31 marzo 2014

UNA NAZIONE DI CARTA


Nell'invitare tutti a partecipare alla presentazione dell'ultimo libro di Matteo Di Gesù, può essere utile rileggere questa  recensione: 

Italia o Italie?

 Mario Minarda


Codificare’, ‘canonizzare’, ‘imitare’ e, perché no? 'riscrivere’ sono verbi del tutto consueti e forse abusati se riferiti al sistema letterario italiano. Lo diventano ancora di più quando si legano, in prospettiva educativa, a dinamiche identitarie e a conglobati retorici che finiscono inevitabilmente per incidere nell’immaginario collettivo, cristallizzandolo in pose ideologiche e auto-narrazioni statiche. Al contrario il nuovo libro di Matteo Di Gesù (Una nazione di carta. Tradizione letteraria e identità italiana, Carocci, Roma, pp.192, 2013), partendo da questi stessi noti assunti, dinamizza e smonta in modo proficuo il rapporto diadico tra letteratura e identità nazionale secondo interessanti diramazioni plurali che tengono conto dei vari paradigmi critici avvicendatisi nel corso degli ultimi anni: dagli studi culturali, a quelli postcoloniali, alla recente, valida geocritica.
Propositiva cartina di tornasole di tale itinerario in movimento è, senza indugiare in deplorevoli lamentazioni, la consapevolezza di un progressivo deperimento degli studi letterari e umanistici nel mondo della scuola e, con capillare propagazione, anche in ambito accademico. Ma, scrive con perplessa fiducia l’autore, «proprio l’indebolimento delle prerogative pedagogiche-nazionali dello studio della letteratura italiana, e in generale degli studi umanistici, potrebbe offrire inoltre un’occasione propizia per ripensare i loro statuti epistemologici, per un’apertura ad approcci sovranazionali, a metodologie pluridisciplinari, ad un’idea meno ingessata e istituzionale di humanities». L’invito è quindi quello di una lettura della nostra tradizione letteraria sensibile ai mutamenti, alle contaminazioni, ai meticciati e alle preziose impurità provenienti dal mondo esterno. È chiaro, ricordandosi dell’«Italia mia» di petrarchesca memoria, che il possessivo “nostra”, sempre riferito al “Bel paese”, è una banale provocazione tutta da decostruire per la comunità futura: con opportuna negoziazione dei significati, si intende.
Nel volume vengono così ripercorsi cronologicamente luoghi e figure, immagini e temi, generi e circolazioni della storia letteraria italiana, da Dante e Petrarca fino a Pasolini e Manganelli, passando per i trattatisti cinquecenteschi e i saggisti del Settecento, a torto trascurati (Baretti, Bettinelli, Calepio, Denina, solo per citarne alcuni), non senza documentare appurate precisazioni filologiche e puntuali rigori critici. Sono rintracciati sovrasensi, laddove non sensi primari, negli stessi testi catalogati come più “popolari” o considerati “minori”: il Pinocchio collodiano, il Guerrin meschino, I Reali di Francia. Tant’è che il libro potrebbe essere considerato (e per certi aspetti lo è) uno splendido e icastico manuale sui manuali che studiano il suddetto tema, o chissà, un funambolico libro alla rovescia che riflette alcuni gangli interpretativi e ri-legge inveterati stereotipi. Inteso: una tradizione che va certo vagliata, ma con più apertura e flessibiltà.
Si scopre così che sia il Dante del primo canto dell’Inferno, ma anche la pre-risorgimentale ode manzoniana Marzo 1821, oppure , ancora, la canzone di Leopardi La Ginestra (per marcare i luoghi più celebri) possono essere letti con angolature ibride, plurime e non settariamente localistiche o identitarie.
Infine l’epilogo polemico di Una nazione di carta abbozza una proposta combattiva e militante, rivolta non solo ad addetti ai lavori, ma anche e soprattutto alla comunità di migliaia di giovani studiosi e studenti negli atenei, indicando loro mappe interpretative a ‘grado zero’ e fornendo al contempo i pastelli critici per colorarle insieme. Disegnando ogni volta rotte alternative e resistenti alle incipienti omologazioni.  
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NOTA
Articolo pubblicato con il titolo “Parole e versi dell’identità nazionale” su “Il manifesto” del 20-03-2014.



SUL GALILEO DI B. BRECHT





Oggi vi invito a rileggere la Vita di Galileo di B. Brecht tenendo presente la nota seguente presa da
 http://www.antiit.com

Quel Galileo è proprio Brecht


È la “vita” di Brecht, sotto quella di Galileo, che si inscena. Brecht ci lavorò per vent’anni, facendone tre storie diverse, con lunghe note esplicative (confluite negli “Scritti teatrali”). Nella riedizione per il teatro si ripubblica la vecchia introduzione di Emilio Castellani, il traduttore, che molto insiste sul fatto autobiografico – corredandole con le note degli “Scritti teatrali” E con le riflessioni di Brecht, su Galileo e sulle messinscene della sua “Vita”. Nei Tascabili si ripubblica l’edizione che Giuseppina Onet, ora traduttrice dall’inglese,  aveva approntato nel 1994, confrontata con l’originale, con una lunga introduzione, e un apparto di note molto esplicative, sopratutto al testo tedesco.
Nelle note, Brecht celebra la straordinaria carica di energia dell’“epoca nuova”, che l’eroe vuole ricercatore, pioniere, esploratore. Ma c’è nuovo e nuovo, riflette: vecchissimo (reazionario, regressivo) è il modo nuovo di fare la guerra. Siamo nel 1938, in Danimarca, sempre vicini al “fronte”, sono note alla prima redazione della “Vita”: “Ormai è la barbarie stessa che si atteggia ad epoca nuova”. Brecht è ancora “aiutato da alcuni assistenti di Niels Bohr, che stavano studiando il problema della disintegrazione dell’atomo”. Dieci anni più tardi, nel 1947 in America, la “cosa” è avvenuta anche tra gli scienziati: siamo due anni dopo Hiroshima, e la segregazione, per la prima volta nella storia, degli esiti della ricerca scientifica, la sua militarizzazione esclusiva, e nel pieno della caccia alle streghe di MacCarthy e delle delazioni – Brecht sfuggirà alla Commissione, lasciando gli Usa, il giorno della prima della “Vita di Galilleo”, riscritta per tenere contro del tradimento degli scienziati. Questa versione sarà ricomposta con la prima, nel 1956, l’anno della morte di Brecht, forse l’ultima sua fatica, e in questa terza riscrittura si rappresenta.
Nel 1938, in esilio volontario da cinque anni, Brecht fece di Galileo l’eroe della dissimulazione, il combattente segreto.  Nel 1947, dopo la Bomba, Galileo si autodenuncia, reo di tradimento della scienza. Brecht era a Los Angeles, scrive nelle note: all’annuncio della vittoria dopo Hiroshima, “la grande città si diede a manifestazioni di stupefacente cordoglio. L’autore udì conducenti d’autobus e fruttivendole al mercato non esprimere altro che sgomento. Era la vittoria, ma con l’ignominia di una disfatta”. Aggravata dal segreto di cui scienziati e politici circondarono “la gigantesca fonte di energia”. L’abiura di Galileo, ossia la proposizione che la fede è separata dalla scienza, che “appare ragionevole” agli scienziati, poiché consente a Galileo di continuare il suo lavoro, Brecht giudica una resa, per giunta opportunistica: “Egli punta il cannocchiale verso le stelle e si consegna ai suoi torturatori”. La Bomba – questa nota è del 1947 – è l’esito di questa separazione: Galileo è il predecessore di Openheimer e Fuchs, gli scienziati che hanno tradito. E sua è la colpa, più che della Chiesa: notevole è la reiterata avvertenza a registi a attori che il dramma non è contro la Chiesa, semmai contro il potere, contro tutti i poteri, ma più è sulla necessaria resistenza. Poi venne MacCarthy, e la fuga per non tradire. Seguita da otto anni non eroici e anzi di cedimenti, di un Brecht libero a Berlino Est di virtuosamente dissimulare. La terza redazione ripristinerà la dissimulazione della prima, ma senza eroismo, con l’autodenuncia del tradimento, ed è quella che si ripubblica.  
L’introduzione di Castellani, all’edizione del 1963, oggi suona ridicola: “Vita di Galileo è anche una delle opere fondamentali della cultura del nostro secolo”, segnata “dalle lotte dei popoli contro il fascismo, il colonialismo e il neocapitalismo, dall’affermarsi di modelli di società socialiste, e dallo spalancarsi di una paurosa frattura tra progresso tecnico e progresso sociale”. Ma è vero che “in nessun altro lavoro brechtiano si assiste a una così ampia e radicale dialettizzazione di un personaggio, a un così spregiudicato rovesciamento e raddrizzamento di idoli”. Nella genesi e i continui ripensamenti seguendo la storia personale di Brecht. Fino all’ultimo, si può aggiungere: fino a quando Brecht a Berlino difese il partito Comunista – la Chiesa - contro l’insurrezione operaia.
La “Vita di Galileo” è anche la storia dei tradimenti intellettuali del Novecento. L’inquisizione (Hitler, MacCarthy, Stalin) sta sullo sfondo, in scena si agitano i fantasmi della scienza che tradisce i suoi presupposti, l’autonomia e la libertà. A specchio degli ultimi vent’anni di Brecht, e del suo proprio tradimento, comunista puro e duro col conto e il passaporto in Svizzera, per il timore di Mosca. Oggi non ci sono tradimenti in vista degli intellettuali, non che si dica – né ci sono inquisizioni che li richiedano, non che si dica. Ma la “Vita di Galileo” è l’unica opera di Brecht in circolazione, per il teatro, per i lettori, e ora anche per le scuole. 
Astolfo 
Bertolt Brecht, Vita di Galileo, Einaudi Tascabili, pp. XXVI + 258 € 12

CORPO E PENSIERO IN NIETZSCHE


Riprendo da  http://rebstein.wordpress.com questo bel pezzo:


Corpo e pensiero in Nietzsche, secondo Klossowski
di  Giuseppe Zuccarino
     
Pierre Klossowski rappresenta una poliedrica figura di narratore, saggista, filosofo, traduttore, disegnatore. Spetta a lui, fra l’altro, il merito di aver tradotto in francese classici del pensiero tedesco come le Meditazioni bibliche di Hamann, la Gaia scienza e i Frammenti postumi 1887-1888 di Nietzsche, il Tractatus e le Ricerche filosofiche di Wittgenstein, il Nietzsche di Heidegger. Ma non meno importanti sono i suoi studi su alcuni pensatori moderni e contemporanei. Da tutti gli scritti klossowskiani, siano essi letterari o saggistici, emerge una visione molto personale del linguaggio, dell’arte e dell’esistenza in genere, che ha esercitato un significativo influsso sui filosofi della generazione successiva, in special modo Deleuze e Foucault.
     I suoi primi testi brevi su Nietzsche risalgono agli anni Trenta, però ad essi ne succedono altri, che trovano il loro culmine in un libro assai più tardivo, Nietzsche et le cercle vicieux[1]. Si tratta di un’opera sorprendente, dato che in essa l’autore, pur riportando, nella propria traduzione, numerosi passaggi degli scritti postumi e delle lettere nietzschiani, sceglie di non tener conto degli studi precedenti sul filosofo tedesco. Tutto ciò, del resto, viene dichiarato fin dall’esordio: «Ecco un libro che testimonierà di una rara ignoranza: come si può anche solo parlare del “pensiero di Nietzsche” senza mai fare il punto su ciò che è stato detto dopo? Non si corre forse il rischio di mettere i propri passi su piste percorse più d’una volta, su orme calcate e ricalcate – di porre incautamente quesiti ormai superati – dando in tal modo prova di una negligenza, di una totale mancanza di scrupoli nei confronti delle minuziose esegesi che, anche di recente, sono state intraprese […]? Qual è dunque il nostro proposito – ammesso che ne abbiamo uno? Poniamo che quello che abbiamo scritto sia un falso studio. Per il solo fatto che leggiamo Nietzsche nel testo, che lo ascoltiamo parlare, ciò significa forse che lo facciamo parlare per “noi stessi” e traiamo partito dal bisbiglio, dal respiro, dagli scoppi di collera e di riso di questa prosa, la più insinuante che si sia mai formata nella lingua tedesca – la più irritante, anche?»[2].
     Se l’ignoranza è senz’altro fuori questione e se l’originalità dell’interpretazione proposta da Klossowski è indubbia, è vero però che egli cerca di realizzare una fusione tra le idee di Nietzsche e le proprie. Il fatto che il libro sia incentrato su scritti e lettere nietzschiani dell’ultimo periodo (dal 1880 al 1889) pone all’autore il problema di come situarsi in rapporto al tema dell’insorgere della follia nel filosofo tedesco. Su questo punto, Klossowski si mostra subito deciso, persino perentorio: «In Nietzsche il pensiero lucido, il delirio e il complotto formano un tutto indissolubile: indissolubilità che diventa criterio per stabilire d’ora innanzi che cosa avrà o non avrà rilevanza. Tale pensiero non sarebbe dunque “patologico” perché implica il delirio; al contrario, esso assume l’aspetto dell’interpretazione delirante proprio perché è altamente lucido»[3]. Siamo dunque lontanissimi da quelle interpretazioni tradizionali che cercano di stabilire con precisione il discrimine cronologico oltre cui il pensiero nietzschiano deve ritenersi alterato, reso inattendibile, dalla pazzia. Poiché per Klossowski follia e lucidità coincidono, è chiaro che i termini stessi del problema subiscono una drastica modifica.


Klossowski 1

A suo avviso, Nietzsche contesta fin dall’inizio le istanze di controllo costituite sia dai principi di identità e di realtà, sia dalle autorità costituite in ambito filosofico e scientifico. Dapprima lo fa in maniera più timida, limitandosi a parlare della Grecia antica e ponendosi nella posizione dell’insegnante; poi, però, «l’umore o la tonalità dell’anima, in quanto contagiosa, prendono il sopravvento sulla dimostrazione […]: Nietzsche introduce nell’insegnamento ciò che nessuna autorità garante della trasmissione delle conoscenze (la filosofia) si è mai sognata di insegnare»[4]. E ben presto la tonalità dell’anima sopprime la possibilità stessa dell’insegnamento, conduce a un mutismo che il filosofo tedesco riesce però a tradurre in pensiero: «Identificandosi con questo ostacolo muto dell’umore per pensarlo, il “professor Nietzsche” distrugge non solo la propria identità, ma anche quella delle istanze parlanti. Di conseguenza sopprime la loro presenza nel suo discorso: e, con essa, il principio stesso di realtà»[5].
     Ciò non gli impedisce di assegnare a sé, in quanto filosofo, un ruolo attivo nei confronti degli altri; egli si pone, anzi, il problema di scegliere la migliore strategia da adottare: «Bisogna conquistare le coscienze per provocare un “evento” (spaccare in due la storia dell’umanità), oppure tale evento, che il filosofo teme (le conseguenze della scomparsa del Dio unico, garante delle identità, e il ritorno di molteplici dèi), non deve egli dapprima mimarlo, seguendo la semiotica gestuale degli Indovini e dei Profeti?»[6]. Com’è noto, Nietzsche percorre entrambe le strade, ma al tempo stesso respinge la posizione del filosofo insegnante, giudicandola la meno efficace di tutte. Dal suo punto di vista, non si tratta più solo di sceverare il vero dal falso, vocazione tipica dei filosofi, ma anche di distinguere il sano dal malato, tenendo presente che la spinta creativa, quando si manifesta, può assumere dapprima il carattere della malattia. «Soggetto a variazioni valetudinarie, e avendo il continuo timore che il suo pensiero potesse risentire dei suoi stati depressivi, Nietzsche ritenne rivelatore il sondare da questo punto di vista ciò che i pensatori prima di lui avevano offerto sotto forma di pensiero: il loro rapporto con la vita, col vivente, vale a dire gradi di elevazione e di caduta d’intensità, sotto tutte le forme di aggressività, di tolleranza, d’intimidazione, di angoscia, di bisogno di solitudine o al contrario di oblio di sé in mezzo alle effervescenze di un’epoca»[7].
     Klossowski pone al centro del proprio studio il rapporto che si stabilisce in Nietzsche, e secondo Nietzsche, fra il corpo e il pensiero. Si tratta in effetti di un problema essenziale agli occhi del filosofo tedesco, come si rileva ad esempio da un passo non citato nel libro klossowskiano: «L’inconsapevole travestimento di necessità fisiologiche sotto il mantello dell’obiettivo, dell’ideale, del puro-spirituale va tanto lontano da far rizzare i capelli – e abbastanza spesso mi sono chiesto se la filosofia, in un calcolo complessivo, non sia stata fino a oggi principalmente soltanto una spiegazione del corpo e un fraintendimento del corpo. Dietro i supremi giudizi di valore, da cui fino a oggi è stata guidata la storia del pensiero, sono nascosti fraintendimenti della condizione corporea sia da parte di individui che di classi o di razze intere. È legittimo ravvisare in tutte quelle ardite stravaganze della metafisica, specialmente nelle sue risposte alla domanda sul valore dell’esistenza, in primo luogo e sempre i sintomi di determinati corpi: e se anche, tutto sommato, in tali affermazioni o negazioni del mondo non v’è, a misurarle scientificamente, un granello di significato intrinseco, esse costituiscono tuttavia per lo storico e lo psicologo indici tanto più apprezzabili, in quanto sintomi, come si è detto, del corpo, del suo riuscire bene o male, della sua pienezza, potenzialità, dominio di sé nella storia, oppure invece delle sue inibizioni, stanchezze, scadimenti, del suo presentire la fine, del suo volere la fine […]: in ogni filosofare non si è trattato per nulla, fino a oggi, di “verità”, ma di qualcos’altro, come salute, avvenire, sviluppo, potenza, vita…»[8].
     Nietzsche intende effettuare anche su di sé un’indagine di questo tipo: «Noialtri assetati di ragione, vogliamo guardare negli occhi le nostre esperienze di vita così severamente come se fossero un esperimento scientifico, ora per ora, giorno per giorno! Vogliamo essere noi stessi i nostri esperimenti e le nostre cavie»[9]. Ciò avviene in due modi diversi: da un lato egli si sforza di far sì che le proprie idee non subiscano il condizionamento negativo che potrebbe esercitare su di esse la malattia, dall’altro cerca di ricavare, dalle sofferenze che prova, delle scoperte sul piano conoscitivo. Klossowski riporta vari estratti di lettere nelle quali il filosofo si lamenta dei problemi fisici (forti attacchi di mal di testa, nausea, dolori agli occhi e crescente miopia). Al tempo stesso, però, Nietzsche considera tale condizione, pressoché insopportabile, come rivelatrice sul piano del pensiero: «L’esistenza mi pesa spaventosamente: me ne sarei liberato da un pezzo se non fosse proprio questo stato di sofferenza e di rinuncia quasi totale quello che mi permette di fare le prove e gli esperimenti più istruttivi nella sfera spirituale e morale – la lietezza che mi dà questa sete di conoscenza mi solleva ad altezze tali che riesco a trionfare di ogni tormento e di ogni disperazione. Tutto sommato sono più felice di quanto lo sia mai stato in vita mia. Eppure! Sofferenza ininterrotta, ogni giorno, per ore e ore, una sensazione di intorpidimento molto simile al mal di mare mi rende difficile anche il parlare; a questo stato si alternano attacchi violenti (l’ultimo mi ha fatto vomitare per 3 giorni e 3 notti, agognavo di morire). Non essere in grado di leggere! Rarissimamente di scrivere! Nessun contatto umano!»[10].
     Non è chiaro quale fosse l’origine delle cefalalgie di cui soffriva Nietzsche; certo è che esse lo costringevano a una continua ricerca del modo di vivere e di scrivere più compatibile col suo stato. Si sa ad esempio che egli camminava molto all’aperto, annotando a tratti, su taccuini, appunti che poi trascriveva, correggendoli e sviluppandoli. Cambiava spesso luogo di residenza, cercando ogni volta il clima e l’alloggio più adatti, a seconda della stagione dell’anno, e inoltre tentava di sperimentare sempre nuove cure e regimi dietetici, nella speranza che gli portassero giovamento. Klossowski ricorda queste cose, ma sostiene in proposito un’interpretazione tendenziosa: a suo avviso, Nietzsche desidera soffrire, perché considera i dolori come un linguaggio attraverso cui il corpo vuol comunicargli qualcosa di importante: «Non solo egli interpreta la sofferenza come energia, ma la vuole tale: la sofferenza fisica è vivibile solo in quanto è strettamente legata al godimento, in quanto sviluppa una lucidità voluttuosa: o essa spegne ogni possibile pensiero, oppure raggiunge il delirio del pensiero»[11]. In effetti, però, esiste in Nietzsche anche la convinzione opposta, cosa che spiega il suo ostinato desiderio di cercare in tutti i modi la salute; non a caso egli scrive: «Quando un filosofo è malato, ciò costituisce già quasi un argumentum contro la sua filosofia»[12].
Klossowski 2 Klossowski preferisce ignorare dichiarazioni del genere, anche perché, a suo avviso, il corpo «è solo il luogo d’incontro di un insieme di impulsi individuati per l’intervallo costituito da una vita umana, impulsi che aspirano solo a disindividuarsi»; la persona si crede installata in un corpo, «ma questo corpo proprio non è altro che un incontro fortuito d’impulsi contraddittori»[13]. Beninteso, egli non sta inventando di sana pianta, ma accentua e personalizza certe affermazioni di Nietzsche – che peraltro non cita –, nelle quali veniva chiaramente riconosciuta la molteplicità dell’io. Vediamo solo alcuni esempi, tra i tanti possibili: «L’io non è la posizione di un essere rispetto a più esseri (istinti, pensieri, e così via); bensì, l’ego è una pluralità di forze di tipo personale, delle quali ora l’una ora l’altra vengono alla ribalta come ego[14]. E ancora: «L’intelletto è evidentemente solo uno strumento, ma nelle mani di chi? Senza dubbio degli affetti; e questi sono una pluralità dietro la quale non è necessario porre un’unità […]. Forse non è necessario assumere un soggetto unico; forse è altrettanto permesso assumere una pluralità di soggetti, la cui fusione e lotta stiano alla base del nostro pensiero e in genere della nostra coscienza»[15].  Klossowski, da parte sua, insiste sull’idea che gli impulsi siano distinti non solo da un soggetto centralizzato, ma persino da un soggetto plurale, ed aspirino a divenire autonomi e dominanti. Deve riconoscere, però, che per Nietzsche le cose non stanno in questi termini: «Egli lotta al tempo stesso con gli impulsi che vanno e vengono, e per una coesione nuova del suo pensiero con il corpo in quanto pensiero corporante: fa ciò seguendo quello che chiama a più riprese il filo conduttore del corpo: dunque cerca di tenere quel filo d’Arianna nel labirinto tracciato dagli impulsi a seconda delle alternanze dei suoi stati valetudinari»[16].
     Klossowski ci presenta il filosofo tedesco in preda ad attacchi sempre più violenti non tanto della sofferenza fisica o mentale, quanto piuttosto degli impulsi, che tendono a disgregare il suo io, agendo come se fossero «delegati dal Caos»[17]. Ma in realtà Nietzsche non subisce affatto passivamente i propri disturbi, bensì li analizza e cerca di comprendere – in generale e non solo in riferimento al proprio caso specifico – in che modo funzioni l’interazione fra impulsi e coscienza, così come quella fra mente e corpo.
     Si potrebbe pensare che Klossowski operi nei confronti di Nietzsche una sorta di psicoanalisi, volta a privilegiare l’importanza che i fattori inconsci avrebbero in rapporto al pensiero cosciente. Tuttavia questo è vero solo in parte, perché nell’ottica klossowskiana la stessa distinzione fra conscio e inconscio è da ritenersi inadeguata: «Le nozioni di coscienza e incoscienza, formate a partire da ciò che sarebbe responsabile o irresponsabile, presuppongono sempre l’unità della persona dell’io, del soggetto – distinzione puramente istituzionale»[18]. Il problema, secondo Klossowski, è diverso: in ogni persona, e non solo in Nietzsche, esiste un fondo impulsionale, che risulta, a rigore, incomunicabile se si cerca di esprimerlo ricorrendo al «codice dei segni quotidiani»[19]. L’unico modo per restare davvero fedeli al Caos degli impulsi sarebbe il mutismo, mentre se si sceglie la via della comunicazione ci si espone ad ogni sorta di malinteso. Che queste tematiche siano tipiche di Klossowski è indubbio, ma la loro applicazione al filosofo tedesco appare piuttosto forzata.
     Nel libro, un ruolo di grande rilievo viene assegnato alla teoria dell’eterno ritorno: «Il pensiero dell’Eterno Ritorno del Medesimo giunge a Nietzsche come un brusco risveglio provocato da una Stimmung, da una certa tonalità dell’anima: confuso con questa Stimmung, esso se ne libera facendosi pensiero, ma mantiene il carattere di una rivelazione, ossia di un improvviso disvelarsi»[20]. Klossowski non nega l’interpretazione etica della teoria, secondo cui essa ci invita ad agire come se dovessimo, e volessimo, rivivere infinite volte le stesse esperienze, ma insiste sul ruolo che l’idea dell’eterno ritorno conferisce all’oblio e alla perdita dell’identità. Tale perdita, a sua volta, viene posta in connessione con un’altra celebre idea del filosofo: «La “morte di Dio” (del Dio garante dell’identità dell’io responsabile) apre all’anima tutte le sue possibili identità già esperite nelle diverse Stimmungen dell’anima nietzschiana; la rivelazione dell’Eterno Ritorno porta con sé di necessità le realizzazioni successive di tutte le identità possibili: “in fondo io sono tutti i nomi della storia”»[21]. Anche qui Klossowski sta attribuendo a Nietzsche qualcosa di diverso rispetto a quanto ha affermato, perché una cosa è rivivere infinite volte la propria identità, e ben altra cosa è rivivere in sequenza, nel corso di innumerevoli cicli cosmici, quella di tutti. È difficile sostenere una simile interpretazione basandosi su una frase contenuta nell’ultimo dei «biglietti della follia», di tono burlesco-delirante, nel quale Nietzsche, dopo aver detto di essere Dio, Vittorio Emanuele II, l’assassino Prado, l’architetto Antonelli e altri ancora, conclude: «Quello che è spiacevole e che mette a prova la mia modestia è che in fondo io sono tutti i nomi della storia»[22]. Eppure è proprio questa la tesi klossowskiana: «Nell’istante in cui mi viene rivelato l’Eterno Ritorno io cesso di essere me stesso hic et nunc e sono suscettibile di diventare innumerevoli altri, sapendo che dimenticherò tale rivelazione una volta che sarò uscito dalla memoria di me stesso»[23].
Klossowski 3Ma a Klossowski, come abbiamo visto, non basta dissolvere il soggetto unico nella pluralità dei soggetti, perché deve ancora sostituire a quest’ultima la fluttuazione delle intensità, che si sprigionano a loro volta da una profondità caotica: «Il significato, costituendosi solo nell’afflusso, non si stacca mai del tutto dai mobili abissi che ricopre. Ogni significato resta in funzione del Caos generatore di senso»[24]. Se le intensità, al loro massimo grado, potranno ancora individuarsi in una qualche forma, non sarà di certo in quella umana, bensì piuttosto in quella di una molteplicità divina: «Il girotondo degli dèi che s’inseguono è ancora, nella visione mitica di Zarathustra, soltanto una spiegazione del moto di flusso e riflusso dell’intensità delle Stimmungen nietzschiane, la più alta delle quali gli si manifestò sotto il segno del Circulus vitiosus deus»[25].
     A ragion veduta, Klossowski omette di citare il passo nietzschiano in cui si incontra quest’ultima espressione, perché in esso il filosofo non parla affatto di vivere e rivivere esistenze diverse. Scrive Nietzsche: «Chi, come me, si è sforzato a lungo, in una specie di enigmatica bramosia, di pensare sino in fondo il pessimismo e di liberarlo dalla ristrettezza e dall’ingenuità […], costui ha forse, senza propriamente volerlo, aperto proprio con ciò gli occhi sull’ideale opposto: l’ideale dell’uomo più tracotante, più pieno di vita e più affermatore del mondo, il quale non soltanto ha imparato a rassegnarsi e a sopportare ciò che è stato e che è, ma vuole riavere, per tutta l’eternità, tutto questo, così come esso è stato ed è, gridando insaziabilmente: da capo non soltanto a se stesso, ma all’intero dramma e spettacolo, e non soltanto a uno spettacolo, ma fondamentalmente a colui che proprio di questo spettacolo ha bisogno – e lo rende necessario: poiché egli ha sempre di nuovo bisogno di se stesso – e si rende necessario – – Come? E non sarebbe questo – circulus vitiosus deus?»[26]. Nonostante ciò, Klossowski ribadisce la propria opinione, secondo cui quello dell’eterno ritorno è un pensiero che cessa di apparirci terribile, e diventa divino, solo quando capiamo che non comporta la ripetizione di un’unica vita: «L’annuncio a prima vista opprimente, ossia il ricominciamento ad infinitum dei medesimi atti, delle medesime sofferenze, appare ormai come la redenzione stessa, non appena l’anima sa di aver percorso e di essere destinata a percorrere ancora altre individualità, altre esperienze»[27].
     Tornando al tema del rapporto fra corpo e pensiero, l’autore spiega che Nietzsche si trova di fronte alla necessità di distinguere ciò che è sano da ciò che è malato, ma al tempo stesso non può semplicemente prendere posizione a favore del primo elemento. Il filosofo tedesco infatti sa bene che la persona sana segue perlopiù le tendenze gregarie, mentre è piuttosto il malato, l’uomo della décadence, a rappresentare la singolarità individuale. Quindi la salute appare, da questo punto di vista, un fattore negativo, che ha prodotto i valori tradizionali, e la malattia si rivela all’opposto creatrice di nuovi valori. Sarebbe troppo semplice, però, se bastasse capovolgere i criteri consueti: «Salute e malattia non sono niente di essenzialmente diverso, come credevano i vecchi medici e come ancor oggi credono alcuni praticanti. Non se ne devono fare princìpi o entità distinti che si disputino l’organismo vivente facendone il proprio campo di battaglia. […] In realtà, tra queste due forme di esistenza ci sono differenze di grado: l’esagerazione, la sproporzione, la disarmonia dei fenomeni normali costituiscono lo stato di malattia»[28]. Occorre dunque saper effettuare una diagnosi accurata, che consenta di distinguere, ad esempio, tra un dominio di sé che sia segno di forza e un’autolimitazione attuata in nome di presunti valori (disvalori, agli occhi di Nietzsche) come quelli cristiani dell’umiltà o della rassegnazione. In maniera analoga, uno stato fortemente energetico può risultare tanto da un’esaltazione malsana – quella del fanatico, dell’esaltato religioso –, quanto da una proficua esuberanza di forze. Il filosofo tedesco deve porsi di continuo problemi di questo tipo, e non solo su un piano teorico generale, ma anche riflettendo sulla propria condizione personale: «L’esperienza stessa dell’Eterno Ritorno non attestava in Nietzsche ciò che proprio lui aveva denunciato come esaurimento? Egli era sì o no vittima di ciò che designa come il più pericoloso malinteso, quello cioè che confonde i sintomi dell’esaurimento con quelli dell’eccesso di vita, della ricchezza?»[29].
Klossowski 4 Klossowski cita giustamente la testimonianza di Lou Andreas-Salomé riguardo al momento in cui il filosofo le aveva comunicato la sua idea dell’eterno ritorno: «Non potrò mai dimenticare le ore in cui me lo confidò per la prima volta come un segreto, come qualcosa di fronte alla cui dimostrazione e conferma egli provava un orrore indicibile: ne parlava soltanto con voce sommessa e con tutti i segni del più profondo sgomento. E Nietzsche in effetti soffriva così profondamente della vita che la certezza del suo eterno ritorno doveva avere per lui qualcosa di raccapricciante. […] Diventare l’annunciatore di una dottrina che risulta sopportabile solo nella misura in cui l’amore per la vita prende il sopravvento, che può avere un effetto esaltante solo laddove il pensiero umano s’innalza fino alla divinizzazione della vita, doveva in verità rappresentare una contraddizione tremenda per il suo più intimo modo di sentire»[30]. Secondo Klossowski, invece, il turbamento del filosofo si spiega col timore di essere impazzito: è proprio questo timore ciò che lo induce ad intraprendere degli studi allo scopo (ovviamente non conseguibile) di trovare una dimostrazione scientifica della teoria dell’eterno ritorno. Persino un’opera importante quale Così parlo Zarathustra non risolve la tensione interiore di Nietzsche; anzi, col suo stile profetico, non fa che acuire l’esigenza di fornire in seguito un chiarimento decisivo: «Tanto più forte l’obbligo di dare a tale profezia un commento “sistematico”. L’incomprensibile evidenza dell’estasi di Sils-Maria, l’intensità esplicita in questa vertigine del Ritorno, in una parola l’alta tonalità dell’anima, non è più quella di Nietzsche: essa viene mimata tramite la gesticolazione declamatoria di Zarathustra»[31].
     Klossowski dedica ampio spazio all’esame dei progetti (alquanto folli e reazionari) elaborati dal filosofo tedesco riguardo a come si potrebbe giungere a una selezione degli individui superiori di contro alla massa gregaria, e li considera sempre in base alla propria opinione secondo cui, in Nietzsche, pazzia e lucidità crescono assieme. L’autore francese mostra di apprezzare le elucubrazioni socio-politiche nietzschiane, giudicandole anticipatrici nei confronti della società attuale. Ma non è su questa parte del suo libro, assai discutibile anche sotto il profilo ideologico, che ci interessa soffermarci, e neppure sulla successiva, in cui egli si dedica a variazioni di tipo psicoanalitico sul ruolo delle figure paterna e materna (intese in senso reale e simbolico) nella biografia intellettuale di Nietzsche, bensì piuttosto sui capitoli finali, nei quali torna in primo piano il tema dell’interazione fra corpo e pensiero.
Klossowski 5 Il problema è sempre quello di capire se, in fondo, sia da preferire la salute o la malattia. Klossowski ritiene che il filosofo tedesco, a dispetto delle sue dichiarazioni in senso opposto, negli ultimi anni si sia orientato sempre più a favore della condizione patologica: «Nella misura in cui sa di essere egli stesso malato e debole, rivalorizza questi stati dell’esistenza, modificando così, e quindi arricchendo di ulteriori sfumature, la propria discriminazione. Ecco riabilitato il malato perché ha una compassione maggiore e al tempo stesso è il solo ad aver “inventato la malizia”; riabilitate le razze vecchie, decadenti, perché sono tanto più dotate di spirito; riabilitati il buffone e il santo»[32]. Ciò spiegherebbe anche il ruolo crescente che svolgono, negli scritti e lettere di quel periodo, le componenti istrioniche.
     Le interpretazioni tradizionali del crollo mentale nietzschiano appaiono a Klossowski illecite, perché pretendono di valutare il filosofo tedesco in base a quelle concezioni ottimiste della vita psichica che, per l’appunto, egli si era sforzato di distruggere. Ma «in che modo Nietzsche era giunto a negare la serenità dell’intelletto, se non a partire dalle forze centrifughe del Caos? Ciò non significa che abbia invocato tali forze: più ne temeva l’irruzione imminente, più lottava contro l’incoerenza, e più subiva l’attrazione del discontinuo e dell’arbitrario»[33]. Nell’ottica klossowskiana, quest’attrazione è sempre stata presente in Nietzsche, e dunque alla fine non ha fatto altro che manifestarsi allo scoperto: «La visione (paranoica) del mondo e della propria situazione, a partire da Torino, costituisce un sistema dettato, organizzato dal pathos nietzschiano: è il periodo in cui il gesto si sostituisce al discorso; la sua stessa parola, oltrepassando il livello “letterario”, deve ormai essere esercitata come un attentato dinamitardo. Nietzsche è ormai convinto di perseguire non la realizzazione di un sistema, ma l’applicazione di un programma. Lo trascina a ciò la straordinaria euforia degli ultimi giorni torinesi»[34].
     Di essa troviamo ampie tracce nella corrispondenza nietzschiana. A Klossowski interessa in particolare lo scambio di lettere col grande scrittore svedese August Strindberg: «L’acerba ironia di Strindberg si accorda, per una singolare coincidenza, con la tonalità dell’anima, al tempo stesso violenta ed euforica, di Nietzsche […]. Strindberg, che ha già una lunga esperienza delle proprie crisi paranoiche e che, verso la fine del 1888, conosce un periodo tra i più cupi della sua esistenza, non si rende ancora conto dello stato d’animo torinese di Nietzsche. Prenderà le sue ultime parole per sfumature stilistiche, o per semplici moti d’umore»[35]. E in effetti è uno spettacolo inconsueto quello offerto dall’apparente sintonia epistolare che si crea tra queste due persone inclini all’ironia e all’esaltazione. Persino quando il filosofo tedesco scrive: «Ho indetto una riunione di principi a Roma, voglio far fucilare il giovane Imperatore. Arrivederci! Poiché ci rivedremo… Une seule condition: Divorçons…», firmandosi «Nietzsche Caesar», lo scrittore svedese gli risponde a tono, ossia con un breve messaggio in greco e in latino firmato «Strindberg (Deus, optimus maximus)»[36].
     Klossowski considera significativo il fatto che altri biglietti nietzschiani dello stesso periodo rechino le firme «Dioniso» o «Il Crocefisso», e commenta: «Mai Nietzsche sembra perdere la nozione del proprio stato: egli simula Dioniso o il Crocefisso e si compiace di tale enormità. Ed è appunto in questo compiacimento che consiste la sua follia: nessuno può giudicare fino a che punto la simulazione sia perfetta, assoluta; il suo criterio sta nell’intensità che egli prova nel simulare, fino all’estasi: ora qui, per giungere a una simile gioia estatica, un’immensa derisione liberatrice deve averlo sostenuto in quei pochi giorni, i primi dell’anno ’89, nelle strade di Torino, quasi un superamento della sua sofferenza morale»[37]. Per lo scrittore francese, i «biglietti della follia» sono dunque lucidi, visto che in essi Nietzsche mostra di accettare la perdita dell’identità: «Ciò di cui ha coscienza, è appunto del fatto di aver smesso di essere Nietzsche, di essersi come svuotato della propria persona»[38]. Il venir meno del principio di realtà, il cedimento al gusto per la teatralità e l’istrionismo costituiscono, agli occhi di Klossowski, la meta infine raggiunta dell’intero percorso filosofico nietzschiano. Per quanto, come abbiamo visto, egli ricorra a volte al termine «paranoia», non lo considera né adeguato né squalificante: «Quali che siano le definizioni “cliniche” che si possono dare del comportamento di Nietzsche prima e durante il periodo torinese (1887-1888) – parafrenia, demenza precoce, paranoia, schizofrenia – tali definizioni sono stabilite dal di fuori, cioè a partire dalle norme istituzionali»[39]. Secondo lui, l’euforia del filosofo non costituisce un sintomo allarmante, confermato del resto dal successivo crollo, ma rappresenta all’opposto «un beneficio per l’insieme del pathos nietzschiano»[40].
Klossowski 6È naturale che Klossowski interrompa la propria ricostruzione della vita del filosofo a questo punto, ossia con la citata lettera del gennaio 1889 in cui Nietzsche dichiara di essere «tutti i nomi della storia». Se si fosse spinto più oltre, avrebbe dovuto descrivere l’impazzimento definitivo, il trasporto del malato nel manicomio di Basilea, poi in quello di Jena (periodo in cui le cartelle cliniche sono impietose nel descriverne il contegno), e infine i lunghi anni trascorsi nella casa materna a Naumburg e in una villa a Weimar con la sorella, ormai ridotto a un mutismo e a un’immobilità quasi totali, fino al decesso nel 1900[41]. È vero che tutto questo si colloca dopo la fine, o piuttosto l’interruzione, dell’opera filosofica di Nietzsche, ma non può essere arbitrariamente staccato dal periodo torinese solo per creare l’illusoria impressione che tutto termini con una pazzia lucida e gioiosa, con una dionisiaca perdita d’identità.
     Abbiamo già accennato in più punti al fatto che, per quanto originale, l’interpretazione delle idee di Nietzsche offerta da Klossowski risulta poco persuasiva. Il suo libro, però, non va considerato solo come un’opera di carattere teorico. In esso, infatti, egli trasforma il filosofo tedesco in un personaggio, per certi aspetti, immaginario. Di ciò si è accorto Jean Decottignies, che osserva: «Se si volesse caratterizzare il contributo klossowskiano alla biografia di Nietzsche, si potrebbe dire che ne elabora una vera e propria deriva finzionale»[42]. Ma la cosa, del resto, viene in parte ammessa dall’autore stesso: «Anche se nelle mie opere speculative su Sade o su Nietzsche predominano l’ordine della morale, della riflessione e della metafisica, ritengo che in esse non sia assente la drammaturgia»[43].
     Sempre in questa chiave, diventa più comprensibile perché egli abbia assegnato, nella sua lettura del filosofo tedesco, un ruolo così importante al rapporto fra corpo e pensiero, fra linguaggio verbale e linguaggio gestuale. Basta leggere l’incipit di un importante saggio di Gilles Deleuze: «L’opera di Klossowski è costruita su un sorprendente parallelismo tra il corpo e il linguaggio, o piuttosto sul riflettersi dell’uno nell’altro. Il ragionamento è l’operazione del linguaggio, ma la pantomima è l’operazione del corpo»[44]. Qualcosa di analogo può dirsi per la scelta klossowskiana di confrontarsi col tratto finale dell’itinerario filosofico di Nietzsche, cosa che implica un confronto col tema della follia. Anche in ciò, infatti, agisce il particolare temperamento dello scrittore francese: «Da lunga data ero attratto dalle costruzioni mentali o plastiche che dipendono immediatamente dalla patologia, e ciò niente affatto in un senso “disinteressato”, che forse mi avrebbe portato agli studi medici, ma perché, sentendomi dall’altro lato (visione ancora tutta medioevale, dovuta alla mia formazione cattolica, che assimila i prodotti spettacolari della follia alla vita religiosa), mi chiedevo con quale sotterfugio, in certi casi, tali costruzioni avessero potuto trionfare sulla tirannia del senso comune che il loro costruttore subiva da parte d’un ambiente “volgare”. È così che, ben prima di frequentare amici psichiatri o psicoanalisti, ossia fin dall’adolescenza, sceglievo preferibilmente autori la cui biografia rivelasse una qualche anomalia: ogni anomalia mi sembrava allora un’invenzione dell’autore stesso»[45].
     Occorrerebbe uno studio specifico per mostrare come Nietzsche sia divenuto per Klossowski non solo un interlocutore sul piano filosofico, ma anche un personaggio presente nelle opere narrative, sia tramite richiami alle sue idee, sia in maniera più complessa e spettacolare, come nel caso del romanzo Le Baphomet[46]. Ci accontentiamo qui di fare un accenno al versante pittorico della produzione klossowskiana: incontriamo infatti l’immagine del filosofo in alcuni dei suoi disegni a matite colorate, legati ai temi del citato romanzo oppure autonomi[47]. A questi ha accennato lo stesso Klossowski, ricordando che «Sade o Nietzsche […] riappaiono, in effetti, in grandi composizioni: Sade dans sa cellule de la Bastille méditant sur la mort de Justine, Nietzsche couronné d’épines par le dernier Pape, au côté de Strindberg effrayé, e nel quadro intitolato La Nef des fous, ispirato a un celebre capitolo dell’Histoire de la folie di Michel Foucault, che vi compare anche lui, per aver raccolto sulla medesima barca, fra gli altri, Freud, Bataille, Gilles de Rais e me stesso bambino»[48]. Tutto questo ci aiuta a capire che Klossowski non intende affatto mantenere verso Nietzsche la distanza critica adottata di solito dagli studiosi del filosofo, ma all’opposto si sente in un rapporto di prossimità decisamente maggiore: quella di chi si trova, appunto, sulla stessa barca.

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Note
[1] P. Klossowski, Nietzsche et le cercle vicieux, Paris, Mercure de France, 1969, che citeremo nella «nouvelle édition revue et corrigée» del 1990 e indicheremo con la sigla NCV (tr. it. Nietzsche e il circolo vizioso, Milano, Adelphi, 1981).
[2] NCV, p. 11 (tr. it. p. 11; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche).
[3] Ibid., p. 12 (tr. it. p. 13).
[4] Ibid., p. 15 (tr. it. p. 15).
[5] Ibid., p. 15 (tr. it. p. 16).
[6] Ibid., p. 23 (tr. it. p. 24). Il filosofo, oltre che in varie lettere, anche in Ecce homo attribuisce a se stesso, in quanto smascheratore della morale cristiana, il ruolo di chi «spacca in due la storia dell’umanità» (Friedrich Nietzsche, Ecce homo, in Opere, vol. VI, tomo III, tr. it. Milano, Adelphi, 1970; 1986, p. 383).
[7] NCV, p. 26 (tr. it. p. 27).
[8] F. Nietzsche, Prefazione alla seconda edizione di La gaia scienza, in Opere, vol. V, tomo II, tr. it. Milano, Adelphi, 1965; 1991, pp. 18-19.
[9] F. Nietzsche, La gaia scienza, ibid., p. 217.
[10] F. Nietzsche, lettera a Otto Eiser, primi di gennaio 1880, in Epistolario, IV: 1880-1884, tr. it. Milano, Adelphi, 2004, p. 3.
[11] NCV, p. 51 (tr. it. p. 55).
[12] F. Nietzsche, lettera a Reinhart e Irene von Seydlitz del 24 novembre 1885, in Epistolario, V:1885-1889, tr. it. Milano, Adelphi, 2011, p. 115.
[13] NCV, pp. 53-54 (tr. it. pp. 57, 59).
[14] F. Nietzsche, Frammenti postumi 1879-1881, inOpere, vol. V, tomo I, tr. it. Milano, Adelphi, 1964; 1986, p. 439.
[15] F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884-1885, inOpere, vol. VII, tomo III, , tr. it. Milano, Adelphi, 1975, pp. 334 e 336-337.
[16] NCV, p. 56 (tr. it. p. 61).
[17] Ibid., p. 59 (tr. it. p. 63).
[18] Ibid., pp. 66-67 (tr. it. p. 70).
[19] La stessa idea viene esposta da Klossowski nella Postface alla propria trilogia narrativa Les lois de l’hospitalité, Paris, Gallimard, 1965, pp. 333-350 (tr. it. Postfazione dell’autore, in Le leggi dell’ospitalità, Milano, ES, 2005, pp. 319-334).
[20] NCV, p. 93 (tr. it. p. 95).
[21] Ibid., p. 94 (tr. it. p. 96).
[22] F. Nietzsche, lettera a Jacob Burckhardt del 6 gennaio 1889, in Epistolario, V, cit., p. 893.
[23] NCV, pp. 94-95 (tr. it. p. 97).
[24] Ibid., p. 99 (tr. it. p. 101).
[25] Ibid., p. 102 (tr. it. p. 105).
[26] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, in Opere, vol. VI, tomo II, tr. it. Milano, Adelphi, 1968; 1986, pp. 61-62. Conviene ricordare che negli appunti postumi baudelairiani (almeno in parte noti al filosofo tedesco) si legge una formula assai simile: «Essenza divina del circolo vizioso» (C. Baudelaire, Listes de titres et canevas de romans et nouvelles, in Œuvres complètes, I, Paris, Gallimard, 1975, p. 592; tr. it. Liste di titoli e appunti per romanzi e racconti, in Opere, Milano, Mondadori, 1996, p. 1501).
[27] NCV, p. 107 (tr. it. pp. 110-111).
[28] F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, inOpere, vol. VIII, tomo III, tr. it. Milano, Adelphi, 1974; 1986, p. 41.
[29] NCV, p. 143 (tr. it. p. 147).
[30] L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche, tr. it. Milano, SE, 2009, p. 164. Assai simili sono i ricordi di Overbeck: «Nel corso di un soggiorno a Basilea nell’estate del 1884, Nietzsche mi fece delle rivelazioni sulla sua teoria dell’eterno ritorno. Così un’altra volta, mentre giaceva a letto malato all’Hotel della Croce Bianca, mi fece della confidenze relative alla sua dottrina segreta, come aveva fatto poco prima, mi disse, alla signora Andreas: circondandosi di mistero e con una voce volutamente smorzata come se rivelasse un terribile segreto» (Franz Overbeck, Ricordi di Nietzsche, tr. it. Genova, Il Melangolo, 2000, p. 21).
[31] NCV, p. 150 (tr. it. p. 154).
[32] Ibid., p. 295 (tr. it. p. 303).
[33] Ibid., p. 312 (tr. it. p. 321).
[34] Ibid., p. 324 (tr. it. pp. 335-336).
[35] Ibid., p. 326 (tr. it. p. 338).
[36] Cfr. F. Nietzsche, lettera a Strindberg del 31 dicembre 1888, in Epistolario, V, cit., p. 883 (il «giovane Imperatore» cui si allude è Guglielmo II di Germania) e risposta dell’1 gennaio 1889, cit. ibid., p. 1321. In verità, però, come fanno notare i curatori del volume, a quella data Strindberg ha già dei sospetti sull’effettiva condizione mentale del filosofo tedesco.
[37] NCV, p. 334 (tr. it. pp. 346-347).
[38] Ibid., p. 334 (tr. it. p. 347).
[39] Ibid., p. 338 (tr. it. p. 351).
[40] Ibidem.
[41] Su tutto ciò, si possono vedere i documenti raccolti nel libro di Anacleto Verrecchia, La catastrofe di Nietzsche a Torino (Torino, Einaudi, 1978), volume peraltro debole e persino deplorevole dal punto di vista dell’interpretazione del pensiero nietzschiano.
[42] J. Decottignies, Nietzsche ironisé, in «Cahiers pour un temps», 1985, numero monografico su Klossowski, p. 47.
[43] In Entretien de Pierre Klossowski avec Rémy Zaugg (1981), in Bernard Lamarche-Vadel, Klossowski, l’énoncé dénoncé, Paris, Marval-Galerie Beaubourg, 1985, p. 91.
[44] G. Deleuze, Klossowski ou les corps-langage (1965), in Logique du sens, Paris, Éditions de Minuit, 1969, p. 325 (tr. it. Klossowski o i corpi-linguaggio, in Logica del senso, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 247).
[45] P. Klossowski, Protase et apodose, in «L’Arc», 43. 1970, p. 9.
[46] Cfr. P. Klossowski, Le Baphomet, Paris, Mercure de France, 1965 (tr. it.Il Bafometto, Milano, ES, 1994). Utili osservazioni riguardo alla presenza di temi nietzschiani nella narrativa dell’autore si trovano nel già ricordato saggio di Jean Decottignies.
[47] Per i primi, si rinvia al catalogo Pierre Klossowski e «Le Baphomet». Disegni inediti dalla collezione di Carmelo Bene, Venezia, Marsilio, 2007, pp. 31 e 33.
[48] Lettera di Klossowski ad Alain Jouffroy, inizio 1993, in P. Klossowski – A. Jouffroy, Le secret pouvoir du sens. Entretiens, Paris, Éditions Écriture, 1994, pp. 167-168 (tr. it. Il segreto potere del senso. Conversazioni, Genova, Graphos, 1997, p. 118). Il quadro La Nef des fous, del 1990, è riprodotto nel catalogo Pierre Klossowski. Tableux vivants, Paris, Gallimard-Centre Pompidou, 2007, p. 40.
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Le immagini contenute in questo post (Pierre Klossowski, Baphomet) sono tratte dal sito della Fondazione Bevilacqua La Masa.

KANDINSKY, L'ARTISTA COME SCIAMANO




All'inizio del Novecento l'avanguardia artistica trova fonte di ispirazione nelle cosiddette arti primarie. Lo fa Picasso a Parigi, lo fa Kandinsky a Mosca. La scultura africana o gli oggetti sacri degli sciamani siberiani diventano il tramite con lo spirito del mondo. E' una ricerca di significati in un mondo che ha perso la capacità di vedere oltre le cose. Una mostra a Vercelli racconta quella stagione e ci pone una domanda: l'universo globalizzato di oggi rende ancora possibile questo aggancio alla Tradizione o siamo costretti a vivere in un eterno presente?

Francesco Poli
Improvvisazioni d’uno sciamano che amava l’antica arte russa
In un suo scritto del 1918, Testo d’autore, Wassily Kandinsky racconta quanto sia stata fondamentale per gli sviluppi futuri della sua pittura la visita delle povere case dei contadini del nord della Russia, durante un suo viaggio di studio nel 1889, quando aveva 23 anni. «Nell’habitat dei komi, per la prima volta nella vita, trovai qualcosa di veramente meraviglioso, e questo prodigio diventò l’elemento di tutti i miei lavori successivi».

L’artista ricorda di essersi fermato sulla soglia di un’izba e di aver visto uno spettacolo inatteso: il tavolo, le panche, la grande stufa, gli armadi, tutto era decorato da ornamenti variegati. Ai muri c’erano delle stampe con immagini di eroici protagonisti di storie epiche popolari, e «l’angolo bello» era tutto ricoperto di icone sacre dipinte o a stampa. Questa esperienza gli fa comprendere che un quadro non deve essere solo contemplato ma deve coinvolgere completamente l’osservatore nella sua dimensione interiore.

Dopo quel viaggio Kandinsky pubblica anche un saggio sulla cultura e i riti animistici delle popolazioni dei Sirieni, di origine ugro-finnica, e in particolare sul ruolo dello sciamano come mediatore fra la realtà sensibile e il mondo ultraterreno.
Il fascino per l’energia della spiritualità primitiva, e per la forza espressiva della dimensione decorativa e iconica dell’arte popolare sono alla radice dell’elaborazione del suo personale «immaginario etnografico» nella fase di formazione e maturazione del suo linguaggio pittorico che si svilupperà progressivamente in direzione astratta.
L’entusiasmo per l’arte e il folklore nazionale, per la musica etnica e per le narrazioni fiabesche, epiche e storiche leggendarie, era un aspetto tipico della cultura russa (musicale, letteraria e artistica) tra Ottocento e Novecento, caratterizzata da tensioni simboliste e dal culto per la rinascita dell’antico spirito russo.
Anche per altri pittori d’avanguardia come Mikhail Larionov, Natalia Goncharova, Kasimir Malevich, Pavel Filonov, David Burljuk, Aleksandra Ekster, l’arte popolare era una fonte fondamentale di ispirazione. Queste fonti folkloriche (in relazione al più generale interesse degli artisti d’avanguardia per le fonti primitive e arcaiche) sono un aspetto peculiare dei temi che entrano in gioco nell’Almanacco del Blaue Reiter, e Kandinsky e gli altri esponenti del gruppo di Monaco, espongono anche al Salon di Vladimir Izdebskij a Mosca del 1911, insieme agli artisti russi innovatori.
Kandinsky in quel periodo lavorava a Murnau, in Germania, ma aveva continui rapporti con la Russia, dove ritorna nel dopoguerra dopo la rivoluzione sovietica, con l’incarico di commissario per le arti, attività che lo impegna fino al 1922, quando accusato di spiritualismo si trasferisce in Germania come insegnate al Bauhaus di Walter Gropius.
Questa mostra all’Arca di Vercelli, è di grande interesse perché la curatrice Eugenia Petrova mette a fuoco, con un notevole gruppo di opere dei musei di stato (mai presentate fuori dai confini) «l’anima» più specificamente russa dell’opera di Kandinsky.
E in effetti all’interno dell’esposizione ci si trova davanti a uno spiazzante e suggestivo accostamento fra ventidue suoi dipinti di vari periodi (insieme una selezione di quadri di altri artisti tra cui Goncharova, Larionov, Lentulov, Filonov, Burljuk, Ekster) e molti oggetti, icone, stampe, arredi, e indumenti della cultura popolare, religiosa ortodossa, e dello sciamanesimo siberiano.
La connessione con gli oggetti più primitivi, quelli sciamanici (vestiti di pelli, e tamburi variamente decorati) non è per la verità molto evidente, ma l’influenza delle stampe popolari e delle icone appare chiara. Per esempio in quattro piccoli dipinti illustrativi su vetro, con figure femminili e fluttuanti paesaggi con chiese ortodosse (del 1918), e soprattutto in un magnifico San Giorgio (1911) già sostanzialmente astratto, messo a confronto con una antica icona del mitico santo uccisore del drago. 
Dal punto di vista della qualità, dell’espressività cromatica, della freschezza segnica e della libertà d’invenzione, i quadri più notevoli e sorprendenti sono una serie di eccezionali Improvvisazioni dipinte tra il 1910 e il 1917, che si trovano nel museo di San Pietroburgo ma anche in lontani musei provinciali a Kazan, Krasnojarsk e persino a Vladivostok.
Tutti i quadri (alcuni dei quali sono dipinti su cartone) hanno ancora le loro cornici originali, molte fatte con semplici listelli di legno. Queste opere (come quelle di altri artisti d’avanguardia russi) erano state dislocate così lontano durante la fase eroica della rivoluzione per educare all’arte nuova anche le popolazioni più decentrate. Ed è una bella cosa che oggi noi le possiamo vedere, in trasferta nel mezzo delle risaie vercellesi, nello spazio dell’Arca che ha visto fino all’anno scorso le mostre in collaborazione con il Guggenheim di Venezia.


La Stampa – 31 marzo 2014

CONTRO CHI RINNEGA LA COSTITUZIONE






L'attuale Presidente del Consiglio Renzi ha giurato sulla Costituzione della Repubblica  entrata in vigore  nel gennaio del 1948.
 Oggi lo stesso Renzi sputa su di essa, seguendo l'esempio di Berlusconi.
Gli spergiuri, come si sa, non hanno mai avuto fortuna  nella storia!

RIPENSANDO AL PCI DI BERLINGUER



È uscito nelle sale cinematografiche il documentario di Walter Veltroni Quando c’era Berlinguer 
Oggi noi vogliamo provare a ripensare in modo critico al PCI  di quegli anni partendo da un articolo  apparso sul sito della rivista «Il ponte»:


Rino Genovese

Riparlando di Berlinguer


Enrico Berlinguer è morto trent’anni fa in circostanze drammatiche, come un attore sulla scena. E Walter Veltroni non gli rende certo un favore dedicandogli un film che più brutto non si può: un’insensata agiografia priva sia di stile sia di contenuti. Si pensi che l’unica “rivelazione” offerta dal film, in cui a un certo punto sono inquadrate le pagelle del futuro segretario del Pci, è che il piccolo Enrico, nato nel 1922, andava male a scuola: non si sa se per semplice asineria o per spirito ribelle contro i metodi educativi fascisti. Ciò che manca completamente – e pour cause, si direbbe, essendo Veltroni uno degli affossatori della storia del comunismo in Italia – è il tentativo anche minimo di un bilancio critico circa la sua figura. Che non fu, al di là della onestà e della simpatia umana universalmente riconosciute, quella di un uomo politico innovativo, quanto piuttosto quella di un gestore alla fin fine immobile di un patrimonio ideale, quasi un “italo Amleto” incapace di prendere la decisione che avrebbe  potuto davvero mutare la storia italiana: mi riferisco a una rottura formale e ufficiale con il mondo sovietico, anche a costo di spaccare il partito e di perdere voti.
Il Pci berlingueriano rimase uno strano ibrido: socialdemocratico, se non addirittura liberaldemocratico, nella sostanziale pratica politica e di amministrazione (ricordo qui che, per uno come lo svedese Olof Palme, tanto per fare il nome di un socialista europeo contemporaneo di Berlinguer, il superamento del capitalismo mediante una strategia di riforme era un obiettivo del tutto plausibile), e però ispirato al principio leninista del centralismo democratico, legato al mito della rivoluzione d’ottobre (che solo da ultimo, e con molte cautele, parve al segretario del Pci avere perso la “spinta propulsiva”). Un singolarissimo “né carne né pesce” che finì con l’incrementare il gioco degli specchi deformanti tipico della politica italiana in cui nessuno è mai quello che è, consentendo al Psi di Craxi (un personaggio di cui Berlinguer aveva chiaramente compreso le potenzialità distruttive per il più antico partito italiano) di stringere un’alleanza strategica con la Dc nella prospettiva dell’anticomunismo; laddove sarebbe stato logico e conseguente per Berlinguer, se non altro nell’ultima fase della sua vita, dichiarare una rottura che avrebbe potuto aprire il sistema, senz’affatto rinnegare quegli “elementi di socialismo” che – peraltro non si sa bene come – pensava d’introdurre nella vita nazionale.
 Del resto è proprio il senso di un’ “alterità” comunista che, sotto lo choc del golpe cileno, negli anni settanta dettò la proposta del “compromesso storico”. È infatti un partito collocato in una posizione molto delicata o, per dirla sommariamente, che ha ragione di temere l’etichetta di agente dello straniero, a essere obbligato a difendersi dalla violenza reazionaria con l’unità nazionale. Un partito del socialismo europeo non nutre timori del genere, può sviluppare la sua linea – perfino una linea di progressivo superamento del capitalismo – come una delle opzioni disponibili all’interno del sistema politico. Ma il Pci era proprio quel partito che mai e poi mai sarebbe potuto andare al governo, nella situazione internazionale data, senza provocare una reazione (come finanche la morte di Moro, voluta dai poteri oscuri e dalla stessa Dc dimostra e contrario): sicché il “compromesso storico”, ridotto poi di fatto a un ingresso nella maggioranza di governo senza neanche disporre delle sue leve (come invece fu, sia pure in minima parte, per il Psi nel centrosinistra dei primi anni sessanta), fu soltanto l’arrendersi a un’impasse – determinata senza dubbio anche dal terrorismo, sia da quello di sinistra, indirettamente, sia da quello della “strategia della tensione” elaborata più o meno consapevolmente per stabilizzare la situazione al centro.
In conclusione un nulla di fatto, un gigantesco buco nell’acqua: è questo l’impietoso giudizio storico sull’operato di Berlinguer, che non seppe imprimere alla sinistra quella svolta di cui aveva bisogno nel segno dell’antisovietismo e di un rinnovato socialismo. Il fatto che egli possa oggi apparirci un “grande”, solo in virtù del suo severo moralismo, indica a che punto sia arrivata nel frattempo la politica italiana.
Rino Genovese, marzo 2014













30 marzo 2014

IL NUOVO CHE AVANZA MI SEMBRA PIU' VECCHIO DEL VECCHIO




Riprendo dal blog http://georgiamada.wordpress.com/  una parte dell'assurdo dibattito politico di questi ultimi giorni che si sofferma, oltre che sull'ultima intervista del Presidente del Senato, su  una infelice dichiarazione della Serracchiani. 
Secondo me ancora più discutibili delle parole di quest'ultima sono quelle pronunciate da Renzi contro  Pietro Grasso, accusato di essere corporativo e di  aver dimenticato che, dopo i sacrifici compiuti  dai cittadini, è arrivata l'ora che i sacrifici li facciano i politici.
 Ma Renzi quali sacrifici ha fatto finora? E voi pensate davvero che Renzi sia  meno politico e politicante  di Grasso e compagnia bella?



Pietro Grasso, Matteo Renzi e la frase infelice di Serracchiani


Repubblica 30 marzo 2014, p. 2
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Il presidente di Palazzo Madama avvisa il premier: “I numeri rischiano di non esserci”. Ma il vicesegretario dei democratici Debora Serracchiani lo richiama all’ordine: “E’ stato eletto con il Pd, rispetti le decisioni del partito”. (da QUI)
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L’avrete già seguita tutti, la polemica tra Pietro Grasso e Matteo Renzi innescata dall’intervista al presidente del Senato oggi sulla prima pagina di Repubblica, ma ve la segnalo ugualmente (e QUI la risposta di Renzi), anche perché a me ha dato molto fastidio quanto detto, dopo, dalla neo-vicesegretaria-a-metà Debora Serracchiani (che pure io stimo o forse solo stimavo) : “E’ stato eletto con il Pd, rispetti le decisioni del partito“.
Ora, bisogna prima vedere se davvero Serracchiani lo ha detto (io ormai come vedo un virgolettato DUBITO automaticamente), ma se lo ha detto davvero, c’è da preoccuparsi.
Una frase come questa, “E’ stato eletto con il Pd, rispetti le decisioni del partito“, rivolta alla seconda carica dello Stato, è davvero una frase infelice e Serracchiani dovrebbe scusarsi con Grasso e soprattutto con noi elettori e con la Costituzione.
Il partito NON è lo Stato, mentre Pietro Grasso è ora la seconda carica dello Stato.
Passi se lo avesse detto un komico non-segretario di un non-partito come Grillo, che ora ha pure inventato il balzello di Giuda (e c’è da chiedersi se un domani al traditore rilascerà o meno lo scontrino), ma detto dal segretario di un partito democratico come il Pd è per me intollerabile.
Figuriamoci se un presidente del Senato eletto dal partito (ma io direi, in base alla nostra Costituzione, eletto dal Parlamento piuttosto che dal partito) non possa dare il suo libero contributo, critico o meno, ad una riforma delicata come quella del Senato!.
Ma che è successo in Italia, solo berlusconi e verdini ormai possono dire la loro, mentre la seconda carica dello Stato deve essere zittito dalqualsiasi vicesegretario-a-metà di uno dei tanti partiti parlamentari?
Ma si rende conto Serracchiani cosa ha detto?
Tra l’altro, anche a pensare come Serracchiani, su eventuali poteri sovraparlamentari del pd, ci sarebbe pure da discutere che l’attuale presidente del Senato sia stato eletto dal partito di cui lei è vicesegretario e della cui direzione fa parte, visto che il partito attuale NON è neppure lo stesso identico partito che ha candidato Grasso e  a cui rispondevano i parlamentari quando hanno eletto i presidenti di Camera e Senato.
Se davvero Serracchiani avesse pronunciato una frase del genere sarebbe anche molto superficiale, perché se c’è un posto in Italia dove il pd, da solo, non ha la possibilità di eleggere qualcuno è proprio l’attuale Senato … dove, senza i voti di sel, dei 5 stelle ecc. il pd NON avrebbe eletto alcun presidente del Senato.
Quindi è giusto che Grasso risponda a tutto il paese e non alla demi-vice-segretario di un partito che al Senato è una delle tante minoranze. Chissà che ne pensa Lorenzo Guerini, l’altra metà di segreterio.
A parte queste mie osservazioni (che potrebbero essere tutte errate), mi sto chiedendo: Ma se Pietro Grasso disobbedisce, Serracchiani che fa, lo caccia?
E’ proprio vero che troppo potere, troppe cariche accumulate danno sempre alla testa, soprattutto a chi non è democraticamente preparato.

S. PENNA: SE LA VITA SAPESSE





Se la vita sapesse il mio amore! me ne andrei questa sera lontano. Me ne andrei dove il vento mi baci dove il fiume mi parli sommesso.
Ma chi sa se la vita somiglia al fanciullo che corre lontano …

Sandro Penna
da “Poesie” (1927-1938)

LA SOLITUDINE DI OCTAVIO PAZ


Riprendiamo dal blog delle edizioni Sur un articolo di Valerio Magrelli uscito originariamente come prefazione a Intervista con Octavio Paz di Alfred Macadam. Il libro, pubblicato nella collana Macchine da scrivere di minimum fax, risale al 1996, quando il poeta messicano era ancora in vita.


Alquanto singolare è la miscela che fa di Octavio Paz uno tra i massimi poeti viventi, un intellettuale militante, e un maître à penser. Tra i numerosi titoli tradotti in italiano, spiccano da una parte le raccolte di versi Libertà sulla parola (edito da Guanda), Vento cardinale e altre poesie (Mondadori) e Il fuoco di ogni giorno (Garzanti), dall’altra, un’opera saggistica di impressionante vastità e varietà. Mentre SE ha proposto il memorabile testo su Marcel Duchamp Apparenza nuda, Garzanti, dopo Una terra, quattro o cinque mondi e Passione e lettura, ha dato alle stampe il dotto, sterminato, capillare studio Suor Juana o le insidie della fede (Garzanti). Bastano questi pochi dati per comprendere quanto complessa sia l’opera di un autore capace di spaziare con uguale competenza e passione dall’antropologia alla critica letteraria, dalla sociologia alla storia dell’arte, dalle avanguardie storiche alla mistica barocca.
Nato a Città del Messico nel 1914, Paz fonda a soli diciassette anni la rivista Barandal, luogo d’incontro tra letterature ispanoamericane ed europee, nonché primo abbozzo della futura Vuelta, il periodico di cui è tuttora direttore. Seguendo il consiglio di Pablo Neruda, console del Cile in Messico, abbraccia la carriera diplomatica come già avevano fatto Paul Morand, Paul Claudel o Saint-John Perse. Dopo un soggiorno in Giappone, diventa ambasciatore del suo paese in India, carica da cui dà le dimissioni nel 1968 per protesta contro la strage compiuta nel corso delle Olimpiadi messicane. Infine, a coronare il suo lavoro poetico e saggistico, riceve nel 1990 il Premio Nobel.
A tutte queste esperienze corrisponde, in un rapporto di costante tensione tra energia centrifuga e centripeta, un impellente richiamo alle origini. Infatti, rinunciando tanto alla tentazione di un passivo nazionalismo, quanto al fascino di suggestioni culturali così disparate, lo scrittore ha cercato piuttosto di stabilire confronti, misurare distanze, constatare fratture. L’immagine centrale del suo metodo potrebbe essere indicata nella lacerazione, un tema che ritorna con insistenza in testi quali Congiunzioni e disgiunzioni, L’arco e la lira e Figli del fango, tradotti dal Melangolo. Questo scavo politico e archetipico culmina nel saggio Il labirinto della solitudine (pubblicato vari anni fa dal Saggiatore). Pietra focaia e pietra di paragone, ha notato Franco Mogni nella sua introduzione, il libro scaturisce dall’attrito tra le due culture rivali del Messico e degli Usa, Sud versus Nord, cattolicesimo contro protestantesimo.
Secondo Paz, l’interesse di questo scontro risiede nel fatto che la condizione dell’homo mexicanus, rimasta per cinque secoli marginale, periferica e minoritaria, rappresenta ormai quella di molti popoli: «La messicanità è un oscillare tra diversi progetti storici universali, via via trapiantati o imposti, e oggi inservibili. La messicanità è un modo di non essere noi stessi, una ripetuta maniera di essere e di vivere qualcosa d’altro».

Valerio Magrelli

LA VITA UMANA TRASFORMATA IN MERCE






"Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate – virtù, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. – tutto divenne commercio. È il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore". 

(K. Marx, "Miseria della filosofia")


IN MEMORIA DI VIRGINIA WOOLF


     Ci eravamo dimenticati dell’anniversario della morte di Virginia Woolf. La ricordiamo oggi con la prefazione di Ali Smith a Virginia Woolf. Diario di una scrittrice.


Ali Smith
Chi era Virginia Woolf


Chi era Virginia Woolf? Aveva qualcosa in comune col ritratto che viene fuori dal film The Hours? Era cioè una scrittrice nevrotica con il nasone e gli occhi sempre bassi, talmente timida da non riuscire a rivolgere la parola nemmeno ai domestici, e talmente malata che se rimaneva da sola per un po’ di tempo finiva per compiere gesti folli o autolesionisti? O era l’esatto opposto, come suggerisce una delle sue biografie più recenti, scritta da Hermione Lee: e cioè una donna vivace e intelligente, con un umorismo caustico e sfrenato, dalla risata squillante e sonora, che amava scorrazzare su una vecchia moto nel parco della villa dove vivevano sua sorella e i suoi amici bohémien e che una volta si mise dei baffoni finti e un turbante in testa, salì su una nave e per un’intera serata riuscì a far credere a tutte le autorità civili e militari a bordo di essere un principe abissino?
Se si confrontano diversi episodi della sua vita si scopre che Virginia Woolf aveva una personalità governata da impulsi spesso diametralmente opposti. A noi adesso sembra impossibile che negli anni Cinquanta, a meno di quindici anni dalla sua morte, sia stata praticamente cancellata dalla storia della letteratura inglese da critici del calibro di Walter Allen, che la definì con miope sessismo «una scrittrice molto limitata». E aggiungeva: «A mio avviso, la sua scrittura è viziata da una affettazione di fondo [...] e i momenti di rivelazione e illuminazione in realtà sembrano illuminare ben poco se non ansiti e sospiri di estasi muliebre [...] Nel futuro sarà senz’altro considerata una scrittrice minore». Se oggi è considerata non solo fra i grandi del ventesimo secolo, ma anche tra gli scrittori più innovativi e originali della letteratura in lingua inglese, è soprattutto merito della critica femminista che, fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, l’ha riportata alla luce.

Ma chi era realmente Virginia Woolf e perché in lei c’erano tutti questi impulsi contrastanti? In fondo, ha senso chiedersi chi è realmente una persona? È possibile trovare in un diario una risposta a questa domanda, una risposta sincera?
Il Diario di una scrittrice è la prima versione pubblicata dei molti diari della Woolf. Dopo la morte della moglie, lo stesso Leonard curò l’edizione del volume concentrandosi soprattutto sulla figura della Woolf scrittrice. Leonard ebbe sempre un atteggiamento teneramente protettivo nei confronti di Virginia, anche dopo morta, e infatti decise di eliminare tutte le osservazioni più caustiche e ironiche. Ciononostante il libro rivela al lettore una miniera di particolari sulla Woolf, anche come persona. In realtà questo volume si potrebbe considerare uno dei primi veri studi sulla figura dell’artista impegnato, anticipando quella che alla fine del Novecento sarebbe poi diventata un’ossessione: è un’esplorazione dell’artista alle prese con la celebrità e la sua stessa personalità, una riflessione sull’incontro del mondo esterno con quello interiore e sul fatto che l’arte, cosa di cui la Woolf era profondamente convinta, implichi sempre la soppressione o l’annullamento della personalità.
Il libro copre la sua vita dai trentasei ai cinquantanove anni, cioè gli anni della fama, gli anni in cui lei e suo marito Leonard gestivano la Hogarth Press, una casa editrice di successo che pubblicò scrittori importanti quali Katherine Mansfield, T.S. Eliot e la stessa Woolf, diventando così uno dei punti cardine del modernismo. Questo libro è in pratica la trascrizione della vita stessa, in tutto il suo splendore e in tutti i suoi sentimenti a volte diametralmente opposti, racchiusi in una persona sola.
Ora la Woolf dice di essersi sporcata la bocca d’inchiostro perché stava mordicchiando distrattamente la penna e un momento dopo descrive «lo splendore di questa impresa – la vita: la capacità di morire: un’immensità mi circonda». Ora è superba, tutta esaltata e felice di essere apprezzata dagli altri, e un attimo dopo è talmente insicura di sé che visualizza il manoscritto del suo ultimo romanzo come il corpo di un gatto morto e l’unica cosa che vorrebbe fare è bruciarlo. Ora si sente troppo male e non riesce a fare nulla: «Questo è un giorno in cui non posso camminare e non devo lavorare». E un attimo dopo la vediamo che passeggia, o meglio che immagina di farlo. «Cosa non darei adesso per venire fuori dal bosco di Firle, sporca e accaldata, col naso puntato verso casa, con tutti i muscoli indolenziti e il cervello impregnato di lavanda, lucida e fresca e pronta ad affrontare il compito del giorno dopo. Niente mi sfuggirebbe – mi verrebbe subito la frase giusta, quella che calza a pennello [...] Oh, meno male! Scrivendo sono riuscita a sfogare metà del mio nervosismo». Il diario è un luogo dove può imbrigliare la sua immaginazione per farla andare dove vuole.
Come scrittrice la Woolf è sempre consapevole dell’estrema duttilità di questa «vecchia confidente dal volto gentile e inespressivo». È severa con se stessa, si ricorda costantemente cos’è che vuole fare con la scrittura e tiene la sua persona, per molti versi, lontana o fuori dai suoi romanzi. «Scrivo così anche per sfuggire alla fatica di raccontare».
Nel diario ha la possibilità di inventare un’altra se stessa, e può così rivolgersi a una se stessa del futuro, al di là del momento presente, fuori dal «solito, estenuante vortice dello scrivere in lotta col tempo». Nel diario può immaginare una Virginia più vecchia e molto più saggia, che è sopravvissuta ed è riuscita a superare con estrema classe tutti gli inutili problemi che affliggono la Virginia più giovane. «Perfino la vecchia Virginia salterà a piè pari un bel po’ di tutto questo».

Ma la cosa più evidente è che lei spesso e volentieri usa il diario per portare se stessa da una posizione di positività a una di negatività e viceversa. In realtà il suo diario è una sorta di sforzo di autopersuasione durato una vita intera. Leggendolo scopriamo le paure sommerse della Woolf per le cose più disparate: dal timore di fare brutte figure alle questioni molto più serie riguardanti la sopravvivenza. Ogni volta che si trova ad affrontare una sfida, qualsiasi sia l’abisso che si trova davanti in quel momento – la malattia o una recensione negativa o problemi di scrittura – la Woolf si incoraggia da sola a cercare di fare il meglio. «E se non vivessimo audacemente, prendendo il toro per le corna e tremando sui precipizi, non saremmo mai depressi, senza dubbio; ma già saremmo appassiti, vecchi, rassegnati al destino».
Si rimprovera da sola, esige sincerità da se stessa e usa il diario per darsi dei punti di riferimento saldi quando sta male o ha molto da fare. E quando mai non ha avuto molto da fare? Leggendo il diario ci rendiamo conto dell’intensità del suo lavoro. Nel diario si lascia andare, cosa che di solito non fa, e affronta la scrittura in modo diverso: con impeto, senza metodo, scrive le cose che le saltano in testa, così come le vengono. «Se io mi fermassi a pensarci sopra, [questo diario] non verrebbe mai scritto; e il vantaggio di questo metodo è di cogliere al volo accidentalmente materiali diversi e dispersi, che scarterei se esitassi, ma che sono i diamanti tra la spazzatura». Un’annotazione di dieci minuti può rivelare una profondità e un’acutezza sorprendenti. Prendiamo per esempio l’annotazione del 18 dicembre 1939: la Woolf butta giù qualche riga in fretta e furia prima di cena e ci fornisce una profezia di quello che si potrebbe definire l’atteggiamento del ventesimo e del ventunesimo secolo nei confronti della guerra in genere. «Oh, la Graf Spee salpa oggi da Montevideo, dritta nelle fauci della morte. E i giornalisti e i ricchi affittano aeroplani per godersi lo spettacolo. Questo mi sembra che sposti la guerra in una nuova angolazione; e anche la nostra psicologia».

La Woolf amava le proprietà «inconscie» che venivano alla luce scrivendo il diario e per lei avevano qualcosa a che fare con quella che definiva la sua filosofia dell’anonimato. Paradossalmente, il diario le permette di «esercitare l’anonimato». Paradossalmente il diario è un importantissimo mezzo espressivo che le consente di liberarsi della sua personalità. «Vorrei essere soltanto una sensibilità», dice. Ma chi può essere pura sensibilità e basta? E intanto il mondo fa il suo corso. La prima guerra mondiale finisce e la gente si ubriaca e canta per le strade. Madame Lenglen perde una partita a tennis. In Europa fa la sua comparsa il fascismo. Una delle cose più importanti custodite nel Diario di una scrittrice è una versione molto vera, molto fisica di Virginia Woolf, la persona vivente che è parte del suo tempo, che lo guarda e lo giudica. Era un tempo di cambiamenti epocali. Virginia ci descrive uno di questi cambiamenti con grande perspicacia e stupore quando visita il vecchio Thomas Hardy che con un semplice gesto della mano liquida tutte le questioni estetiche che sono alla base della scrittura della Woolf e non fa altro che parlare, come anche sua moglie e con grande disappunto di Virginia, del suo vecchio cane asmatico. «Proprio il classico vecchio vittoriano, che tutto compie con un semplice gesto della mano (mani normali, piccoline, accartocciate), che non dà grande importanza alla letteratura ma mostra un enorme interesse per gli aneddoti, i fatti; e in qualche modo si è portati a pensare che tenda a immaginare e a creare naturalmente, senza soffermarsi a pensare che sia qualcosa di difficile o di notevole».
Chi altri se non la Woolf potrebbe schivare un cliché uscito dalla sua stessa penna, «un semplice gesto della mano», passando subito a descrivere le mani di Hardy? Chi altri potrebbe sentire la presenza di E.M. Forster a un livello così acutamente fisico e politico? «Ci siamo scambiati una stretta di mano molto cordiale; eppure ho sempre l’impressione che lui si ritragga un po’ davanti a me, perché sono una donna, una donna intelligente, una donna al passo coi tempi». Anche il suo rapporto di amore e odio nei confronti di Katherine Mansfield si esprime in termini fisici: «La sua dura compostezza è in gran parte di superficie». Eliot la lascia indifferente. George Bernard Shaw è «molto cordiale. È la sua arte, questa, di dare l’impressione che gli si è simpatici».
Questa attenzione alla fisicità rende molto vive le descrizioni che la Woolf fa dei suoi colleghi scrittori, morti o viventi che siano. Si può dire che il suo rapporto con la scrittura sia principalmente fisico. Il suo spirito acuto è anch’esso una forma di vitalità e il suo intelligente senso dell’umorismo è una lama a doppio taglio. «Dov’è il mio tagliacarte? Devo tagliare lord Byron».
Riesce a tradurre la sua interessante e feroce rivalità con ­James Joyce in termini di contrasto sociale: ancora una volta punta l’attenzione su questioni di personalità, di modi di fare, e finisce per domandarsi se l’autorità dell’io sia reale o meno. Ma dal diario emerge anche uno spirito critico estremamente generoso: la Woolf all’interno dello stesso paragrafo riesce a portarsi da sola da una posizione di chiusura a una di apertura; camminando in giro per Londra, in una via del ventesimo secolo, riesce vedere la Londra di duecento anni prima, la Londra di Defoe. Esprime le sue opinioni sugli altri scrittori con un’immediatezza e una vivacità incantevoli. «Il magistrale Scott mi tiene ancora una volta per i capelli».

Chi era Virginia Woolf? Una donna molto spiritosa. Le piaceva la vita frenetica delle città. Aveva idee politiche contraddittorie. Era onesta con se stessa, spesso quasi spietata. Era profondamente insicura; la sua creatività sembra essere alimentata da un misto di sfiducia e autostima. Era spesso molto malata. E la sua malattia è parte della creatività tanto quanto il suo atteggiamento calvinista nei confronti del lavoro. Era una specie di ribelle: rifiutava l’«impostura» delle «onorificenze» accademiche: «No, grazie al cielo non ho nessun bisogno di riemergere dal mio romanzo a luglio per farmi mettere in testa un tocco di pelliccia». Sapeva di essere «poliedrica». Ma il dono maggiore di questo diario per i lettori di Virginia Woolf è quello di avere la possibilità di vedere da vicino, dettagliatamente, il processo della sua scrittura in uno stato ancora embrionale, nel momento in cui l’autrice deve sopportare la «pressione» dei libri che aspettano di essere scritti, la pressione della scrittura e poi la pressione derivante dall’attesa della risposta del pubblico per poi rompere lo stampo che ha creato per il romanzo che ha appena finito in modo da crearne uno nuovo per il seguente.
«Di quando in quando, sono ossessionata da una vita di donna quasi mistica, molto profonda, che vorrei narrare tutta in una sola occasione; e il tempo sarà del tutto cancellato; il futuro fiorirà in qualche modo dal passato. Un solo avvenimento – diciamo il cadere di un fiore – potrebbe racchiudere il tutto». Nel diario si nota continuamente la predilezione per le immagini riguardanti la natura, l’acuta consapevolezza dell’assenza di consapevolezza della natura. Ma quando in un’annotazione dell’ottobre 1940 una delle sue immagini preferite, quella della falena, si trasforma in un Messer­schmidt schiantato al suolo, anche la fede della Woolf nella sopravvivenza viene messa a dura prova.
È straordinario poter leggere cose riguardanti la seconda guerra mondiale scritte da una persona che non ha avuto modo di vederne la fine, e che proprio per questo è estremamente vulnerabile e ce la presenta come un’incognita spaventosa. «L. dice che in garage ha della benzina per suicidarsi». Leonard Woolf era ebreo e sia lui che la moglie sapevano che se i nazisti avessero invaso l’Inghilterra loro sarebbero stati arrestati, con ogni probabilità. Ogni giorno ormai pensavano che forse era il caso di «andare a letto a mezzogiorno»; le condizioni di salute di lei peggioravano, come anche i suoi impulsi suicidi. Virginia Woolf faceva fatica a continuare a credere nel potere della sopravvivenza.
Gli ultimi straordinari giorni del periodo dal 1940 al 1941, il suo ultimo anno di vita, di cui troviamo testimonianza nel Diario di una scrittrice, ci rivelano il suo spirito tormentato, disperato con un’intensità quasi insopportabile. E nonostante tutto, fino alla fine, la Woolf si occupa del rapporto tra le parole e la realtà, sempre portando avanti questo processo di autopersuasione. Chi era Virginia Woolf? Quasi paradossalmente, le ultime pagine ci rivelano un coraggio di proporzioni monumentali. Più ci avviciniamo alla fine del Diario di una scrittrice, più diventa intollerabile il pensiero che questa persona sta per morire. E ciò dimostra ancora una volta che la vita e l’arte della Woolf erano attuali all’epoca e sono attuali ancora oggi. Oltre sessant’anni dopo le ultime annotazioni, questo diario è ancora vivo e ci spinge a riflettere.