30 novembre 2016

G. UNGARETTI, I colori dell'amore



Ho atteso che vi alzaste,
Colori dell’amore,
E ora svelate un’infanzia di cielo.
Porge la rosa più bella sognata.

Giuseppe Ungaretti

LA SCOMPARSA DELLO STORICO CLAUDIO PAVONE



I giovani di oggi sono fortunati perchè hanno subito a disposizione il grande libro di Claudio Pavone sulla Resistenza. Noi, che pure eravamo nati quasi in quegli anni, dovemmo invece attendere a lungo per essere davvero messi in condizione di capire. Il libro uscì nel 1991 quando ormai eravamo una generazione di quarantenni disillusi. Forse leggerlo prima ci avrebbe evitato molti errori. O forse no. Resta il fatto che senza di lui la Resistenza sarebbe rimasta un mito e i miti a volte possono anche essere molto pericolosi.

Guido Crainz
Claudio Pavone

Si definiva “azionista postumo”, Claudio Pavone, morto ieri il giorno prima di compiere 96 anni. Ed era molto vero: non aveva fatto parte del Partito d’Azione (partecipò alla Resistenza prima a Roma, con il Partito socialista, e poi – dopo alcuni mesi di carcere – a Milano, in un piccolo raggruppamento di sinistra) ma ne condivise per tutta la vita il rigore laico e l’impegno civile. Furono gli elementi costitutivi di uno storico, e di un maestro, discreto e insostituibile, lontano dalle grandi ribalte dei media e estraneo alle baronie accademiche. Ricco di sensibilità e ironia, gentilezza e umanità, profondità e leggerezza al tempo stesso, che traspaiono sin dalle “memorie del 1943-45”, La mia Resistenza (Donzelli, 2015).

Prima di scegliere l’insegnamento universitario lavorò a lungo come archivista nell’amministrazione dello Stato e vi lasciò segni non effimeri: a partire dalla Guida generale degli Archivi di Stato italiani, alla cui ideazione e realizzazione diede un contributo decisivo. Mi sono chiesto a lungo, ha scritto, se e come la moralità, le idee e la cultura riescano a lasciare il loro segno nelle istituzioni: la mia «vena di moralismo vagamente anarchico», ha aggiunto, mi spingeva a dubitarne ma proprio il mio lavoro di storico e di archivista mi ha talora convinto che questa possibilità esiste.
Vi è qui una chiave per comprendere molti suoi tratti: l’intreccio profondo fra impegno intellettuale e passione civile, ad esempio, o una attenzione alle fonti – non solo a quelle archivistiche – che è rigorosissima ma non ha nulla di erudito. Pavone le viveva, al contrario, come strumento essenziale per indagare anche gli aspetti più insondabili dell’individuo e delle vicende collettive. E poteva farlo proprio perché muoveva da una grandissima apertura e ricchezza culturale: è un vero scrigno la sua Prima lezione di storia contemporanea (Laterza, 2007: e presso lo stesso editore ha pubblicato di recente Aria di Russia, appunti di un viaggio del 1963).

La passione onnivora con cui guardava alle fonti è limpidamente testimoniata dal suo lavoro più importante, uno dei grandi libri del Novecento italiano: Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (Bollati Boringhieri, 1991). Una tappa fondamentale nel suo percorso di ricerca, che si è allargato di continuo ai grandi nodi della storia contemporanea ma ha avuto costantemente al centro la stagione della Resistenza e il suo rapporto con la nascita della Repubblica.
I suoi contributi più stimolanti su questo terreno sono venuti in coincidenza con tre fasi di rinnovamento culturale del Paese, o di rifondazione dopo il crollo delle certezze. Così fu nel post 1956, in un clima che Pavone visse anche nell’esperienza di Passato e presente, la rivista animata da Antonio Giolitti e Luciano Cafagna, Alessandro Pizzorno e Alberto Caracciolo. In quelle pagine pubblicò nel 1959 Le idee della Resistenza. Antifascisti e fascisti davanti alla tradizione del Risorgimento: una critica puntuale della lettura “ufficiale”, o dello stereotipo, della Resistenza come “Secondo Risorgimento” e al tempo stesso una rivisitazione penetrante di entrambe le fasi, e degli usi politici che ne erano stati fatti.
Ancora un suo denso saggio troviamo poi al centro del dibattito successivo al ‘68, un movimento cui aveva guardato con attenzione partecipe e con speranza (vide allora «riaprirsi il campo del possibile», come scrisse). Fra i temi che quei fermenti avevano messo all’ordine del giorno vi era anche il contrasto fra le speranze di trasformazione del 1943-45 e l’“Italia reale” che ne era poi nata, presto immersa nel clima teso della guerra fredda. Riflettendo su quel nodo in sintonia con Guido Quazza, Pavone mise a fuoco una questione essenziale: la “continuità dello Stato” nel passaggio dal fascismo alla Repubblica come corposo freno a un rinnovamento reale. Non una continuità assoluta, ma un tenace permanere di apparati, di uomini e di culture da cui sarebbero venuti condizionamenti pesanti.
Nei suoi saggi su questi temi — raccolti poi in Alle origini della Repubblica (Bollati Boringhieri, 1995) — trovavano risposte e al tempo stesso ulteriori stimoli le ansie di comprensione della realtà italiana che il ‘68 aveva alimentato, e venivano superate sia le rimozioni che le semplificazioni ideologiche. Era solo la premessa di Una guerra civile, frutto di una riflessione che portò a fondo anche in reazione al più generale disorientamento e “perdita di memoria” degli anni Ottanta: comprendeva bene la necessità e l’urgenza di contrapporre a quel clima risposte di alto profilo.

È impossibile soffermarsi su quel grandissimo libro, capace di scandagliare i differenti modi di “essere italiani” che erano sedimentati in una vicenda lunga. Capace di cogliere nella crisi del 1943-45 non solo il delinearsi di diverse e opposte opzioni ideologiche e politiche ma anche «fratture, risentimenti, concezioni antagonistiche dell’uomo italiano e della nazione italiana di più ampio respiro».
Capace di porre al centro una intensa riflessione sul rapporto fra scelte individuali e vicende collettive. E di far comprendere i diversi percorsi attraverso cui prese di nuovo corpo e significato nella Resistenza l’idea di patria. In quel crocevia Pavone vedeva il coesistere e l’intrecciarsi di “tre guerre”, mosse da differenti motivazioni ed aspirazioni: la guerra di liberazione nazionale contro l’occupazione nazista, certo, ma anche una “guerra di classe” intrisa di aspirazioni ad un radicale rivolgimento sociale, e al tempo stesso una guerra civile fra fascisti e antifascisti, epilogo dello scontro aperto nel 1921-22 dalle violenze squadristiche.
Proprio quest’ultima chiave di lettura suscitò anche reazioni aspre: non solo e non tanto, forse, perché la categoria di “guerra civile” era stata usata strumentalmente dalla pubblicistica neofascista quanto perché in questo modo il libro poneva alle origini della Repubblica non un mito rassicurante ma un irto groviglio di questioni, e impediva al tempo stesso di rimuovere la corposa presenza del fascismo nella storia nazionale. Costringeva a riflettere, anche, sul nesso decisivo fra etica e politica: quel libro è davvero un «saggio storico sulla moralità della Resistenza » ma al tempo stesso, come osservava Nicola Gallerano, «una testimonianza dello spessore morale dello storico che lo ha scritto».
La repubblica – 30 novembre 2016

REFERENDUM: ANCHE NEL MIO PAESE SI E' CAPITO CHE "U' sì attacca, u' NO sciogghi" "



IL SI LEGA, IL NO LIBERA!

      La notizia secondo cui i VIP sarebbero orientati a votare si al prossimo referendum, ha risvegliato in me lo spirito plebeo e populista che non ho mai disprezzato! Così, accantonando per un momento le ragioni giuridiche e politiche, esposte nei giorni scorsi, che mi conducono da tempo a respingere tutti i tentativi finora compiuti di riscrivere la Costituzione a colpi di maggioranze risicate, oggi faccio mie le parole pronunciate da un vecchio compagno del mio paese natale (MARINEO-PA) che,  dopo avermi chiesto come avrei votato, ha concluso in dialetto: “Professù, nni la me gnuranza pensu ca lu SI attacca, mentri lu NO sciogghì” 
 (Prof, nella mia ignoranza penso che il si lega mentre il no libera!”).
 fv

CHE GUEVARA e FIDEL CASTRO




                                      L’ULTIMA LETTERA DEL CHE A FIDEL

Fidel,
in questa ora mi ricordo di molte cose, di quando ti ho conosciuto in casa di Maria Antonia, di quando mi hai proposto di venire, di tutta la tensione dei preparativi.
Un giorno passarono a domandare chi si doveva avvisare in caso di morte, e la possibilità reale del fatto ci colpì tutti. Poi sapemmo che era proprio così, che in una rivoluzione, se è vera, si vince o si muore, e molti compagni sono rimasti lungo il cammino verso la vittoria.
Oggi tutto ha un tono meno drammatico, perché siamo più maturi, ma il fatto si ripete. Sento che ho compiuto la parte del mio dovere che mi legava alla rivoluzione cubana nel suo territorio e mi congedo da te, dai compagni, dal tuo popolo, che ormai è il mio.
Faccio formale rinuncia ai miei incarichi nella direzione del partito, al mio posto di ministro, al mio grado di comandante, alla mia condizione di cubano. Niente di giuridico mi lega a Cuba; solo rapporti di altro tipo che non si possono spezzare come le nomine. Se faccio un bilancio della mia vita, credo di poter dire che ho lavorato con sufficiente rettitudine e abnegazione a consolidare la vittoria della rivoluzione.
Il mio unico errore di una certa gravità è stato quello di non aver avuto fiducia in te fin dai primi momenti della Sierra Maestra e di non aver compreso con sufficiente rapidità le tue qualità di dirigente e di rivoluzionario.
Ho vissuto giorni magnifici e al tuo fianco ho sentito l’orgoglio di appartenere al nostro popolo nei giorni luminosi e tristi della crisi dei Caraibi.
Poche volte uno statista ha brillato di una luce più alta che in quei giorni; mi inorgoglisce anche il pensiero di averti seguito senza esitazioni, identificandomi con la tua maniera di pensare e di vedere e di valutare i pericoli e i princìpi.
Altre sierras nel mondo reclamano il contributo delle mie modeste forze. io posso fare quello che a te è negato per le responsabilità che hai alla testa di Cuba, ed è arrivata l’ora di separarci.
Lo faccio con un misto di allegria e di dolore; lascio qui gli esseri che amo, e lascio un popolo che mi ha accettato come figlio; tutto ciò rinascerà nel mio spirito; sui nuovi campi di battaglia porterò la fede che mi hai inculcato, lo spirito rivoluzionario del mio popolo, la sensazione di compiere il più sacro dei doveri: lottare contro l’imperialismo dovunque esso sia; questo riconforta e guarisce in abbondanza di qualunque lacerazione.
Ripeto ancora una volta che libero Cuba da qualsiasi responsabilità tranne da quella che emanerà dal suo esempio; se l’ora definitiva arriverà per me sotto un altro cielo, il mio ultimo pensiero sarà per questo popolo e in modo speciale per te; ti ringrazio per i tuoi insegnamenti e per il tuo esempio a cui cercherò di essere fedele fino alle ultime conseguenze delle mie azioni; mi sono sempre identificato con la politica estera della nostra rivoluzione e continuo a farlo; dovunque andrò sentirò la responsabilità di essere un rivoluzionario cubano e come tale agirò; non lascio a mia moglie e ai miei figli niente di materiale, ma questo non è per me ragione di pena: mi rallegro che sia così; non chiedo niente per loro perché lo stato gli darà il necessario per vivere e per educarsi.
Avrei molte cose da dire a te e al nostro popolo, ma sento che le parole non sono necessarie e che non possono esprimere quello che io vorrei dire; non vale la pena di consumare altri fogli.
Fino alla vittoria sempre. Patria o Morte!
Ti abbraccio con grande fervore rivoluzionario

Che Guevara

29 novembre 2016

I PARADOSSI DI E. CIORAN

Cioran tra paradossi e divagazion

di Nicola Vacca

Esce per la prima volta in italiano Razne, l’ultimo libro scritto da Cioran in lingua romena. Fino a questo momento il libro non conosceva altre versioni oltre a quella romena.
Lo pubblica Lindau con il titolo Divagazioni (a cura e tradotto da Horia Corneliu Cicortaș) e rappresenta un evento letterario unico visto che il libro non è stato edito in altre traduzioni, né in francese, né in altre lingue,
Il libro rappresenta lo spartiacque nella produzione letteraria di Cioran che abbandonerà per sempre la sua lingua madre per quella francese.
«Il libro che presentiamo ai lettori italiani è la traduzione del volume Emil Cioran, Razne, a cura di Constantin Zaharia (Humanitas, București, 2012), comprensiva dei relativi apparati critici (prefazione, nota all’edizione e varianti testuali).
Delle 338 note a piè di pagina dell’edizione originale, che segnalano le lezioni varianti presenti nel testo manoscritto di Cioran, abbiamo conservato, traducendole e inserendole in corsivo nelle note, quelle che evidenziavano differenze semantiche o sfumature stilistiche significative, tralasciando invece tutte quelle che rappresentavano soltanto cambiamenti grammaticali minori, i quali perdono inevitabilmente, nell’atto traduttivo, la loro rilevanza». Queste sono le parole con cui il curatore e traduttore spiega ai lettori italiani l’importanza di questo libro – cerniera in cui Cioran ha superato l’orlo del precipizio andando olte e toccando un terreno fertile che si dimostrerà importante per la sua condizione futura di scrittore.
Il passaggio dal romeno al francese, – scrive Constantin Zaharia nella prefazione all’edizione romena- perché di questo si tratta, non è qui annunciato in maniera altisonante, ma lo è certamente in modo discreto. Una serie di costruzioni e forme della frase rivelano in modo evidente l’influenza della lingua francese. A circa trentacinque anni, Cioran inizia a esitare nel trovare la formula più felice per dare vita ai propri pensieri. Si avverte che la punta della penna stilografica vorrebbe scivolare verso un’altra lingua.Come dire che l’episodio Mallarmé a Dieppe non è lontano».
In Divagazioni troviamo un Cioran impegnato a costruire  l’universo tematico che comprende la malinconia, la noia, il tempo, osservazioni sulla morte.
Ma soprattutto il suo pensare per paradossi che nasce dalla nuova lingua che abbraccia e in cui decide di scrivere. Il francese che regalerà a Cioran  nuovi concetti e libri importanti (decomposizione, squartamento, amarezza, inconveniente) e soprattutto un modo nuovo di scorticare i pensieri e gli suggerirà la strada per  continuare a coltivare il suo straordinario «coraggio di disperare» per cui oggi noi lo amiamo.
 Di seguito alcuni dei pensieri contenuti nel libro

Noi diamo voce solo a dolori senza nome; gli altri, che formano l’ordito e la trama degli istanti, li gettiamo nella pattumiera dell’evidenza.

Ho accettato la mia fine solo quando sono stato sorpreso da quell’accettazione, che sembrava provenire da una voce estranea al sangue come alla veglia.

Quando si trascorrono giornate intere senza scambiare parola con un essere vivente, quando si dimenticano i propri simili e perfino la condizione umana, l’io si rivela una forza grande quanto il mondo. La conversazione ci offre la misura della nostra piccolezza; la solitudine la intensifica, ma in modo tale che la nostra piccolezza non è minore di quella del mondo.

Certamente la vita non ha alcun senso; ma è ancora più certo che noi viviamo come se ne avesse uno.
Per chi è contagiato dalla malattia di vivere, i rimedi non sono meno dannosi dei veleni, trattandosi sempre di espressioni e arnesi di questo mondo. Quand’anche fossero di un altro, non c’è cura che possa addolcire quella consapevolezza. Essendo consustanziale all’esserci, quel male può cessare solo insieme a esso. Riusciamo a dimenticarlo solo riposando nella nostra cenere. La tomba è l’unica farmacia della malinconia. 

Da  https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2016/11/29/cioran-tra-paradossi-e-divagazioni/

F. SHEDIR DI PAOLA, Il peso delle parole




Le parole avvicinano,
le parole allontanano,
ordigni fra le mani
esplodono. Maneggiarle
con cura, è il minimo.
Liberarle dalla zavorra, se pesano. Non aspettare che ci dissanguino. Le parole ci possiedono.



Filomena Shedir Di Paola


IL PESO DEI PAPI NELLA STORIA CONTEMPORANEA


Questa mattina trovo particolarmente stimolante la lettura di questo articolo:


Papi: il duro, il colto, il populista. Le metamorfosi di Pietro
P. Bottazzini, G. Zambelli

Vediamo la verità come in uno specchio: ovvero un’immagine confusa, deformata. È dai tempi di Paolo di Tarso che la tradizione cristiana invita tutti gli uomini a scoprire nella metafora dello specchio il riflesso della fede. Certo, ma come possiamo interpretare la verità? Con la parola.
Perché la verità deve esser rivelata. «In principio era la parola» scriveva Giovanni all’inizio del suo Vangelo. E la parola per eccellenza che parla agli esseri umani è quella dell’autorità suprema della Chiesa: il papa. Ecco perché smontare il linguaggio di un papa serve a conoscere gli oggetti delle sue enunciazioni, le intenzioni, i destinatari.

Cosa ci dicono le parole dei papi, sempre più pop
Abbiamo provato a farlo, per cogliere il ritmo della trasformazione degli ultimi decenni, mettendo sul tavolo anatomico del linguista cinque discorsi pronunciati dagli ultimi tre pontefici, Karol Józef Wojtyla, Joseph Ratzinger e Jorge Mario Bergoglio, in circostanze simili.
Il discorso di insediamento; un discorso particolarmente significativo rivolto alla Curia romana; un famoso discorso-denuncia molto acceso e discusso; un discorso pronunciato di fronte ai fedeli del proprio Paese o comunque relativo alla propria patria; infine un discorso importante tenuto fuori Roma (v.box).
Nella stesura di queste orazioni si inscrivono sia la traccia della società cui sono indirizzate sia la personalità dell’autore.
D’altra parte, la voce del pontefice pronuncia le parole dell’ultima autorità universale rimasta sul pianeta.

Ratzinger: la Chiesa al primo posto
Nel momento in cui un papa si rivolge alla Curia romana l’evangelizzazione passa in secondo piano. Quando parla ai cardinali il pontefice fa emergere le sue intenzioni politiche. E qui è interessante, perché se il soggetto del discorso è la Chiesa intesa come istituzione, il modo di tematizzarlo è un indice della tempra del papa.
Solo Ratzinger chiama la cosa con il suo nome e utilizza il lemma Chiesa con più frequenza degli altri (33 volte). Nel definire il perimetro di questa istituzione, Benedetto XVI ricorre a due chiavi di interpretazione del suo statuto, che ritroviamo nei termini Concilio e fede.
Quindi nel definire gli interlocutori della Chiesa si rivolge al mondo, termine che ricorre molto più di quanto ritorni il lemma Dio. È, insomma, un papa mondano, che tende a riportare quaggiù sulla terra le cose di lassù.

Woytyla: il pastore che pensa alla vita
Tutto il contrario di Wojtyla, che guarda in alto. Nei suoi discorsi subordina il riferimento alla Chiesa a quello indirizzato a Dio – richiamato il doppio delle volte – e collocato in posizione dominante sul testo.
L’unità degli uomini, siano essi religiosi o laici, avviene sotto il mandato dell’autorità più alta nella Grande Catena dell’essere. Le 36 occorrenze del designatore Dio denunciano una strategia retorica consapevole da parte di Wojtyla, solitamente più parco in questo genere di invocazioni.
O meglio: sembra che quando parla davanti alla Curia invochi Dio molto più di quanto faccia al cospetto dei fedeli. Come se le minacce provenienti da vescovi e cardinali richiedessero maggiore prudenza. Eppure, per esperienza, Wojtyla avrebbe potuto temere di più le folle che i porporati.
La prospettiva si rovescia quando il pontefice si rivolge al mondo esterno. Il destinatario immediato sono le adunate di fedeli presenti all’omelia, il bersaglio è la secolarizzazione della cultura contemporanea, l’indirizzo finale è quello dei potenti della Terra.
La parola chiave del discorso di Wojtyla è vita: nel suo testo compare 77 volte, ed è il soggetto di gran parte dei suoi enunciati. La sua riflessione si sviluppa in un momento di crescita economica e di trionfo dei valori mondani, riconducibili al successo professionale, al prestigio sociale, all’edonismo morale.
Il linguaggio del papa è lo specchio capovolto della società cui si rivolge: propone un’interpretazione diversa dell’esistenza, quella della coscienza (15 volte), suggerendo che la verità (16 volte) non sia quella che appare nella concretezza dei sensi e del qui-e-ora.
Ora l’appello a Dio, convocato 36 volte, acquista il senso pieno che ricopre nel pensiero di Giovanni Paolo II: è anzitutto il pastore (26 volte), poi anche padre (19 volte), che accompagna – nell’immanenza della vita nel mondo – i giovani alla verità.

Bergoglio: la sofferenza al centro
Nel discorso di Bergoglio invece la Chiesa è confinata a un ruolo minore. Protagonista è la metafora della malattia, in generale l’allegoria del corpo che soffre. Se si sommano le 38 occorrenze dei lemmi Cristo, Chiesa e Dio non si riesce ancora a bilanciare la frequenza del dizionario che allude al malessere fisico. Papa Francesco ama indulgere al linguaggio figurato della vita materiale nella sua dimensione quotidiana, con le immagini della famiglia e dei suoi ruoli, e con quelle dell’esistenza corporale di ogni individuo. La sua retorica punta sull’empatia, e in questo senso è popolare poiché mira alla persuasione attraverso il consenso emotivo. Ognuno ha una casa e un corpo, e la loro intimità affrontata nelle parole del papa diventa lo specchio visibile di ciò che deve essere l’unità della Chiesa con i suoi fedeli. Se fosse un semplice politico, gli analisti non indugerebbero nel chiamarlo populista – o meglio, come spiega lo studioso Loris Zanatta nell’intervista alle pagine 6 e 7, andrebbe definito peronista.
Il mondo su cui si affaccia Bergoglio soffre il fallimento della promessa di prosperità elaborata ai tempi di Giovanni Paolo II: il suo discorso è la rotazione dello specchio puntato contro la società dal suo predecessore. È il papa più politico: la chiave di volta è la richiesta di cambiamento, ribadita 28 volte, sulle esigenze di casa, giustizia, pace, diritti e lavoro (tutte ribadite tra 10 e 11 volte), formulate dai popoli della terra. È anche il papa dell’immanenza: la sua voce si leva contro il potere della finanza, tanto che nel suo dizionario trova ospitalità anche la nozione di economia, che i suoi predecessori trascuravano del tutto.

La presenza di Dio nel mondo
Se Bergoglio parla con parole semplici, comprensibili e capaci di arrivare al cuore e alla mente di tutti i fedeli, Ratzinger sceglie un registro più “alto”, come se si rivolgesse agli esponenti d’una Repubblica delle Lettere. Il focus del suo discorso è l’Europa, con particolare attenzione ai valori che la rendono una comunità non solo economica. La loro portata culturale è universale e si fonda sull’identità cristiana. Data la levatura intellettuale di Benedetto XVI, il dizionario è molto vario (il 44,4% delle parole compare una volta sola, contro il 24% di Wojtyla, e il 30% di Bergoglio), con la struttura sintattica più complessa dei tre.
Nei discorsi rivolti a popoli specifici, il protagonista dell’orazione per Wojtyla è ancora una volta la Chiesa. Per Bergoglio e per Ratzinger invece il soggetto è Dio, che per Benedetto XVI si manifesta come parola e come cultura, mentre per Francesco si rivela con i tratti domestici del fratello, della madre, del figlio e del sangue. La Chiesa, la cultura, la famiglia e il corpo sono la sequenza attraverso la quale i papi hanno suggerito di cercare la presenza di Dio nel mondo, hanno proposto di sentirla, hanno chiesto obbedienza e solidarietà alle parole del pontefice – promettendo in cambio un’identità interiore e una dignità sociale per ciascuno.

La Chiesa e il cambiamento
Wojtyla tenta di ruotare il senso del termine vita in una direzione trascendente, che orienti la ragione stessa dell’esistenza individuale e collettiva della comunità verso una giustificazione superiore. In questa direzione deve ritrovarsi anche il valore e il potere della Chiesa come istituzione.
Ratzinger rimuove la suggestione della chiamata celeste dal ruolo della comunità cristiana, per riconsegnarlo alla diligenza dello studio e alla pazienza del dialogo. Il significato della vita è la ricerca, il senso dell’essere emerge dal primato delle radici della cultura europea: il logos, l’argomentazione, il libro.
Bergoglio è un politico missionario: sa che lo spazio per la vita oltremondana si estende sul margine che la fatica per la sopravvivenza lascia alla dignità dell’esperienza terrena. Conosce la pragmatica linguistica dei gesuiti ed è consapevole di come si fanno cose con le parole, prima che discorsi: alla Chiesa non basta l’unità e il coraggio dei fedeli, né l’egemonia nella Repubblica delle Lettere europea o nella Città di Dio. Serve il cambiamento radicale, perché tutto resti come prima.


Pagina 99, 26 novembre 2016