31 dicembre 2011

Cogli l'attimo

Come segno di augurio per l’anno nuovo pubblico il testo di una poesia, erroneamente attribuita a Jorge Luis Borges, di cui ignoro il vero autore.

Istanti

Se io potessi vivere nuovamente la mia vita
nella prossima cercherei di commettere più errori.

Non tenterei di essere tanto perfetto, mi rilasserei di più
sarei più stolto di quello che sono stato,
in verità prenderei poche cose sul serio.

Correrei più rischi, viaggerei di più, scalerei più montagne,
contemplerei più tramonti e attraverserei più fiumi,
andrei in posti dove mai sono stato,
avrei più problemi reali e meno problemi immaginari.

Io sono stato una di quelle persone che vivono sensatamente,
producendo ogni minuto della vita.

E’ chiaro che ho avuto momenti di allegria,
ma se tornassi a vivere, cercherei di avere soltanto momenti buoni.

Perché di questo è fatta la vita,
solo di momenti da non perdere.

Io ero una di quelle persone che mai andavano da qualche
parte senza un termometro, una borsa d’acqua calda, un ombrello e un paracadute:
se tornassi a vivere, viaggerei più leggero.

Se io potessi tornare a vivere, comincerei ad andare scalzo
all’inizio della primavera
e continuerei così fino alla fine dell’autunno.

Girerei più volte nella mia strada, contemplerei più aurore
e giocherei di più con i bambini.

Se avessi un’altra volta la vita davanti...
Ma, vedete, ho ottantacinque anni e non ho un’altra possibilità.

30 dicembre 2011

Capodanno

Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno.

Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date.

Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna. E sono diventati cosí invadenti e cosí fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Cosí la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa la film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante.

Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore. Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca.[...]

(Antonio Gramsci, Gennaio 1916, l’Avanti!)

Il tutto nel nulla

Oggi non ho alcuna difficoltà a riconoscermi nel corsivo di un Cardinale:

“I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto. Dopo aver amato Leopardi nella mia adolescenza per la sua straordinaria poesia, molti anni più tardi ho imparato a conoscerne un altro profilo leggendo il suo Zibaldone, uno specchio della sua anima, dei suoi tormenti, delle sue insofferenze e ostilità. Sono pagine spesso roventi nella loro essenzialità e, in quest'anno trascorso insieme, ne abbiamo offerto più volte squarci ai lettori. È ciò che faccio per l'ultima volta oggi, nella festa dei Santi Innocenti, vittime della crudeltà e brutalità degli adulti; e ben sappiamo quanto fitta sia la folla degli Erodi che s'insinua nelle case, nei parchi, tra i giochi dei bambini e persino nelle chiese. Ora, però, il poeta di Recanati ci invita a una più lieve ma sempre seria riflessione. Tutti abbiamo provato talvolta a osservare un piccolo che gioca o che si fissa su un particolare minimo della natura: la realtà più semplice si trasfigura ai suoi occhi in un microcosmo in cui egli è ospite e signore, immerso nel suo desiderio di scoprire e sviscerare. Egli trova veramente il tutto in un nulla. Proprio al contrario della nostra superficialità di adulti che passa in mezzo a un mondo di meraviglie, a presenze luminose, con l'indifferenza di un mercante che calcola solo costi e ricavi, rischi e vantaggi. Il tutto, col suo mistero immenso, sembra a molti solo un campo di esercitazioni per filosofi o predicatori. Anche in questo senso ha valore la lezione di Gesù a «diventare piccoli» per saperci stupire e per scoprire la grandezza di ciò che vediamo, incontriamo, sperimentiamo. Nel terreno della storia potremmo trovare anche noi – come diceva il poeta Mario Luzi – «il bulbo della speranza… in attesa di fiorire alla prima primavera».

Gianfranco Ravasi su L’Avvenire del 28.12.2011

29 dicembre 2011

Tutti dicono Germania Germania

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Quanti guardano con crescente diffidenza e ostilità all’odierna immigrazione di masse ingenti di poveri africani o di giovani dell’est nel nostro Paese hanno la memoria corta. Eppure non sono passati tanti anni dal tempo in cui milioni di italiani e siciliani sono stati costretti a cercare in America o nel Nord Europa condizioni di vita migliori.
Anche per questo appare particolarmente opportuna la ristampa dell’editore Sellerio di un libro prezioso di Stefano Vilardo, già pubblicato da Garzanti, nel 1975, col titolo Tutti dicono Germania Germania. Poesie dell’emigrazione. L’ autore, nato a Delia (Caltanissetta) nel 1922, ha avuto la fortuna di essere stato, fin da giovane, compagno di studi ed amico fidato di Leonardo Sciascia .
Il libro risente fortemente dell’influenza del maestro di Racalmuto, e non soltanto per la bellissima prefazione che l’accompagna. In esso si trovano raccolte 42 storie di vita di giovani siciliani emigrati in Germania attorno al 1960. Le storie dei suoi compaesani, raccolte con un registratore del tempo, sono state rielaborate da Vilardo in forma poetica, senza però alterarne forma e sostanza. Anzi, come si rileva nel retro copertina della I edizione del libro, che meritava di essere riprodotta integralmente per la sua straordinaria incisività, i versi del Vilardo “mantengono ossessivamente il tono e gli accenti del parlato” dei giovani braccianti del suo paese "disgraziati senza cielo né terra”. Il lessico rimane proprio quello dialettale soprattutto quando, senza censure, registra la rabbia di quei giovani contro le classi dirigenti che “prima delle elezioni / distribuiscono miele di parole” per poi mostrare il loro vero volto di “sanguisughe velenose”.
I protagonisti di “questa Spoon River nostrana” sono i giovani emigranti di Delia che cercano, nella Germania mitizzata, il “paradiso” o la “manna del cielo”, rivelatasi, appena raggiunta, luogo di fatica e dolore. Vilardo riesce a cogliere in poche righe i tratti essenziali della vera storia dell’emigrazione ignorata fino allora dalle patrie lettere.
E su questo punto si sofferma Sciascia nella nota introduttiva al libro facendo proprio il giudizio di Antonio Gramsci. Questi nei Quaderni – che proprio nello stesso 1975 venivano riproposti in edizione critica – si era scagliato, con tagliente sarcasmo, contro quella letteratura “completamente inutile ed oziosa” che ha ignorato il fenomeno dell’emigrazione italiana all’estero, nelle sue reali dimensioni, proprio nello stesso momento in cui, nei primi decenni del 900, una delle più grosse ondate di emigrazione dall’Italia si riversava sulle Americhe.
Ci piace, pertanto, concludere questo invito a leggere il libro di Stefano Vilardo, con le parole gramsciane di Leonardo Sciascia:
“La classe dirigente italiana, e la cultura che la rappresentava, era talmente occupata a cercare le orme del Genio – negli anni del fascismo G. Volpe inaugurava una pubblicazione in più volumi su L’opera del Genio italiano all’estero – dall’anno mille alla Rivoluzione francese, che non si accorgeva delle centinaia di migliaia di italiani che, bestialmente stivate, continuavano a lasciare le itale sponde. Non voleva accorgersene, cioè, non voleva curarsene. Erano italiani senza genio (Genio): sapevano soltanto lavorare con le braccia, e duramente. In altro luogo Gramsci osserverà: e perché questa classe dirigente, la sua cultura, la sua letteratura, dovrebbe occuparsene quando sono all’estero, dei lavoratori italiani, se nemmeno se ne occupa quando sono in Italia?” (p.10, Edizione Sellerio).

Francesco Virga




Una Palermo diversa

Ripropongo, con il consenso di Gabriele Mastropaolo, il post pubblicato qualche giorno fa sul suo blog Estate di San Martino. Le sue foto mostrano una Palermo diversa rispetto a quelle che siamo abituati a vedere ogni giorno


27 dicembre 2011

Giorgio Bocca ricordato da Roberto Saviano

Giorgio Bocca ci ha lasciati. Mi piace ricordarlo con le parole di Roberto Saviano pubblicate sull'ultimo numero de L'Espresso:


“Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati...” Quelli che parlavano erano due piemontesi e discutevano delle radici profonde del male meridionale, loro lo avevano capito e l'analisi che si scambiavano come un testimone che l'uno affidava all'altro non era disprezzo colonialista verso un popolo schiavo che non aveva la forza di riscattare i suoi diritti. No, il loro era amore per il Sud, da italiani che sapevano di essere parte di quella stessa terra così lontana dai portici delle città sabaude, costruiti per proteggere da un clima europeo che il sole della Sicilia e della Campania non sa immaginare: un amore che andava oltre il senso del dovere o della professione e che per questo si trasformava in denuncia, nella metodica, sistematica analisi di quanto il male fosse profondo nella vita della gente che non sapeva, non voleva, non poteva ribellarsi.
Quel colloquio tra Carlo Alberto Dalla Chiesa e Giorgio Bocca è stato importante per me e per quelli della mia generazione che hanno sempre chiesto di capire. Noi che abbiamo cominciato a fare domande dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per riscoprire così il sacrificio del carabiniere diventato prefetto che aveva rinunciato alle scorte e alle blindate per essere parte della vita di Palermo, l'altra capitale del Sud, e si era imposto di cominciare la sua missione proprio dalle scuole, dal consegnare ai giovani meridionali la speranza in un futuro di legalità.
Noi volevamo capire perché senza capire non si può cambiare; capire anche a costo di specchiarsi nell'orrore di una realtà che non poteva più restare nascosta dietro slogan logori e paesaggi da soap: guardarsi in faccia, scoprire il proprio volto a costo di rendersi conto di quanto fosse brutto.

Questo è quello che Giorgio Bocca mi ha insegnato, a raccontare senza avere scrupoli né sentirmi un traditore. Lo hanno accusato di essere razzista, antimeridionale, di odiare il Sud. Sono le stesse cose che hanno detto di me, contro di me, "il rinnegato". Ci hanno dato degli "avvoltoi" che si arricchiscono con il dolore altrui. Bocca invece ha fatto dell'essere "antitaliano" una virtù, il metodo per non arrendersi a luoghi comuni. Da lui ho capito che non bisognava mai lasciarsi ferire, né abbassare gli occhi: gli insulti sono spinte ad andare oltre, a entrare più in profondità nei problemi. La mia strada per l'inferno l'ha indicata lui, "Gomorra" si è nutrito della sua lezione: guardare le cose in faccia, respirarle, sbatterci contro fino a farsele entrare dentro e poi scrivere senza reticenze, smussature, compiacenze.
Bocca lo ha sempre fatto, da fuoriclasse, lo continua a fare oggi a novant'anni con la curiosità e la tenacia di un ventenne; sempre pronto a mettersi in discussione come quel ragazzo che nel 1943 salì in montagna superando il suo passato e scegliendo il suo futuro.
E quando lui e Dalla Chiesa parlavano di un popolo da liberare lo facevano con l'anima dei partigiani, di chi aveva combattuto lo stesso nemico in nome dello stesso popolo. Avevano rischiato la vita e ucciso anche per consegnare un domani diverso a chi accettava passivamente la dittatura fascista e la dominazione nazitedesca; sono stati partigiani anche per chi non aveva il coraggio, la forza, la volontà, la possibilità o la capacità di lottare per i propri diritti. La loro vittoria è stata la Costituzione, quel documento vivo che dovrebbe essere il pilastro della nostra democrazia, un monumento di libertà troppo spesso ignorato o bollato di vecchiaia. No, è un testo modernissimo, come ancora oggi lo sono gli interventi di Giorgio Bocca. Essere partigiano prima con il fucile e poi per altri 65 anni con l'inchiostro significa avere la misura della libertà, saperla riconoscere ovunque. […]

Oggi anche lui guarda con sospetto alla chiamata federalista: sa che le mafie non chiedono altro e non soltanto al Sud. Perché lui, quello che chiamano "razzista piemontese", quello che tra i primi ha saputo scorgere le istanze positive della Lega, non si fa scrupolo nel dire il male che vede al Nord, i frutti malati di quella colonizzazione criminale che ha trovato terreno fertile sulle due sponde del Po grazie anche alla distrazione spesso complice degli amministratori leghisti: "La presenza della criminalità organizzata, per sua storia e natura antistatale, è qualcosa di visibile, di onnipresente, di impudente. Ci sono ristoranti, mercati, club, sezione di partito, amministrazioni della Padania equamente divise fra la novità politica della Lega anti-unitaria e le cosche mafiose che di patria conoscono solo quella della rapina e delle consorterie criminali". Eccolo Bocca, in quello che parlando dei suoi maestri definì : "Lo stesso modo di vedere il mondo, senza retorica ma senza rassegnazione". Vedere il mondo a testa alta, la sua lezione, che mi accompagnerà sempre.

Roberto Saviano

26 dicembre 2011

La mafia a Marineo. Così andavano le cose nel XIX secolo...

Considerato che tanti giovani ignorano il libro di Giovanna Cirillo Rampolla, Suicidio per mafia, La Luna 1986 mi pare opportuno riproporre una parte della recensione pubblicata sul n.79-80/ 1987 della Rivista SEGNO.

Talora le cronache locali, con la loro forte aderenza alla realtà, aiutano più delle grandi sintesi storiche e sociologiche a comprendere le cose. Così il Ricorso che nel 1889 la signora Giovanna Cirillo, vedova Rampolla, indirizzò al Ministro dell’ Interno dell’epoca, illumina più di tanti libri sulla realtà della mafia di ieri e di oggi. Ed è un indubbio merito della nuova casa editrice palermitana, La Luna, avere riconosciuto il valore storico ed attuale del documento ritrovato da Pasquale Marchese, autore di una succosa prefazione, ulteriormente valorizzato dall’introduzione di Giovanna Fiume. Quest’ultima, tramite una ricerca effettuata nell’Archivio di Stato di Palermo, oltre a confermare la circostanziata ricostruzione dei fatti raccontati dalla vedova, ha saputo inquadrare nel contesto storico e sociale del tempo l’episodio locale.
La vicenda che viene fuori dal documento è davvero esemplare: il Delegato di Pubblica Sicurezza Stanislao Rampolla del Tindaro nel 1887, avendo individuato nel Sindaco Calderone uno dei principali esponenti della mafia marinese, sorpreso ed amareggiato dalle coperture politiche offerte all’amministratore locale dal Prefetto e dal Questore di Palermo,nonostante le sue ripetute e circostanziate denunce, in un momento di sconforto si uccide. La vedova, volendo riscattare l’onore del marito e del pubblico ufficiale, ricorre al Ministro chiedendo giustizia. Ma quando la macchina di quest’ultima si mette in moto, a seguito del depistaggio compiuto da testimoni corrotti, si arriva alla conclusione che il funzionario suicidatosi era un pazzo, che la vedova autrice del ricorso andava processata per diffamazione dal momento che a Marineo non esisteva alcuna mafia!
Il Marchese nella prefazione al libro afferma con insistenza di non vedere alcuna sostanziale differenza tra la mafia di ieri e quella di oggi: “Il brigante oleografico dell’800 con i suoi manutengoli non è che il moderno imprenditore-faccendiere che, quando può, usa le bustarelle invece del mitra. Ma si tratta pur sempre di briganti, sempre legati al potere […] non si tratta di mafiosi o briganti che vivano ai margini del paese, giacchè sono insediati legalmente nel municipio, ne è a capo lo stesso sindaco”(pp.8-10). E la Fiume rafforza questa tesi quando sostiene: “Nell’ultimo ventennio del secolo scorso Marineo è un grosso centro dell’entroterra palermitano che conta circa diecimila abitanti; vive quasi integralmente di agricoltura, ma ciò nonostante la mafia di Marineo non è mafia rurale […]. Nell’area urbana e nel raggio delle sue istituzioni si colloca senza ombra di dubbio la mafia di Marineo. Qui, come altrove, la mafia rappresenta il modo degenerato di gestire le risorse locali, detenendo saldamente le leve del potere politico nei municipi” (pp.16-17). Francesco Virga

Nuovi contributi alla storia di Marineo

Le storie di Marineo circolate per lungo tempo sono state segnate da una forte impronta agiografica. Una netta svolta è avvenuta nel 1986 con la pubblicazione, da parte della casa editrice La Luna di Palermo, del Ricorso della Signora Giovanna Cirillo, vedova Rampolla del Tindaro, che ha fatto conoscere al grande pubblico alcuni retroscena delle lotte di potere che hanno lacerato il paese nella seconda metà dell’ 800 fino alla strage del gennaio 1894 in cui - sotto il fuoco incrociato della Guardia Regia, dei campieri e delle guardie municipali – persero la vita 18 persone.

Giovanna Fiume, docente di storia moderna all’Università di Palermo, aveva già dato un importante contributo alla migliore conoscenza della storia del paese, curando l’introduzione al libro pubblicato dalla suddetta casa editrice con il titolo Suicidio per mafia. Ad esso rimanda la stessa Autrice nella nota introduttiva al suo nuovo studio, ancora fresco di stampa - Le regole del gioco. Liste degli eleggibili e lotta politica a Marineo (1818-1859), Adarte Editori, Palermo 2011 - per tornare ad evidenziare lo stretto legame che ha contrassegnato la vita politico-amministrativa del paese col potere mafioso.

Quest’ultimo lavoro, realizzato anche grazie alla collaborazione di giovani studiosi, ricostruisce, attraverso una meticolosa ricerca d’archivio, il processo di formazione dei gruppi dirigenti del paese, attraverso l’analisi delle liste degli eleggibili alle cariche pubbliche. Dall’analisi delle dieci liste rintracciate, risalenti al periodo 1821-1858, vengono individuati i singoli soggetti e le famiglie che hanno governato Marineo nel corso della prima metà dell’800. Salta agli occhi la ricorrenza di certi nomi – i Cangialosi, i Caldaroni, i D’Angelo, i Di Marco, i Fiduccia, i Patti, i Perrone, i Raimondi, i Triolo, ed altri – che, significativamente, nonostante le diverse stagioni politiche, conservano le loro posizioni di potere anche dopo la caduta dei Borboni. Viene, inoltre, evidenziato il frequente “ricorso alla violenza” e, soprattutto, il “vischioso intreccio tra vecchio e nuovo con il peso di faide, parentele e clientele”. Impressionante risulta infine un rapporto steso nel 1852 da un Magistrato che così rappresenta il paese: “ La crassa ignoranza , l’immoralità, l’ipocrisia regnano in tutte le classi. Il tradimento, la calunnia, la rapina, gli eccidi sono le virtù che si conoscono, il vandalismo è il nume che si adora dai più[…]. Se si spegnessero tutti i malvagi che si annidano quassù, deserto diverrebbe il paese”.(pp. 151-152).

Dopo la lettura di questo saggio non posso che ribadire quanto mi capitò di notare all’indomani della pubblicazione del Suicidio per mafia: le piccole storie, ben documentate, aiutano a comprendere la grande storia meglio di tanti trattati e di tante enciclopedie.

Francesco Virga

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Recensione del libro di Giovanna Fiume, Le regole del gioco. Liste degli eleggibili e lotta politica a Marineo (1818-1859), Adarte Editori, Palermo 2011.