Augusto Benemeglio
Le città di Ungaretti, la memoria e la carne
Giuseppe Ungaretti significa Alessandria d’Egitto dove nacque l’8
febbraio 1888 (“ Era burrasca, pioveva a dirotto/ in quella notte/ e
festa gli Sciiti / facevano laggiù/ alla Luna detta degli amuleti”) e lì
visse tutta la sua giovinezza, fino a ventiquattro anni. Il padre,
Antonio, “che era un toro con i baffoni folti come Stalin”, vi era
emigrato per i lavori al canale di Suez e zappando il fango del Mar
Rosso contrasse una grave forma di idropisia che lo condusse alla morte a
soli ventotto anni, “senza più un urlo, quando non gli rimaneva neanche
quella forza”.
La moglie, Maria Lunardini,
una contadina analfabeta umile, coraggiosa e forte, piena di fede,
energia e concretezza seppe far fronte alla drammatica situazione,
allevando i due figli (Costantino, di dieci anni e il piccolissimo
Giuseppe, di appena due) e gestendo, da sola, il forno che il marito
aveva appena aperto alla periferia della città, vicino al deserto,
“colla tenda del beduino a quattro passi di casa, una baracca con la
corte e le galline, l’orto e tre piante di fichi fatte venire dalla
campagna di Lucca”.
Le loro origini erano di poveri contadini lucchesi: “A casa mia, in
Egitto, dopo cena, recitato il rosario, mia madre ci parlava di quei
posti” , posti che vedrà per la prima volta a trentuno anni suonati e
dirà: “In queste mura non ci si sta che di passaggio. Qui la meta è
partire”.
Ad Alessandria aveva scoperto i classici italiani e i più nuovi poeti e
scrittori francesi. Sino dai banchi della scuola aveva scoperto Leopardi
e Baudelaire , Mallarmè e Nietzsche. “Non dico che capissi allora
Mallarmè. Ma la sua poesia è così piena del segreto umano dell’essere,
che chiunque può sentirsene musicalmente attratto, anche quando ancora
non ne sappia che malamente decifrare il segreto letterario. A diciotto
anni io avevo già afferrato il primo segreto dell’arte”. Più in là
conosce Enrico Pea, Costantino Kavafis e il
Porto sepolto
dell’antica isola di Faros della sua prima raccolta di versi ( “Vi
arriva il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti / e li
disperde// di questa poesia / mi resta / quel nulla / d’inesauribile
segreto”).
Ma Ungaretti significa anche Roma, dov’è la sua tomba, e quella
della moglie Jeanne, presso il cimitero del Verano, e dove il poeta
visse a lungo, a più riprese, a partire dal 1922, dapprima come
impiegato al ministero degli Esteri, in condizioni estremamente
difficili ( in sei anni di residenza cambiò almeno otto abitazioni,
spesso camere d’affitto in cui c’era da combattere contro pulci e
pidocchi), e poi dal 1942 in poi, per moltissimi anni, – tranne un
periodo in cui fu sottoposto a procedimenti di epurazione e venne
sospeso per aver aderito al fascismo, ma poi reintegrato dal ministro
Gonella – come professore universitario di letteratura moderna.
Ma anche Milano è una delle città ungarettiane, in cui il poeta visse
negli anni che precedettero la prima guerra mondiale (1914-1915), e dove
morì nella notte tra il 1° e 2 giugno 1970, a seguito di una
broncopolmonite contratta a New York, dove si era recato per ritirare
un premio.
E come non ricordare Parigi, dove aveva studiato alla Sorbona ( “Ah, le
lezioni di Bergson tutto di nero vestito che incessantemente, su un
colletto duro e alto, moveva il capo come la lancetta dei secondi”), e
aveva conosciuto il fior fiore di artisti e poeti d’avanguardia, da
Apollinaire a Fort, da Cendrars a Jacob, Picasso, Léger, De Chirico,
Modigliani, Proust, Soffici , Carrà e Palazzeschi; e lì aveva visto
morire il suo amico arabo Mohamed Sceab , “discendente di emiri di
nomadi, suicida perché non aveva più Patria, “// L’ho accompagnato/
insieme alla padrona dell’albergo dove abitavamo, a Parigi, dal numero 5
della rue des Carmes, appassito vicolo in discesa. Riposa nel
camposanto d’Ivry, sobborgo che pare sempre in una giornata di una
decomposta fiera”.
E i cinque anni vissuti a San Paolo del Brasile, dove insegnò lingua e
letteratura italiana all’Università dal 1937 al 1942, e scoprì la
cultura popolare negra, i rituali religiosi e la musica; e naturalmente
il carnevale di Rio (“per le strade gremite, sui predellini del
tramvai, non c’è più nulla che non balli, sia cosa, sia bestia, sia
gente, giorno e notte, e notte e giorno, essendo carnevale”), dove visse
momenti intensamente vivi, drammatici e tragici, come la morte del
fratello Costantino ( “Se tu mi rivenissi incontro vivo/ con la mano
tesa/ ancora potrei, di nuovo in uno slancio d’oblio/stringere,
fratello, una mano”) e quella del figlioletto, Antonetto, che aveva
solo nove anni (“Alzavi le braccia come ali/ e ridavi nascita al vento/
correndo nel peso d’aria immota// Nessuno mai vide posare / il tuo lieve
piede di danza”), che morì per un appendicite mal curata.
Forse il vecchio “Ungà”, come lo chiamavano gli amici, che si era fatto
crescere un barbone all’Hemingway, significherà qualcosa anche per la
città di New York, che gli aveva assegnato un premio prestigioso e lo
aveva invitato a tenere un ciclo di lezioni alla Columbia University,
nel 1964. Lui aveva sostato sul ponte di Brooklyn e aveva provato
l’impressione , all’ingresso di Manhattan, di ritrovare antiche memorie
del deserto, di entrare “in un regno da Mille notti e una, con i
grattacieli che drizzano rivolti a lontananze, a uno a uno isolandosi
nel buio, la loro statura di minareti esagerati”.
Ungaretti e la TV
All’inizio degli anni ’60 Giuseppe Ungaretti cominciò ad entrare
nelle nostre case, grazie al piccolo schermo, quella TV semplice,
ruspante e anche provinciale, se vogliamo, che però sapeva educare e
fare anche cultura di grande spessore, come nel caso de
L’ Odissea
di Franco Rossi, un genio della regìa, un vero artista dello schermo
che chissà perché non gli hanno fatto fare praticamente null’altro, a
parte
Un bambino di nome Gesù, due film-tv capolavori, due
modelli tuttora insuperati. Lui, il grande vecchio della nostra
letteratura pubblica, aveva curato la traduzione di alcuni brani dell’
Odissea
dal greco e li recitava lui stesso, con quella voce che sembrava
provenire dal passato più remoto, dalle tombe egizie, o dagli harem di
cui gli aveva parlato la sua balia delle Bocche di Cattaro, voce piena
di anfratti, cavernosità, enfasi e ira. In quella voce allucinata che
esasperava le consonanti e variava continuamente il timbro, c’erano
Nestore, Calcante e le grida dei troiani massacrati, c’era il naufragio
di Ulisse e la cantilena del beduino nel deserto fatta di una sola
parola iterata all’infinito (
Uahed!), sotto il silenzio della
luna altissima , “dopo il crepuscolo ondeggiante come per sempre sulla
sabbia”, una malinconia dolcissima, e il tutto ti franava addosso come
qualcosa che non t’aspetti da un vecchio curvo e ingiallito, ti correva
addosso come se da anni ti stesse cercando. Praticamente non si capiva
una parola di quel che diceva, ma esercitava un fascino, una magìa, un
viaggio nel mistero, la storia dai suoi albori, la poesia epica,
violenta e sensuale, disperata, fatale che ti incastrava nella tua sedia
come un prigioniero per quei pochi secondi ( non durava più di tre
minuti l’intervento del vecchio poeta ). E anche noi, allora ragazzini,
lo ricordiamo bene quel volto di gran vecchio, antico profeta, (ma a
tratti anche con un ghigno mefistofelico), la barba candida, lo sguardo
ammiccante, che sperava in una chiamata definitiva dell’Accademia
svedese ( fu inserito per ben tre volte nel novero dei candidati ) per
il sospirato Nobel, che non ebbe, ma riuscì a conquistarsi (
stranamente, direi, trattandosi di un poeta ) le simpatie degli
italiani, che in realtà non compresero mai veramente, parlo
naturalmente delle grandi masse, l’arte della sua poesia ermetica,
soprattutto quella del
Sentimento del tempo, col suo potere di
suggestione, la verticalità, “il desiderio aggressivo di conquista del
trascendente”, ma provarono rispetto e tenerezza per quel vecchio
volto che riassumeva in modo emblematico il senso di tutta la sua
esperienza di nomade, di zingaro, girovago, figlio del deserto ( in lui
c’era il deserto, la vita nel deserto) in cerca d’identità, pellegrino
in viaggio perenne verso la “ terra promessa” ( “In nessuna parte mi
posso accasare”// Cerco un paese innocente”).
La sensualità
Quando una giovane e molto attraente Iva Zanicchi (
La riva bianca e la riva nera) gli dedicò una canzone (
Caro vecchio mio ),
anticipando le video-canzoni che oggi imperano dovunque, e s’avvicinava
al poeta, lo carezzava, lo blandiva, un po’ come avrebbe fatto con suo
nonno, si rivide, nello sguardo del vecchio, l’antico beduino che
pratica una religione i cui precetti aderiscono alla sensualità, Allah
gode con il musulmano anche nella soddisfazione e nella manifestazione
dei sensi; si rivide il vecchio satiro che bramava ancora l’amore
fisico, nonostante gli anni fossero molti, ottanta. E ricordò la donna
amata ad Alessandria d’Egitto, colei che “approdava come una colomba /
agli abbandonati giardini. Quando mi risveglierò /nel tuo corpo / che
si modula come la voce dell’usignolo”. Un’esperienza di forsennata
lussuria a soli sedici anni, che poteva essere anche “colpevole”( era
la moglie di un amico, o forse anche di più, la madre di un amico?).
C’era in quell’ amare con furore – dirà lui stesso – il clima di
Alessandria , l’erotismo furente che non può non travolgere chi ci viva.
“E’ come una frustata nel nulla del deserto che dalla pianta dei piedi
vi scioglie il sangue in una canzone… entra nel sangue come
l’esperienza di questa luce assoluta che si logora sull’aridità. Amore
che subito si biforcò ambivalente: sulla strada della tenerezza, del
sogno incontaminato… e strada satanica dell’inferno, la strada che vi
divora. E queste due nature sono in me, sono contrastanti”. Questa
feroce sensualità, questo erotismo sfrenato, che non riuscirà mai ad
appagarsi in lui, Ungaretti se la porterà a Parigi, quando vi arrivò
nel 1914 coi libri di Baudelaire, Mallarmè, Rimbaud, Nietzsche, e il
più amato di tutti, Leopardi, ma soprattutto con la vivida memoria e
nostalgia della sua città, Alessandria, il deserto, la notte, il nulla, i
miraggi, la nudità immaginaria che innamora perdutamente. Città
friabile, senza monumenti, quasi priva di passato, dove tutto è
precario, e il tempo la porta sempre via, in ogni tempo. “ Il sole
rapisce la città/ non si vede più/ Neanche le tombe resistono molto”.
A Parigi, solo, esule, incapace di mai accasarsi, “ in uno stato
inesorabile e irrimediabile di strappo “, il poeta comincia a cantare:
la poesia gli fa irruzione, gli esplode dentro, gli fa sentire che solo
in quella regione si può cercare e trovare la libertà. Prima d’allora
non aveva scritto ancora una poesia vera e propria ( qualche tentativo
giovanile di cui non v’è traccia); lì, a Parigi, istituisce il miraggio
di una nuova innocenza, la terra promessa. Chi vive fin dall’infanzia,
come lui, ai margini del deserto, acquista consuetudine con il miraggio,
illusione-delusione, lo scherzo sadico della luce, l’abbaglio di un
immagine, la scoperta meravigliata del proprio esistere, ma lì avverte
anche la sua schiavitù carnale tutta araba. E “sempre – dirà Leone
Piccioni – lo scatto dei sensi sarà in lui un segno incancellabile, con
una capacità d’impeto di sangue e d’amore, quella capacità propria della
gente di colore, di certi negri nord o sudamericani, ad esempio, di
sentire in gioia e letizia anche la carne e il sangue e lo spirito
religioso.”
La guerra
Dirà lui stesso di essere stato nutrito con latte negro che mette nel
sangue stimolo per certe fantasie, certe magie, certe disperazioni,
certe irruenze sensuali, quel latte che regala a chi se ne nutre uno
stato di innocenza nei rapporti con gli altri. “Sono un uomo solo,
separato, avulso, espulso, vissuto in prossimità del deserto, un nulla
sterminato, una monotonia estrema, una schiavitù carnale”, che
assurdamente ricorderà quando si trova sul fronte del Carso, nella
prima guerra mondiale, e ogni giorno, ogni momento, rischia la morte, e
ogni giorno scopre il valore della fraternità degli uomini nella
sofferenza, con “l’aria crivellata come una trina dalle schioppettate
degli uomini ritratti nelle trincee come le lumache nel loro guscio” .
Ricorderà come a Parigi , sulla Senna ( “in quel suo torbido/ mi sono
rimescolato / e mi sono conosciuto” ) avesse conosciuto “ La ragazza
tenue”, amante di Apollinaire, e ci avrebbe quasi subito fatto l’amore,
forsennatamente (“ Su Parigi s’addensa un oscuro colore di pianto. In un
canto di ponte contemplo l’illimitato silenzio di una ragazza tenue. Le
nostre malattie si fondono. E come portati via si rimane.”) Anche in
questo caso si trattava di un amore “colpevole” , perché la “ragazza
tenue” era l’amante di Apollinaire, ch’era divenuto il suo amico più
caro durante il soggiorno parigino, ma Guillame non è arabo e si
contenterà di buon grado di dividere con lui la sua donna.
Dunja
Ma egli fu schiavo della carne fino a ottantun anni suonati, se è
vero, come è vero, che ebbe dei rapporti sessuali con una giovane croata
trentenne, che aveva lo stesso nome della sua balia ad Alessandria
d’Egitto, ch’era stata in un harem e gli aveva raccontato storie di
meravigliata incredulità, Dunja, che significa universo. Da lei gli
erano venuti “delle specie di lampi di tenerezza e d’invenzione
fantastica, stupore di sogni, dove appariva un Oriente lontano, una
civiltà diversa, piena di colore, piena di spasimi e piena non di magia,
ma di fatalità”. Tutto ciò gli aveva invaso il cuore di “un segreto
inviolabile, per sempre fonte di grazia e miracoli”. Ed ecco che il
miracolo ( senza ausilio di Viagra o altri additivi) s’avvera. “Si volge
verso l’est l’ultimo amore e m’abbuia da là il sangue / con tenebra
degli occhi della cerva// L’ultimo amore più degli altri strazia/ certo
lo va nutrendo/ crudele il ricordare// Capricciosa croata notte lucida/
di me vai facendo/ uno schiavo ed un re”.
Questa straordinaria vitalità non deve sorprendere più di tanto in un
uomo come Ungà, perché nella sua faccia invecchiata – come disse lui –
c’era contenuta la sua faccia da giovane e la sua faccia da bimbo. “Il
tempo le ha allontanate dentro le rughe, la stanchezza e la saggezza, le
delusioni e i crucci, ma se sapessi guardare dentro di me stesso, le
vedrei bene, e in ogni caso le porto con me tutte quelle facce, le porto
sino al dissolvimento nella tomba”.
Questa era la fede nella memoria di un poeta costretto da un precoce
sentimento del tempo e dalla sua condizione di sradicato alla
ricapitolazione e ai consuntivi: “Ho ripassato / le epoche/ della mia
vita; E oggi alcune soste ho ricordato/ del mio lungo soggiorno sulla
terra”.
Negli ultimi anni della sua vita, dopo la morte della moglie Jeanne,
avvenuta il 24 maggio 1959, il vecchio Ungà si era legato a Jone
Graziani, una sua ex allieva, giovane letterata e traduttrice. Fu un
amore discreto, noto solo agli amici, che gli rinnovò quella carica di
vitalità e sensualità di cui aveva esigenza, anche se, a settanta anni
passati, “ L’amore più non è quella tempesta / che nel notturno
abbaglio/ ancora m’avvinceva poco fa/ tra l’insonnia e le smanie”.
Questo rapporto lo fece tornare al deserto, al beduino che c’era in lui,
al miraggio, allo stato d’aria febbricitante, “in cui s’imbroglia di
più ogni nostra idea di distanze”. E al deserto-vita riconduce il
sentimento della catastrofe, il sentimento del nulla, e l’orrore del
vuoto, l’inutile errare alla ricerca delusa della terra promessa ( “Ma
alla mia vita accadrà di vedere espandersi il deserto sino a farle
mancare anche la carità feroce del ricordo?” ) Ma l’ultima poesia del
“vecchissimo ossesso”, scritta a Roma tra la notte del 31 dicembre 1969 e
l’alba del 1° gennaio 1970, parla ancora d’amore e di Dunja
L’impietrito e il velluto,
che si chiude con “Il velluto dello sguardo di Dunja / fulmineo torna
presente pietà”, che è forse un messaggio di speranza.
Augusto Benemeglio, Roma, 22.12.2015 . Articolo ripreso da https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2015/12/27/ungaretti-le-citta-la-memoria-e-la-carne/