28 agosto 2011

ATTUALITA' DI UN LIBRO: processo all'articolo 4



 L’editore Sellerio, proseguendo la sua encomiabile opera di recupero di testi ormai introvabili, ha ristampato uno dei libri più belli ed attuali di Danilo Dolci: Processo all’articolo 4.
La prima edizione del libro vide la luce nel lontano agosto del 1956, pochi mesi dopo l’arresto ed il processo subiti da Danilo, ed altri, per avere organizzato tra Partinico e Trappeto uno sciopero alla rovescia.
Su questo libro scrive ora Roberto Saviano:
«Danilo Dolci nel 1956 a Partinico stava ristrutturando una strada dissestata come forma di protesta. Una sorta di sciopero attivo, una rivolta rovesciata. Se a Sud si doveva marcire nella disoccupazione, Dolci proponeva di attivarsi, iniziare a fare, rendere accessibile ciò che non lo era. Iniziare a farlo ristrutturando strade, quelle che avrebbe dovuto mettere a posto il comune. Lo faceva lui assieme ai suoi disoccupati. La polizia arrivò sul luogo e arrestò tutti. Si racconta che un poliziotto gli si avvicinò dicendogli: “Signor Dolci, ma perché non torna a casa a scrivere i suoi libri invece di farsi arrestare?”. Come dire, torni alla sua più innocua attività e tutti vivremo più tranquilli. Dopo aver perquisito molti disoccupati-lavoratori, i poliziotti videro che tanti avevano nelle tasche e a casa gli scritti di Dolci. Lo stesso poliziotto, dopo averlo arrestato, lo avvicinò ancora in manette dicendogli: “Signor Dolci le troveremo un lavoro duro, così finalmente smetterà di scrivere questi libri che ci creano solo guai!”. Quel poliziotto aveva in una manciata di ore cambiato idea perché aveva esperito il peso specifico della parola».
Più esattamente, qualche anno fa avevamo notato: il 2 febbraio del 1956 Danilo Dolci insieme al segretario della Camera del Lavoro di Partinico, Totò Termini, ed altri cinque “attivisti comunisti” - così come vengono qualificati nel Verbale del locale Commissariato di P.S. - sono arrestati, con l’accusa di “abusiva occupazione di suolo pubblico”, per avere condotto un gruppo di contadini disoccupati a lavorare su una vecchia strada interpoderale, detta “trazzera vecchia”, divenuta impraticabile per via dell’incuria degli uomini e delle Istituzioni.
Una dettagliata cronaca dei fatti accaduti quel giorno è stata fatta dal giovane Goffredo Fofi che ne fu testimone diretto e che ha opportunamente riproposto di recente in un suo bellissimo libro di memorie; mentre l’intera documentazione relativa al memorabile sciopero, all’arresto dei protagonisti e al successivo processo venne tempestivamente pubblicata da Einaudi , nell’agosto 1956, col titolo “Processo all’articolo 4”. Il titolo scelto era un polemico riferimento ad uno degli articoli fondamentali della Costituzione, più volte invocato da Danilo e dal suo principale difensore, che afferma: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto».
Quando vide la luce la prima edizione del libro si temeva il sequestro delle copie. «Se lo avessi pubblicato solo con il mio nome – racconta Dolci – saremmo rimasti schiacciati tanto io che l’editore. A questo punto intervenne Piero Calamandrei. Gli chiesi consiglio. “Dobbiamo irrobustire questo fronte”. In pochi giorni al nome di Calamandrei vennero ad aggiungersi il nome di Bobbio, quello di Vittorini, di Carlo Levi e di altri». Il libro – grazie soprattutto alle testimonianze di Carlo Levi ed Elio Vittorini e all’arringa finale di Piero Calamandrei - contribuì in modo decisivo a creare il “caso Dolci”: vecchi e nuovi amici scrissero lettere ai giornali, manifesti di protesta, appelli; gruppi di intellettuali costituirono comitati di solidarietà; al Parlamento vennero presentate diverse interrogazioni.
Il senso dell’ originale forma di sciopero venne molto efficacemente colto da Aldo Capitini:
          In sostanza che cosa aveva fatto Dolci? Si era buttato a studiare le ragioni del banditismo, della violenza, della miseria, della disgregazione fisica, dell’ignoranza e aveva trovato che la mancanza di lavoro, nei disoccupati e nei sottoccupati, era la ragione dominante di quei mali. Ed allora aveva preparato per mesi, con la sua meticolosità di architetto, lo sciopero a rovescio (…). Le parole più gravi che Danilo disse, rimproverategli come diffamazione, NON ASSICURARE UN LAVORO A QUESTA GENTE E’ UN ASSASSINIO, erano verissime, perché espresse da chi era risalito alle cause”. 
 
           Per Dolci l’esperienza del carcere è stata di fondamentale importanza per capire la realtà siciliana e per guadagnarsi la fiducia dei tanti poveri cristi, dei “banditi” cui aveva già dedicato un libro un anno prima. E, non a caso, “PROCESSO ALL’ART.4” si apre e si chiude con le parole di due giovani incontrati all’Ucciardone. Non si dimentichi che dopo venti giorni di carcere al Nostro venne negata la libertà provvisoria perché la sua condotta era “un indizio manifesto di una spiccata capacità a delinquere”. E Danilo stesso, circa vent’anni dopo, nel ricordare quei giorni dirà:
          “ lo stesso giorno dell’arrivo mi fu mandato dagli altri carcerati pane, tante olive e tanto formaggio che potevano bastare per tre mesi. Una solidarietà così immediata nasceva dal fatto che lì sapevano che avevo fatto da padre ai loro figli. E mi offrivano quello che avevano. Non ho mai lavorato tanto come durante quel periodo: le mie giornate erano pienissime, perché volevo documentarmi su tutto quanto accadeva nel carcere, soprattutto sulle torture che molti carcerati avevano subito”. (Spagnoletti G., Conversazioni con Danilo Dolci, Mondatori 1977, p.66)
        Dell’arringa finale di Piero Calamandrei mi sembra opportuno  ricordare un passo: 
            “Nelle democrazie europee(…) il popolo rispetta le leggi perchè ne è partecipe e fiero: ogni cittadino le osserva perché sa che tutti le osservano: non c’è una doppia interpretazione della legge, una per i ricchi e una per i poveri! Ma questa è, appunto, la maledizione secolare che grava sull’Italia: il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che siano le SUE leggi. Ha sempre sentito lo Stato come un nemico. (…). Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia una idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e per soffocare sotto le carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami”. ( AA.VV. , Processo all’art. 4, Einaudi 1956, p. 307).
              Per concludere non si può non rilevare che se le forze politiche di         Sinistra, invece di dividersi, fossero rimaste più legate ai bisogni reali del popolo e più attente alla persistente corrispondenza delle parole di Calamandrei alla realtà odierna, ci saremmo risparmiati tanti abbagli.
 
Recensione di Francesco Virga della ristampa del libro:
Danilo Dolci, Processo all’articolo 4, La memoria, 416 pagine,15 euro, Sellerio editore Palermo

27 agosto 2011

DANILO DOLCI E LA SICILIA


Abbiamo deciso di ospitare sul nostro sito il post che l'amico Ezio Spataro ha pubblicato oggi sul suo blog perchè - nonostante il tono apologetico che può apparire stonato alla luce del vergognoso stato d'abbandono in cui giace oggi il Borgo in cui ci siamo formati - le notizie fornite, con rara capacità di sintesi, corrispondono alla realtà. Inoltre, il pezzo ci appare un'utile introduzione ai documenti che verranno pubblicati prossimamente.


Danilo Dolci, Franco Virga e la Sicilia

Negli anni Settanta il giovane marinese Franco Virga si recò presso il Centro Studi e Iniziative di Trappeto dove conobbe Danilo Dolci e partecipò alle iniziative del Centro da lui fondato. Dopo un significativo periodo di permanenza, Franco tornò a Marineo e con alcuni amici fondò il CESIM (Centro Studi e Iniziative di Marineo).

Ma chi è Danilo Dolci, e quando arriva in Sicilia? Ripercorriamo alcune tappe della sua vita dal suo arrivo nell'isola.

Nell’anno 1952 Danilo Dolci si trasferisce in Sicilia, nel piccolo borgo marinaro di Trappeto, povero tra i poveri in una delle terre più misere e dimenticate del Meridione. Il 14 ottobre dello stesso anno, sul letto di un bambino morto di fame, Danilo Dolci dà inizio al primo di numerosi digiuni, che daranno grande popolarità alle sue battaglie per il lavoro, per il pane, per la democrazia. La protesta viene interrotta solo quando le autorità si impegnano a realizzare alcuni interventi urgenti in favore delle poverissime popolazioni siciliane.

Del 1956 è invece lo sciopero alla rovescia, con centinaia di disoccupati impegnati a riattivare una strada comunale resa intransitabile dall’incuria delle amministrazioni locali. La reazione dello Stato è repressiva: una carica delle forze dell’ordine disperde i manifestanti, mentre gli organizzatori vengono arrestati e tradotti all’Ucciardone. Il “caso Dolci” infiamma il Paese, occupa le prime pagine dei giornali, accende un vivace dibattito al Senato e alla Camera: decine di parlamentari chiedono al Governo di chiarire i motivi dell’arresto e di assumere provvedimenti contro i funzionari di polizia che lo hanno disposto. Dolci viene scarcerato al termine di uno storico processo, al quale depongono come testimoni per la difesa Carlo Levi e Elio Vittorini. Nella sua arringa Piero Calamandrei – che impegna una delle sue ultime battaglie – richiama «il dialogo eterno tra Creonte e Antigone, tra Creonte che difende la cieca legalità e Antigone che obbedisce soltanto alla legge morale della coscienza, alle “leggi non scritte” che preannunciano l’avvenire», ma, conclude polemicamente, «con questo solo di diverso, che qui Danilo non invoca leggi “non scritte”. Perché, per chi non lo sapesse ancora, la nostra Costituzione è già stata scritta da dieci anni».

Danilo Dolci è tutt’altro che isolato, centinaia di giovani si trasferiscono in Sicilia da tutto il mondo per contribuire a un’imponente opera di riscatto civile, democratico, economico. Non mancano, ovviamente, reazioni di segno opposto. Anzi: le calunnie, gli atti intimidatori, i tentativi di ridimensionare e ridicolizzare i risultati ottenuti, vere e proprie campagne denigratorie saranno una costante di tutta la vita di Dolci.

Nel maggio 1958 si costituisce il Centro Studi e Iniziative per la Piena Occupazione, con sedi in diversi comuni dell’isola, che diventerà rapidamente uno straordinario strumento al servizio dello sviluppo di tutta la Sicilia occidentale. Tra le prime iniziative realizzate, l’organizzazione di alcuni importanti convegni che richiamano a Palermo, ad Agrigento, a Palma di Montechiaro, insieme a esperti delle discipline più diverse, il meglio della cultura e della politica, non solo italiane, del tempo. Ma non tutti approvano l’impegno di Dolci: con l’accusa di aver diffuso notizie diffamatorie sull’Italia nel corso dei suoi viaggi all’estero, il Ministero degli Interni gli ritira per alcuni mesi il passaporto, scatenando una nuova ondata di polemiche e reazioni indignate.

Dolci non si atteggia a detentore di verità, non è un guru venuto a dispensare ricette, a insegnare come e cosa pensare. È convinto che le forze necessarie al cambiamento si possano trovare nelle persone più avvertite del luogo; che non possa esistere alcun riscatto che prescinda dalla maturazione di consapevolezza dei diretti interessati. Sa quanto sia essenziale, per la riuscita di un’impresa, che ciascuno la senta propria: i progetti migliori, sulla carta più efficaci, falliscono se, calati dall’alto, sono avvertiti estranei, ostili. Per questo il lavoro di autoanalisi popolare, il metodo maieutico, non costituiscono un dettaglio o, peggio, una scelta eccentrica: sono necessari alla riuscita di un programma veramente rivoluzionario e nonviolento. «Un cambiamento», sostiene Dolci, «non avviene senza forze nuove, ma queste non nascono e non crescono se la gente non si sveglia a riconoscere i propri interessi e i propri bisogni».



20 agosto 2011

CLIENTELISMO













“In Sicilia, per quanto uno sia intelligente e lavoratore, non è detto che faccia carriera (…). La Sicilia ha fatto del clientelismo una regola di vita. Difficile, in questo quadro, far emergere pure e semplici capacità professionali. Quel che conta è l’amico o la conoscenza per ottenere una spintarella. E la mafia, che esprime sempre l’esasperazione dei valori siciliani, finisce per fare apparire come un favore quello che è il diritto di ogni cittadino"[1].


Con queste semplici parole Giovanni Falcone ha fornito una delle chiavi migliori per comprendere il “sistema di potere clientelare-mafioso”[2] che ha contrassegnato per secoli la regione siciliana e che, purtroppo, come aveva intravisto Leonardo Sciascia [3], ha finito per contagiare l’Italia intera . Molti anni prima il sociologo americano Edward Banfield [4] aveva individuato nel cosiddetto familismo amorale la causa prima del sistema di potere clientelare. Secondo questo studioso, infatti, il diffuso e radicato attaccamento al gruppo familiare – considerato centro dell’universo e valore assoluto cui sottomettere il resto – è alla base di ogni sistema clientelare. Mettere al primo posto la famiglia e i familiari, favorirli in ogni circostanza, soprattutto quando si occupano posti di potere, conduce a violare il principio dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge e a creare un sistema di potere fondato sull’arbitrio e l’illegalità. Tale sistema, portato alle sue estreme conseguenze, ha generato il potere mafioso di Cosa Nostra che, non a caso, ha denominato famiglia la sua prima cellula. Particolarmente significativa appare, da questo punto di vista, la testimonianza resa il 28 marzo 1969 da Carlo Alberto Dalla Chiesa, allora colonnello dei Carabinieri a Palermo, alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno mafioso del tempo:


“I famosi figli e nipoti esistono; ed esistono le mogli, le nuore, i cognati, i fratelli. Non so quanti […]sono stati innestati nelle varie amministrazioni degli enti locali. Potrebbe sembrare strano che su un custode, un bidello, un usciere, un vigile o un messo comunale ci si debba soffermare. Purtroppo, in questo ambiente, dove l’arretratezza di taluni costumi, le povertà e il bisogno incombono, certi impieghi, come appunto quelli più modesti da me citati, possono – proprio perché la loro matrice è il don mafioso, o il tizio indiziato mafioso – assumere valore. Cioè, mentre in un’altra zona il bidello è il bidello, il custode in cantiere è il custode in cantiere, il portiere di un fabbricato è il portiere e basta, qui, queste persone, […], sono significative al di là del loro ruolo specifico […].Nell’ambito di un Comune, piccolo o non piccolo, la presenza di due, tre, quattro, cinque, di questi personaggi anche se impiegati con modesti compiti, con modesti incarichi, direi che, in qualche modo, influenza l’andamento di quell’ente locale; non dico che queste persone arrivino a determinare l’attività, ma, insomma, influiscono su di essa, hanno un peso in quell’ambiente, in quella zona”.

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[1] GIOVANNI FALCONE, Cose di cosa nostra, Rizzoli, Milano 1991, pag. 132.
[2] A definire in tal modo il sistema di potere dominante in Sicilia è stato per primo DANILO DOLCI. Cfr. per tutti il suo libro Chi gioca solo, Einaudi 1966 (II edizione).
[3] LEONARDO SCIASCIA, La Sicilia come metafora, Mondadori
[4] Cfr. il suo famoso saggio The Moral Basis of a Backward Society del 1958 (tradotto per Il Mulino come Basi morali di una società arretrata)

13 agosto 2011

ERMANNO REA, La fabbrica dell'obbedienza










 ALLA RICERCA DELLE ORIGINI DEL CONFORMISMO

Francesco Virga


L’ultimo libro di Ermanno Rea mette a nudo con chiarezza le radici del servilismo e dell’opportunismo che hanno contrassegnato la storia nazionale, lasciando un'impronta indelebile sul carattere di gran parte degli italiani. Lo scrittore napoletano, con questo coraggioso saggio, prova a fare i conti con alcuni dei nodi irrisolti della nostra storia. Il libro scaturisce dalla rielaborazione di due conferenze tenute recentemente in una Università americana. Alcuni titoli dei capitoli in cui si articola il saggio danno già una prima idea delle tesi sostenute con passione dall’autore:
Covi e altari: le alleanze clandestine di santa romana chiesa – Un paradigma di nome Giordano Bruno – La lettera di Leopardi al cardinale Consalvi – Tutta colpa del clima? – Vietato ridere; vietato burlarsi di se stessi – Il Settecento e la censura – La religione barocca del Sud – La “questione protestante” in Italia: Piero Gobetti – Il fascismo coda della Controriforma – L’arte di dire no – Mussolini e l’educazione dei giovani – Il Risorgimento, frutto di un moderatismo senza idee – Gramsci liberista? – La Cassa per il Mezzogiorno secondo Amendola – I guasti del regionalismo.
Naturalmente non c’è lo spazio qui per illustrare adeguatamente il modo in cui l’autore tratta i temi sopra indicati. Mi soffermerò soltanto su alcuni di essi per mostrare come l’autore espone le sue ragioni, senza paura di affrontare santuari intoccabili.
Il leit motiv del saggio è la denuncia della viltà mostrata da chi antepone il quieto vivere alla ricerca disinteressata della verità e della libertà, accodandosi plaudente al despota di turno.
L’autore nella Prefazione dichiara apertamente di avere tratto ispirazione da un vecchio libro: Rinascimento Riforma Controriforma di Bertrando Spaventa. Secondo Rea è stato proprio questo filosofo hegeliano dell’Ottocento, ingiustamente dimenticato, ad evidenziare, tra i primi, i danni enormi prodotti dalla Controriforma nella storia d’Italia. E’ stata, infatti, la santa romana Chiesa, soprattutto tramite i Tribunali dell’ Inquisizione dei XVI e XVII secoli, a rendere gli italiani servili, bugiardi, fragili, opportunisti.
Ermanno Rea, sulla scia di Spaventa, considera la Controriforma il “motore di una sorta di vera e propria mutazione antropologica”(pag.57) degli italiani. La Controriforma , infatti, ha tarpato le ali al libero pensiero che aveva trovato grandi espressioni nell’Umanesimo e nel Rinascimento. Rea ricorda, tra le altre, le figure di Pico della Mirandola e di Giordano Bruno. Su quest’ultimo torna più volte nel saggio, citando gli studi più recenti di Eugenio Garin e di Enzo Mazzi. La vicenda di Giordano Bruno, arso vivo per non aver voluto rinunciare al diritto di pensare liberamente, è emblematica. Non per nulla il monumento in sua memoria, eretto in Campo dei Fiori a Roma nel 1889, venne osteggiato, fino all’ultimo, dalla Chiesa Cattolica.
Insomma, secondo Rea, il processo che il Tribunale dell’Inquisizione celebrò a Roma nel febbraio del 1600 contro Giordano Bruno, oltre a segnare un’epoca, continua a condizionare il comportamento degli italiani d’oggi. Non a caso la mafia avrebbe mutuato il suo sistema penale dalle procedure del Santo Uffizio:
“E’ sorprendente ritrovare tutta la ferocia dell’Inquisizione , con le sue punizioni spettacolari (…) sono ancora oggi quelle decretate dagli eredi di Riina e Provenzano. La faccia tagliata, per esempio, era la tortura che la Chiesa infliggeva all’eretico. E il sasso in bocca è la variante mafiosa della mordacchia inquisitoriale, pena comminata al bestemmiatore.” (pag.44)
Così, dopo oltre quattro secoli, la "fabbrica dell'obbedienza" continua a produrre la sua merce: consenso illimitato verso ogni forma di potere (tanto meglio se dal cuore marcio, dal momento che la Controriforma – ci spiega l'autore – sa essere sempre molto indulgente con se stessa e con i propri alleati e sostenitori). Da allora nulla è cambiato: l'italiano si confessa per poter continuare a peccare; si fa complice anche quando finge di non esserlo; coltiva catastrofismo e smemorante cinismo con eguale determinazione. Dall'Ottocento unitario al fascismo, dal dopoguerra democristiano fino alla festa mediatica del berlusconismo, la maggior parte degli italiani si è accodata a sostenere i detentori del potere di turno.
Per concludere voglio soffermarmi sul capitolo XII che affronta un tema particolarmente spinoso: i guasti del regionalismo. L’autore prende le mosse da quella rivoluzione mancata che è stato il Risorgimento, facendo proprio il giudizio espresso a suo tempo da Gramsci, ripreso recentemente da Francesco Barbagallo: la scarsa partecipazione popolare al Risorgimento ha contribuito ad accentuare il divario tra Nord e Sud, così che lo sviluppo industriale del Nord è stato, in gran parte, determinato dal sottosviluppo economico e sociale del Sud. Divario che si è affermato non soltanto nei fatti, ma anche nelle coscienze, nelle opinioni, nei sentimenti. L’autore cita, al riguardo, una bella pagina dei Quaderni del carcere del sardo che ripropongo per la sua straordinaria attualità:
“La miseria del Mezzogiorno era inspiegabile storicamente per le masse popolari del Nord; esse non capivano che l’unità non era avvenuta su una base di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno nel rapporto territoriale di città-campagna, cioè che il Nord concretamente era una piovra che si arricchiva alle spese del Sud e che il suo incremento economico-industriale era in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale. Il popolano dell’Alta Italia pensava invece che se il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno opponeva il regime borbonico, ciò significava che le cause della miseria non erano esterne, da ricercarsi nelle condizioni economico-politiche obiettive, ma interne, innate nella popolazione meridionale, tanto più che era radicata la persuasione della grande ricchezza naturale del terreno: non rimaneva che una spiegazione, l’incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica. Queste opinioni già diffuse (il lazzaronismo napoletano era una leggenda di vecchia data) furono consolidate e addirittura teorizzate dai sociologhi del positivismo (Niceforo, Sergi, Ferri, Orano, ecc.) assumendo la forza di verità scientifica in un tempo di superstizione della scienza.(…). Intanto rimase nel Nord la credenza che il Mezzogiorno fosse una palla di piombo per l’Italia, la persuasione che più grandi progressi la civiltà industriale moderna dell’Alta Italia avrebbe fatto senza questa palla di piombo.” (pag.158)
Certamente Rea sbaglia a considerare “liberista” il punto di vista gramsciano. Ma l’abbaglio non gli impedisce di fare suo, qualche riga più avanti, il secco giudizio negativo espresso dal comunista Giorgio Amendola sulla Cassa per il Mezzogiorno istituita nel 1950:
“Con il pretesto di dare mille miliardi (…) voi cercate di creare un organismo che sarà un pericoloso strumento di corruzione e di asservimento delle popolazioni meridionali…”. (pag. 159)
Più profeta di così Amendola non avrebbe potuto essere. La semina di denaro a cascata, nei decenni successivi, ha prodotto soprattutto ruberie, sprechi, opere pubbliche inutili, collusioni politico-mafiose. Fino al degrado dei nostri giorni a base di fabbriche dismesse, disoccupazione dilagante, corruzione alle stelle.
Da questo disastro si può uscire soltanto se si riesce a mettere in pratica il progetto esposto recentemente da Giorgio Ruffolo - nel libro Un paese troppo lungo, Einaudi 2009- che Rea sembra far suo ( Vedi pp.161-162).

Francesco Virga,  settembre 2011


Recensione del libro :
ERMANNO REA, LA FABBRICA DELL’OBBEDIENZA. Il lato oscuro e complice degli italiani, Feltrinelli, Milano 2011, pagg.223, £ 16,00
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