28 febbraio 2014

LA STORIA DEL PREMIO LENIN DATO A DANILO DOLCI



Danilo Dolci, il premio Lenin e altre storie






L’acqua e i ponti

L’immagine della sedia vuota alla cerimonia di consegna dei Nobel per la pace nel 2010 ha fatto il giro del mondo, simboleggiando la libertà dell’uomo ancora calpestata. Nel lontano ’58 ci fu in Italia un uomo che non ritirò un importante premio in Unione Sovietica (il controaltare orientale del Nobel) perché non aveva il passaporto per andarci. Mutatis mutandis , il fatto resta.
L’avvenimento in questione è del tutto dimenticato. A suo tempo scompigliò la cultura e la politica italiana. I quotidiani diedero la notizia che l’U.R.S.S. di Khrushchev aveva assegnato un premio a Danilo Dolci 1 , un uomo pubblico italiano, allora noto alle cronache per la sua ingombrante presenza, in una delle zone più povere del nostro paese.
Tornare a quel fatto, aggiungendovi quanto l’archivio di Dolci conserva, può servire a ripercorrere questa e altre storie con l’odierna prospettiva. È utile oggi ritornare su queste carte per scoprire che se è evidente l’ uso politico dei Premi (il Nobel per la pace al dissidente cinese Liu Xiabo è uno degli ultimi esempi) e probabilmente anche il Premio a Dolci rispondeva alla medesima logica, è altrettanto politico, anzi eticamente fondabile, il rifiuto o l’accettazione. Da Dolci a Sartre ad oggi gli esempi non mancano e il gesto di accettare o rifiutare un riconoscimento è gesto ricostruibile e argomentabile come presa di posizione etica. 2 Al tempo dei fatti, invece, l’errore, il peccato apparivano ovvii a chi da sempre riteneva di essere schierato «dalla parte giusta».
Difendendo Dolci in uno dei processi Piero Calamandrei aveva chiesto ai giurati di immaginare come la vicenda di quest’uomo sarebbe apparsa «di qui a cinquanta o a cento anni agli occhi di uno studioso». Il cinquantennio è scaduto. Chiediamoci dunque con Calamandrei «che cosa ha fatto di male questo imputato?» 3 .
Forse oggi, dopo il crollo di diversi muri, è possibile valutare serenamente e recuperare il magistero di un uomo come Dolci che, facendo ciò che pochissimi sapevano fare, fino alla fine (Dolci non è più tra noi dal 30 dicembre 1997) ha camminato disarmato e nonviolento nella cultura e nella realtà siciliana e internazionale.
Dolci ritenne di usare la libertà e il coraggio di accettare il riconoscimento. In molti gli diedero torto. Che accadrebbe oggi se Saviano fosse premiato dalla Cina per le sue inchieste anticamorra come difensore della democrazia in pericolo in occidente?
Con tutta l’acqua che in 54 anni è scorsa sotto i ponti verrebbe anche oggi la tentazione di sedersi dalla parte del torto, visto che gli altri posti sono sempre e ancora tutti occupati.
Il fatto

Il 31 dicembre del 1957 l’accademico Scobeltsin, presidente del Comitato per l’assegnazione del premio Lenin per la Pace, da Mosca telegrafava al sig. Danilo Dolci in Partinico (Palermo) l’assegnazione del prestigioso riconoscimento 4 . Paolo Bufalini, autorevole esponente della Direzione Nazionale del P.C.I 5 , aveva preventivamente sondato la disponibilità di Dolci ad accettare il Premio, e questi aveva, da parte sua, posto come condizione che la stampa pubblicasse un suo comunicato (come puntualmente avvenne sulla Pravda e nella stampa centrale di tutti i paesi del blocco comunista, compresa la Cina). Il Comitato sovietico congratulandosi motivava la sua scelta con «la nobile attività da lei svolta a favore del rafforzamento della pace tra i popoli» e invitava Dolci a Mosca per ritirare il Premio.
La decisione di premiare un uomo di cultura d’occidente interveniva in un momento in cui, dopo l’invasione dell’Ungheria, l’Unione Sovietica appariva in movimento. L’era Khrushchev si era annunciata con il rapporto segreto al XX congresso. Una perestrojka ante litteram : relativa liberalizzazione interna, denuncia della corruzione e dell’inefficienza dell’apparato, riabilitazione delle vittime di Stalin, politica della distensione e dialogo internazionale 6 .
Il giorno seguente la comunicazione di Scobeltsin, l’1 gennaio 1958, da Partinico, il paese in provincia di Palermo dove viveva e lavorava dal 1952, Dolci aveva trasmesso una dichiarazione per la Pravda:
Ringrazio profondamente. Si è voluto, se non erro, porre in rilievo due fatti che vanno ben oltre la mia persona ed il nostro gruppo: la validità delle vie rivoluzionarie nonviolente, accanto alle altre forme di azione e di lotta, nell’affrontare la complessa realtà; la continua necessità di un’azione scientifica e aperta, maieutica direi, dal basso. Penso sia opportuna destinazione del Premio l’istituzione di un centro studi e iniziative per la piena occupazione in questa zona dove, pur tra un enorme spreco di valori e di vita, siamo stati buttati in galera con chi del popolo affermava, con le parole ed i fatti, il dovere-diritto di tutti al lavoro.

Le parole-chiave dell’esperienza dolciana c’erano tutte: nonviolenza, azione maieutica, crescita organica del territorio, pianificazione dal basso, valori e coraggio di scelte politiche anche rischiose.
Unica cortese concessione il porre la nonviolenza come una forma accanto ad altre forme di lotta.
A questo punto, però, il fatto era già diventato che Dolci aveva accettato un premio sovietico.
Il discorso tenuto da Dolci in occasione di un incontro organizzato a Palermo dai Partigiani della Pace per festeggiare il Premio Lenin risente già a pochi giorni della notizia di questo cambio di scenario. Infatti Dolci inizia con una professione di fede. «Non sono comunista» sono le sue prime parole, «non ho ancora visto un metro quadrato delle Repubbliche Sovietiche». E tuttavia:«Accetto il Premio e ringrazio profondamente; andrò a Mosca, se mi danno il passaporto, per riceverlo» 7 . Per le autorità italiane Dolci era diffidato come persona dalle «spiccate tendenze a delinquere»; non era quindi certo che avrebbe avuto il permesso d’espatrio perché in attesa del giudizio d’appello per il «digiuno dei mille» e lo «sciopero alla rovescia» dei disoccupati di Partinico (2 febbraio 1956). Entrambe le manifestazioni erano state interrotte dalla polizia e lo sciopero si era concluso con l’arresto di Dolci e di alcuni sindacalisti 8 . Evidentemente a questi episodi Dolci si riferisce quando ricorda di esser stato «buttato in galera» per aver affermato con fatti e parole il diritto costituzionale al lavoro.
A motivazione della sua scelta Dolci aggiungeva: «necessario assumere la proposta degli altri per buona, per metà del ponte, non per un cavallo di Troia».
L’atteggiamento di Dolci prefigurava una cultura del dialogo , oggi si direbbe della multilateralità. Nel 1957, l’anno dello Sputnik, la cultura del dialogo stentava. Nonostante i tentativi di Khrushchev di lanciare un new look in politica estera, l’U.R.S.S. restava il luogo geografico della proiezione del male e del pericolo in sé. Nessuna proposta doveva essere ascoltata e il ponte poteva essere solo una via per l’invasione, «un cavallo di Troia» piuttosto che luogo di transito, d’incontro.
Immediatamente dopo le dichiarazioni di Dolci, a Partinico cominciarono invece a giungere le dissociazioni, le prese di distanza, le pressioni affinché egli rifiutasse il premio. I comitati di amici, le associazioni di solidarietà, talune nate proprio per appoggiarlo, interpretarono la scelta di accettare il Premio Lenin come inopportuna e sconsiderata. «La lettura – gli scrive Gigliola Venturi – della tua chiacchierata di Palermo nella sede scelta dai Partigiani della Pace non mi ha edificato. Con queste parole hai fatto un atto politico che ti schiera (momentaneamente, spero) tra i compagni di viaggio dei comunisti. Tu, che sempre mediti sulle parole che scrivi, sei sicuro d’aver ponderato il significato politico della manifestazione? (…) Di più solo ad un comunista iscritto si potrebbe domandare. Hai preso una posizione politica, anche se non era questa l’intenzione o non te ne accorgi» 9 . E così scriveva Ebe Flamini a Gigliola Venturi nel gennaio di quello stesso anno: «Io, dal primo momento ho violentemente reagito al fatto che lui abbia accettato il Premio Lenin. Il suo discorso m’ha dato il colpo di grazia. Quando verrà gli parlerò della mia intenzione d’andarmene, tanto più che l’altro giorno Maria Luigia Guaita mi ha detto che lei e gli amici di Firenze non intendono versare più nulla. Dunque i segni di uno sbaglio ci sono e si cominciano a vedere» 10 . Allo sconcerto e ai rimproveri si aggiunsero ben presto le cautele di quegli stessi ambienti nei suoi confronti: «Di tutto questo parleremo a Torino con Bobbio e tutti gli amici. Quello che ti ripeto è di non chiedere a me di stampare e diffondere il tuo scritto» (Gigliola Venturi a Dolci, 19 gennaio 1958, Archivio Dolci) 11 .
Più vicino in questo complicato frangente rimase Aldo Capitini. 12 Anche la sua posizione, tuttavia, non risulta «persuasa» come ci si sarebbe potuti attendere. Dolci scrive immediatamente a Capitini: «Ti sarei grato se ti facessi interprete presso gli amici affinché sia chiaro come noi intendiamo aprirci ed aprire (ci ha fatto sempre pena chi si presume autosufficiente e depositario in esclusiva delle verità), ma non far compromessi più o meno furbi o comunque partitizzarci» (lettera 6 gennaio 1958, Archivio Dolci). Capitini rispose con due lettere, in due giorni consecutivi (12 e 13 gennaio), entrambe sul Premio Lenin. Nella prima, «quasi-solidale», prospetta l’urgenza di far sapere che si considera il Premio come un’offerta russa: «Tu dovresti tener ben fermo, come hai già affermato, il punto che i soldi sono un’offerta per il lavoro, e che tu non prendi un centesimo». In piena guerra fredda un premio sovietico non rappresentare un riconoscimento, ma è, innanzitutto e soltanto, denaro sovietico e quindi un tentativo di corruzione, istigazione al tradimento.
Forse Capitini temeva che l’urgenza economica con cui Dolci era quotidianamente a confronto (il primo digiuno fu sul letto di un bimbo morto per fame) potesse «accecarlo» circa l’identità del donatore. Gli argomenti di Capitini oscillano dal suggerimento di strategie difensive («Nessuno si urta dei denari che i preti ricevono per le loro cose dagli americani»), ai progetti per l’investimento dell’incriminato denaro («I denari del Premio sono destinati alle spese per un lavoro di inchiesta e di promovimento della piena occupazione in Sicilia (…) Stai attento a non creare un Centro con impiegati, che consumano troppo»), alle raccomandazioni («Riafferma che sei indipendente.(…) Dovresti ben dire quale è il tuo pensiero circa il regime politico russo»).
Capitini aveva già ricevuto, per conoscenza (!), da Silone una lettera sul caso e avverte Dolci: «Certo uno scompiglio ci sarà….», tuttavia crede che si diano ancora margini di reciproca intesa con le persone più vicine: «Ti consiglierei di fare un ampio scritto (…) e di mandarlo agli amici principali e a qualche giornale».
La seconda lettera è invece più cauta e, a tratti, anche allarmata. «Io per il Premio Lenin – scrive Capitini – non ti ho detto nulla, perchè tu sei libero di decidere (…) in ogni modo pensaci: le mie parole sono semplice invito a pensarci».
Tra la prima e la seconda lettera intervenne in Capitini la coscienza che lo scompiglio era di proporzioni maggiori di quelle che egli stesso aveva temuto. Se il giorno precedente Capitini aveva ritenuto di poter ancora dire all’amico: «Volevo iniziare un’azione per il Premio Nobel per la pace da assegnare a te, e ne ho scritto a Giuliano Pontara, ma certo ora la cosa è un po’ ardua», il giorno dopo avverte il bisogno di entrare in azione personalmente: «Sto pensando ad una lettera a Silone, Calogero, Carocci, Jemolo, per i commenti che hanno fatto sulla cosa».
Pur nella stima e nelle affinità teoriche e pratiche che lo legavano a Dolci, anche il filosofo non riesce ad andare oltre lo scenario che la guerra fredda calava sul gesto di accettare un riconoscimento dal nemico: «Sarebbe bene che tu evitassi di essere preso dai comunisti, mandato qua e là, istruito ben bene (visto che dichiari di non conoscere bene Lenin) e portato a vedere le varie Littorie (…) Se tu vai in Russia al ritorno ti faranno girare per dire ciò che hai visto (cioè ti hanno fatto vedere)». L’imperativo che l’autorevole amico lancia allarmato a Dolci è: «Chiarire il tuo rapporto con Mosca»; un imperativo rafforzato anche con timori per il futuro: «Attento che il Governo non sequestri il fondo, accusando il Centro di sovversivismo finanziato dall’estero».
Nessuno poteva pensare che Dolci opportunisticamente accecato dall’onorario del Premio si fosse convertito sulla via di Mosca; nessuno che avesse solo una pallida idea di ciò che a Partinico era accaduto in quegli anni poteva pensare a Dolci come «testa di ponte»” dell’Armata Rossa. Eppure nel mondo culturale italiano prevalsero sconcerto e perplessità, disagio e prese di distanza.
Per tutto il 1958 Capitini non scriverà più a Dolci eccetto due brevi messaggi d’ordinario scambio d’informazioni (indirizzi, saluti). In uno di questi però si legge: «Il tuo momento è difficile, e capisco che le grosse forze ti ostacolano. Ma vedi: quello che tu hai detto, sta diventando la bandiera di molti» (Capitini a Dolci, 21 settembre 1958). Ciò che in una prospettiva come quella capitiniana poteva essere considerato un obiettivo, per Dolci diviene una colpa. Dolci stesso nel suo discorso di Palermo ammetteva di aver ricevuto forti pressioni per rifiutare il Premio: «Qualcuno dice “ Ecco l’utile idiota ” di turno; si è premuto affinché rifiutassi. Mi si chiede implicitamente o esplicitamente una chiarificazione (…) queste pressioni sono pervenute anche da persone che stimo ed amo» (Discorso di Palermo, Archivio Dolci).

Una lettera di Silone

Una severa lettera (datata 8 gennaio 1958) giunse a Partinico da Ignazio Silone. La stessa lettera era già stata dall’autore inviata in copia anche a Capitini e quest’ultimo la considerava «fatta con intelligenza» 13 . Si tratta di un testo che ben documenta l’atmosfera e il fitto intreccio di valori, affetti che complicavano la situazione di Dolci rispetto ai gruppi e agli uomini di cultura che fino a quel momento gli erano stati vicini.

Caro Danilo, non ti ho scritto neppure un rigo, come sai, in merito alla tua accettazione del Premio Lenin per una mia norma di carattere generale: non ho una mentalità da censore o inquisitoriale; e per un motivo più particolare: sento verso di te un grande affetto e ammirazione e ti accetto così come sei. In un pubblico comizio, come avrai letto dal resoconto stampato, sono arrivato a dire qualche cosa che forse non direi per nessun altro, di avere assoluta fiducia che tu non ci tradirai mai. Ma siccome sei stato tu a scrivermi in merito a quel premio, mandandomi anche copia della tua lettera già apparsa su l’Unità e dell’altra spedita alla sig.ra Gigliola Venturi, in un certo senso mi hai invitato a esporti la mia opinione. Ciò che ora faccio, con l’abituale franchezza, chiedendoti scusa se qualche mia parola ti dispiacerà.
Mi pare che, tutto sommato, avendo gradito il Premio, sarebbe stato preferibile che tu l’accettassi lealmente, per quello che esso è, e che resta malgrado le tue lettere. Invece il tuo tentativo di interpretare l’intenzione di chi ti ha concesso il Premio, attribuendogli un riconoscimento della validità rivoluzionaria del metodo della nonviolenza, aggiunge all’episodio una manovra di pessimo gusto, frequente presso i politicanti, ma imprevedibile da un uomo come te. Quelli che non ti conoscono adesso si domandano se sei un bambino o un mistificatore. Insomma, caro Danilo, il Premio Lenin non è il Premio della notte di Natale di Angelo Motta; esso non fu istituito dal conte Leone Tolstoi; esso non è dato da una giuria di privati che non hanno nulla a che fare con lo stato; esso è conosciuto in Italia principalmente per il gesto di Pietro Nenni, che ha sentito la necessità morale di restituirne l’importo agli elargitori. La fisionomia politica di quel Premio è fatta e non può essere scalfita dalla tua letterina alla Pravda, che, tra l’altro, hai redatto, scusami se te lo dico, in gergo piuttosto ermetico.
Dunque tu credi sul serio che, dal momento della concessione a te del Premio Lenin, una nuova era sia cominciata nell’orientamento ideologico dei dirigenti sovietici e che essi ora riconoscano la validità della nonviolenza? Se così fosse, dovrebbero cominciare con l’ammettere l’obiezione di coscienza nell’esercito russo e se non sono stati già fucilati tutti, col rimettere in libertà i soldati russi che si rifiutarono di sparare contro gli insorti ungheresi, e col permettere l’edizione sovietica del «Dottor Zivago» di Pasternak che è la più grande riabilitazione dell’idea della nonviolenza. Ma tu sai benissimo che queste sono ipotesi cervellotiche. Tanto valeva non accampare quell’argomento e dichiarare semplicemente: «Qualunque siano state le intenzioni dei donatori, non olet, ed ecco l’uso che farò di questo denaro.» Restava un episodio discutibile ma almeno senza finzioni.
Caro Danilo, non ho nessun titolo per farti la lezione salvo quello banale della maggiore età ed esperienza. In base a questo mi permetto di concludere con una riflessione di carattere generale. sulla quale mi piacerebbe parlare con te a lungo: in ogni vocazione spirituale, la tentazione più pericolosa può essere quella dell’efficacia. Ricordi il discorso del Grande Inquisitore? Non vedi a che cosa è ridotta la Chiesa Cattolica? La grossa difficoltà è rimanere fedeli alla propria intuizione del bene, senza rinunciare all’efficacia. Tuo Ignazio Silone.
Silone nulla concede alla prospettiva che Dolci intendeva mettere in atto accettando il Premio Lenin.
Non si ha notizia di una risposta diretta di Dolci, ma di certo i rapporti tra i due ebbero nel tempo a risentire di un disaccordo così radicale. Mentre fino ad allora Silone era stato un sostenitore tra i più vicini. Si ha, invece, notizia di una lettera che più di un anno dopo (19 febbraio 1959) Capitini inviò a Silone per informarlo dell’interesse che il lavoro di Dolci stava suscitando in India tra i seguaci di Gandhi: «Ho visto con quanta attenzione [costoro] seguivano dalla voce di Danilo il racconto, esatto e modesto come sempre, esposto come esperimento e non come rivelazione, dell’opera che egli stava facendo» 14 , per comunicargli dell’imminente edizione inglese della traduzione di un libro di Dolci con la prefazione di Huxley, e infine per esortarlo accoratamente: «Perciò stringiamoci a Danilo Dolci».
Una prima precisazione che Dolci appose a margine della lettera di Silone è di carattere storico: a Pietro Nenni nel 1956 era stato conferito il Premio Stalin . Il leader socialista in un primo momento lo accettò, solo dopo le rivelazioni di Khrushchev, Nenni sentirà «la necessità morale» di devolverlo in beneficienza 15 . «Premio Stalin e non Lenin» appunta Dolci, a sottolineare la differenza. Si trattava di un premio istituito proprio quell’anno su proposta fatta dallo stesso Khrushchev dalla tribuna del Congresso. Non si trattava di un premio compromesso e compromettente, ma di un premio nuovo, pregno di promesse delle quali l’attesa suscitata dalle rivelazioni di Khrushchev può essere sufficiente indicatore. In questo Dolci era anche confortato dal parere espresso da Capitini: «La differenza tra Nenni e te è che lui li prese da Stalin, e li tenne per sé; perciò li ha restituiti» 16 .

L’odore dei soldi

Dolci non adduceva ragioni opportunistiche, né «interpretava» ex post una scelta di comodo, ma aveva accettato propriamente quel premio, un premio sovietico del 1957. Se la scelta fosse stata dettata da calcoli d’utilità, avrebbe fatto male i suoi conti. Nella difficile fase che le iniziative di Partinico si trovavano a fronteggiare, più utile sarebbe stato tenersi la solidarietà interna e prestigiosa dei gruppi di Torino e di Firenze, legati all’ex Partito d’Azione e al filone liberalsocialista della Resistenza piuttosto che accettare un riconoscimento esterno così scomodo. A conti fatti, il Premio Lenin rese molto meno di quanto gli costò in termini di isolamento. Il suo destino editoriale, la sua marginalità rispetto alla cultura ufficiale nazionale non paiono del tutto scissi dagli eventi e dalle polemiche che stiamo ripercorrendo.
In una lettera del gennaio ’58 Elio Vittorini scrive a Dolci, consigliandogli di non avere eccessivi scrupoli ad accettare il denaro sovietico: «Ti dico subito che la destinazione del denaro del Premio all’istituzione di un Centro Studi e iniziative per la piena occupazione è cosa ottima e importante (…) Ora una cosa resta da fare, se non l’hai ancora fatta, è una dichiarazione alla stampa, estremamente chiara, nella quale tu dica, senza preoccupazione alcuna, che il denaro sei disposto ad accettarlo da chiunque, sia dal Papa che dal diavolo, perché esso viene destinato esclusivamente sotto un regolare controllo amministrativo che sarà sempre reso pubblico, oltre che alla consueta attività da te svolta, alla creazione e intensificazione del Centro Studi per la massima occupazione». Riprendendo questa lettera qualche tempo dopo, Dolci dichiara: «c’è quell’inciso, “ sia dal Papa che dal diavolo ” , su cui non sono affatto d’accordo. O il danaro è pulito e viene accettato con uno scopo preciso, oppure meglio non accettarlo. Quando ci sono giunti finanziamenti che non ci persuadevano, anche per poco, li abbiamo rimessi in busta e rispediti al mittente. E, a volte, i soldi ci erano d’estrema e grave necessità» 17
Queste considerazioni rafforzano l’ipotesi che il gesto scandaloso di Dolci rispondeva alla necessità di una presa di posizione etica rispetto al presente delle relazioni tra individui, gruppi e Stati. Piuttosto che soffermarsi su considerazioni olfattive sul denaro sovietico, Dolci in quegli anni invitava a sentire l’odore delle case dei banditi di Spine Sante; piuttosto che indicare propagandisticamente la trave sovietica, invitava a non considerare pagliuzza «quel mondo di condannati a morte da noi» che era Partinico. Le inaudite emergenze che sin dal suo arrivo a Trappeto Dolci si trovò a fronteggiare rendevano palese quanto anche qui fosse necessario «cominciare a sistemare il proprio orto e ad illimpidire il rapporto col prossimo». I crimini staliniani non dovevano servire da paravento per quelli che accadevano qui: il dominio clientelare mafioso in Sicilia era totalitario e violento, il potere centrale era distante e si esprimeva soltanto con la razionalità di prefetti e polizia, dolorose e inaccettabili erano le condizioni di vita della popolazione. E Dolci era lì a «prestare la penna» per documentare l’assurdità e la disperazione della fame e della miseria nella periferia del felice occidente. «Dopo aver letto queste pagine – aveva scritto due anni prima Bobbio nella Prefazione di Banditi a Partinico – ascoltate la risonanza sinistra o ironica che acquistano le parole democrazia, giustizia, legge, diritto» 18 .
La presa di posizione morale di Dolci, espressa in occasione del Premio Lenin, era maturata nell’esperienza con gente resa disperata dalla miseria, che si era riunita e aveva compreso che «giocare da soli» la battaglia contro il dominio era impresa impossibile, che un cambiamento era possibile soltanto vincendo l’atavica diffidenza reciproca e ragionando sui sogni e sui bisogni con lo scopo di realizzarli. Dolci era l’esempio di una cultura che non «predica», ma lavora a predisporre le condizioni per una partecipazione democratica; un esempio singolarissimo: «Vorrei – continuava Bobbio nella già citata Prefazione – che queste pagine fossero lette da tutti coloro che in Italia hanno una cattedra o un pulpito».

Pulpiti, scranni e cattedre

Nel 1957 Dolci aveva già pubblicato per Einaudi Inchiesta a Palermo , uno dei libri cardine della sua attività. A Italo Calvino e al suo intuito editoriale è da attribuire il titolo (che Dolci, tuttavia sentiva come «un po’ poliziesco»). La tradizione dell’inchiesta potrebbe trovare in quel testo un ancor valido modello di riferimento e, per molti versi, in Dolci uno dei suoi più significativi interpreti. Mentre, oggi, c’è la tendenza a confinare Dolci nell’ambito della pubblicistica, della ricerca folklorico-letteraria o del giornalismo sociologico. Si trattava, invece, di una ricerca sociale enorme, portata avanti insieme ad un nutrito e sempre più qualificato gruppo di giovani che erano venuti a conoscerlo ed erano rimasti a collaborare con lui, nella difficile città, in quei vicoli e quartieri che oggi con il loro stesso nome evocano il caso-Palermo: la Kalsa, il Capo, Cortile Cascino, Ballarò. Inchiesta a Palermo era un altro dei libri di Dolci «che portava in mezzo alle cose, a quelle cose che non conoscevamo, o volevamo non conoscere o fingevamo di non conoscere» Un’indagine condotta attraverso l’incontro con la gente dei quartieri, con variabili che necessitavano del coraggio di sapere. L’analisi di Dolci, infatti alle variabili sociodemografiche e agli asettici conteggi degli statistici ufficiali sostituiva ben altri numeri. Da esempio valga la premessa alle storie degli abitanti del quartiere Capo:

A 300 m. a sud-est del teatro Massimo si sono considerate 100 famiglie scelte a caso (…). Strade strette, talvolta fino a m.1,20, in mezzo ad una [strada], vicino a bancarelle di vestiti usati, un bambino nudo evacuava fra le feci un appariscente verme di 25 cm. Case talvolta alte fino a 4 piani. A sera molti pavimenti si ricoprono di materassi, stracci, coperte. Certi, anzi, dormono sul tavolo: e altri sotto (…) 100 famiglie (576 persone) stanno in 80 abitazioni, di complessivi 91 locali. Media delle persone per locale: 6,33. Libretti di povertà: 13. Una famiglia sola ha un vero gabinetto: le altre scaricano da una fogna che spesso s’apre sotto la cucina; 14 hanno l’acqua, ma d’estate quest’acqua padronale tocca alle piante, non ai cristiani. 49 hanno la luce elettrica regolamentare; 2 i pavimenti di terra, 79 pavimenti di piastrelle rotte. 1 di cemento… Le piazze letto sono 223, per ciascuna 2,58 persone 19 .

Un’analisi dall’interno, condotta con le metodologie dell’osservazione partecipante; della narrazione, dei focus group, una ricerca sul campo; un’ampia raccolta delle storie di vita degli «industriali» palermitani, di coloro che per sopravvivere s’industriano: ambulanti, «arriffatori» (organizzatori di lotterie), borseggiatori e loro famiglie 20 .
La ricerca di Dolci era documento sulle condizioni del sotttoproletariato urbano di Palermo. Un documento costruito con le parole di chi viveva quelle oscene condizioni. E l’oscenità c’era tutta in quel libro, non si edulcorava nelle formule del resoconto scientifico. Tanto è vero che per quel libro Dolci venne inquisito per aver scritto quanto vedeva e ascoltava. Queste le parole degli accusatori: «Opera d’arte non è questo libro, perché l’arte si vota al bello, al sublime (…) Non essendo questo libro opera d’arte, non essendo scienza, poiché analizza fatti senza nemmeno una parte assurgente ai concetti universali, la descrizione di fatti malsani va intesa come pornografia e pertanto l’autore va condannato».
In difesa della Sicilia dai suoi diffamatori si ergeva, qualche anno dopo, il cardinale Francesco Ruffini. Ciò che rende urgente l’intervento del prelato è il fatto che Dolci esporta un’immagine della Sicilia contro la quale il cardinale avverte il dovere di mobilitarsi per difendere e diffondere Il vero volto della Sicilia : «Una grave congiura è stata organizzata per disonorare la Sicilia, e tre sono i fattori che maggiormente vi hanno contribuito: la mafia, il Gattopardo e Danilo Dolci» 21 . Della mafia il cardinale, dopo dotte disquisizioni etimologiche e l’apologo della mafia del feudo («squadre di picciotti e poveri agricoltori assoldati per difendere la proprietà»), si limita a registrare la marginalità rispetto alla maggioranza dei siciliani onesti. Giova ricordare che sono gli anni del sacco di Palermo e che di lì a poco i signori Vito Ciancimino e Salvo Lima siederanno sui seggi più alti di Palazzo dei Normanni e Palazzo delle Aquile. Del Gattopardo Ruffini condanna la rilassatezza dei costumi e l’ironia volgare sulle pratiche religiose . Nel paragrafo dedicato a Dolci, Sua Eminenza s’indigna perché «non pochi manovratori della pubblica opinione hanno contratto il pessimo gusto di diffondere a tinte marcate i torti della Sicilia, le colpe e i delitti che vi si commettono». Il cardinale inoltre si stupisce che «questi [Dolci] continua a tenere conferenze in diverse nazioni, facendo credere che qui, nonostante il senso religioso e la presenza di molti sacerdoti, regnino estrema povertà e somma trascuratezza da parte dei pubblici poteri» 22 .
Toni ancor più risentiti si possono leggere nel manifesto che un senatore della Repubblica, Girolamo Messeri, fece affiggere in risposta alle inchieste su mafia e politica di cui Dolci si fece promotore negli anni 60 23 , dopo la sua audizione alla prima Commissione Parlamentare Antimafia. Un saggio dei toni e della consistenza dello scritto di Messeri è dato dalla conclusione: «Mentre lascio alla criminologia e all’entomologia la definizione scientifica del caso di codesto sciagurato (…) aggiungo come sia disgustoso vedere tornare continuamente alla ribalta questo mostruoso pagliaccio che la risacca del dopoguerra ha sospinto nella mia Sicilia che egli ha diffamato e diffama particolarmente all’estero, come terra di banditi e di miserabili». La difesa che Messeri mette in atto nel suo manifesto, ricalca i topoi della tradizione mafiosa: egli nega sdegnato, lamentando il complotto comunista, diffama (il manifesto trabocca di insulti ad ogni rigo), minimizza i documenti e le prove di una sua intima amicizia con Frank Coppola («letterine», difficili da smentire nel merito). Infine nel più classico degli stili mafiosi «avverte» la sua vittima, ricordando «quanto viva sia la protesta di ogni strato della popolazione contro il vomito purulento delle contumelie del Dolci, di questo abietto magnaccia delle miserie siciliane, che va additato al disprezzo della Nazione».
Dai testi d’epoca balzano evidenti i segni dell’irritazione, la rabbia e l’arroganza di chi è stato disturbato da un versante inaspettato, incontrollabile. Così Dolci rievocava quella stagione d’inchieste:

Quando mi hanno invitato alla Commissione Antimafia, durante la riunione plenaria mi hanno chiesto di dire ciò che sapevo. Io che non avevo nessuna intenzione di tacere, chiudendo gli occhi, ho detto alcune cose che vedevo e mi sono riservato di documentarle. Tornato a Partinico, con l’aiuto di molti amici dei Comuni del circondario, ho cominciato a raccogliere documenti e a scrivere. Mi interessava perché era un’occasione per conoscere meglio ciò che accadeva a Partinico (Conversazione con Dolci, Partinico, 26 settembre 1988).

In un periodo in cui la parola mafia era tabù linguistico, quando ancora nessuno osava alludere ad un Terzo livello di intimità tra mafia e politica, le inchieste di Dolci si rivolgevano già ai nessi tra il sistema politico clientelare e l’organizzazione mafiosa . In una società compressa da una crosta di accomodante scetticismo, insofferente nei confronti della mera descrizione di ciò che continuava ad accadere, ogni intervento di Dolci suscitava le più scomposte ire dei potenti. A ricostruire la storia di Dolci giunsero prima le veline della polizia e i provvedimenti della magistratura: provocatore, agitatore politico di professione, sovversivo, forse comunista (dopo il premio Lenin il sospetto era ormai inoppugnabile), individuo dalle spiccate tendenze a delinquere. Dolci non era certamente un personaggio comodo per i commissari di polizia. Arturo Carlo Jemolo, in una lettera ad un’alta autorità, diceva: «Certo sarà noioso per l’autorità costituita, ma pensa quanto lo saranno stati al loro tempo San Francesco o San Bernardino da Siena» 24 . Aldous Huxley lo definiva «il santo ideale del XX secolo» , ma lasciando stare i santi, è meglio parlare di uomini, di cittadini del mondo, che nonostante le minacce, la galera e le umiliazioni, impegnano la vita mettendo a disposizione gli strumenti di cui dispongono per valori, progetti, utopie, sogni. « Io ho prestato la mia penna perchè la voce della gente che era strozzata e non riusciva ad esprimersi, si esprimesse. In quegli anni scrivevo libri in cui è la gente ad esprimersi. Per me, far parlare la gente, avviare la costruzione di una diga, era la poesia che cercavo di articolare e far esistere» (Conversazione cit.).
Strano destino, quello di Dolci: inviso ai cattolici e ai moderati perché «rivoluzionario» e sicuramente comunista, sospetto anche per la sinistra. In qualche modo anche Capitini si era posto questo problema quando scriveva a Dolci: «Vediamo chi ci capirà meglio se laici o comunisti». Le pagine che Alberto Asor Rosa dedicò a Dolci quasi cinquanta anni fa (1966) e che nel 1988 lo stesso ripubblica intatte, offrono un saggio degli schematismi e dei pregiudizi che la cultura della sinistra ebbe a manifestare nei suoi confronti. La diffidenza di Asor Rosa deriva «dall’individualismo delle sue iniziative, che sempre tenevano conto solo in parte di forze organizzate come i partiti o i sindacati (…) ai quali doveva andare, in un atteggiamento politico maturo, la direzione delle lotte e la loro utilizzazione» Quasi una laica scomunica tesa a collocare la figura di Dolci al di fuori di «un atteggiamento politico maturo», che, per definizione, è esclusivo patrimonio delle organizzazioni politiche. Un atteggiamento censorio che bolla, etichetta e, frettolosamente, archivia: «missionariato laico» di «un esteta» 25.
Emerge in questo atteggiamento della sinistra del tempo la diffidenza per la ricerca di modi nuovi dell’agire politico. Questa insofferenza ha a che fare con l’odierna impasse dei movimenti e delle organizzazioni della sinistra. Il giudizio sull’individualismo di Dolci andrebbe approfondito:

Onestamente devo dire che all’inizio ero solo, e per parecchio tempo c’è stato il rischio di costruire su una frana. Si capisce che se mi mettono in galera c’è un mondo che reagisce. Ma io non cercavo il “ rumore ” , io lavoravo perché le cose funzionassero. C’è stato un momento in cui si puntava soprattutto su di me, e, devo riconoscerlo, si poteva, allora, equivocare. Quando però i contadini hanno iniziato a dire che non era giusto che solo Danilo digiunasse, che ci volevano mille persone a farlo e non una, allora è stato il vero inizio (Conversazione con Dolci, Partinico, 26 settembre 1988).

Il ritardo 26 e le connivenze di alcune organizzazioni tradizionali non viene neppure immaginato:

Mi sono spesso trovato in una posizione difficile: pur non volendo interrompere le relazioni politiche, io volevo porre le basi per un movimento politicamente più profondo. Ne ho parlato con Di Vittorio, Li Causi, Pio La Torre. Ma io non volevo fare l’uomo di partito. La sinistra è intervenuta solo dopo, solo quando ha capito, ad esempio, che la diga voleva dire lavoro (Conversazione cit.).
Oggi le certezze di Asor Rosa sono in crisi, cancellate dallo stesso percorso che la sinistra deve compiere per essere all’altezza dei tempi. Il confronto con l’esperienza di Dolci evidenzia che i metodi, i contenuti e l’orizzonte tematico dolciano fanno parte del rimosso della storia della sinistra italiana. La messa in parentesi di ciò che negli anni 50-60 accadeva a Partinico 27 è intrecciata con i nodi della sinistra e con l’esaurimento delle energie utopiche e di ogni istanza di emancipazione sociale. La crisi della sinistra ha qualche conto in sospeso con una concezione strumentale delle lotte sociali, con l’idea di una transizione meccanica verso forme umane di convivenza, con la certezza che il movimento delle forze produttive avrebbe generato il cambiamento.
Oggi è pressante il quesito riguardante le energie umane e i soggetti del cambiamento. La sottovalutazione del fattore soggettivo è parte integrante del ritardo delle organizzazioni di sinistra nell’articolazione di una teoria della liberazione adatta al nostro tempo. Nell’azione di Dolci, costante è il rifiuto della politica d’apparato, della concezione per cui solo le organizzazioni hanno coscienza. Le vecchie e le nuove energie sono spesso tarpate dai modi d’organizzazione tipici delle organizzazioni tradizionali. Le analisi e la pratica di Dolci si misurano sin dagli anni 50 con le condizioni comunicative e di coordinamento che agevolano la maturazione di una coscienza critica, ricercano le «domande», le «leve» che smuovono le situazioni ingiuste, sciogliendo in processi di riflessione collettiva il fatalismo e l’accettazione del sempre-uguale. La critica, per Dolci, trova senso solo se si concretizza in un laboratorio in cui si sperimenta una diversa realtà di rapporti fra gli uomini, piuttosto che evocarli: «La denuncia rimane debole (…) Invece costruiamo la nostra libertà, sapendo quanto diciamo e facciamo». 28 . Il cambiamento, per Dolci, è figlio di una coscienza individuale concreta (che cresce insieme al contesto di cui è parte), che si «illimpidisce» nel processo di comunicazione con gli altri. «Questa gente è stancamente sfiduciata di chi pretende trasfondersi negli altri (sia pur pretendendo liberarli), sanamente disgustata per chi vorrebbe “ goderla ” e indottrinarla, insegnandole a campare». A Partinico forse c’era il metodo, il «come». Non c’era la semplice rivolta («la sassata a una testa di sbirro» o «incendiare il municipio o le carte al catasto» 29 ), ma cerchi di persone che parlavano guardandosi in volto, c’era «il maturare corresponsabile», «l’illimpidimento» delle coscienze che provano a liberarsi dal dominio.
E a Partinico andarono in tanti in quegli anni: andava Lamberto Borghi a fare l’Università popolare con pescatori e contadini e andava Ernesto Treccani a tenere laboratori di pittura; ci andò Bruno Zevi con il plastico della diga; anche Erich Fromm, Johan Galtung, Paulo Freire vennero a consulto intorno al tavolo con Dolci per discutere di centri educativi e di pianificazione organica. Come si è scritto sopra in molti sostenevano, scrivevano, lavoravano politicamente: Bobbio, Capitini, Levi, Vittorini, Silone, Jemolo, Calamandrei, Lombardo Radice, Di Vittorio, Sylos Labini, Ferruccio Parri, Girolamo Li Causi. A Partinico andarono poi Goffredo Fofi e Negri insospettito dal missionariato laico. «Rivoluzionario di professione, con spiccata tendenza a delinquere» (così le veline della polizia del tempo) Dolci insegnava, nelle terre di Giuliano e Coppola, che la parola banditi significa essere esclusi, messi fuori. E per i banditi e la fame dei loro figli Dolci digiunando invocava di «fare presto e bene perché si muore». Da tutto il mondo arrivarono reduci di rivolte mancate («quando ti agiti invano») e di rivolte tradite («quando la sostanza dei rapporti rimane come prima»). Molti pensavano che la Resistenza non era conclusa, che la Costituzione, dopo essere stata scritta, andasse realizzata.
Ci fu personalizzazione, se i giornali fino alla morte hanno continuato ad appellarlo il «Gandhi di Sicilia».
A Partinico, però, sorgeva l’acqua democratica, la scuola sperimentale, il Centro finanziato con il denaro sovietico, scandalosamente accettato. Si facevano inchieste su mafia e politica, le riunioni con contadini e pescatori; c’erano la nonviolenza, le cooperative.
Se si andava Dolci raccontava: «Abbiamo iniziato riunendoci in gruppi per cercare di comprendere. Ignorante del Sud, ponevo domande. Abbiamo compreso che non era vero che questa zona doveva essere cronicamente disperata».
Se andavi negli anni del nucleare Dolci ti mostrava una bottiglia «disformata» ad Hiroshima o ti regalava Il sogno di un uomo ridicolo o leggeva ad alta voce Gorbaciov e il suo elogio della nonviolenza. E ammiccava: come a dire «anche questo è stato possibile». E dopo ancora narrava la strategia della zecca con le sue vittime o il proteico mutare dei virus, metafora della capacità del dominio di mutare se stesso.
A Partinico si lavorava al mondo nuovo senza timore d’impotenza. «Fare in modo che chi non ha potere abbia potere, che abbia voce chi non ne ha». Sullo sfondo una teoria della nonviolenza conoscitiva e comunicativa.
Oggi a Partinico il Centro è devastato da vandali. Lì come ovunque la mafia va «a braccetto» con la politica e pochi si scandalizzano. E Dolci è esoterica occasione di citazioni convegnistiche di relatori o di presentatori televisivi (da Santoro a Saviano). Certamente anche Dolci si sarebbe compiaciuto per questi quarti d’ora di notorietà, ma il giorno dopo li avrebbe convocati per una riunione; sarebbe lui stesso andato a «vedere». Faceva sempre sul serio, in ogni momento della sua vita ha sempre portato avanti il fronte.
Con Dolci è la vicenda italiana della nonviolenza che chiede di essere elaborata, sono i «rimorsi» di un passato che appare anacronistico e che torna a «mordere».

Perplessi, persuasi e concreti

I libri di Dolci, tramite i quali il laboratorio di Partinico informava l’opinione pubblica italiana, erano stati dapprima la registrazione delle urla dei bisogni e della miseria, gli appelli. Erano poi divenuti le ricerche socio-economiche su ipotesi di «piena occupazione», i piani di sviluppo organico del territorio, le inchieste sul malcostume politico-mafioso. Ricerche e progetti che muovevano la gente di Partinico e richiamavano in questo lontano angolo di Sicilia un nutrito numero di personalità della cultura interessata al cambiamento. 30 .
«Egli ha fatto quello che nessuno di noi aveva saputo fare – aveva detto Piero Calamandrei difendendo Dolci davanti al Tribunale di Palermo – Qui e fuori di qui siamo in molti a pensare e a ripetere che la cultura se vuole essere viva e operosa non deve appartarsi dalle vicende sociali (…) Tutto questo lo diciamo e lo scriviamo da decenni. Siamo pronti a dire parole giuste, ma tra noi e la gente resta, per quanto ci sforziamo, come uno schermo invisibile che ci rende difficile la comunicazione immediata… Per Danilo no» 31 .
Dolci poneva continuità tra le lotte dei contadini di Partinico e gli ideali della lotta di liberazione dal fascismo. «Il digiuno dei mille e l’azione della trazzera – scrive dal carcere ad alcuni amici romani – sono uno dei segni che il mondo della Resistenza è ancora in lotta, questa volta senza sparare, per liberare l’Italia dal secondo fascismo» 32 . La Resistenza a Partinico non era finita, la democrazia era ancora da conquistare, la Costituzione andava inverata. Il «mondo dei condannati a morte da noi» confermava questa diagnosi. Da questo lavoro su sogni e bisogni nascevano una diga sullo Jato che, democratizzando la proprietà dell’acqua, mirava a svuotare di potere il gruppo clientelare mafioso della zona proprietario dei pozzi, una scuola statale sperimentale 33 , un centro per la formazione e l’educazione allo sviluppo (quello di cui si parla nel comunicato per la Pravda ).
«Non è possibile pietrificare la gente al proprio passato. Ognuno, persona o struttura, può cambiare, evolversi». Queste parole Dolci annotava a margine della lettera di Silone, riferendosi, interpreto, sia alla situazione in cui in Sicilia si era trovato a lavorare, sia alla situazione dell’Unione Sovietica di quegli anni. Queste parole, lette alla luce dei recenti e continui cambiamenti realizzatisi in entrambe le realtà, appaiono ancor più sorprendenti. L’U.R.S.S. oggi non esiste più , ma la mafia è anche russa ed è strettamente collusa con la leadership dominante in Russia e anche in Italia. Nella Sicilia «irredimibile» gli arcivescovi non onorano più i boss di Cosa Nostra, né questi ultimi sono a capo delle città. Ma…. E il Centro costruito col denaro comunista è devastato dai vandali e le armate cosacche non vi hanno bivaccato prima di invadere Piazza San Pietro.
E la prospettiva del presente da cui pretendiamo di valutare la Storia è sempre riduttiva, addirittura angusta , ma non impedisce di aprirci e di aprire in noi altre prospettive.
Accettare il premio Lenin nel 1957 significava aprire un contesto di dialogo nuovo, compiere in piena guerra fredda un gesto che trascendeva il presente. Non era un’azione contro qualcosa né a favore, ma un gesto coniugato a un’idea di futuro che è già nelle nostre mani. Dolci ebbe a parlare di «inizio di pace», di un’azione personale «creativa», che senza illusioni ma con determinazione provava a generare altre reazioni a catena: «Inizio di pace è capire che niente si improvvisa, che questa pace non si realizzerà un bel momento, di colpo, per una specie di magia tra un blocco e l’altro; ma che ci si può avvicinare, sempre più con fatica di perfezione» 34 . Sembra quasi che Dolci ritenga che la visione , la tensione verso un obiettivo determini di per sé un processo, il senso della direzione, l’ipotesi da verificare, una dinamica essenziale ogni giorno per ognuno di noi.
Al richiamo di Silone a tener presente il punto di vista dell’efficacia infatti Dolci risponde: «Aver fiducia negli altri è efficace». Ed era un sapere sperimentato. Sotto accusa era l’utopismo di chi pretende di concepire un proprio gesto come «inizio di pace» . Ma l’utopia di Dolci aveva già trovato il luogo dove essere agita, dove insistere. Prima Partinico poi il pianeta.
«Io mi permetto di ritenere ingenuo “ lo svelto ” , “ il furbo ” , il cosiddetto “ politico ” che ostenta superiorità e disprezzo verso i principi essenziali della morale» 35
Accettare il Premio Lenin per Dolci era una possibilità di scavalcare i comodi schematismi che riproducevano il ripetersi sterile della contrapposizione, il grandioso gioco di specchi. «La realtà è complessa – dichiarava nel suo discorso di accettazione del Premio – Gli uomini da tempo in tempo hanno cercato di capire e semplificare. Sono arrivati a delle sintesi che hanno chiamato per esempio cristianesimo, liberalismo, gandhismo, socialismo. Ciascun gruppo, nel suo tempo, riesce a conquistare una briciola, certe volte, una parte della verità. Per questo è indispensabile un’apertura degli uni verso gli altri, per partecipare dei valori conquistati dagli altri» 36 (Discorso cit., Archivio Dolci).
L’anticomunismo egemone esigeva il grande rifiuto. Dolci aveva invece accettato un dialogo con il nemico, ma al nemico in guerra si può chiedere soltanto la resa incondizionata o che si presenti al cospetto dei giusti con il capo cosparso di cenere. Per condividere la condotta di Dolci bisognava essere «studiosi di ciò che non c’è ancora». Persuasi e non perplessi, secondo la celebre distinzione con la quale Bobbio segnalava la differenza tra la sua prospettiva e quella di Capitini. Ma «i perplessi restano perplessi (…) e la storia di orrori e di follie continua a svolgersi sotto i loro occhi di spettatori impotenti» 37 .

Nota sulle fonti

I documenti, le lettere, il manifesto di Messeri donatimi in copia da Dolci, immagino siano custoditi presso l’archivio del Centro a Partinico. Quando già pubblicati ne ho dato notizia in nota.
Delle conversazioni citate conservo registrazioni.
Su Dolci e sulle vicende del Premio Lenin avevo già pubblicato più di vent’anni orsono. L’ideologia del nemico , in Segno, Palermo, 118, 1990.
Avevo tentato una ricerca sui presupposti teorici del pensiero di Dolci inquadrando il suo lavoro in una Teoria Critica finalmente con/creta, non mirante a salvare se stessa o il critico, ma mossa dall’interesse all’emancipazione in Una con/creta Teoria Critica pubblicato in Agora, III, n 9-10.
Rimango affettivamente legato al resoconto del primo incontro con Dolci pubblicato in Segno: Intervista a Danilo Dolci. Mi interessa vedere se il mondo sopravvive in Segno n. 100, 1986 poi ripubblicata in Libero Cantiere, maggio 1998. Poi un breve ricordo: Danilo Dolci, in alto verso il mare , in Segno , 202, 1999.

Note

1 Per una bibliografia di e su Danilo Dolci si vedano: A. Mangano, Danilo Dolci Educatore , Edizioni Cultura della Pace, Firenze 1992; T. Raia, Nota Biografica e Bibliografia , in Scuola e città , 3, 1998, pp. 124 e 129-130. F. Barone, La forza della nonviolenza . Bibliografia e profilo biografico di Danilo Dolci , Libreria Dante & Descartes, Napoli 2000 . Per una ricostruzione sintetica delle attività di Danilo Dolci e del Centro studi e iniziative di Partinico si veda F. Alasia, Cronologia essenziale ’52-’89 , in Scuola e città , 3, 1998, pp. 125-128.
2 Una posizione che mi pare esattamente collimi con quella che Foucault descriverà nelle sue Lezioni come parresia. Parresiasta è «colui che dice tutto… non ingiuria, né minaccia ma urla» … «dice quello che pensa e si lega a tale verità». Non è un profeta «egli parla per sé» e non predice il futuro ma «dice anche ciò che gli uomini [ancora?] non vedono». «È in questo gioco tra essere umano e la sua radicata cecità in una disattenzione, una compiacenza, una viltà, una distrazione morale che il parresiasta esercita il suo ruolo.» Passim da M. Foucault Lezione del 1-2-1994. Si veda M. Foucalt Discorso e verità, Donzelli, Roma 1996, pp. 7-11. Parlo di posizione etica perché non essendo prescrittiva lascia all’interlocutore ancora qualcosa da fare. Coraggiosamente Dolci «giocò da solo» la partita del Premio Lenin perché molti non si assunsero il rischio di ciò che egli diceva e faceva. Chi gioca solo…
3 P. Calamandrei, In difesa di Danilo Dolci , in Quaderni di Nuova Repubblica , 4, 1956 , p. 13.
4 Il premio Lenin per il consolidamento della pace tra i popoli era la risposta dell’Unione Sovietica ai Premi Nobel per la pace. Proprio nel 1957 il Premio era stato ribattezzato da Khrushchev nel corso del XX congresso del P.C.U.S. (non più Premio Stalin ma Premio Lenin per la pace). Venne assegnato fino al 1990. Oltre a Dolci gli altri italiani insigniti dall’Urss furono: Pietro Nenni (premiato da Stalin nel 1951), Andrea Gaggero(1953), lo scultore Giacomo Manzù (1965), Renato Guttuso (1970). A testimonianza del prestigio internazionale del riconoscimento valgano, tra gli altri, i nomi dei seguenti premiati: Jorge Amado (1951), Pablo Neruda (1952), Bertold Brecht (1954), Fidel Castro (1961), Pablo Picasso (1962), Dolores Ibarruri (1964), Salvador Allende (1973), Angela Davis (1977). L’ultima edizione del Premio fu assegnata a Nelson Mandela mentre questi era ancora in carcere e fu ritirato nel 2002.
5 Paolo Bufalini dal ‘51 al ‘57 è vice di Girolamo Li Causi nella direzione del P.C.I in Sicilia. Viene delegato dalla Direzione nazionale insieme a Togliatti a partecipare al XX congresso del PCUS (quello del rapporto segreto e in cui si istituisce il Premio Lenin).
6 Il non sospetto William Fullbright, mentre era presidente del Comitato per la politica estera del Congresso americano, ebbe a dichiarare: «L’America non seppe cogliere l’occasione storica offertaci da Khrushchev. Se lo avessimo capito e aiutato (…) il mondo non avrebbe sprecato venti anni» cit in P. Garimberti Sindrome Krusciov in La Repubblica del 2-11-1989.
7 Discorso di Palermo, Archivio Dolci; il testo è, anche, in G. Spagnoletti, Conversazioni con Danilo Dolci , Mondadori, Milano 1977.
8 D. Dolci, Processo all’art.4 , , Einaudi, Torino 1956.
9 Lettera di Gigliola Venturi del 19-1-58 – Archivio Dolci.
10 Lettera di Ebe Flamini a Gigliola Venturi – Archivio Dolci.
11 Gigliola Venturi a Dolci, 19 –1- 1958 Archivio Dolci. Suscita qualche amarezza leggere l’elogio dell’intellettuale come «mediatore» successivamente fatto da Bobbio. Le sue parole involontariamente descrivono l’atteggiamento assunto da Dolci. Così Bobbio: il contrasto tra le due potenze vincitrici, Stati Uniti e Unione Sovietica, «mi aveva indotto a ritenere che compito politico specifico dell’intellettuale fosse quello di ristabilire la fiducia nel dialogo, e che a questo scopo non ci si dovesse schierare né da una parte né dall’altra, ma fosse necessario porsi in mezzo ai due contendenti per fare opera di mediazione, con l’ambizioso proposito di superare i contrasti mediante argomenti persuasivi» ( N. Bobbio, L’impegno dell’intellettuale ieri ed oggi , in Rivista di Filosofia , n.1, 1997 ,p. 17).
12 Le lettere di Capitini a Dolci sono citate da «Il Ponte», XXV, 10, 1969, pp. 1241-1278 a cura di F . Alasia in occasione del primo anniversario della morte di Capitini ed ora sono in A. Capitini – D. Dolci, Lettere 1952-1968 , a cura di G. Barone e S. Mazzi, Carocci, Roma 2008, pp. 122-125.
13 Cfr. Lettera di Capitini del 12-1-1958 in Il Ponte, n. 10, ottobre 1969, p. 1246
14 Cfr Lettera del 19-2-1959, in cui Capitini gli recapita una copia della lettera inviata a Silone, in Il Ponte , n.10, ottobre 1969, pp. 1248-1249.
15 C. Rossi, Personaggi di ieri e di oggi , Ceschina,, Milano 1960 p.407-408.
16 Lettera di Capitini del 12 gennaio ’58, in Il Ponte, n.10, ottobre 1969, p. 1246.
17 G. Spagnoletti, Conversazioni con Danilo Dolci , , Mondadori, Milano 1977 , pp. 75-76 nota.
18 N. Bobbio, Prefazione a D. Dolci , Banditi a Partinico , Laterza, Bari 1955 .
19 D. Dolci, Inchiesta a Palermo , Einaudi, Torino 1957 , p. 61.
20 Il miglior contributo all’analisi della metodologia di ricerca di Dolci è in Paolo Varvaro, Ritratti critici di contemporanei. Danilo Dolci, in Belfagor, n. 2, marzo 1995 pp. 161-182.
21 S.E. Card. F. Ruffini, Il vero volto della Sicilia, Lettera pastorale, Domenica delle Palme 1964, p. 3.
22 Ivi, p. 8.
23 Su questo si veda D. Dolci, Chi gioca solo , Einaudi, Torino 1967.
24 P. Calamandrei, In difesa di Danilo Dolci , cit. , p.13.
25 A. Asor Rosa , Scrittori e popolo. Analisi del populismo nella letteratura italiana contemporanea , Einaudi, Torino 1966 , p. 196.
26 Su questo si veda anche G. Spagnoletti, Conversazioni con Danilo Dolci, cit, p. 72.
27 A Partinico e in molti altri luoghi del nostro Paese: si pensi a Don Milani, a Mario Lodi allo stesso Capitini, ai tanti altri «minoritari» e utopisti che dal dopoguerra in poi operarono con l’intenzione di rendere migliore il Paese che si andava ricostruendo.
28 D. Dolci, Dal trasmettere del dominio al comunicare della struttura creativa , Torino, Sonda, 1988, p. 8 .
29 D. Dolci Creatura di Creature, Armando, Roma 1986, p. 30.
30 A scorrere l’elenco di coloro che direttamente parteciparono alle iniziative, e di coloro che in un modo o nell’altro furono vicini e solidali con il lavoro di Dolci in quegli anni si scopre un inedito filone della cultura italiana e internazionale, indipendente dai tradizionali schieramenti. Oltre ai già citati, vicini a Dolci troviamo Paolo Sylos Labini, Carlo Levi, Lucio Lombardo Radice, Ferruccio Parri, Giuseppe Di Vittorio. A livello internazionale coinvolti e solidali con Dolci oltre al gruppo francese della rivista Esprit e l’Abbé Pierre, dall’archivio Dolci emergono i nomi di Bogdan Suchodolscki, Otto Klinenberg, André Trocmé, Jean Paul Sartre, Aldous Huxley, Lewis Mumford, Noam Chomsky, Edgar Morin, Daniel Berrigan, Jacques Voneche.
31 P. Calamandrei, In difesa di Danilo Dolci , cit. p. 7.
32 D.Dolci Lettera in Vie nuove , XI, , 12 febbraio 1956, p.7.
33 S u questo si vedano: D.Dolci, Chissà se i pesci piangono , Einaudi, Torino 1973; Id., Il ponte screpolato, Stampatori, Torino 1979.
34 Discorso di Palermo, 16 gennaio 1958 Archivio Dolci.
35 Ibidem.
36 Ibidem.
37 N. Bobbio, Maestri e compagni , Passigli, Firenze 1984, p . 294.




Come citare questo testo:


S. Raia, Danilo Dolci, il premio Lenin e altre storie, in Educazione Democratica, n. 2/2011, pp. 124-148.

I DOLCI SICILIANI RACCONTATI DA PIPPO ODDO


           Questa è la seconda parte di un racconto iniziato la settimana scorsa:

  Giuseppe Oddo, Dolci e dolcezze di Sicilia          

Pochi sanno che i dolci in Sicilia scandiscono l’intero calendario festivo, dall’alba del Capodanno alla notte di san Silvestro. Capu d’annu e capu di misi, unni su misi li cucciddata? Sunnu misi ‘nta lu panaru: datini unu a lu scarparu. (Capo d’anno e inizio di mese, i buccellati dove sono messi? Sono messi nel paniere: datene uno al calzolaio). Così recitano il primo mattino dell’anno i bambini di Montemaggiore Belsito, anche se nessun calzolaio fa più il giro dei clienti (parrucciani) in cerca di dolciumi. Ma tutte le feste religiose sono caratterizzate da dolci tipici in Sicilia. Festa in chiesa e festa in cucina, vuole un vecchio adagio. Anzi, come scriveva nel 1882 Enrico Onufrio, spesso «la religione è un pretesto, un santo pretesto che serve a salvare le apparenze; ma lo scopo vero, ultimo, reale è quello di far baldoria, di gozzovigliare. Ne volete un esempio? Non c’è festa religiosa in Palermo, che non abbia il suo manicaretto, il suo dolciume occasionale».
Fatima Giallombardo nota invece che la festa «scandisce le fasi del calendario: essa è cioè legata all'organizzazione sociale del tempo. È il mezzo con cui le popolazioni affidano quasi per intero la loro sopravvivenza all'ordinato svolgersi dei cicli naturali, fanno regolarmente ricorso per risolvere gli stati d'incertezza vitale ed esistenziale. Il momento rituale ripropone sul piano mitico le proprietà di abbondanza e pienezza di vita che, attraverso un processo di definizione formale, conferiscono a chi vi partecipa stati di certezza e di sicurezza. Ambiente, tempo, società nei rituali festivi risultano dunque correlati. È perciò possibile, in riferimento alla festa, parlare di scansione sociale del tempo non solo perché essa ripropone a livello mitico-rituale la sicurezza vitale del gruppo, ma anche perché questo, attraverso la socializzazione rituale, assume consapevolezza di essere nel tempo, ritrovando gli stessi giorni, il ripetersi degli stessi cicli e degli stessi fenomeni di morte e rinascita della natura».
Se questo è il significato più profondo della festa, non può sorprendere il fatto che a creare l'atmosfera del lungo e complesso iter celebrativo della Settimana Santa nell'Isola siano certi dolci tipici che contribuiscono a presentare in una dimensione metastorica non solo la morte e la resurrezione di Gesù Cristo ma anche l'eterna trepidazione contadina per la sorte delle sementi affidate alla terra, da cui in definitiva dipende la sopravvivenza della specie umana. «La settimana santa – sono parole di Antonino Buttitta – assicura la rigenerazione periodica dell'anno attraverso la rappresentazione simbolica delle fasi conclusive del mito del dio salvatore. La pasqua è la morte e la rinascita di Dio, ma anche la rinascita della natura, la nostra rinascita a nuova vita liberati da tutti i peccati».
I dolci pasquali, divenuti ormai in molti comuni capolavori di pasticceria tipica, erano un tempo pani. Le innovazioni non riescono del resto a nascondere le differenti stratificazioni culturali e gli originari significati. «Così, al simbolismo originario della Pasqua come rito di rinascita della natura si riconnettono i dolci che contengono l'uovo, elemento centrale delle rappresentazioni cosmogoniche; alla sua matrice semitica sono da riportare invece quelli che raffigurano l'agnello, mentre all'iconografia cristiana sembrano rinviare i dolci a forma di colomba». A parte le uova al cioccolato e le colombe pasquali prodotte industrialmente, tipici dolci pasquali sono da noi la cassata siciliana (ormai conosciuta in tutto il mondo), le cassatine con la ricotta, fritte o al forno, i biscotti con l'uovo che nel Palermitano si chiamano pupi cull'ova, e i picureddi, «pecorelle di pasta reale, la cui posa è divenuta ormai un classico: sdraiate sopra un prato verde disseminato di confetti multicolori, con una banderuola rossa, simile a quella che nell'iconografia sacra è in mano a San Giovanni, infilzata sul dorso».
Ciascuna di queste specialità pasquali richiederebbe più di una considerazione aggiuntiva che mal si concilia con l'economia di questa riflessione. Mi limito perciò a spendere poche parole per i cosiddetti pupi cull'ova. Nel presentarli al vasto pubblico della Mostra Etnografica del 1891-92, Giuseppe Pitrè volle precisare: «Diconsi pupi cull’ova certi pani e certe paste dolci di proporzioni diverse, e con forma di bambola, di pupattola, di prete, di mostro, o d'altro, sopra od entro le quali forme sono delle uova sode». Sull'argomento Giovanni Ruffino ha pubblicato un saggio di geografia linguistica ed etnografica con un interessante corredo iconografico che presenta ben dodici aree di produzione, «ciascuna delle quali si caratterizza per un tipo lessicale prevalente» e «una dozzina ancora di aree isolate, prive di consistenza territoriale». Si passa dal campanaru al cannatuni, al cannateddu, al cicìu, al cicilìu, al pupu cull'ovu, al cannileri, al panareddu, all’aceddu, ai varati, alla caddura cull'ova, alla palummedda. Da altre fonti sappiamo che a Bisacquino si preparano dolci con le uova a forma di seno femminile detti minneddi.
Con un’indagine sul campo io stesso ho potuto accertare che i dolci pasquali della Valle del Torto e del Feudi con uno o più uova hanno nomi diversi in rapporto al luogo e alla forma: pupu cu l’ovu, nella maggior parte dei paesi, panareddu o pupu cu l’ovu a Castronovo, aceddu cu l’ovu o pani a cena a Valledolmo e Aliminusa, pupu cu l’ovu o panaccena a Caccamo. La presenza di più tipi mostra nel caso di Castronovo l’influenza della cultura agrigentina, in quello di Valledolmo e Aliminusa risente della vicinanza delle Madonie. Un discorso a parte merita il caso di Caccamo dove, con ogni probabilità, la differenza non è solo nominalistica ma tipologica; se così fosse, il nome più arcaico dovrebbe essere panaccena: il che confermerebbe la tesi di Giovanni Ruffino, il quale sostiene che l’evoluzione dei pani di Pasqua in dolci si caratterizzi quasi sempre per l’aggiunta della glassa e di granuli di zucchero variopinti (diavolina o diavulicchi).
Interessantissimi sono i riti (rispolverati dal saggio di Ruffino) che un tempo accompagnavano il consumo di questi dolci. A San Biagio Platani il fidanzato (zitu) donava alla zita un cannileri con dieci uova. Nei quartieri marinari di Sciacca il dolce destinato alla fidanzata ne conteneva ben ventuno. Nelle famiglie contadine della stessa città «la zita usciva di casa a mezzogiorno del sabato santo per recarsi a casa del futuro sposo, al quale faceva dono di un cannileri con nove uova, mentre ne riservava uno con quattro al suocero e con due alla suocera». Comunque chiamati, in tutta la Sicilia i dolci con le uova si mangiavano solo dopo la Resurrezione. A Sant'Agata Militello, prima di addentare i pasturi, il membro più anziano della famiglia bruciava un po' d'incenso e benediceva i familiari. A Favignana il campanaru si mangiava dopo aver baciato per terra. A Centuripe, ma anche altrove, il dolce equivalente si consumava in chiesa dopo la caduta della tela e la scampanata a gloria. A Montelepre c'era la stessa usanza ma i fedeli ripetevano anche la formula di rito: A gloria sunàu;/ cannateddu si spizzàu;/ e si fìci a mmostra a mmostra,/ cannateddu senza ossa.
Quanto ai dolci del periodo natalizio, oltre a quelli al miele, nell’Isola se ne preparano altri che in origine erano pani con frutta secca (fichi, mandorle, uva passa, noci, ecc.). I nomi variano da comune a comune (cucciddata, gucciddata, vucciddata, ucciddati, peddizzati, luni, ecc.). In alcuni paesi questi dolci vengono messi in mostra, accanto al Presepio, in apposite sagre del periodo natalizio. Vale la pena di ricordare che nelle famiglie che abitavano in una casa con due ambienti disposti su altrettanti piani, di cui quello superiore adibito a stanza da letto (camera), era qui che si apparecchiava eccezionalmente la tavola in occasione delle feste di fine d’anno, non già a pianterreno dove, oltre alle galline, erano alloggiati l’asino, la capra e il cane che non odoravano certo di lavanda. Le pietanze erano per l’occasione succulente: pasta ‘ncasciata o al ragù di maiale, bruciuluni ri carni grossa e baccalà â ghiotta. Sfinci, cuddureddi e cosi ri Natali ce n’erano a profusione.
Nella sola Lercara Friddi la nascita del Divino Bambinello era salutata dai famosi pantofuli (buccellati particolari con farcia di mandorla e frutta candita) ma anche da altri dolci tipici: i mastazzoli e i cucciddati, che in fin dei conti sono sempre paste dolci impastate con lo strutto, ripiene di fichi secchi tritati, uva passa, cannella, zucchero e, talvolta, anche noci, mandorle, buccia d’arancia. A fare la differenza è la forma. Lu cucciddatu è rotondo, la mastazzola viene modellata a bastoncino. Indipendentemente dal nome, questi biscotti tipici possono essere anche ricoperti di glassa e grani di zucchero colorato. A Roccapalumba nello stesso periodo si preparano ancora ai nostri giorni i ucciddata, i turtigghiuna, i mastazzuoli, che in fin dei conti sono sempre buccellati.
La tipologia più arcaica in tutta la Sicilia è rappresentata sicuramente dai cucciddati ri ficu, che erano originariamente dei pani con un semplice ripieno di fichi tritati. La loro evoluzione in dolce è stata lenta e socialmente squilibrata. Ancora alla vigilia dell’ultimo conflitto mondiale a Ciminna le famiglie povere facevano i purciddati «con farina comune, olio, fichi secchi, mandorle, noci pestate e uva passa». Era inoltre usanza dello stesso comune assistere alla messa di Natale con le tasche piene di buccellati e «qualche sciaschiteddu di vino», che passava di bocca in bocca, tra un canto natalizio e l’altro. A Castronovo di Sicilia, i fedeli invitavano idealmente al rinfresco in chiesa anche la Sacra Famiglia cantando in coro: «Bammineddu duci duci, iu ti portu li me nuci, / ti li scacci e ti li manci, accussì di certu un chianci./ Bammineddu, duci amatu, ti portu lu vucciddatu. / Ti lu manci ncumpagnia, cu Giuseppi e cu Maria. / Bammineddu duci assai, lu me pani ti purtai/. Ti lu manna la mamma mia, / ca è cchiù ricca di Maria». (Bambinello dolce dolce, io ti porto le mie noci, te le scacci e te le mangi, e così di certo non piangi. Bambinello, dolce amato, ti porto il buccellato, te lo mangi in compagnia con Giuseppe e con Maria. Bambinello dolce assai, il mio pane ti portai. Te lo manda la mia mamma, che è più ricca di Maria.)
La ricchezza di valori che traspare da questo antico rituale non ha bisogno di commenti. Né in questa sede è possibile accennare ad altri riti connessi al consumo di biscotti e pasticcini devoti, il cui campionario è troppo vasto per proporlo nella sua interezza alla fruizione dei lettori. Non per questo ci si può esimere dall’accennare ai principali pezzi di devozione che un tempo contribuivano più di adesso ad infondere sicurezza e a rinsaldare i vincoli comunitari. Penso al majali che si preparava a gloria di sant'Antonio Abate, protettore del bestiame; alle olivette di sant'Agata e alle minni di Virgini con cui tutt'ora si rende omaggio alla gloriosa protettrice di Catania, cui è affidata la protezione delle mammelle e quindi dell'alimentazione dei neonati; alle sfìnci, alle torte e ai tanti altri dolci che ancora oggi compaiono nelle Tavolate di san Giuseppe; alla stessa pasta cu la muddica, con zucchero e cannella, che viene distribuita ai devoti dell'amato Patriarca nelle “cene” del 19 marzo a Salemi; alla varva di san Giuseppi con miele che compare lo stesso giorno nelle mense devote dell'Ennese; alla varva di san Binirittu con graniglie di pistacchio e canditi, tipica della Valle del Belice; ai dolci antropomorfi di mandorla che si riscontrano in diverse realtà siciliane e nella stessa Palermo, dove si preparano a settembre (in alternativa a quelli con il miele) a gloria dei Santi Cosma e Damiano che esercitano il loro protettorato sui medici e i marinai.
Pani e dolci votivi si confezionavano anche in occasione della festa di santa Febronia a Palagonia: «uno a forma di mano, con farina, uova e zucchero; e un altro di pasta di pane, che simboleggia un gallo». A Palermo il festino di santa Rosalia ai tempi di Pitrè era allietato dai muscardini; adesso non più. Ma gli stessi dolcetti odoranti di cannella, si fanno ancora a Mazara del Vallo il giorno della festa del Corpus Domini e nella Valle del Belice in occasione della commemorazione dei defunti. In compenso nella capitale dell'Isola il festino è un vero trionfo di bancarelle colorate, artisticamente dipinte come i carretti siciliani, traboccanti dei soliti dolci delle feste patronali ma anche di calia e simenza, mennuli agghiazzati, cioè «confetti di mandorla in camicia di glassa». E le famiglie consumano a gloria della Santuzza il primo gelo di mellone dell'anno, di cui faranno più grosse abbuffate a ferragosto.
Insomma, come tutti i salmi finiscono in gloria, così tutte le feste siciliane si concludono con grandi vassoi di cosi ruci. E i dolci non mancano nemmeno il giorno in cui si ricordano i morti. Anzi, in qualche comune, come Paternò, le vedove li mangiano accanto alla tomba della buonanima, dove passano l'intera giornata del 2 novembre, dall'alba al tramonto. Ovunque nell'Isola quel giorno i bambini ricevono dolciumi dai parenti defunti: bambole e cavallucci di zucchero colorato (detti anche pupi di cena o pupa a-ccena), ossa di morti, ossia «dolci di pasta forte, aromatizzata al garofano, a forma di tibie e di teschi», nucatuli, dolcini di riposto, tetù, taralline, miliddi, pasti di meli d'ogni forma e colore, frutti di martorana.
Questi traggono il nome delle suore di Santa Maria della Martorana di Palermo cui si deve, a quanto pare, l'invenzione. Si tramanda anzi che le religiose ebbero modo di preparare questi dolci anche in onore del papa che visitò Palermo alla vigilia della festa dei morti. Gli fecero trovare un improbabile albero stracolmo di mele, pere, susine... di marzapane (detto pure pasta reale perché fatto con lo zucchero, allora prodotto nelle aziende ricadenti nel demanio regio). E il pontefice decise di regalare quei frutti di martorana ai bambini poveri in occasione della festa dei morti.
Per devozione a santa Lucia, protettrice di Siracusa, il 13 dicembre molti siciliani si astengono dal consumo di pane e di pasta. All'origine di tale usanza c'è una leggenda: durante una carestia arrivò, finalmente, una nave carica di grano, proprio il giorno della festa della Santa. I suoi devoti decisero perciò di ringraziare la Patrona mangiando una minestra di grano chiamata cuccia. Con l'aggiunta di zucchero, crema di latte o di ricotta, zucca candita, scorza di limone e pezzetti di cioccolato, l'umile pietanza è divenuta un dolce prelibato: la cuccia duci, appunto. A Palermo si mangiano pure panelli duci; frittelle di farina di ceci con zucchero e cannella. Poiché santa Lucia è la protettrice della vista, in alcuni comuni si sogliono preparare in suo onore anche dolci e pani votivi raffiguranti gli occhi o sottili sfoglie come i cucciteddi di Modica che non si mangiano né si conservano come talismani sacri, se prima non vengono fatti adagiare un momento sulle palpebre chiuse. A Collesano, nella chiesa di santa Lucia, il 13 dicembre, alle cinque del mattino, viene celebrata una messa, a conclusione della quale si offrono ai fedeli «biscotti a forma di occhi realizzati dalle suore o da coloro che hanno ricevuto una grazia».
Prima di raggiungere i traguardi attuali, la tradizione dolciaria siciliana è stata per secoli monopolio quasi esclusivo di religiosi e monache di casa, cioè professe laiche che non mancavano mai nelle famiglie della buona società. Queste pie donne con il cordone, costrette dalle circostanze della vita a consumare l'esistenza tra il forno e la parrocchia, in qualche realtà della Sicilia orientale erano chiamate ducceri (pasticciere), tanto erano brave a confezionare dolciumi.
Ma i migliori dolci sono stati sempre quelli pre¬parati nei conventi: li cosi ruci di li batii, come li chiamavano i nostri avi. A titolo esemplificativo basti ricordare (oltre a quelli citati nelle precedenti riflessioni) i minni di Virgini (seni di vergini o “impudiche paste delle Vergini”, per dirla con Giuseppe Tommasi di Lampedusa) e i bocconetti delle suore di Santa Caterina di Palermo, i triunfì di gula del vicino monastero di Montevergine, le crispelle dolci dei Benedettini di Catania, la pignulata dell'Ordine della Carità di Messina, il couscous al pistacchio (con mandorle, zucchero, cannella e pezzetti di cioccolato), specialità delle suore circestensi del monastero di Santo Spirito di Gesù di Agrigento, i viscotta di la zza monica e i fusiddi di li monici di Sciacca, li cosi ruci di la batìa di Paternò, i facciuni di Santa Chiara di Noto.
Qualche cenno in più meritano forse i minni di Virgini, partorite dalla fantasia creativa di Suor Virginia Casale di Rocca Menna del Collegio di Maria di Sambuca. La quale nel 1775 fu incaricata dalla marchesa, moglie del feudatario e futuro primo ministro di Ferdinando IV di Borbone, «di preparare un dolce particolare e innovativo per il matrimonio del suo unico figlio Pietro. Suor Virginia creò un dolce prendendo spunto dalle colline della Valle d'Anguillara, del Castellaccio e della Minulazza che vedeva dalla finestra della sua stanza. Così ottenne un dolce a forma collinare con ripieno di crema di ricotta, cioccolato e zuccata e ricoperto con glassa di zucchero».
Le più fantasiose pasticciere sono state, però, a voler credere alla leggenda, le suore di Modica che inventarono la 'mpanatigghia, capolavoro dolciario nato per sopperire alle carenze nutrizionali di predicatori che si alternavano nei pulpiti dell'Isola durante la Quaresima. Per eludere il rigido divieto di mangiare carne, le religiose «ricorsero all'espediente di tritare finemente il filetto di manzo camuffandolo sotto una coltre spessa di cioccolato e riponendo il tutto all'interno di una pasta sottilissima e friabile a base di sugna, ripiegata a guisa di mezzaluna dal bordo finemente intagliato con un piccolo cratere eruttivo al centro». E crearono la 'mpanatigghia, il cui nome richiama quello delle empanadillas importate dagli Spagnoli dal Nuovo Mondo. «Decisamente incredulo – assicura Anna Caschetto – è l'atteggiamento di chi assaggia per la prima volta questi sorprendenti "dolci da viaggio", capaci di conservarsi per più settimane».
Isola santa, la Sicilia. Isola carogna! È proprio il caso di ripeterlo con Gesualdo Bufalino. Terra dove spesso, troppo spesso, le apparenze ingannano!


Pippo Oddo, Palermo 1 marzo 2014