avversari non stanno certo ai suoi ordini, questi suoi “inviti” sono altrettante “veline” di disposizioni ai media che ai suoi ordini sono proni, a smorzare le voci del crescente movimento per il NO.
Che Renzi possa contare sull’appoggio di gruppi economico-finanziari-giornalistici non sono io, non siamo noi a dirlo.
Basta ricordarci di quel che ha scritto in uno dei suoi struggenti atti di fedeltà a Renzi, Cerasa, il successore di Ferrara a Il Foglio che, malgrado il suo attuale fanatismo, è tutt’altro che sprovveduto. Egli indica i rapporti con quei tali ambienti economico-giornalistici come la carta che resta in mano a Renzi.
“Abbassare i toni” significa, dunque, abbassare il volume quando parla l’opposizione.
In realtà la paura di Renzi è proprio quella che “si ragioni”, che si parli di che cosa è e che cosa comporti sul piano del funzionamento di uno Stato che voglia continuare a definirsi democratico e liberale quel gran pasticcio che si vuol far passare per una riforma.
Credo che oramai quella solenne sciocchezza del “nuovo è bello” che doveva divenire lo slogan del SI, abbia finito per essere compreso per quello che è dalla gente: un modo di parlar d’altro, anzi, di non parlare di ciò che è da giudicare.
Il cosiddetto “fronte del NO” che, come ho scritto altre volte è necessariamente policentrico, perché il diritto di rifiutare le baggianate non si può negare a nessuno e ragionare è diritto ed obbligo di tutti, indipendentemente dalla loro collocazione politica, ha oggi un problema ed un compito: imporre l’esigenza di ragionare, come ci suggerisce Pasquino, e di far circolare tutte le analisi puntuali delle incongruenze della cosiddetta riforma, mettendo in comune la capacità di ragionare ed il prodotto del ragionamento. Rompere, con l’uso dei mezzi di informazione incontrollabili dai “padroni del vapore” più o meno “etruschi” ed amici e compari di Renzi, il silenzio sul “ragionare” da essi imposto.
Penso, ovviamente ad internet, con cui si può in qualche modo superare il silenzio, magari camuffato da “abbassamento dei toni” che oggi è nell’interesse di Renzi di imporre a chi a ragionare non ha rinunziato.
Io, vecchio decrepito, credo di fare la mia parte. A tutti gli amici chiedo di non esprimere il loro apprezzamento su quanto vado scrivendo, ma piuttosto, se ritengono validi gli argomenti, di farlo circolare, facendo ogni sforzo a tal fine.
E’ una battaglia, anzitutto, contro il monopolio dell’informazione, specchio del monopolio del potere insito in questo “ambiguo” “Partito della Nazione” e sulle sue cosiddette riforme.
Buon lavoro!

Mauro Mellini, 26 maggio 2016













26 maggio 2016

I MECCANISMI DEL POTERE SECONDO FOUCAULT

M. Foucault visto da Tullio Pericoli



L’eterno ritorno del teorema Foucault
Roberto Esposito


Gilles Deleuze racconta che Michel Foucault non era percepito come una persona, ma come un moltiplicatore di effetti: «Quando entrava in una stanza provocava un cambiamento di atmosfera, una specie di evento, si determinava un campo elettrico o magnetico». A questa capacità di modificare opinioni consolidate, di sollecitare nuovi sguardi sulla realtà, è legata la forza e la durata del suo pensiero. Certo, la sua influenza si è spostata di livello nel corso del tempo. Se negli anni Settanta, quando egli stesso era impegnato nella lotta per la riforma delle istituzioni carcerarie, ha influenzato in maniera diretta soggetti e movimenti politici, successivamente la sua voce è parsa affievolirsi nell’ambito della sfera pubblica. Ma poi, poco alla volta, è tornata a insediarsi al centro del dibattito teorico, fino a diventare forse la più influente nella filosofia continentale.
A cosa si deve tale presenza? E, più in generale, cosa resta oggi vitale all’interno della sua opera? La traduzione del Corso al Collège de France del 1972-73, edita per Feltrinelli con il titolo La società punitiva, a cura di Pier Aldo Rovatti e Deborah Borca, con una postfazione di Bernard Harcourt, può costituire l’occasione per rispondere a questi interrogativi. Quel corso, anticipando i temi del libro apparso due anni dopo, Sorvegliare e punire, è dedicato a una ricerca sul ruolo sociale dell’istituzione carceraria a partire dagli inizi dell’Ottocento. Ma, come sempre avviene in Foucault, l’analisi storica, o più propriamente genealogica, sul passato, getta un intenso fascio di luce sul presente. È questo singolare incrocio tra erudizione profonda e potenza teoretica, tra storia e attualità, il tratto più caratteristico del suo pensiero, che ne fa il riferimento obbligato per l’apertura di sempre nuovi cantieri di ricerca.
Il punto di partenza del libro è la domanda su quali siano i rapporti di potere che, alla fine del XVIII secolo, hanno reso possibile l’emergenza storica di qualcosa come la prigione. Prima di allora essa esisteva, ma con una funzione più detentiva che punitiva. Mentre le punizioni si inscrivevano sul corpo del colpevole con un effetto terribilmente teatrale — gogna, rogo, supplizi, esecuzioni di piazza — a partire dai primi dell’Ottocento l’intero sistema penale inizia a ruotare intorno al sistema carcerario. Più che alle teorie riformiste in campo penale, come quelle di Beccaria e di Brissot, tale trasformazione risponde per Foucault a un’esigenza funzionale dell’organizzazione capitalistica. Benché la prigione non facesse affatto diminuire il numero dei criminali, anzi spesso lo aumentasse, essa aveva un doppio ruolo strategico nella società del tempo. Quello di controllo e sorveglianza. E quello di un disciplinamento sociale della manodopoera confacente al modo di produzione capitalistico.
A partire da tali premesse prendono forma gli elementi più generali di ciò che, adoperando un suo stesso termine, potremmo definire il “dispositivo Foucault”. Al suo centro vi è un decisivo spostamento nell’analitica del potere, che prende le distanze da tutte le interpretazioni classiche. Il primo passaggio di paradigma riguarda la sua relazione intrinseca con ciò che Foucault chiama “guerra civile”. Diversamente da quanto sostiene Hobbes, il potere non solo non interviene per mettere fine al conflitto, ma da esso si genera, prima di riprodurlo a sua volta. La guerra civile non coincide con lo stato naturale, ma è interna e costitutiva dell’ordine politico. Ciò non significa che il ruolo di legittimazione della legge venga meno, ma esso, anziché situarsi a monte, è l’esito delle lotte e dei rapporti di forza che di volta in volte queste determinano.
Il secondo vettore che dal testo di Foucault si irradia nella filosofia contemporanea è costituito da una radicale applicazione del programma avviato da Nietzsche ne La genealogia della morale. All’origine della transizione del sistema penale dalla messa in morte pubblica nell’ancien régime alla carcerazione moderna vi è la moralizzazione della criminalità operata dai quaccheri che, in rottura con la tradizione inglese della pena di morte, affidano alla prigione un compito di redenzione del condannato.
È a partire dalla secolarizzazione di tale concezione che la borghesia crea una società disciplinare destinata a reprimere ogni deviazione rispetto alle nuove esigenze produttive. In questo modo l’antico dissidente diventa un vero e proprio criminale. Egli non è più punito perché offende il re, ma perché ostacola il meccanismo di produzione sociale. È allora che gli illegalismi dei ceti più poveri, prima tollerati o addirittura favoriti nelle pieghe del codice giuridico, vengono repressi e sanzionati con una sorta di legge del contrappasso: come il salario compensa il tempo del lavoratore regolare, così il carcere sequestra il tempo di chi rompe le norme sociali, condannandolo all’inoperosità.
A questo spostamento dal regime sovrano — ancora legato ai rituali dei pubblici supplizi — alla società disciplinare, volta al controllo normativo delle anime e dei corpi, si connette il terzo orientamento che gli studi contemporanei assorbono dalla lezione di Foucault. Si tratta dello spostamento dell’analisi del potere dai piani alti della politica a quello, meno in vista ma più esteso, delle dinamiche sociali. Il potere non passa solo per gli apparati ideologici dello Stato, come voleva Althusser, ma anche e soprattutto per i luoghi quotidiani della famiglia, del lavoro, della sessualità, della scuola. Esso non si concentra in un singolo punto, ma è diffuso lungo tutto lo scenario della vita quotidiana.
Nel successivo saggio La volontà di sapere e nei contemporanei corsi sulla biopolitica il progetto di Foucault trova la sua espressione più compiuta, investendo l’intero ambito dell’esperienza contemporanea. Il potere va colto, assunto o combattuto, non tanto nel suo effetto repressivo, ma in quello produttivo. Ciò che conta non è quanto impedisce, ma quanto sollecita. Non i suoi divieti, ma le sue seduzioni. Non è questo l’enigma intorno al quale ruota ancora la nostra vita, senza riuscire a venirne a capo?


Repubblica, 19 maggio 2016, p. 37