30 dicembre 2015

IL DESIDERIO E' SOVVERSIVO






" Il desiderio è sovversivo " diceva Gilles Deleuze. E, prima di lui,  

Federico Garcia Lorca affermava:  
 
"No, no, io non domando, io desidero."

THE THUNDER PERFECT MIND


Devo all'amica Mariarosaria Rega la scoperta di questo straordinario documento:



Questa poesia misteriosa fu scoperta fra i manoscritti gnostici di Nag Hammadi ed è narrata da un divino rivelatore di natura femminile.
'The Thunder Perfect Mind' – Il Tuono, Mente Perfetta è una poesia meravigliosa, ma anche un po' strana. Ricca di figure retoriche come paradossi ed antitesi di influenza ellenica, parla nel nome di un Potere divino femminile, un Uno che riunisce tutti gli opposti. Uno che non parla solo alle Donne, ma a tutte le persone. Uno che parla non solo ai cittadini di una patria, ma anche agli stranieri, ai poveri ed ai ricchi. E' una poesia che scorge l'irradiamento del Divino in tutti gli aspetti della vita umana, dagli umili bassifondi del Cairo, o di Alessandria, dove forse si trovava chi l'ha scritta, alle persone di più elevato ceto sociale, dai padroni agli schiavi.
In questa poesia, il divino appare in tante e spesso inaspettate forme.
'The Thunder Perfect Mind' – Il Tuono, Mente Perfetta potrebbe essere stato scritto in Egitto da qualcuno che probabilmente conosceva la Tradizione di Iside, ma non è un canto a lei dedicato, come erroneamente taluni ritengono.
Chi lo ha scritto conosceva anche le tradizioni ebraiche. Era parte di un movimento in cui tradizioni Ebraiche, Egizie, Greche, Romane e proto-Cristiane si mescolavano ed erano patrimonio di un determinato numero di persone colte.
Bentley Layton ha ipotizzato che il paradossale e spesso eccessivo ricorso a termini antitetici presenti nelle affermazioni del Tuono possa essere letto come un complesso enigma/indovinello da risolvere ad opera di un lettore consapevole o 'gnostico'.
Allo stesso tempo, l'attenzione alle varie caratteristiche del testo nel suo complesso suggerisce che non c'è solo il mistero dell'identità del narrante, ma anche il rapporto fra la divinità che sta parlando e gli ascoltatori di natura umana, forma il nodo esegetico del testo.

La traduzione che abbiamo curato deriva da una trascrizione inglese dal copto di George W. MacRae S. J. così come pubblicata in un libro edito da James M. Robinson, The Nag Hammadi Library, HarperCollins, San Francisco, 1990.


Il Tuono, Mente Perfetta

Io fui mandata avanti dal potere,
ed Io sono venuta presso coloro che riflettono su di me,
ed Io sono stata trovata tra quelli che mi cercano.
Cercatemi, voi che meditate su di me, e voi uditori, ascoltatemi.
Voi che mi state aspettando, portatemi a voi.
E non allontanatemi dalla vostra vista.
E non fate in modo che la vostra voce mi possa odiare, e neppure il vostro ascolto.
Non ignoratemi, ovunque ed in ogni tempo. State in guardia!
Non ignoratemi.
Perché Io sono la prima e l’ultima.
Io sono l'onorata e la disprezzata.
Io sono la prostituta e la santa.
Io sono la sposa e la vergine.
Io sono la madre e la figlia.
Io sono le membra di mia madre.
Io sono la sterile
E molti sono i miei figli.
Io sono colei il cui matrimonio è grande, eppure Io non ho marito.
Io sono la levatrice e colei che non partorisce.
Io sono il conforto dei miei dolori del parto.
Io sono la sposa e lo sposo,
ed è mio marito che mi generò.
Io sono la madre di mio padre
e la sorella di mio marito
Ed egli è la mia progenie.
Io sono la schiava di lui, il quale mi istruì.
Io sono il sovrano della mia progenie.
Ma egli è colui il quale mi generò prima del tempo, nel giorno della nascita.
Ed egli è la mia progenie, a suo tempo, ed il mio potere proviene da lui.
Io sono l'appoggio del suo potere nella sua giovinezza, ed egli il sostegno della mia vecchiaia.
E qualsiasi cosa egli voglia, mi succede.
Io sono il silenzio che è incomprensibile,
e l'idea il cui ricordo è costante.
Io sono la voce il cui suono è multiforme
e la parola la cui apparizione è molteplice.
Io sono la pronuncia del mio nome.
Perché, voi che mi odiate, mi amate,
ed odiate quelli che mi amano?
Voi che mi rinnegate, mi riconoscete,
e voi che mi riconoscete, mi rifiutate.
Voi che dite la verità su di me, mentite su di me,
e voi che avete mentito su di me, dite la verità.
Voi che mi conoscete, ignoratemi,
e quelli che non mi hanno conosciuta,
lasciate che mi conoscano.
Perché Io sono il sapere e l’ignoranza.
Io sono la vergogna e l’impudenza.
Io sono la svergognata; Io sono colei che si vergogna.
Io sono la forza e la paura.
Io sono la guerra e la pace.
Prestatemi attenzione.
Io sono la disonorata e la grande.
Prestate attenzione alla mia povertà e alla mia ricchezza.
Non siate arroganti con me quando Io sono gettata fuori sulla terra,
e voi mi troverete in quelli che stanno per giungere.
E non cercatemi nel mucchio di letame
Non andate lasciandomi esiliata fuori,
e voi mi troverete nei regni.
E non cercatemi quando sono gettata fuori
tra coloro che sono disgraziati e nei luoghi più miseri.
Non ridete di me.
E non lasciatemi fuori tra quelli che sono uccisi nella violenza.
Ma Io, Io sono compassionevole ed Io sono crudele.
State in guardia!
Non odiate la mia obbedienza
E non amate il mio auto controllo.
Nella mia debolezza, non abbandonatemi,
e non siate spaventati del mio potere.
Perché voi disprezzate la mia paura
E maledite la mia gloria?
Ma Io sono colei che esiste in tutti i timori
E la forza nel tremare.
Io sono quella che è debole,
ed Io sto bene in un luogo piacevole.
Io sono la dissennata ed Io sono la saggia.
Perché mi avete odiata nelle vostre deliberazioni?
Perché Io dovrò essere silenziosa tra quelli che sono silenziosi,
ed Io dovrò apparire e parlare,
Perché quindi mi avete odiata, voi Greci?
Perché Io sono una barbara tra i barbari?
Perché Io sono la saggezza dei Greci
Ed il sapere dei Barbari.
Io sono il giudizio dei Greci e dei barbari.
Io sono quella la cui immagine è grande in Egitto
e quella che non ha immagine tra i barbari.
Io sono quella che è stata odiata ovunque
e quella che è stata amata in ogni luogo.
Io sono quella che essi chiamano Vita,
e che voi avete chiamato Morte.
Io sono quella che essi chiamano Legge,
e voi avete chiamato Illegalità.
Io sono quella che voi avete inseguito,
ed Io sono colei che avete afferrato.
Io sono quella che avete dispersa,
eppure mi avete raccolta insieme.
Io sono quella di cui prima vi siete vergognati,
e voi siete stati svergognati verso di me.
Io sono colei che non riceve festeggiamenti,
ed Io sono quella le cui celebrazioni sono molte.
Io, Io sono senza Dio,
ed Io sono quella il cui Dio è grande.
Io sono quella sui cui avete meditato,
eppure voi mi avete disprezzata.
Io sono incolta,
ed essi imparano da me.
Io sono quella che voi avete disprezzata,
eppure riflettete su di me.
Io sono quella dalla quale vi siete nascosti,
eppure voi apparite a me.
Ma se mai vi nascondeste,
Io stessa apparirò.
Perché se mai voi appariste,
Io stessa mi nasconderò da voi.
Quelli che hanno(…) ad esso (…) insensibilmente.
Prendetemi ( …conoscenza ) dal dolore
Ed accoglietemi
Da ciò che è conoscenza e dolore.
Ed accoglietemi dai luoghi che sono brutti e in rovina,
e sottratti da quelli che sono buoni
anche se in bruttezza.
Fuori dalla vergogna, portatemi a voi sfacciatamente,
e fuori dalla sfrontatezza e dalla vergogna,
riprendete le mie membra in voi.
E venite a promuovermi, voi che mi conoscete
E voi che conoscete le mie membra,
e stabilite la Grande tra le prime piccole creature.
Venite ad appoggiarmi presso l’infanzia,
e non disprezzatela perché è piccola e piccina.
E non distaccate le grandezze in diverse parti dalle piccolezze,
perché le piccolezze sono conosciute dalle grandezze.
Perché mi maledite e mi venerate?
Voi avete recato offesa e voi avete avuto misericordia.
Non separatemi dai primi che avete conosciuto.
E non allontanate, né scacciate alcuno
[...] scacciare voi e [...conoscer] lo per niente.
[...].
Ciò che è mio [...].
Conosco quelli che vennero per primi e quelli dopo di loro conoscono me.
Ma Io sono la Mente [Perfetta] ed il riposo di [...].
Io sono la conoscenza della mia domanda,
E la scoperta di quelli che aspirano a me,
e il comando di quelli che di me domandano,
e il potere dei poteri nella mia scienza
degli angeli, che sono stati mandati al mio ordine,
e degli dei nelle loro ere dal mio consiglio,
e degli spiriti di ogni uomo che esiste con me,
e delle donne che dimorano dentro di me.
Io sono quella che è venerata, e che è pregata,
e che è disprezzata sdegnosamente.
Io sono la pace,
e la guerra è venuta per causa mia.
E Io sono uno straniero e un compatriota.
Io sono la sostanza e quello che non ha sostanza.
Quelli che sono senza unione con me sono ignari di me,
e quelli che sono nella mia sostanza sono quelli che conoscono me.
Quelli che sono vicini a me sono stati ignari di me,
e quelli che sono distanti da me sono quelli che mi hanno conosciuto.
Nel giorno in cui Io sono vicino a te, tu sei distante da me,
e nel giorno in cui Io sono distante da te, Io sono vicino a te.
[Io sono ...] dentro.
[Io sono ...] delle nature.
Io sono [...] della creazione degli spiriti.
[...] preghiera delle anime.
Io sono il controllo e l'incontrollabile.
Io sono l'unione e la dissoluzione.
Io sono ciò che è perenne ed Io sono la dissoluzione della materia.
Io sono quella sotto,
ed essi vengono sopra di me.
Io sono il giudizio e l'assoluzione.
Io, Io sono senza peccato,
e la radice del peccato deriva da me.
Io bramo avidamente l'apparenza esteriore,
e il proprio controllo interiore esiste dentro di me.
Io sono l'ascolto accessibile a tutti
E il discorso che non può essere capito.
Io sono un muto che proprio non parla,
e grande è la moltitudine delle mie parole.
Ascoltatemi in grazia, e imparate di me con approssimazione.
Io sono colei che urla,
e Io sono rigettata sopra la faccia della terra.
Io preparo il pane e la mia mente dentro.
Io sono la conoscenza del mio nome.
Io sono quella che grida,
ed Io ascolto.
Io appaio e [... ] cammino in [... ] sigillo del mio [... ].
Io sono [... ] la difesa [... ].
Io sono quella che è chiamata Verità e ingiustizia [... ].
Voi mi onorate [... ] e voi mormorate contro di me.
Voi che siete conquistati, giudicate chi conquista voi
prima che essi esprimano sentenza contro di voi,
perché il giudizio e la parzialità risiedono in voi.
Se voi siete condannati da questo, chi vi affrancherà?
Oppure, se voi sarete liberati da questo,
chi sarà in grado di tenervi in custodia?
Perché ciò che è dentro di voi è quello che a voi è fuori,
e quello che vi avvolge all’esterno
è quello che dà la forma all’interno di voi.
E quello che voi vedete fuori di voi, voi lo vedete dentro di voi;
esso è evidente ed è il vostro vestito.
Ascoltatemi, voi che mi udite,
e imparate le mie parole, voi che mi conoscete.
Io sono la conoscenza che è accessibile a chiunque:
Io sono il discorso che non può essere compreso.
Io sono il nome del suono
e il suono del nome.
Io sono il segno della lettera
e la destinazione della separazione
Ed Io [...].(3 linee mancanti)
[...] luce [...].
[...] ascoltatori [...] a voi
[...] il grande potere.
E [...] non rimuoverà il nome.
[...] all’entità che mi ha creato.
E Io dirò il suo nome.
Fate attenzione allora alle sue parole
e a tutte le scritture che sono state composte.
Prestate attenzione allora, voi che ascoltate
ed anche voi, gli angeli e quelli che sono stati inviati,
e voi spiriti che vi siete levati dai morti.
Perché Io sono quella che da sola esiste,
ed Io non ho alcuno che mi giudicherà.
Perché sono molti i gradevoli aspetti che esistono
in numerosi peccati
e smoderatezze
e passioni scandalose
e piaceri momentanei
che (gli uomini) assaporano finché non diventano equilibrati
e salgono al loro luogo di riposo.
E loro mi troveranno lì
ed essi vivranno
ed essi non moriranno di nuovo.

LA MAGIA NELL' ANTICHITA'



Un saggio di Giulio Guidorizzi indaga sul ruolo e sull’importanza che le pratiche magiche avevano nel mondo antico. In età classica c’era la convinzione che dietro la realtà vi fosse una trama segreta fatta di affinità e di corrispondenze.

Maurizio Bettini

Quegli incantesimi che interpretano l’universo

Plinio il Vecchio non fu solo il grande erudito della “Naturalis historia” e lo scienziato coraggioso che morì per osservare da vicino l’eruzione del 79 d. C.: fu anche un uomo di grande saggezza. Dobbiamo a lui infatti una delle osservazioni più interessanti che siano state fatte a proposito della magia: «Presi uno a uno, i più dotti rifiutano di credere al potere degli incantesimi e delle parole potenti: ma la vita presa nel suo complesso ad ogni momento vi presta fede, e non se ne accorge».

Da un lato dunque sta il pensiero razionale, il quale rifiuta la possibilità che formule, scongiuri o gesti rituali possano produrre effetti sulla realtà che ci circonda; dall’altro sta invece la “vita” – di cui anche gli stessi “dotti” partecipano – la quale continua a prestar fede a cose del genere anche e soprattutto quando “non se ne accorge”.

Per venire all’oggi, della credenza sulla magia partecipano tanto la ragazza che telefona al mago televisivo perché riporti a lei l’innamorato, quanto il broker di borsa che al mattino sfoglia l’oroscopo. E che dire di quel celebre fisico che teneva un ferro di cavallo in laboratorio? Di fronte allo stupore di un collega, commentò così: «Mi dicono che funziona anche se non ci si crede». È la vita, che “crede” e non se ne accorge.

Nel mondo antico, comunque, la vitalità della magia fu particolarmente vasta e pervasiva. Documenti della sua presenza li troviamo un po’ ovunque: se la poesia greca e romana parla di filtri e incantamenti d’amore, le Metamorfosi di Apuleio e il Satyricon di Petronio offrono percorsi perturbanti attraverso gli spazi, reali ma anche mentali, della magia: uomini sgozzati eppure tenuti in vita dalle arti malefiche, streghe-donnole che rubano i lineamenti ai cadaveri prima del funerale, lupi mannari che orinano attorno alle tombe, donne che si ungono di misteriose pomate ed escono volando dalla finestra, come uccelli.

Anche i trattati di agricoltura contengono sorprese interessanti. Vi si incontra per esempio l’incantesimo usato per sanare le lussazioni, che prevedeva l’applicazione all’arto di una canna tagliata in due e, soprattutto, l’ossessiva ripetizione di queste misteriose parole: «Moetas vaeta daries dardaries asiadarides una petes». Oppure il rimedio usato contro la grandine, quando «contrapponendo alla nube uno specchio se ne raccoglie l’immagine e in questo modo, sia che la nube si veda brutta, sia che si ritragga di fronte a ciò che crede un’altra nube, si riesce a scacciarla».

Ma la magia antica non sta solo nella letteratura. Nelle tombe, nelle fondamenta degli edifici, nei pozzi, si sono trovate laminette di piombo – chiamate tabellae defixionis, letteralmente “tavolette di inchiodamento” – che scagliano maledizioni contro rivali in amore, ladri, avversari in tribunale, persino competitori nelle gare sportive.

«Come il morto che è qui sepolto non può né parlare, né dissertare, così Rhodine che (è) con Marco Licinio Fausto, morta sia, né possa parlare né dissertare», sentenzia una defixio amatoria del I secolo a. C. Opera di una donna che contendeva a Rhodine l’amore di Fausto. Possiamo persino penetrare nei laboratori della magia, in particolare quella di tradizione ellenistica, per carpire i suoi segreti. Nel 1852, infatti, Jean D’Anastasi, console svedese al Cairo, comprò un’intera raccolta di papiri magici trovati (o almeno così fu detto) in una tomba vicino a Tebe. Con tutta probabilità essi costituivano la biblioteca di lavoro di un mago, una raccolta di formule che fu sepolta con lui per assicurargli (forse) la possibilità di esercitare anche nell’aldilà. La lettura di questi testi è davvero impressionante. Vi si dettagliano parole, ingredienti, rituali propri di ciascun processo magico a seconda dei diversi scopi che esso si prefigge: l’unico spazio lasciato in bianco (alla maniera di un modulo prestampato ad uso burocratico) è quello destinato a contenere il nome della malcapitata vittima.

Come orientarsi in un universo così vasto e complesso? Il lettore appassionato di credenze magiche e di storia della cultura, oggi ha a disposizione il bel volume di Giulio Guidorizzi, La trama segreta del mondo. La magia nel mondo antico, edito dal Mulino. La lettura di questo libro è appassionante, perché combina limpide pagine teoriche — e si sa bene quanto provocatorie siano, sul piano intellettuale, le credenze magiche — con una straordinaria sequenza di racconti, vicende, pratiche, aneddoti, che tutti in definitiva fanno capo a questa convinzione: che l’universo sia retto da una segreta trama di affinità e corrispondenze.

Per questo il mago, che ne conosce l’esistenza e soprattutto possiede l’arte di manipolarla, può produrre effetti mirabolanti sulla realtà che lo circonda. «In linea generale», scrive l’autore nell’Introduzione, «la magia presuppone che in certi momenti, e sotto l’influsso di certi riti, il flusso dell’esperienza ordinaria si sfilacci per dare spazio a un altro piano di realtà: è la fessura attraverso la quale si penetra in un universo parallelo ma occulto».

Il pensiero positivo, se così vogliamo chiamarlo, ha tentato più volte di categorizzare l’esperienza magica per distinguerla, in primo luogo, dalla religione: impresa ardua, come ben mostra la sintesi di Guidorizzi, perché in questo campo le distinzioni sono legate a ciò che si intende per religione e, soprattutto, a quale tipo di soprannaturale si vuole riservare questa più nobile denominazione. Per gli antichi Egizi, ad esempio, la pratica della magia faceva strettamente parte della religione, così come è difficile negare che in Grecia l’intervento di divinità quali Afrodite o Hermes venga talora invocato in contesti che a noi appaiono decisamente magici. Né possiamo dimenticare che, se i cristiani definivano “maghi” taumaturghi come il noto Simone o Apollonio di Tiana — capace di guarire ciechi, storpi e paralitici, e persino di resuscitare i morti — anche Gesù fu ritenuto un “mago” da coloro che lo avversavano.

Ma infine, si può identificare il principio elementare, basilare, secondo cui agiscono i processi magici?

Se gli antichi ne individuavano la ragione nella “trama segreta” che teneva assieme l’universo, che cosa hanno detto i moderni rappresentanti del pensiero positivo? La descrizione più semplice, ma anche più comprensiva, di come funziona la magia, l’ha data George James Frazer, permettendo così ad altri studiosi di articolarla ulteriormente. Secondo questa interpretazione, la magia agisce secondo due assi principali: similarità da un lato, contatto dall’altro. Trafiggere con un ago la bambolina che “somiglia” al nemico da abbattere, opera attraverso la similarità: si costruisce infatti una “metafora” della vittima, e agendo su di essa, si pretende di annientarla.

Al contrario, gettare nel fuoco un ricciolo del nemico, perché anche lui possa ardere allo stesso modo, significa ricorrere al contatto, perché il ricciolo è parte del nemico, lo rappresenta per “metonimia”. Ecco che in questo modo la trama segreta del mondo sconfina nelle figure della retorica: a riprova del fatto che nell’universo, almeno in quello intellettuale, tutto si tiene.

La Repubblica – 29 dicembre 2015
Giulio Guidorizzi
La trama segreta del mondo. La magia nell’antichità
Il Mulino, 2015
euro 16

MITI NORDICI


Ritratto del dio nordico, famoso per i suoi inganni, legato per punizione alle rocce come il Prometeo dei Greci.

Alessandro Zironi

Il nemico di Odino astuto e un po’ codardo che partorì un cavallo
Oramai alle soglie della fine del periodo aureo della cultura islandese, nel XIII secolo, un erudito dell’isola dei ghiacci, Snorri Sturluson, pensa che sia giunto il tempo di salvare la memoria del passato pagano. Scrive un’opera, Edda , per gli studiosi Edda in prosa . È una sorta di manuale per decodificare metri poetici, ma anche un’esemplificazione di miti e metafore che fanno riferimento a un patrimonio culturale la cui conoscenza, alla metà del secolo XIII, stava tramontando. Per noi, lettori del XXI secolo, l’ Edda di Snorri è diventata la guida per poter decifrare una cultura immensa, sepolta dal tempo.

Qui troviamo raccolti i racconti mitologici con protagoniste le divinità nordiche, fra cui Loki. Ad esempio, Hár, nome con cui si cela Odino, spiega al suo interlocutore chi è Loki: un dio che infama, ordisce inganni, vergogna di dèi e uomini; forte, bello, ma di carattere malvagio, incostante, astuto e ingannatore; mette in difficoltà gli altri dèi, però sa anche trarli d’impiccio. Certo, diremmo noi, un ritratto non proprio lusinghiero, ma allo stesso tempo ambivalente: di bell’aspetto e vigoroso, ma parimenti perfido e con un’arguzia votata al male.

Loki è un dio difficilmente imprigionabile in un mondo in cui gli esseri divini hanno solitamente precise e nette caratteristiche. Già a partire dal suo nome, di etimologia incerta: forse rinvia all’antico nordico log , «fiamma», oppure potrebbe essere una variante di Loptr/Loftr, nome con cui viene anche nominato. Loptr è legato a lopt , «aria», oppure Loki rimanda alla forma svedese medievale locke , «ragno».

Tutte queste proposte hanno in sé un po’ di verità, ma nessuna permette di ingabbiare il dio. Forse a maggiore aiuto giungono le kenningar , forme metaforiche proprie della poesia medievale antico nordica, in cui due nomi, appartenenti a campi semantici differenti, sono uniti per offrirne un altro quale soluzione. Ad esempio Loki è la soluzione della kenning «padre della cinghia dell’oceano», ovvero padre di Miðgarðsormr, alla lettera «il serpente della terra di mezzo», il terribile rettile che giace negli abissi abbracciando con le sue spire tutta la Terra.
Loki è detto anche il «padre del lupo», cioè del mostruoso lupo Fenrir, che alla fine dei tempi ingoierà Odino; o ancora «il fardello delle braccia di Sigyn» ovverosia «marito di Sigyn», una liaison che è stata molto rappresentata anche nella pittura ottocentesca e ha offerto spunto a numerose riscritture contemporanee, specie fumetti e manga.

Proprio il rapporto fra Loki e Sigyn permette di decifrare con maggior facilità alcuni aspetti del dio. Loki viene legato a tre massi di pietra con le viscere dei suoi due figli generati con la moglie: sopra di lui viene posto un serpente che gocciola veleno sul suo capo; la moglie Sigyn regge un catino per raccogliere il siero letale, ma quando il bacile è colmo ed ella si allontana per svuotarlo, gocce di veleno cadono sul volto di Loki e questi si scuote provocando terremoti. Questa la pena di Loki sino ai Ragnarök, «destini degli dèi», cioè la fine dei tempi.

Quello di Loki prigioniero è uno dei miti più recenti riferiti al dio che, al pari di altre narrazioni mitologiche nordiche, è forse influenzato dalla cultura classica (vedi il mito di Prometeo) e, ancor più, dal cristianesimo. Il dio legato non è episodio conosciuto al paganesimo germanico, ma deriva probabilmente da racconti cristiani in cui l’Anticristo è incatenato negli inferi, ove spezzerà le sue catene ai tempi del Giudizio Universale. Anche la motivazione della pena rispecchia vicende legate alla vita di Cristo: il dio Baldr, figlio di Odino, viene fatto uccidere da Loki (da qui discende la sua punizione eterna), mentre Baldr tornerà dal regno dei morti a reggere il mondo nuovo, sorto dopo i Ragnarök.

Il nostro Loki è pertanto un dio perfido, ingannatore, in continuo contrasto con gli altri dèi, verso i quali usa parole di scherno nel componimento poetico che porta il suo nome, la Lokasenna «l’invettiva di Loki», in cui ingiuria tutte le divinità, ma è a sua volta accusato da Odino di bisessualità avendo partorito figli. Tutti ricorderanno che anche Zeus genera Atena, ma Loki si spinge oltre, mettendo al mondo streghe, restando gravido dopo aver mangiato il cuore di una donna maligna; partorisce anche il cavallo a otto zampe, Sleipnir, che sarà poi di Odino, dopo essersi trasformato in giumenta e aver attratto uno stallone nei boschi. Con la gigantessa Angrboða darà alla luce il lupo Fenrir, il serpente cosmico Midgarðsorm e la dea Hel, custode del regno dei morti.

La doppia sessualità del dio rispecchia una ritualità religiosa pagana germanica piuttosto arcaica, già ricordata nel I secolo d. C. da Tacito nell’opera Germania , ove cita sacerdoti in abiti femminili. Nel mondo nordico tale pratica prende forma nel seiðr , rito dapprima religioso, poi magico-stregonesco, in cui uomini si cimentano in pose sessuali spiccatamente femminili. Da attività rituale (si dice che Odino stesso abbia praticato tali costumi) l’inversione sessuale e l’omosessualità divengono oggetto di repulsione in una società sempre più cristiana e perciò sono connesse a Loki, il dio malvagio.

Loki appartiene al Pantheon nordico sin da tempi remoti; radici profonde, in correlazione anche coi suoi natali: è figlio di un gigante, di una stirpe ctonia e malvagia, con cui egli si allea alla fine dei tempi partecipando allo scontro insieme ai giganti e a tutti gli esseri demoniaci contro gli dei. Morirà, Loki, nello scontro finale, nella lotta con il dio Heimdallr, il guardiano dell’ordine cosmico.

Denuncia la sua presenza antica l’appartenenza a una triade divina che novera Odino e Hoenir: ce ne resta traccia nel Haustlöng , uno dei poemi più antichi che fanno riferimento al dio, composto dal poeta Þjóðólf di Hvín, forse addirittura del IX secolo. Si tratta di un tipo di componimenti tipici dell’epoca, ovverosia la descrizione di scene riportate sbalzate su uno scudo. In una di queste Loki, insieme agli atri due dei, trafigge con un palo un gigante trasformatosi in aquila. Rimasto attaccato al palo, Loki, atterrito, è trascinato in volo.

È il primo di tanti esempi in cui egli è in preda alla paura. Le testimonianze più tarde lo vedranno infatti protagonista di scene e avventure buffonesche; al medesimo tempo è il primo esempio di Loki in associazione con mutazioni in animali di cui egli stesso farà gran uso (in giumenta, come detto, ma anche in pulce, mosca, falco, salmone ecc.).

Loki appartiene a più mondi, quello dei giganti, degli dèi, degli animali; reca danno, ma allo stesso tempo aiuta le divinità; possiede un’astuzia votata per lo più al male, ma allo stesso tempo è codardo. Sono tutti aspetti necessari all’ordine cosmico, in cui il bene non può sussistere senza il male. Loki è perciò un dio essenziale della mitologia nordica: anche se non è mai stato venerato e non ci sono luoghi che ricordino il suo nome, ha sempre goduto di grande fortuna, sia nei miti medievali che nelle riletture contemporanee. 


Il Corriere della sera – 27 dicembre 2015

LOTTA CONTINUA E POESIA



Dura è la mia lotta e torno
con gli occhi stanchi,
a volte, d’aver visto

la terra che non cambia,
ma entrando il tuo sorriso
sale al cielo cercandomi
ed apre per me tutte
le porte della vita. 


Pablo Neruda

A MARINEO SI TORNA A PARLARE DEI FASCI

Domenica 3 gennaio 2016, alle ore 19, al Castello di Marineo si torna a parlare della tragica storia dei Fasci siciliani

IL SOGNO NEGATO DELLA LIBERTA'
I Fasci siciliani e l'emancipazione dei lavoratori
di Carmelo Botta e Francesca Lo Nigro
Prefazione di Michelangelo Ingrassia

Dal 1891 al 1894 contadini, operai, minatori e artigiani siciliani insorsero contro il governo. Il movimento fu sedato nel sangue da Crispi nel 1894.
Questa è la storia dei Fasci siciliani, raccontata in un testo agevole, indicato anche per gli studenti.

Gli autori, entrambi docenti negli istituti superiori di Palermo, raccontano in queste pagine la storia dei Fasci siciliani dei lavoratori, partendo dall’Unità di Italia. Ricostruendo la scena politica, sociale ed economica dell'Italia post-unitaria delineano l'emergere del conflitto sociale nell'isola; analizzando i modi e i nodi della partecipazione della Sicilia alla costruzione dello Stato unitario italiano, svelano caratteri, difficoltà e responsabilità del processo d'integrazione nazionale e del suo esito.
Il saggio permette quindi di comprendere cosa e perché è accaduto in Sicilia in quegli anni, ad esempio perché, come ha rivelato Francesco Renda, la rivoluzione del 1860 fu compiuta con il sostegno dei braccianti siciliani, diversamente da quanto era avvenuto nel resto della penisola, che avevano già partecipato alle rivoluzioni del 1820 e del 1860; o perché l'epopea dei Fasci siciliani dei lavoratori abbiano contribuito alla formazione del sindacalismo agricolo italiano che ebbe risonanza ben più forte che negli altri Paesi europei.

Gli autori: Carmelo Botta è docente di Filosofia e Storia nei licei. Ha realizzato importanti progetti didattico-educativi nell’ambito della tutela dei diritti umani e della lotta per la legalità. Ha orientato prevalentemente il suo studio nel settore della didattica della storia. È consigliere dell’associazione “Scuola e cultura antimafia”. Collabora per le attività di studio, documentazione e ricerca con il Centro per la Ricerca, lo Studio e la Documentazione delle Società di Mutuo Soccorso istituito dal Coordinamento Regionale Siciliano delle Società Operaie di Mutuo Soccorso.

Francesca Lo Nigro vive e lavora a Palermo dove è Dirigente Scolastica. Ha sempre lavorato in scuole collocate in aree a rischio, impegnandosi in percorsi formativi su diritti umani, recupero del disagio adolescenziale, legalità, utilizzando spesso la drammatizzazione come strumento didattico. È consigliere dell'associazione "Scuola e cultura antimafia". Ha pubblicato articoli e saggi d'inchiesta e scritto per il teatro.

29 dicembre 2015

LA DELUSIONE DELLA MOGLIE DI MARINETTI


In una biografia-romanzo Simona Weller racconta la storia della pittrice che rimase delusa dall'adesione del marito al fascismo.

Daria Galateria

L'audacia di Benedetta donna futurista e moglie di Marinetti
A casa del pittore Balla si entrava dalla finestra, da un aereo ballatoio. A Roma per fondare i fasci futuristi, il 3 febbraio 1918, saltando nello studio di Balla, Marinetti non pensava di precipitare nel più passatista dei colpi di fulmine. Mandano a chiamare infatti — abita giusto a fianco — Benedetta Cappa, che è pittrice, e più futurista di tutti, assicura il fratello. Benedetta non ha vent'anni, treccia e occhi neri, una bellezza. È il romanzo del loro amore

Marinetti amore mio di Simona Weller (Marlin Editore). La Weller è anche, a sua volta, pittrice; e così la vita di Benedetta — in una stagione storica movimentata, raccontata da un'inedita e rivelatoria angolazione privata — ritrae anche, tra risvolti tecnici e sensibilità pittorica, la sua avventura artistica, tra le più grandi del Futurismo.

Benedetta Cappa ha una madre valdese e una famiglia di grande libertà intellettuale. Affronta Marinetti, che ha ventidue anni più di lei, una fama immensa e tante amanti, con l'ironia. Gli spedisce per lettera un capolavoro di tavola parolibera (le parole "senza fili" futuriste): un filo che cinque spille fissano a stella, attorno al nucleo della parola "vuoto".

L'audacia, l'indipendenza, il genio di Benedetta si impongono sul "disprezzo della donna" proclamato da Marinetti dieci anni prima nel Manifesto del futurismo; e sopraggiunge nel maggio del '20 l'amore en plein air, in un campo dietro la basilica di S.Agnese fuori le mura. A seguire, un matrimonio che è un modello di confronto e rispetto e due figlie partorite in casa. Intanto Benedetta assiste all'amicizia indefessa di "Tom" con Mussolini, dall'epoca della parola d'ordine "svaticanamento" giù fino all'interventismo e alle guerre — e allora, la donna scrive i versi del suo vigoroso scoraggiamento: «Una tristezza di quaranta chili / un cono di volontà / stati d'animo disegnati e disegni di forze». Il futurismo al femminile, nella biografia-romanzo di Simona Weller, inanella le sue figure maggiori, sempre irretite nello spettro della sensibilità di Betty: Roughena Zatkova, l'artista "cinetica" compagna del fratello Arturo — il fratello socialista che, preso di mira dagli squadristi, "Tom" fa riparare in Francia; o Valentine de Saint-Point, l'inquieta autrice del Manifesto della lussuria.

Epico e specialistico è il racconto del capolavoro di Benedetta: le immense tele murali dipinte nel 1933-34 per il Palazzo delle Poste di Palermo. Inaspettatamente, il finale del racconto è pirotecnico. Al di là della scomparsa dell'inimitabile Tom, Weller racconta, grazie alle conversazioni con Ala Marinetti, gli interrogatori subiti da Benedetta, la fuga delle figlie, il salvataggio delle opere futuriste di casa. E la mostra a Parigi, nel 1951; Peggy Guggenheim riceve Benedetta nel suo appartamento e le presenta lo scultore Calder: che, per l'entusiasmo, la prende in braccio e la lancia in aria come una bambola di pezza.


La repubblica – 12 dicembre 2015

GLOBAL MINDS: riflessioni sul pensiero olistico



Ballando nudi nel campo tra le discipline – alcune riflessioni su “100 Global Minds” di Gianluigi Ricuperati


– La transdisciplinarità è complementare all’approccio disciplinare; fa emergere nuovi dati dall’incontro tra discipline, che fanno da snodo fra di esse; ci offre una nuova visione della realtà. La transdisciplinarità non punta al dominio su più discipline, ma alla loro apertura a ciò che le accomuna e a ciò che sta oltre di esse.
– La chiave di volta della transdisciplinarità risiede nell’unificazione semantica e fattuale dei significati che attraversano le discipline e stanno oltre di esse. Essa presuppone il riesame delle nozioni di “definizione” e “oggettività”. Un eccesso di formalismo e la pretesa di un’oggettività assoluta che comporti l’esclusione del soggetto possono solo avere effetti inaridenti.

– La visione transdisciplinare supera il campo delle scienze esatte e chiede loro dialogo e riconciliazione con discipline umanistiche e scienze sociali, così come con l’arte, la letteratura, la poesia e l’esperienza spirituale.
Articoli 3, 4 e 5 del Manifesto della Transdisciplinarità 
(L. de Freitas, E. Morin, B. Nicolescu)
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Una delle prime volte in cui mi è capitato di parlare di libri con Gianluigi Ricuperati siamo finiti ben presto, ed entrambi, su un nome, quello dell’inglese Tom McCarthy. Entrambi avevamo una considerevole ammirazione per l’autore di Reminder, C., Tin tin e il segreto della letteratura e il recente Satin island. Di lui ci piaceva la freschezza strutturale, il rapporto spigliato ma coinvolto con la metafisica e la sua abilità nel muoversi tra letteratura e arte contemporanea (caso o sincronicità vogliono, del resto, che i suoi due omonimi più celebri siano lo scrittore Cormac e l’artista visuale Paul), anzi una vocazione alla transdisciplinarità* che andava oltre il suo impegno su tale doppio fronte: nei suoi libri vengono sempre, e programmaticamente, lanciati raggi conoscitivi attraverso le discipline – in Satin island, ad esempio, l’intera suggestione prende le mosse dall’antropologia e dalla figura di Claude Lévy-Strauss. ecc5f-beckbooks003Ma c’è di più: per un puro caso, dovuto alla sordità che a volte l’editoria mostra rispetto a ciò che è troppo nuovo, il suo Remainder – in Italia uscito come Déjà-vu per ISBN – inizialmente rifiutato da tutti gli editori e rimasto nel limbo per quattro anni, è uscito per Metronome, un editore no-profit di libri d’artista, in una tiratura di 750 copie distribuite nei bookshop dei musei di arte contemporanea. Da lì è emerso lentamente, costruendosi un piccolo seguito di qualità, fino a diventare un classico contemporaneo (addirittura la BBC lo ha messo al 35° posto tra i romanzi inglesi di tutti i tempi, sopra a Swift, Carroll e Sterne – hype, certo, se non proprio deliberata volontà di sparigliare, ma comunque ennesimo segno del fatto che si tratta di un libro destinato a rimanere).
Incrociare le discipline, ci insegna la vicenda McCarthy, non è solo questione tematica, ma a volte diventa anche strutturale. Fare un libro non significa solo scriverlo, ma anche inserirlo in determinati percorsi produttivi, distributivi e di lettura, e praticare qualunque disciplina significa anche collocarsi in un determinato punto della storia della medesima e del suo dialogo con le altre.
Proprio parlando con Tom McCarthy, nel corso di un incontro svoltosi nell’ambito del festival Von Rezzori, emerse la questione del rapporto tra produzione artistica e valore economico, molto diverso nell’arte contemporanea e nella letteratura. Se in quest’ultima, governata oggi dal sistema editoriale, il venduto è l’unico fattore a definire le entrate dell’autore, e quindi per certi versi il ‘valore’ grezzo della sua produzione almeno sul breve e medio periodo, il sistema dell’arte contemporanea ha saputo creare, sia pure con sue proprie storture, dispositivi di attribuzione di valore indipendenti dalla risposta del pubblico di massa. Di fronte a un campo editoriale in cui l’aggettivo ‘letterario’ è divenuto quasi indicatore di un problema, e quindi al rischio di trovarsi in futuro in cui la fiction con qualche ambizione sarà relegata, nei cataloghi e nelle librerie, allo spazio che ha oggi la poesia, non suonerà strano chiedersi se il mondo letterario non debba provare a guardare a quello dell’arte per creare dispositivi di emersione della qualità assoluta, e di sostentamento di chi ne produce, svincolati dal mercato di massa. calasso
È solo una delle tante suggestioni che emergono sfogliando 100 Global Minds, il singolare volume curato da Ricuperati per l’irlandese Roads Publishing (con i disegni di David Johnson), sorta di repertorio di pensatori globali, selezionati in quanto cross-disciplinari nell’approccio o nell’influenza del loro lavoro. Il fatto che si tratti di un coffee-table book, ovvero di un librone grosso, quasi quadrato, rilegato fuori e patinato dentro, oltre che interamente illustrato, può sembrare una scelta vezzosa ma visto il tema è, viceversa, completamente aderente all’obiettivo. Invece di guardare dipinti lowbrow o mappe d’epoca o fotografie di oggetti di design (se non proprio di tavolini da caffè, come nel Coffee table coffee table book di Payne e Zemaitis), qui si guardano ritratti di pensatori (realizzati a pennino, come in trasparenza, con macchie acquarellate di vari colori ampiamente fuoriuscenti dal contorno di ogni volto, a rimandare all’ibridazione, ma anche alle macchie di Rorschach, come a suggerire il tracciamento di un subconscio rizomatico del mondo attuale), affiancati da una frase del personaggio a cui è dedicata la pagina e dalla sua biografia: il risultato è che riflettendo sul loro percorso, ci si trova a riflettere sul nostro.
Una possibile obiezione: ma le informazioni su questa gente le posso trovare in qualunque momento su Internet. Vero. Ma le cercherei? Le ho cercate? Oggi più che mai lo scopo dei libri è fungere da filtro, aggregatore, modello di relazione tra aspetti della realtà. Vale per un libro come 100 Global Minds ma anche per i romanzi. La letteratura sta cambiando, e non nel senso ristretto annunciato dai profeti dell’e-book e del self-publishing: scrivere romanzi nell’epoca della massima e istantanea disponibilità di dati significa, appunto, e ancor più di prima, assumersi la responsabilità di scomporre, ricomporre, fornire mappe coerenti e flessibili della realtà, all’interno del singolo libro e tra più libri.
A volte, per via anche di storture recenti ma in fin dei conti già superate di un mercato che vorrebbe appiattire a prodotto anche l’autore, pare che non si possa neanche essere multidisciplinari all’interno della letteratura: il fatto che qualcuno possa scrivere, oltre a romanzi per così dire ‘letterari’, romanzi di genere, romanzi a più mani e romanzi ibridi (come se tutti i romanzi non fossero già ibridi per definizione) pare ancora qualcosa in grado di gettare nello stupore una parte degli addetti ai lavori, quasi che fosse intrinsecamente impossibile – allo stesso modo in cui, in epoca precedente solo all’affermazione, ma anche all’inevitabilità, del lavoro cross-, multi-, inter- e trans- disciplinare, lo sembrava l’ibridare nel proprio lavoro antropologia e arte, design e sociologia, musica e programmazione e architettura… neri_oxman
100 Global Minds è di fatto un catalogo: l’invito che porge il volume è a scoprire ciascuno dei personaggi ivi presentati per poi approfondirlo per contro proprio, ma anche a prendere coscienza delle barriere rotte da ciascuno di loro, così da aprire alla possibilità di simili e ulteriori rotture. Un catalogo, e un prisma: la selezione e la giustapposizione di questi nomi e volti suggerisce infatti una determinata visione del mondo attuale e di quello a venire. La scelta effettuata non segue infatti parametri scientifici o anche solo quantitativi (per quanto a margine del libro si trovi la rappresentazione grafica dei risultati dell’algoritmo progettato da Roberto Vaccarino per misurare la presenza del nome di ciascun pensatore in ambiti diversi dal proprio, che ha fornito un primo asse intorno a cui lavorare): al di là dei nudi dati, Ricuperati procede allo stesso modo in cui si procede scrivendo un romanzo, ovvero per suggestioni scelte sopra le altre in base all’autorità del flusso autoriale.
In 100 Global Minds troviamo Julia Kristeva e Enzo Mari, Ai Weiwei e Giorgio Agamben, Laurie Anderson, Wes Anderson e Paul Thomas Anderson, visionari di ieri come Bruce Sterling e di oggi come Neri Oxman, e ancora Roberto Calasso e Brian Eno (interdisciplinare anche nelle soluzioni ai problemi: le sue oblique cards, piccolo I-Ching per artisti, sono utili tanto quando si compone musica quando si scrive un romanzo), Žižek e Picketty e molti (87) altri, tra cui ovviamente lo stesso McCarthy e svariati altri scrittori.
Perché tanti scrittori? chiede lo stesso Ricuperati nell’introduzione al volume. Perché nel mondo post-letterario scrittori e umanisti, solo apparentemente meno rilevanti, avranno un ruolo anche più significativo di un tempo, dato che il loro compito sarà proprio quello di stare in prima linea a tradurre e fungere da ponte, nodo e collegamento tra una disciplina e l’altra. Un compito che oggi già esplorano col loro lavoro molti esponenti dell’arte contemporanea, altra disciplina che vanta infatti molte presenze in 100 Global Minds.
La libertà di materiali, approcci, temi, uso dello spazio e del tempo raggiunta dalle arti visuali non può non destare l’interesse e l’ammirazione di chiunque lavori con qualunque medium, in qualunque disciplina: anche di chi, come molti dei grandi inclusi nel libro, resta convinto che la letteratura – e in particolare il romanzo, inteso nel senso più ampio possibile – sia ancora lo strumento più potente per rappresentare, interpretare e definire la realtà. Se lo è, ciò avviene anzitutto perché, come aveva a scrivere Georgi Gospodinov, non è ariano: il romanzo nasce e prospera nel meticciato, e fin dalle origini ha svolto, più o meno consapevolmente, tale funzione di ponte tra nozioni, impressioni e aspetti della realtà. Per queste ragioni, l’incontro tra letteratura e arte contemporanea può rappresentare, come è il caso di McCarthy, un primo e più diretto passo verso uno sfondamento di barriere che deve però diffondersi in tutte le direzioni – alcune delle quali sono efficacemente indicate dagli altri esempi portati da 100 Global Minds – e non soltanto all’interno delle opere ma anche nel loro contesto di fruizione.
* vale la pena ricordare che per crossdisciplinare si intende l’approccio a una disciplina con le categorie di un’altra; per multidisciplinare l’uso di più discipline; per interdisciplinare la sintesi e l’uso integrato di più discipline; per transdisciplinare una interdisciplinarità che trascende anche le barriere tra discipline. Per quanto nella stessa dicitura del libro curato da Ricuperati si parli di ‘world’s most daring cross-disciplinary’ thinkers, è evidente che tale capacità di ‘osare’ non è altro che una naturale tensione alla transdisciplinarità.

CARO, CARO SANCHO PANZA...



"Non muoia, signor padrone, non muoia.
Accetti il mio consiglio, e viva molti anni, perché la maggior pazzia che possa fare un uomo in questa vita è quella di lasciarsi morir così senza un motivo, senza che nessuno lo ammazzi, sfinito dai dispiaceri e dall'avvilimento. Su, non faccia il pigro, si alzi da questo letto, e andiamocene in campagna vestiti da pastori come s'è fissato, e chi sa che dietro a qualche siepe non si trovi la signora Dulcinea disincantata, che sia una meraviglia a vedersi."

Miguel De Cervantes, Don Chisciotte de la Mancha

TRADIZIONE TRA CENERE E FUOCO




La tradizione è la custodia del fuoco, non l'adorazione della cenere.

Gustav Mahler

AMOS OZ: L'occupazione violenta della Palestina fa male anche a Israele.



Lo scorso 12 novembre ho ricordato la coraggiosa presa di posizione di Pasolini, negli anni sessanta del secolo scorso, a favore dello Stato d ' Israele. Oggi ripropongo un breve articolo dello scrittore israeliano Amos Oz che esorta i governanti del suo Paese ad avere più rispetto del popolo palestinese  per convivere in pace  nello stesso territorio.
Un popolo che ne opprime un altro non sarà mai un popolo libero”. Lo ha scritto Marx a proposito dell'occupazione inglese dell'Irlanda. Da amico del popolo ebraico  penso che la stessa cosa valga per la Palestina di oggi.

Amos Oz

“L’occupazione fa male a Israele. Fermiamo la violenza per il nostro futuro”

L’occupazione quest’anno compie già 49 anni. Sono certo che debba finire al più presto per il futuro dello Stato di Israele, un futuro a cui dedico il mio impegno profondo. In considerazione delle politiche sempre più estreme del governo israeliano, chiaramente intenzionato a controllare i territori occupati espropriandoli alla popolazione locale palestinese, ho appena deciso di non partecipare più ad alcuna iniziativa in mio onore delle ambasciate israeliane del mondo. Non è stata una decisione facile bensì molto dolorosa. Ma l’attuale oppressione e le espropriazioni nei territori occupati, gli incitamenti contro gli oppositori delle politiche del governo, e la tensione legislativa per ridurre la libertà di espressione e minare il potere giudiziario — mi hanno spinto nel loro insieme verso questa decisione.

Da anni faccio parte del B’Tselem’s Public Council. Rinuncerei volentieri a questo onore se l’occupazione fosse un ricordo del passato. Ma finché non sarà tale — come sarà — sono fiero del lavoro coraggioso svolto da B’Tselem: dai ricercatori sul campo a Gaza e nella Sponda occidentale allo staff della sede di Gerusalemme e ai suoi volontari. B’Tselem non solo documenta in modo attendibile e meticoloso le violazioni dei diritti umani nei territori occupati, ma offre anche uno specchio alla politica di Israele, rivelando la sua dubbia maschera di legalità con cui da 50 anni Israele prevale sui palestinesi, opprimendoli e confiscando la loro terra.

Il 2014 è stato uno degli anni più insanguinati per Israele e la Palestina dal 1967 a questa parte. Purtroppo anche il 2015 è stato segnato da numerose settimane di violenza. Io contesto ogni forma di violenza contro persone innocenti. Ma rifiuto anche il tentativo di far passare i recenti eventi esclusivamente come istigazioni o manifestazioni “anti-semitiche”, sottovalutando il regime di occupazione con le sue annose violenze quotidiane contro milioni di palestinesi privati dei loro diritti.

Queste sono alcune delle ragioni per cui scelgo di far parte del B’Tselem’s Public Council e di sostenere questa organizzazione. Ed è anche il motivo per cui vi scrivo, per chiedervi di unirvi a me nel rendere più forte B’Tselem dimostrando chiaramente il vostro sostegno a favore dei diritti umani e contro l’occupazione. Solo la sua fine può portare a un futuro gravido di giustizia, libertà e dignità per chi vive qui. B’Tselem — la principale organizzazione israeliana per i diritti umani, che vede l’occupazione per quello che è, la documenta, ne spiega le implicazioni e vi si oppone fermamente.

(Testo scritto a sostegno dell’Ong israeliana B’Tselem, fondata nel 1989 come “ Centro d’informazione israeliano per i diritti umani nei Territori occupati”)

La Repubblica – 27 dicembre 2015

Anna Achmatova, Il miele selvatico

Pittura rupestre



Il miele selvatico sa di libertà
la polvere del raggio di sole,
la bocca verginale di viola,
e l’oro di nulla.

La reseda sa d’acqua,
e l’amore di mela,
ma noi abbiamo appreso per sempre
che il sangue sa solo di sangue...

Invano il procuratore romano,
tra gridi sinistri della plebe,
lavò davanti al popolo le mani,
e invano la regina di Scozia
tergeva da rossi schizzi
le palme affusolate, nell’afosa
oscurità del palazzo reale...

Anna Achmatova

LA POESIA E' VIVA ANCHE A CIMINNA (PA)



Ciminna (PA)



 Domani 30 dicembre 2015, alle ore 20.30,  a Ciminna presentazione di un libro di poesie illustrato da bellissime foto.

28 dicembre 2015

L'AMORE DI PASOLINI PER MARX


Ti scrivo. Quell'amore per Marx

Caro Pier Paolo,
dopo quarant’anni posso dirti finalmente cosa mi indusse, circa dieci anni dopo la tua morte violenta (la violenza pura, sadica, ritualizzata del branco anonimo e sicuro della sua impunità, scatenata su chi dava solo “scandalo di mitezza”, e per questo ancora più assurda), ad incontrarti e a non staccarmi più da te. A divorare, in quell’estate di trent’anni fa, l’insuperabile biografia scritta da Enzo Siciliano, che ti rincorre con amorevole empatia in tutte le tue inquietudini e palpitazioni creative, a lasciarmi rapire dalle sonorità delle Ceneri di Gramsci, a passare ai tuoi film e al tuo teatro, aulico ed “estremo”, come poi sarà, inguardabilmente, anche Salò. Momenti scanditi nella mia memoria, perché ogni volta era come scoprire il genere stesso della poesia, del cinema, del teatro, di cui il tuo nome diventava inconsciamente per me una metonimia indelebile. Ora, lo posso dire. A causa di quelle asincronie proprie del tempo storico, di cui parla Ernst Bloch, a metà anni Ottanta, studente di liceo, mi trovavo giovane in una zona marginale di quella Basilicata che, col Vangelo secondo Matteo, facesti assurgere a Palestina del ventesimo secolo: un limbo ancora sospeso nell’attesa indefinita e indifferente del progresso o dello sviluppo, mentre tu, negli articoli “corsari”, avevi già denunciato la devastante assimilazione in corso del primo al secondo. In questa parte periferica dell’Italia, ancora per metà scampata al genocidio culturale che ti angosciava (forse una di quelle eccezioni e resistenze al fenomeno, di cui ammettevi l’esistenza nella replica a Calvino che ti accusava di rimpiangere l’Italietta), crescevo a fianco delle sopravvivenze più corpose del “mistero contadino”, come lo chiamasti nei versi de La religione del mio tempo del 1958, ripensando al Friuli della giovinezza. Qui, leggere di te e leggerti, ha significato letteralmente vivere un’identificazione proiettiva con la vicenda del passaggio da Cristo a Marx, che tu hai vissuto a Casarsa e che ha segnato la mia adolescenza. Avrei conosciuto, certo, poi, le mie revisioni, i miei dubbi, il cedimento alle sirene nichiliste, il mio disamore per l’utopia, forse, quella che, da fustigatore “luterano”del nuovo conformismo giovanile, avresti considerato la resa alle spinte omologatrici. Ma anche le volte che rinunciai a Marx, non rinunciai mai a te. In fondo, è stato il tuo amore intellettuale e poetico per Marx ad affascinarmi, o, come dicevi, il tuo scegliere gli amori poetici “sotto il segno primario di Marx” (Progetto di opere future). Amore intellettuale, perché amare qualcosa significa conoscerla, e conoscerla veramente significa imparare ad amarla. E solo l’amare, solo il conoscere conta, non è vero? Anche per me, come per te, furono prima Marx e, a seguire, Freud, a fornire la chiave di accesso alla realtà, ai suoi strati duri, necessari, vitali, corporei, a quella realtà, che, nel tuo apprendistato ermetico e simbolista giovanile, ti illudevi di risolvere tutta nella lingua. Amore intellettuale di Marx come era amore intellettuale di Dio (del Dio-Natura-Vita) quello di Spinoza, che, non a caso, in Porcile convochi ad abiurare da quel razionalismo che, se in un primo tempo prometteva di liberare dall’oscurantismo e dal fanatismo, non avrebbe fatto altro che rivelarsi in seguito l’arma fondamentale della borghesia per annegare ogni impulso ideale, eroico, nell’“acqua gelida del calcolo egoistico”, come si dice nel Manifesto del Partito Comunista di Marx: un testo di riferimento centrale per i tuoi scritti corsari, ancor più dei libri di Marcuse. È dal Manifesto che hai dovuto riapprendere dolorosamente il carattere demoniaco della borghesia che, con le sue costanti innovazioni, travolge ogni tradizione, profana ogni cosa sacra, che sa essere più “rivoluzionaria” della Rivoluzione, perché dotata di un cinismo più sottile, quello di saper non essere cinica al momento opportuno, come dici, sempre con passione e ideologia, nella tua bella opera teatrale, allegorica e autobiografica, Bestia da stile, finita di scrivere un anno prima di morire.
Tu non sei stato un marxista eretico. Hai scelto il marxismo come la migliore eresia del cristianesimo, anzi, dell’escatologia cristiana. Ecco perché, per te, la religiosità non poteva ridursi all’anestetico della sofferenza reale che la generava, da “negare” politicamente e ideologicamente con la coscienza di classe, ma rinviava al fondo sacro della vita. Con sofferenza, a Casarsa, imparasti alla maniera hegeliana a distinguere tra la religione positiva, collusa col Potere, e la religione naturale del cuore, del corpo. Io imparai da te che ciò che vi è di più irreligioso è la viltà, il soffocare per viltà la passione. Ecco perché, inoltre, arrivato a Roma, amasti quel sottoproletariato di cui il Manifesto diffida. Sì lo eri “più moderno di ogni moderno”, perché già negli anni del boom economico, prima che l’apocalisse della società dei consumi ti si mostrasse chiaramente e inequivocabilmente, ti sentivi orfano di quella Storia, che l’interpretazione moderna, non solo marxista, ma soprattutto marxista, offriva alle coscienze come lo spazio secolarizzato della speranza e della redenzione umana e sociale, e, sempre nelle Poesie mondane (il diario poetico scritto mentre giravi il tuo secondo film nelle borgate romane, Mamma Roma), annunciavi l’inizio del tuo spaesamento, l’avvento della Dopostoria, che appunto la filosofia e le estetiche del postmodernismo avrebbero cominciato a salutare e incensare, negli anni immediatamente successivi alla tua morte, presumendo di smascherare finalmente gli inganni dei grands récits della Storia. E allora, caro Pier Paolo, non mi va di assecondare la frustrazione, il cipiglio e il cupio dissolvi dei tuoi ultimi scritti polemici, che pure tanto anticipano, in particolare, del degrado attuale del nostro Paese, o la deriva che alla fine ti rese prigioniero del fantasma dell’origine perduta, come osserva acutamente di te lo psicanalista Massimo Recalcati, ma voglio ereditare proprio il tuo desiderio di modernità. Voglio credere che sia questo il tuo insegnamento fondamentale, più prezioso: nello smarrire completamente il rapporto con la Storia e con la riflessione sul senso della Storia, o meglio con la Storia come progetto dell’uomo che aspira ad umanizzarsi (il vero “sogno” moderno), consiste il pericolo più grave, il pericolo di una società totalmente alienata. Ma voglio credere, come diceva un altro poeta, che dove c’è pericolo, cresce anche ciò che salva. E l’ampliamento degli orizzonti culturali che la globalizzazione e la comunicazione digitale (questi due fenomeni che non hai potuto commentare) consentono, possono agevolare una ricontestualizzazione di questa Storia sui tempi più lunghi dell’ominazione, della vita, della terra, capace di generare nuova coscienza, nuove volontà morali, nuove appartenenze. Quanto ci sarebbe utile ricordare, oggi, ad esempio, a dispetto dell’ideologia sviluppista, da te ereticamente stigmatizzata già quarant’anni fa, e come pure ammoniva Marx nel Capitale, che il valore della nostra ricchezza non dipende solo dal lavoro umano, ma anche dalla terra, dalla natura? Già voglio ricordarti così e salutarti con le parole, anzi i versi non tuoi, ma di Karl Marx, scritti nell’ultimo numero della Gazzetta renana, su cui si era abbattuta nel gennaio 1843 la mannaia della censura prussiana: “Ci rivedremo un giorno su una nuova riva:/ quando tutto cade, indomito il coraggio resta”. Grazie, Pier Paolo.

Testo ripreso da http://www.doppiozero.com/
Questo testo fa parte del contributo che doppiozero ha scelto di realizzare, articolato in tre parti - interviste, poesie, lettere - in occasione delle celebrazioni promosse dal Comune di Bologna, dalla Fondazione Cineteca di Bologna, e all’interno del progetto speciale per il quarantennale della morte, che si articola in un vasto e ricco programma d’iniziative nella città dove Pasolini è nato e ha studiato.

B. MALINOWSKI SUL CARATTERE RIVOLUZIONARIO DEL DONO


Cent’anni fa l’antropologo Malinowski scoprì una società aborigena fondata sulla generosità. Per noi una grande utopia: il dono, o se vogliamo l'atto gratuito privo di ogni motivazione utilitaristica, come scardinamento della società delle merci e del profitto. Non a a caso Debord e i giovani lettristi rivoluzionari chiamarono Potlatch il loro foglio di battaglia.
Marino Niola

Quando il dono diventò la base dell’economia


Chi fa regali alla fine ci guadagna sempre. E non solo in gratitudine. Perché il dono è un investimento sul futuro. Un contratto a lungo termine. E a insegnarcelo non è stato nessun guru dell’economia ma gli aborigeni delle isole Trobriand, che del dare a piene mani hanno fatto un’arte della convivenza, nonché la base della loro dottrina politica. Anticipando, e di fatto ispirando, le teorie contemporanee del convivialismo e dell’antiutilitarismo.
A scoprire i segreti di questa economia della generosità è stato, giusto un secolo fa, Bronislaw Malinowski, il celebre antropologo polacco, professore alla London School of Economics. Che, per uno scherzo del destino, si trovava in Australia per studiare gli aborigeni, quando scoppiò la prima guerra mondiale. Come suddito dell’impero austroungarico, e quindi cittadino di un paese nemico, gli sarebbe toccato l’internamento in un campo.
Ma il giovane Bronislaw riuscì a convincere le autorità australiane a confinarlo nell’arcipelago delle Trobriand, oggi isole Kiriwina, dal quale non c’era pericolo che fuggisse. Ma in compenso avrebbe potuto continuare le sue ricerche sugli usi e costumi delle tribù di questi atolli corallini che si trovano nel Pacifico occidentale, tra la Nuova Guinea e le isole Salomone.

Il 1915 fu un annus horribilis per l’Europa, ma per l’antropologia fu un anno fortunato. Perché appena mise piede su quelle spiagge, dove il vento mormora tra le palme, Malinowski fu subito colpito da un’usanza che ai suoi occhi di occidentale nutrito di economia politica, sembrava priva di qualsiasi logica. Gli indigeni affrontavano traversate oceaniche lunghissime e piene di pericoli a bordo delle loro piroghe per portare doni agli abitanti di isole lontane. Una generosità incomprensibile e un coraggio ai limiti dell’incoscienza, visto che a viaggiare su quelle acque tempestose e infestate di squali era una bigiotteria senza valore. Collane e braccialetti di conchiglia.
Cose futili e non beni necessari. E, come se non bastasse, questi monili da poveri venivano regolarmente rigirati da coloro che li avevano ricevuti agli abitanti dell’isola più vicina. Che a loro volta li indossavano un po’ di tempo per farsi belli e poi prendevano il mare per andare a farne omaggio agli abitanti di altre terre. Creando così un circuito di scambi che chiamavano kula.
Apparentemente un circolo vizioso per cui il cadeau, prima o poi, finiva per tornare nelle mani del primo proprietario. Un po’ come certi regali, riciclati di Natale in Natale, che alla fine tornano al mittente come un boomerang. Ma per i Trobriandesi questa sorta di sbolognamento sistematico era un valore aggiunto. Perché ogni passaggio di mano in mano caricava il dono di prestigio. Per dirla con parole nostre, ne impreziosiva il pedigree. Che stava in buona parte in un plusvalore relazionale. Come certi diamanti leggendari di cui si sciorina sistematicamente la cronologia di coloro che li hanno posseduti.

Il caso trobriandese, raccontato da Malinowski nel suo capolavoro Gli argonauti del Pacifico occidentale, divenne subito un rompicapo per gli economisti che non riuscivano a trovare senso in un comportamento tanto irrazionale. Così alla fine molti esponenti di questa scienza che noi moderni ci ostiniamo a ritenere esatta – e che i Greci, con maggior prudenza, definivano semplicemente “governo della casa” (da oikos abitazione e nomia regola) – conclusero che si trattava di un’assurdità. 
Un comportamento da tribù primitiva, economicamente immatura che, incapace di calcolare costi e benefici, sprecava il tempo a fare regali, per di più senza guadagnarci nulla. Ma l’imperturbabile polacco non fece una piega e restituì colpo su colpo, sbattendo in faccia agli scettici la soluzione del rebus, l’algoritmo segreto che governava quella strana giostra di regali e regalini. In realtà la ragione di quella fatica, apparentemente inutile, non stava nel valore d’uso degli oggetti, bensì nel loro valore di scambio. Che si fondava soprattutto sulle alleanze e partnership prodotte da quel circuito di reciprocità.
Il dono insomma funzionava come un contratto sociale, facendo di tante popolazioni straniere, lontane e potenzialmente nemiche, un vero e proprio sistema. Ordinato e coordinato. Una federazione che metteva in moto una rete di relazioni sovralocale. Dalla quale non si usciva mai. Infatti i Trobriandesi dicevano con orgoglio che «l’appartenenza al kula è per sempre».

Questa sorta di mercato globale primitivo era insomma capace di connettere genti e paesi separati da migliaia chilometri di mare, a dispetto dei loro fragili mezzi. Basti pensare che nelle capanne dei cacciatori di teste della Nuova Guinea indonesiana e delle isole Molucche sono state trovate preziose porcellane cinesi d’epoca Ming. Insomma lo scambio di doni era una pensata geniale per fare uscire quelle isole dal loro isolamento e farne un solo grande arcipelago.

Il che in fondo vale anche per noi, utilitaristi disincantati, quelli che “nessuno ti regala niente per niente”. E si vede chiaramente in momenti come il Natale. Con la sua girandola di doni e controdoni, che non a caso gli americani chiamano big swap, il grande scambio. Un circuito cerimoniale che tiene in equilibrio reciprocità e gratuità, generosità e socialità, obbligo e piacere.Col risultato di riaffermare il principio dell’utile, ma proiettandolo su un piano più generale, e soprattutto meno egocentrico.
Perché quel che regaliamo oggi ci verrà restituito in qualche modo con gli interessi. E non necessariamente da chi ha ricevuto. Come dire che il dono è la forma più sottilmente disinteressata del profitto, perché è l’origine stessa del legame sociale, il gesto primario, incondizionato e gratuito che fa uscire l’individuo da se stesso e lo lega agli altri in una rete che assicura scambio protezione, solidarietà. E di conseguenza anche guadagno.
Non è un caso che le religioni nascano tutte da un dono fatto al dio. E che il dio ricambia. Ecco perché, perfino il nostro Natale consumistico, continua ad essere animato da quell’energia collettiva messa in moto dallo spirito del dono. Che anche se per pochi giorni all’anno, fa di quelle isole che noi siamo un solo arcipelago.
La Repubblica – 17 dicembre 2015