31 luglio 2016

G. GARCIA MARQUEZ RACCONTA HEMINGWAY

Hemingway alla Floridita con un gruppo di amici



IL NOSTRO SCRITTORE ALL'AVANA

Gabriel García Márquez



Ernest Miller Hemingway arrivò per la prima volta all'Avana nell' aprile del 1928, a bordo del piroscafo francese «Onta» che io portò da Le Havre a Cayo Hueso con una traversata di due settimane. Lo accompagnava la sua seconda moglie, Pauline Pfeiffer, che Hemingway aveva sposato solo dieci mesi prima; e né lui né lei, probabilmente, avevano altro interesse per quella città dei Caraibi che non fosse quello per uno scalo tropicale di due giorni, dopo il vasto oceano e il duro inverno di Francia. Hemingway aveva trent'anni, era stato corrispondente di giornali in Europa e autista di ambulanze durante la prima guerra mondiale, e aveva pubblicato, con un certo successo, il suo primo romanzo. Ma era ancora lontano dall'essere uno scrittore celebre; continuava ad aver bisogno di un'occupazione secondaria per mangiare e non aveva fissa dimora in nessun posto. Pauline, invece, era quel che allora si diceva una donna del bel mondo. Suo zio era un magnate nordamericano dei cosmetici, che la vezzeggiava come fosse stato suo nonno, e lei dalla vita aveva avuto tutto, compresa la bellezza siderale e l'umore instabile da moglie di Francis Macomber. Quello, però, non era il suo miglior aprile. Era incinta, annoiata dal mare, e solo desiderio, per entrambi, era arrivare al più presto a Cayo Hueso, dove avevano deciso di stabilirsi affinché Hemingway potesse terminare il suo secondo romanzo: Addio alle armi.

Quella stanza d'albergo
Di quelle quarantott'ore di Hemingway all'Avana non è rimasta traccia nella sua opera. È ben vero che nei suoi articoli giornalistici era solito fare rivelazioni molto acute sui luoghi che visitava e sulla gente che conosceva; ma, in quell' occasione, s'era imposto una vacanza dal giornalismo per consacrarsi completamente alla narrativa. Comunque, sei anni dopo, scrisse il suo primo articolo di giornalista recidivo: e si trattava di un tema cubano. Da allora in poi, sul suo soggiorno a Cuba di articoli ne scrisse una mezza dozzina, ma in nessuno ha mai fatto rivelazioni utili alla ricostruzione della sua vita privata, giacché si riferivano tutti, in generale, alla sua passione dominante di quegli anni: la pesca d'alto mare. «Questo tipo di pesca», scriveva nel 1956, «era, in passato, quel che ci portava a Cuba». La frase suggerisce che, al momento in cui fu scritta — quando ormai Hemingway viveva all'Avana da vent'anni — le ragioni della sua permanenza dovevano essere più profonde, o almeno più varie, rispetto al puro e semplice piacere di pescare.
In prossimità del bar «El Floridita» c'è l'hotel «Due mondi», dove Hemingway, ogni volta che dormiva a terra, prendeva una stanza; quando tornò dalla guerra civile spagnola finì col farne il luogo in cui scriveva stabilmente. Anni dopo, nella storica intervista con Georges Plimpton, disse: «L'hotel "Due mondi" era un buon posto per scrivere». Se si pensa alla meticolosità con cui Hemingway si sceglieva i luoghi in cui scriveva, la sua preferenza per quell'albergo può avere una sola spiegazione: senza proporselo, forse senza saperlo, si stava arrendendo ad altri incanti di Cuba, diversi, e ben più difficilmente decifrabili, che non i grossi pesci di settembre; e più importanti, per la sua anima in pena, delle quattro mura della sua stanza.
Ciò nonostante, qualsiasi donna avesse dovuto aspettare la fine della sua giornata di scrittore per tornare ad essere la moglie di Hemingway, non avrebbe potuto sopportare quella stanza senza vita. La bella Pauline Pfeiffer lo aveva abbandonato nei suoi momenti più difficili. Ma Martha Gellhorn, che egli sposò poco dopo, trovò una soluzione intelligente: cercare una casa in cui il marito potesse scrivere quanto voleva e, nello stesso tempo, farla felice. Fu così che, sfogliando gli annunci sui giornali, trovò il bel rifugio campestre di Finca Vigìa, a poche leghe dall'Avana, che da principio prese in affitto per cento dollari al mese e che Hemingway comprò in seguito per diciottomila dollari in contanti. A molti scrittori che possiedono case in diverse parti del mondo si suole chiedere quale sia quella che considerano la loro principale residenza; e quasi tutti rispondono che è la casa in cui tengono i libri. A Finca Vigìa, Hemingway ne aveva novemila; e vi teneva anche quattro cani e trentaquattro gatti.
Visse all'Avana, complessivamente, ventidue anni. Vi passò quasi la metà della sua vita di scrittore; fu là che compose le sue opere maggiori: parte di Avere e non avere, Per chi suona la campana, Di là dal fiume e tra gli alberi, Festa mobile e Isole nella corrente; e tentò anche, innumerevoli volte, il bizzarro romanzo proustiano sull'aria, la terra e l'acqua che ebbe sempre in mente di scrivere. Sono questi, tuttavia, gli anni meno conosciuti della sua vita, e non solo perché furono quelli di maggior riserbo, ma anche perché i suoi biografi sono stati concordi nel sorvolare di essi con sospetta frettolosità.
Come fosse quell 'Hemingway segreto, fu la demanda che si fece il giovane giornalista cubano Norberto Fuentes nel giugno del 1961, quando il suo redattore capo lo mandò a Finca Vigìa per scrivere un articolo sull'uomo che la settimana prima s'era fatto saltare le cervella con un colpo di fucile al palato. La sola cosa che, in quel momento, Norberto Fuentes sapesse di Hemingway era quel poco che gli aveva raccontato suo padre, un pomeriggio che avevano incontrato lo scrittore, per caso, nell'ascensore di un albergo. In qualche occasione — quando non aveva più di dieci anni — lo aveva visto passare sul sedile posteriore di una lunga Plymouth nera e gli aveva fatto la fantastica impressione che lo stessero portando al cimitero, seduto nel carro funebre più noto nelle osterie della città. Partendo da quelle fugaci apparizioni, Norberto Fuentes si impegnò a fondo nell'immane compito di appurare come fosse l'Hemingway di Cuba, che alcuni biografi postumi sembravano interessati non solo ad occultare, ma anche a travisare. Gli sono stati necessari venti anni di meticolose indagini, di difficili interviste, di ricostruzioni apparentemente impossibili, per far riemergere Hemingway dalla memoria di cubani anonimi che ne avevano condiviso le ansie d'ogni giorno: il suo medico personale, gli equipaggi delle barche da pesca, gli amici dei combattimenti di galli, i cuochi e gli inservienti di taverne, i bevitori di rum nelle notti di baldoria a San Francisco de Paula.
Fuentes è rimasto mesi interi a setacciare i resti della vita di Hemingway a Finca Vigìa, ed è riuscito a scoprire l'impronta del suo spirito nelle lettere mai spedite, nelle minute fitte di cancellature, negli appunti a metà stesura, nel magnifico diario di navigazione in cui rrifulge tutta la luminosità del suo stile. Ha stabilito, con intuizione personale, che Hemingway s'era radicato nell'anima di Cuba molto più profondamente di quanto non supponessero i cubani del suo tempo, e che pochissimi scrittori avevano lasciato tante impronte digitali a rivelare il loro passaggio nei luoghi più impensati dell'isola.

Un invitato per volta
Il risultato finale è questo reportage sanguigno e illuminante, di circa 700 pagine, che ho appena finito di leggere nell'originale, e che ci restituisce l'Hemingway vivo e un po' fanciullesco che abbiamo creduto in molti d'intravedere fra le righe dei suoi magistrali racconti. Il nostro Herningway: un uomo turbato dall'incertezza e dalla brevità della vita, che alla sua tavola non ebbe mai più di un invitato per volta, e che riuscì, come pochi nella storia umana, a decifrare i misteri pratici dell'occupazione più solitaria del mondo.
Traduzione di Letizia Bianchi La Rocca


“la Repubblica”, 30 ottobre 1982

SULLA NARRAZIONE POETICA DI NINO DE VITA


Questa mattina mi piace riprendere questo un pezzo dedicato al poeta marsalese da http://www.minimaetmoralia.it/

La narrazione poetica di Nino De Vita

di

Esistono delle storie che, appena le leggi, capisci subito che sono importanti; e tuttavia ti accorgi che non lo sono per i fatti che raccontano, per i dettagli che rivelano, ma per le cose che nascondono, quelle di cui non è possibile parlare. Sono, in un certo senso, narrazioni centripete, che non procedono in maniera lineare, ma in modo concentrico e in cui gli elementi che rimangono nascosti fino alla fine riflettono sulle cose un’ombra che ne manifesta l’importanza senza svelarne l’aspetto.
A ccanciuri Maria, di Nino De Vita, è uno di questi libri. De Vita racconta – nel suo bel dialetto siciliano con testo italiano a fronte – la storia di un matrimonio sbagliato. Lo sposo, dopo essere stato rifiutato dalla famiglia di Maria, la sua innamorata, decide di rapire la ragazza e organizza la classica fuitina. Ma la sera in cui insieme al cognato si presenta a casa sua per portarsela via, al posto suo trova la sorella Margherita, e rapisce lei. Il rapimento, ovvero l’episodio centrale del poemetto, viene narrato solo alla fine del libro.
L’alterazione cronologica non è casuale ma dichiaratamente intenzionale. Il poeta non riesce a narrare immediatamente la scena del sequestro. Qualcosa glielo impedisce, anche se non è ben chiaro cosa; si direbbe una specie di senso del pudore. Fatto sta che, come lui stesso dichiara, ha bisogno di raccontare prima la fine della vicenda e solo in seguito tornare a questo fatto: «Erunna stanzia, nchiusu – aviacalatu / ’a sira – chi ddicisi / annuncaricuntari / ’a lungaria chi chiuri / ’a storia. E poi turnari / nnarrè. / Eu ficicomu / un sàvutu» («Ero nella stanza, chiuso – era scesa / la sera – quando decisi / allora di raccontare / i fatti che concludono / la storia. E poi tornare / indietro. / Io feci come / un salto»).
Il motivo, probabilmente, risiede in una specie di qualità del tempo che vige in questa narrazione. Le vicende di Maria non sono soggette al tempo della storia, bensì a quello del mito. Il tempo della storia – in cui le conseguenze hanno una relazione diretta con le cause – ha un andamento, per così dire, metonimico, in cui tra due eventi si stabilisce necessariamente una relazione di causa-effetto.
Il tempo del mito, al contrario, ha un andamento metaforico, in cui a un evento può sostituirsene un altro per il semplice fatto di assomigliargli; è un tempo che non scorre in modo lineare, con un prima e un dopo ben delineati, bensì in modo circolare, come le stagioni, e in cui è arduo stabilire cosa venga prima e che cosa dopo.
Il movimento circolare si configura come un’ossessione nel momento in cui anche il paesaggio appare soggetto a un fiorire divortici e mulinelli: «Ccisu’ mazzapaneddi / tra ’u puzzue ’u paramentu, / nnadd’agnuni. E firrìanu. / Sunnufogghimmiscatiô purvirazzu, / fila ripagghia, pinni, pizzuddicchi / ri carta. / Firrìanu, firrìanu / p’attornuô ’n munzidduzzu / firrìanu, quarcosa / svulazzia, si nni va» («Ci sono mulinelli / tra il pozzo e il palmento, / in quell’angolo. E girano. / Sono foglie mischiate alla polvere, / fili di paglia, penne, pezzettini / di carta. / Girano, girano / attorno ad un mucchietto / girano, qualche cosa / vola, se ne va»).
La realtà perde la propria compattezza e si diluisce in una sostanza liquida e fuggevole. Le immagini si frangono come in un riflesso, di cui è arduo percepire la consistenza. Nella narrazione mitica il racconto non traccia linee demarcate. Al disegno preferisce il colore: ma si tratta di una tinta acquerellata, diluita, che tende a sbiadire subito dopo aver acquistato consistenza: «Eu scrìvilavulia / sta storia. E ammeci ’i cosi / ch’avia a cuntari ’un si / facìanu. / Un zzurfareddu ch’esti / umidiusu, piddiri, / un culuri chi si / sdillava, bbattisteriu / siccu» («Io scriverla volevo / questa storia. E invece / i fatti non si / compivano. / Uno zolfanello che si è /
inumidito, per dire, / un colore che / sbiadisce, fonte battesimale / asciutta»).
Anche il volto del poeta, alla stregua di quello di Narciso che si specchia nella fonte, si scompone fino a perdere la propria identità: «Mi spuìa / nnall’acquae ’a facci stava / a camurria, jia / p’arricògghisi e si / rumpia» («Mi sporgevo / sull’acqua e la faccia / che sempre tentava / di ricomporsi e si / spezzava»).
Quando tuttavia riesce a fissare gli eventi nella scrittura, ecco che la bellezza si impone nella narrazione in modo potente e immotivato, con la forza travolgente di un cataclisma inatteso: «Era bedda, affinata. / I capiddipurtava / tagghiati, èranonìvuri, / tanticchiarirrussettu, / l’abituchiaru, ’a scialla / nnespaddi» («Era bella, fine. / I capelli portava / corti, erano neri, / un poco di rossetto, / l’abito chiaro, la sciarpa / sulle spalle»); o ancora: «’Un cc’èstinenti, / nnérrasta, nnécummogghiu, / chi po’ fari carara: / sulu una stanzia, nica, / unni specciarivitra / ’u suli e tu si’ddà» («Non c’è niente, / braciere, vestimento, / che possa scaldare: / solo una stanza, piccola, / dove batte dai vetri / il sole e tu stai lì»).
Come unica nota negativa, occorre dire che alcune volte – poche in realtà – la traduzione italiana pecca un po’ di approssimazione, come se l’autore rinunciasse intenzionalmente a degli effetti poetici: «’U mussu cci ammicciava / siddurriria, ‘u curaddu / ri labbra si parlava», che viene reso con «La bocca le fissava / se rideva, l’incarnato / delle labbra se parlava», in cui viene meno la metafora del «corallo» per un più generico «incarnato». O subito dopo: «’u sanguannunca cci / bbuttiava», che diviene, più banalmente, «allora la desiderava».
Ma a parte questa pecca – certamente veniale – si tratta di un libro prezioso e inusuale nel panorama della poesia italiana.

UNA POESIA DI ALEJANDRA PIZARNIK

Foto di Maria Ribaudo


Uno sguardo
 
 
una mirada desde la alcantarilla
puede ser una visión del mondo

la rebelión consiste en mirar una rosa
hasta pulverizarse los ojos

Alejandra Pizarnik (1939-1972)

 
uno sguardo dal fondo di una fogna
può essere una visione del mondo

la ribellione consiste nel guardare una rosa fino a ridurre in polvere gli occhi.
Traduzione Salvatore Lo Leggio



da Poeti ispano-americani del '900, a cura di Francesco Tentori Montalto, Bompiani, 1971

SIMONE DE BEAUVOIR FA DISCUTERE ANCORA


A trent’anni dalla scomparsa, la filosofa, femminista e scrittrice francese, non smette di interrogare intere generazioni. Un recente ebook di Bastiana Madau, «Simone, le Castor» (Cuec), ne ripercorre alcuni testi per la costruzione di una morale.

Francesca Maffioli

Lo splendore del pensiero

«Sono nata il 9 gennaio 1908, alle quattro del mattino, in una stanza dai mobili laccati in bianco che dava sul boulevard Raspail. Nelle foto di famiglia fatte l’estate successiva si vedono alcune giovani signore con lunghe gonne e cappelli impennacchiati di piume di struzzo, e dei signori in panama, che sorridono a un neonato: sono io. Mio padre aveva trent’anni, mia madre ventuno, e io ero la loro primogenita». Con queste parole, tratte da Memorie di una ragazza perbene, Simone de Beauvoir esordisce nel racconto della sua esistenza con il piglio irriverente che la caratterizzerà sempre. Sono trascorsi ormai trent’anni dalla sua scomparsa nella stessa città in cui era nata e vissuta, Parigi, all’Hôpital Cochin – il più prossimo all’arrondissement dove era situata anche la sua casa natale.

Soggetto in rivolta

Simone de Beauvoir resta una voce indimenticabile e maestra nel panorama europeo della modernità. Il suo contributo resta infatti di portata fondatrice nella storia della filosofia, della letteratura e in quella del femminismo. Pensatrice di riferimento per le generazioni a venire, dentro e fuori dall’Europa, ha collaborato ed è stata in relazione con artisti e intellettuali che hanno marcato il Novecento: fra i più noti Maurice Merlau-Ponty, Michel Leiris, Boris Vian e Jean-Paul Sartre, con i quali fondò la rivista Les Temps Modernes (1945), ma anche Albert Camus e molti altri.

La sua attività personale debutta nel 1943 con la scrittura de L’invitata; il romanzo, narrante un ménage à trois nella Parigi alla vigilia della seconda guerra mondiale, da una parte tocca i grandi temi del pensiero filosofico esistenzialista beauvoiriano e dall’altra esemplifica come la forma romanzesca, non ortodossa nell’esposizione del pensiero filosofico, riesca a sostanziare l’impossibilità della sistematizzazione definitiva e l’incompiutezza di qualsivoglia metafisica. Con un’agilità straordinaria, De Beauvoir passa poi alla scrittura più tradizionalmente saggistica: risale infatti al 1947 Per una morale dell’ambiguità, uno dei capisaldi del pensiero esistenzialista francese, testo che parla del riconoscimento dell’esistenza umana nella sua totalità, compreso il carattere contraddittorio e indefinibile dell’ambiguità insita nella condizione umana. Del 1958 sono le Memorie di una ragazza perbene, racconto autobiografico degli anni giovanili; nella narrazione leggiamo in quali modi si sviluppa la ricerca identitaria di Simone come soggetto in rivolta nei confronti del milieu familiare e culturale della Parigi alto borghese di inizio secolo.

Partendo da questi tre testi di riferimento e ampliando poi sulla vasta produzione beauvoiriana, Bastiana Madau realizza il saggio intitolato Simone, le Castor. La costruzione di una morale, (CUEC, ebook saggistica, euro 5,99).

Il tentativo di costruzione della morale é messo in atto grazie e attraverso la ricerca della felicità, che Simone de Beauvoir descrive in termini chiari anche in L’età forte (1960): «Fino ad allora mi ero preoccupata di arricchire la mia vita personale e d’imparare a tradurla in parole; a poco a poco avevo rinunciato al quasi solipsismo, all’illusoria sovranità dei miei vent’anni; avevo acquistato il senso dell’esistenza altrui; ma la cosa che più contava per me erano i miei rapporti personali con gli individui presi uno a uno, e desideravo aspramente la felicità».

La ricerca della felicità ha rappresentato infatti per Simone de Beauvoir la forza motrice per guardare alla separazione tra l’io e il mondo, inteso anche come l’Io e l’Altro – quest’ultimo sentito come il corrispettivo di un ambiente sociale ostile o estraneo. Il carattere energico ed entusiasta dello slancio felice costituirà la prerogativa per evolvere dall’assoluto psicologico alla coscienza impegnata, anche mediante la coscienza critica sui privilegi della classe sociale d’appartenenza.

Nella nota introduttiva al testo, Alessandra Pigliaru sottolinea come: «In questo risveglio che intreccia teoria e prassi, parola e impegno, Bastiana Madau decide di consegnare un ritratto di Simone De Beauvoir ai bordi di una promessa – quella che lambisce solo in parte gli anni Sessanta che si stanno affacciando e che puntellano la mappa più grande di ciò che arriverà. In questo stato di attesa, di qualcosa a venire che sarà la donna come soggetto imprevisto della storia, per dirla con Carla Lonzi, o dello sgretolamento di una rivoluzione implosa, la strada verso la morale appartiene a un ambito molto più intimo di quanto non si pensi». La strada verso la morale a cui si allude rappresenta per la filosofa francese l’orientamento da seguire per agire il tentativo di superaramento della scissione apparentemente incolmabile tra l’io e il mondo.

Le quattro età

L’autobiografismo in De Beauvoir rappresenta anche questo, cioé l’esternazione del suo pensiero filosofico tramite il racconto della propria vita, dall’infanzia e la giovinezza de Le memorie di una ragazza perbene, fino alla maturità. Le Memorie e gli altri tre volumi che narrano la vita della filosofa e scrittrice francese (seguiranno L’età forte, La forza delle cose, nel 1963, e A conti fatti, nel 1972) si realizzano infatti come uno speciale calendario di riflessioni sull’evolversi del ruolo delle donne nella Francia del secondo dopoguerra, fino ai movimenti di liberazione degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta. Bastiana Madau così ci descrive il percorso esistenziale che Simone de Beauvoir percorre attraverso il suo speciale autobiografismo: «Lontane da qualsiasi tentazione di esibizionismo morale, infatti, le pagine delle memorie ci mettono al cospetto di un’esistenza vissuta nell’autenticità, che osa svelare, contestare e contestarsi pubblicamente nel tentativo di agire per il cambiamento, consapevole che la parola può essere azione, e che si può togliere il velo dall’opacità dell’esistenza soltanto progettandone la trasformazione».

A ben guardare, già nel titolo dell’ebook di Madau si allude a Simone de Beauvoir in quanto soggetto, altresì biografico, teso nella progettazione di una trasformazione – nell’attività di edificazione di una morale alternativa. «Castor» era infatti il soprannome inventato nel 1929 da René Gabriel Eugène Maheu, professore di filosofia a Londra e amico di Simone, pensando a «beaver» (castoro in inglese) per similarità di pronuncia con il cognome di De Beauvoir.

Erodere lo scacco

Il soprannome viene mutuato in seguito da Sartre, che amava chiamare così la compagna di vita e di filosofia, per la sua similarità d’attitudine con questi roditori d’acqua e di terra. «Un giorno – come ricorda De Beauvoir nelle Memorie – scrisse sul mio taccuino, a lettere cubitali : BEAUVOIR = CASTORO. Voi siete un castoro dice lui. I castori girano in gruppo e hanno uno spirito costruttore».
Il settimo capitolo del saggio di Madau si intitola «Morale», e al suo interno viene enunciato in quali modi e in che senso Simone de Beauvoir, in seno al pensiero esistenzialista degli anni del dopoguerra, cerca di costruire le strade per una nuova morale – di aprire le prospettive di una nuova etica.

Constatando come le morali tradizionali non integrino lo scacco subito nel momento in cui l’essere umano percepisce la propria incompiutezza, De Beauvoir mostra come questo rifiuto conduca a una fede in un assoluto esterno all’esistenza, un assoluto rifiutante i limiti della stessa.

Comprendere invece la verità originaria del limite, la sua ricchezza, con il suo corteggio di ambiguità (ambivalenza, separazione, scacco) costituirebbe già di per sé una tappa verso la costruzione di una morale nuova. Tale costruzione contempla anche il tentativo da parte dell’essere umano di giustificare la propria esistenza attraverso la categoria del trascendente, che per la filosofa rappresenta la realizzazione del soggetto in moto continuo verso il poter essere e una sorta di espansione indefinita verso l’avvenire; il suo senso indefinito sempre labile e in perenne conquista costituisce infatti il fulcro della cosidetta morale ambigua.

In questo percorrere la vita «espansivamente», ci parla in particolare di come la donna, soggetto-Altro culturalmente e socialmente subalterno, sia costretta a vivere una condizione di sottrazione della trascendenza e di oppressione della creatività. Madau spiega come ne Il secondo sesso (1949), noto al grande pubblico per la tesi avanguardista sul rapporto di dominazione tra uomo e donna come frutto di una radicante e radicata costruzione storica e sociale, De Beauvoir mostri la portata dell’oppressione.

Immanenze

Il testo, messo all’indice dal Vaticano con un editto del Sant’Uffizio del 1956, spiega come la ripetizione inconsapevole e passiva di un ruolo predeterminato costituisca per la donna il grande vincolo esistenziale: «nella mera ripetizione del suo ruolo di madre e di sposa la donna vincola la propria esistenza all’immanenza, alla ripetizione, alla reiterazione, all’impossibilità creativa, all’assenza di progettualità nella propria esistenza, determinando la propria condizione di subalternità rispetto all’essere umano di sesso maschile. Quest’ultimo non ha mai abdicato ai suoi privilegi, al contrario servendosene per assoggettare la donna al suo bisogno di dominio». Bastiana Madau ci suggerisce di guardare al percorso di ricerca che Simone de Beauvoir stessa aveva intrapreso.

A fronte di secoli di dominazione maschile Simone vedeva una possibile via di liberazione nella tenace volontà da parte delle donne di vedere, riconoscere, sottrarsi ai condizionamenti storici e di rifiutare l’idea della predestinazione, il giogo della profezia autorealizzante: «Ed è anche ciò che, d’altronde, Simone de Beauvoir ha fatto in prima persona – come ha testimoniato attraverso le sue lunghe memorie autobiografiche – mettendosi sempre in discussione, svelando le fragilità e i conflitti interiori, mai proponendo alcun modello da seguire, ma ha anzi, dall’interno di una instancabile lotta contro gli stereotipi, accentuando la singolarità dell’esperienza individuale. La sua morale è un discorso sulla libertà».


Il manifesto – 21 luglio 2016

30 luglio 2016

S. BARTEZZAGHI, Amore e morte

Ph. di Cartier Bresson

Riprendo da  http://www.doppiozero.com/materiali/la-morte-dopo-lamore  questo bel pezzo:

La morte, dopo l’amore

Una signora che conoscevo molto superficialmente un giorno mi chiese il permesso di farmi una domanda personale. Riguardava l’essere «traditi» e l’essere lasciati, argomento di cui si interessava per un suo importante lavoro. Me la rivolgeva perché io sono un uomo. Aveva notato come gli uomini «traditi» o lasciati dalle donne si sentano di norma «presi in giro» e mi chiedeva perché accadesse, secondo me. Ora non ricordo in cosa per lei differisse la tipica reazione femminile. Mi regalò uno dei primi romanzi di Elena Ferrante, allora appena uscito, e mi venne anche l’idea che Elena Ferrante potesse essere proprio lei. Allora stentai a risponderle. Ci riprovo, cara E.F., a distanza di molti anni, quando non siamo più in contatto e quando la situazione è di molto degenerata, fino a rendere necessario il conio del termine «femminicidio» e la fattispecie giuridica corrispondente.

«Tradimento» etimologicamente significa: «consegna al nemico». La scena originaria è religiosa, e assieme politica: Giuda consegna Gesù alle guardie. Lo fa, peraltro, con un bacio. Tradito e traditore moriranno ben presto, entrambi in conseguenza di quel bacio. Tradendo il suo Maestro, infatti, Giuda ha anche tradito sé stesso: si è consegnato a un nemico ancora più autoritario, potente e oscuro degli armati mandati dai sommi sacerdoti e dagli anziani del popolo.

In amore per sentirsi traditi non c’è bisogno che un dettaglio rivelatore – la maschera di Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick – ci incendi l’immaginazione: basta uno sguardo sbieco, una battuta di conversazione, un brutto sogno. Il geloso non dubita: pensa di sapere, infatti sa di poter essere tradito e tanto basta alla sua angoscia. È inutile negarlo: ognuno potrebbe trovare la propria maschera segreta deposta sul proprio cuscino. Tradimento di grado assoluto è poi la proclamazione della fine dell’amore e la conseguente volontà di sciogliere l’unione. Possono essere espresse con il massimo rispetto, la massima ragionevolezza, anche il massimo amore (perché l’amore può sopravvivere alla fine dell’unione). Non basta quasi mai. A percuoterci non è il suono o il contenuto delle parole («è finita»), ma l’atto che queste compiono e l’effetto che avranno sul nostro futuro e più ancora sulla nostra ricapitolazione del passato. Non era «vero amore», perché il vero amore è eterno, indissolubile. Io ho fallito, tu mi hai schernito, dietro le tue parole c’erano riserve mentali, dietro la schiena tenevi le dita incrociate, come da bambina. Che sarebbe stato «per sempre» non è stato vero mai, e tu lo sapevi. Mi hai tradito.


Un gorgo di pensieri, ricordi, fantasie ossessive prende chi lascia e chi è lasciato: il significato amoroso della parola «passione» si ribalta nel suo rovescio doloroso e mortifero, ancora una volta rimandandoci al racconto evangelico. Basta per giungere, se non al delitto, allo stalking, comunque all’impulso distruttivo?

Si fa presto a dire che non è amore. Che il vero amore non uccide, né ferisce, né offende. Una volta, fuori dai codici del maschilismo più tribale, si sarebbe detto anche che offendere, ferire o uccidere una donna non è da veri uomini. Poi però cosa significhi «vero uomo» non lo si è saputo più tanto bene. Forse qualche dubbio dovrebbe venire anche su «vero amore». È persino imprudente pensare che due persone che si amano reciprocamente e pienamente provino lo stesso sentimento l’una per l’altra, o che questo sentimento abbia lo stesso significato per ciascuna. Un pudore forse savio ci fa dire che due persone «stanno assieme» o che «hanno una storia»: è chiaro che c’è di mezzo dell’amore, ma non lo si nomina neppure, perché quale ne sia la forma e la sostanza nessuno saprebbe dirlo, e neppure i diretti interessati. Una delle più antiche testimonianze della parola «enigma» deriva dal brano del Simposio in cui Platone dice non che ognuno dei due è l’enigma dell’altro, ma che ognuno, davanti all’altro, si pone l’enigma di sé stesso: non conosce la domanda che fa all’altro, non sa cosa vuole.

A pensare questo inconoscibile ci aiutano le parole. I sinonimi volgari, per quanto diffusi, non hanno del tutto soppiantato il leggermente goffo «fare l’amore». Lo si usa ancora, forse perché dell’atto sessuale rende la capacità fattuale: fare l’amore fa essere l’amore; è «amore, quello vero» (cit.), quando lo si fa. E poi? Cosa succede, dopo? Appena la relazione intima diventa pubblica intervengono parole sociali, format esistenziali che danno l’idea di una definizione di senso comune: la coppia, la convivenza, l’unione, il matrimonio, la famiglia. In queste forme è ancora presente un diritto di proprietà, un vincolo rigido, un’idea di fedeltà che sfocia nella fede, cioè nella religione senza dèi dell’unità sacrale della coppia. L’unità definisce il tutto di ognuna delle sue due metà. Il sentimento (tanto folle quanto umano e necessario) che l’amore sarà eterno, assoluto, infinito, indissolubile è ciò che ci indusse a cambiare vita a causa dell’amore. Umano, ma non necessario, è rinfacciarselo a vicenda, quel sentimento, quando ormai l’amore infinito è finito, quando l’unione indissolubile si è dissolta.

Ognuno è Giuda di sé stesso. Il nemico a cui mi consegna il «tradimento» e il mio io di fronte all’unico specchio di cui disponeva, l’unico che considerava fedele, oramai infranto. È qui che la maschilità, lasciata sola come in realtà è sempre stata, riscopre le proprie risorse potenziali di forza, violenza e crudeltà, e non trova più la ragione per non metterle in atto.

Da innamorati ci si chiede: «mi pensi?». Significa «pensi a me?», ma anche «pensi me?»: hai un’idea del mio ruolo nella tua vita, del tuo nella mia? Occorrerebbe avere davvero pensato l’altro, averlo sempre ritenuto come un intero e non come la metà complementare e speculare di un insieme indissolubile, per non sentirsi traditi dalla sua defezione, magari occasionale ed effimera. E certo occorrerebbero risorse psicologiche notevoli per non concedersi neppure un vaffanculo: la saggezza di chi non perquisisce di soppiatto lo smartphone, di chi non improvvisa pedinamenti, di chi non pronuncia frasi terribili, di chi non si autorizza a immaginare la carne dell’altro a contatto con la carne di qualcun altro ancora, non sempre è alla portata. Bisognerebbe infine non sentirsi mai traditi, cioè bisognerebbe sentire che è un sentimento fuorviante, deriva da un equivoco patetico e vittimista a cui bisogna resistere sempre. A farcela, però.

Cara E.F. ci si sente presi in giro perché non abbiamo pensato abbastanza la persona che ci siamo limitati a sentire come «nostra» e perché lo standard della coppia ha sostituito alla fiducia, che è la costanza e l’onestà con cui si misura la distanza dall’altro, la fedeltà e anzi la fede; perché ci si è proclamati parte di un’unità e non di una relazione.

Ma dicevo che da quando mi ponesti la tua domanda, così nobilmente conoscitiva, i tempi sono cambiati, e non in meglio: quindi deve cambiare anche la domanda.

Cosa si fa quando ci si sente traditi e presi in giro? Se non si è all’altezza della risposta ideale – che è: «nulla»; semplicemente: «nulla»; assolutamente: «nulla» – faremo un passo verso il paziente nemico, che è sempre in attesa che ci consegniamo a lui. È una benedizione se la Legge, chi ci sta ancora vicino, qualche nostra insperata risorsa interiore ci impediranno di farne troppi altri.

Una versione ridotta di questo articolo è uscita su Repubblica il 29 giugno 2016.

RIPENSANDO AD ALDO CAPITINI



Maestri da rileggere:

Il carteggio Capitini-Codignola. Un dialogo profetico

 Angelo d'Orsi


Sessant'anni fa, nel 1937, usciva, nelle edizioni Laterza, un libro di piccola mole e dal titolo insolito, specie in relazione all'epoca e alla situazione: Elementi di un'esperienza religiosa. L'Italia aveva appena proclamato l'Impero, con l'annessione dell'Etiopia; Mussolini sembrava aver costruito un regime “granitico” e gli italiani, in larga parte, osannavano al mascherone ducesco. La cultura era prevalentemente in mano agli zelatori del fascismo, e persino un Gentile era ormai ampiamente scavalcato dagli intellettuali militanti e funzionari del regime. Quel piccolo libro dimesso portava la firma di un filosofo appartato che con Gentile aveva avuto rapporti, Aldo Capitini, e che frequentava gli ambienti dei gentiliani, uomini destinati perlopiù a diventare, presto o tardi, antifascisti.
Con uno di loro, Guido Calogero, Capitini fu poco dopo l'animatore precipuo del movimento liberalsocialista, che confluì nel Partito d'Azione. Ma Capitini, che aveva già compiuto la sua scelta nonviolenta, non credeva nella forma partito, preferendo l'animazione dal basso, la “persuasione” individuale, il lavoro pedagogico e di orientamento sociale (e ‹religioso›, in un senso del tutto aconfessionale). Tutta diversa, apparentemente più “politica”, la posizione del più giovane Tristano Codignola, figlio di Ernesto, il pedagogista e filosofo amico di Gentile. Conosciutisi sul finire degli Anni Trenta i due - accomunati oltre che dall'orientamento ideale liberalsocialista, anche dalla passione per l'organizzazione culturale - si tennero in stretto contatto fino alla morte di Capitini, avvenuta nel '68.
Codignola, ben presto divenuto responsabile della casa fiorentina La Nuova Italia, trovò in Capitini non solo un prezioso collaboratore, suggeritore, e, ovviamente, autore, ma altresì un interlocutore politico: alla militanza nel Psi (nell'ala sinistra) di Codignola, corrispondeva la posizione di “indipendente di sinistra” di Capitini (il quale si vantò di essere stato il primo in Italia in questa categoria destinata ad avere successo). Si trattò di un rapporto che produsse frutti su vari terreni, a cominciare da quello scolastico ed educativo, dove il benefico profetismo capitiniano doveva fare i conti con il pragmatico realismo del militante socialista: un incontro possibile perché se il primo in realtà, dietro l'apparente impoliticità, aveva un sicuro intuito politico, il secondo si lasciava volentieri guidare da un forte tratto di utopismo. Il carteggio edito dalla casa di Codignola è un interessante documento della nostra storia politico-culturale, oltre ad essere un omaggio a due figure di grande spessore civile. Nondimeno, quando si vogliono rendere omaggi si dovrebbe procedere con maggior attenzione a quel che si fa e a come lo si fa: non possiamo non rilevare infatti come queste Lettere 1940-1968, selezionate all'interno di un carteggio assai più ampio in base a criteri non specificati, risultano malamente curate (Tiziana Borgogni Migani, aveva dato prova migliore con gli Scritti politici del Codignola editi dalla stessa casa).
Peccato per Codignola, che avrebbe meritato dalla sua casa un trattamento migliore: ma soprattutto per Capitini, sul quale sembra pesare una sorta di maledizione editoriale che ormai dura da un trentennio.

La Stampa, 29/05/1997


29 luglio 2016

CONSIGLI PER NON INVECCHIARE...




Chiunque sia in grado di mantenere la capacità di vedere la bellezza non diventerà mai vecchio.

Franz Kafka

CONTRO IL TERRORISMO LINGUISTICO

" Quando sono venuto in Italia non conoscevo la parola EXTRACOMUNITARIO. Questa espressione è una forma di TERRORISMO LINGUISTICO."

Papa Francesco

NOSTALGIA DEL FUTURO


..e si misero a praticare la nostalgia del futuro, cosa peraltro più saggia,
perchè il passato non è detto che torni, ma il futuro prima o poi ha da venire.

Antonio Tabucchi, da Di tutto resta un poco


28 luglio 2016

SI SCRIVE ANCORA SUL CAPOLAVORO DI TOLSTOJ





Dal sito https://www.nazioneindiana.com/ riprendo questo bel pezzo:

Tolstoj, la storia e la promenade des Anglais

di Antonio Sparzani
Clio - la musa della storia
Guerra e pace non è soltanto la complessa storia della bella Nataša, del principe Andrej, del conte Pierre Bezuchov e del loro rutilante contorno di aristocrazia russa, è anche in molte occasioni una riflessione sui più svariati temi della cultura dell’epoca e in particolare sulla storia in generale, che Tolstoj introduce descrivendo e ripercorrendo le vicende dell’esercito russo comandato da Kutuzov durante la disastrosa campagne de Russie intrapresa da Napoleone nel 1812.
L’inizio della parte terza del terzo libro dell’opera suona così «La mente umana non riesce a concepire l’assoluta continuità del moto», che sembra un’affermazione a metà tra meccanica e psicologia, ma che fornisce all’autore lo spunto per una riflessione, tra l’altro non priva di risvolti matematici, sulla questione discreto/continuo che a quel tempo (Guerra e pace usci per la prima volta completo nel 1869) era attivamente dibattuto negli ambienti della matematica tedesca: Richard Dedekind pubblicò nel 1872 il primo sistematico risultato di questo dibattito, sistemando finalmente in maniera precisa la questione della continuità.
Tolstoj (vedi già un accenno qui) certamente aveva sentito parlare e anzi in qualche misura appreso i progressi dell’analisi, come si capisce anche da quanto aggiunge poche righe dopo quell’inizio citato; eccolo:
«Questa nuova branca della matematica, sconosciuta agli antichi, nel momento in cui ammette, a proposito dei problemi del moto, grandezze infinitamente piccole come quelle in cui si ripristina la condizione principale del moto (cioè l’assoluta continuità), corregge l’errore che la mente umana commette inevitabilmente quando esamina singole unità del moto invece del moto continuo.
Nella ricerca delle leggi degli avvenimenti storici accade esattamente la stessa cosa.
Il movimento dell’umanità, essendo l’espressione di un numero infinito di volontà umane, si compie in modo continuo.
Impadronirsi delle leggi di questo movimento è lo scopo degli storici. Ma per afferrare le leggi del movimento continuo costituito dalla somma di tutte le volontà umane, la mente dell’uomo utilizza unità arbitrarie e discontinue. Il primo passo di ogni ricerca storica consiste nel prendere una serie arbitraria di avvenimenti continui e nell’esaminarli separatamente dagli altri; mentre nessun avvenimento ha, né può avere, un principio a sé, giacché ogni avvenimento scaturisce, senza soluzione di continuità, dall’altro. Il secondo passo consiste nell’esaminare l’azione di un uomo, re o condottiero, come una somma di volontà umane, mentre la somma delle volontà umane non si esprime mai nell’attività di un solo personaggio storico.
La scienza storica, nel suo evolversi costante, esamina unità sempre più piccole, e per questa via tende ad avvicinarsi alla verità. Ma, per quanto piccole siano le unità che essa prende in considerazione, noi sentiamo che valutare un’unità separatamente dall’altra, o ammettere che sia possibile il principio di un qualsiasi fenomeno, è falso così come è falso ammettere che la volontà di tutti gli uomini si esprima nelle azioni di un solo personaggio storico.
Ogni deduzione della storia si sfalda come polvere al minimo sforzo critico, senza lasciare nulla dietro di sé, per il solo fatto che la critica scelga come oggetto d’osservazione un’unità discontinua maggiore o minore. cosa che può sempre fare, dal momento che l’unità assunta dalla storia è comunque arbitraria.
Solo sottoponendo all’osservazione un’unità infinitamente piccola, un differenziale della storia, vale a dire le tendenze omogenee degli uomini, e riuscendo ad integrare, cioè ad esprimere la somma di questi valori infinitamente piccoli, noi possiamo sperare di comprendere le leggi della storia». (Lev N. Tolstoj, Guerra e pace, trad. it. di P. Zveteremich, Garzanti, Milano 1982, pp. 1237-39)
Significativamente Tolstoj dice «possiamo sperare di comprendere le leggi della storia», non dice che si possa arrivare a farlo. E anzi, sembra a me che tutto il suo ragionamento tenda a far capire come sia in verità impossibile raggiungere questo risultato.
Ammesso naturalmente che esistano queste misteriose “leggi della storia”.
Anche perché, e qui vorrei arrivare a riflettere sul tipo di “informazione storica” cui siamo quotidianamente esposti nella nostra epoca, nella quale sembra che “tutte” le informazioni facciano il giro del globo in pochi secondi: l’altro fattore che impedisce una vera conoscenza storicamente affidabile è proprio che queste informazioni son ben lontane dall’essere “tutte”: l’informazione che abbiamo, mediamente, è frammentaria, parziale, deformata, labile, e anche, inevitabilmente, controllata. Ed è questo che, terribilmente, produce ignoranza, talvolta ingenua, talaltra arrogante.
Guardiamo i fatti che consideriamo rilevanti della nostra epoca, le guerre, i colpi di stato, i fanatismi estremi dai quali siamo ormai circondati: qualcuno sa chi davvero progettò l’assassinio di Kennedy? Forse c’è ancora qualcuno che lo sa, ma, una volta morto lui, nessuno più ne avrà idea. O le torri gemelle? Oppure quest’ultima ignominia della Promenade des Anglais? Certo i “servizi” trovano telefonate, messaggi, appunti, contatti, ma sapremo mai davvero chi e perché ha armato la mano del killer di turno? Sappiamo, o sapremo mai, chi e con quali mezzi ha organizzato il cosiddetto colpo di stato in Turchia?
Abbiamo molte ipotesi, congetture, ogni tanto si scopre qualche nuovo documento che “getta nuova luce” su avvenimenti del passato, il che è bene, naturalmente, significa che magari ci approssimiamo di più a qualcosa che non sapevamo, ma se guardiamo alla mole di avvenimenti anche solo della storia moderna, c’è di che disperarsi: nel nostro particulare basta pensare a tutta la “strategia della tensione” che ha fatto centinaia di vittime qui da noi e sulla quale ancora nessuna “piena luce” è stata fatta.
È come un grande mare pieno di onde: vediamo le onde e ciò naturalmente è molto utile per poterci navigare un po’. Ma sotto le onde ci sono le correnti, le maree, un complesso di movimenti dell’acqua che mai perfettamente conosciamo. Qualcuno che conosce le correnti sottomarine, almeno localmente, ci sarà certo, ma questa è la conoscenza che non si propaga.
Accade come nella scienza: le vecchie teorie spariscono e vengono soppiantate da altre perché muoiono i loro migliori sostenitori. Nella storia invece muoiono quei, pochi, che sanno davvero cosa è successo perché l’hanno fatto succedere loro.
Questo articolo è stato pubblicato il 26 luglio 2016

F. CARDINI ANALIZZA CRITICAMENTE IL PENSIERO POLITICO DI S. AMBROGIO


Si parla molto di integralismo religioso. Riteniamo che, al di là delle differenze fra le diverse fedi, la deriva integralistica si formi quando la pratica religiosa da fatto individuale viene trasformata in tratto necessariamente connotante una intera società e dunque comportamento obbligato. Per restare all'Occidente, è il caso del cristianesimo a partire da Ambrogio che per primo affermò la supremazia della chiesa sullo stato . Uno studio di Franco Cardini ne analizza criticamente l'opera.

Paolo Mieli

La teocrazia di Ambrogio

Nel IV secolo il mondo cristiano fu sconvolto dall’eresia ariana. Ario, teologo nordafricano, sosteneva che Cristo, essendo stato «generato» da Dio unico, eterno e indivisibile, era «venuto dopo» e non poteva essere considerato allo stesso modo del Padre: c’era stato, cioè, «un tempo in cui il Figlio non c’era». Ai tempi di Costantino, che aveva spalancato le porte dell’impero ai seguaci di Cristo, si tenne il Concilio di Nicea (325) che condannò la dottrina ariana. Ma qualche tempo dopo l’imperatore riabilitò Ario e costrinse all’esilio il suo grande nemico, Atanasio vescovo di Alessandria. Dopodiché i decenni successivi furono contrassegnati da una lunga controversia tra ariani e atanasiani e la Chiesa di Roma faticò non poco per venire a capo della dottrina eretica che nel frattempo aveva conquistato vescovi e sovrani.

Un grande protagonista di questa battaglia fu Ambrogio, che pure sulle prime aveva avuto qualche indulgenza (o qualcosa di più) nei confronti dell’arianesimo. È questo il punto di partenza di un originale libro di Franco Cardini Contro Ambrogio , che sta per essere dato alle stampe dalla Salerno.
Fin dalle prime righe, Cardini mette le mani avanti per difendersi dalle accuse che potrebbe ricevere per questo saggio impertinente. Il suo non vuol essere né un pamphlet «provocatorio», né «un’indecorosa dissacrazione», tantomeno «un dissennato attacco a livello storico o peggio ancora teologico» all’indirizzo dell’uomo che, tra l’altro, fu ispiratore e modello per sant’Agostino. Non vogliono essere, i suoi, «giudizi moralistici del tutto antistorici», né «paradossali esercitazioni ucroniche» e neppure «fatue e faziose polemiche» con il senno del poi.

È, quello di Contro Ambrogio , solo un tentativo di «uscire dal comodo riparo dello storico» a favore di una modalità che gli consenta di «scoprirsi», «esporsi», «prendere posizione». Il tutto non disgiunto da un «pizzico di autoironia per aver tentato, al cospetto di un gigante della storia e del pensiero, una specie di ruggito del topo».Tra l’altro che ci siano aspetti controversi nella vita di Ambrogio traspariva già, tra le righe, dalle impeccabili note di Marco Navoni alla Vita di sant’Ambrogio (edizioni San Paolo) scritta da Paolino, coevo e principale collaboratore del patrono di Milano. Così come, sempre tra le righe, dalle biografie di Cesare Pasini, Ambrogio di Milano. Azione e pensiero di un vescovo (edizioni San Paolo) e di Angelo Paredi, S. Ambrogio e la sua età (Jaca Book). E anche, sia pur marginalmente, dallo straordinario Teodosio il Grande (Salerno) di Hartmut Leppin.
Il libro di Cardini prende le mosse dal 374 allorché, avendo esercitato fin lì il ruolo di governatore laico di una regione che all’epoca corrispondeva alla Liguria e all’Emilia e pur non essendo ancora battezzato, il trentacinquenne Aurelio Ambrogio (era nato nel 339 a Treviri, città che dal 292 era la residenza ufficiale dell’imperatore romano d’Occidente) fu nominato vescovo di Milano, dal 286 «sede imperiale».

Era figlio di un alto magistrato del sovrano Costantino II, ma su suo padre c’è un «ambiguo silenzio» che ci indurrebbe a sospettare fosse stato coinvolto in una delle controversie dell’epoca e avesse «militato dalla parte degli sconfitti». A «portarlo così in alto» era stato il prefetto Sesto Petronio Probo, un uomo molto chiacchierato con evidenti inclinazioni all’arianesimo, così come l’imperatrice Giustina (moglie di Valentiniano I e madre di Valentiniano II) protettrice di Probo. Ariano fu anche il suo predecessore alla cattedra episcopale milanese, Aussenzio.

A decidere della sua elevazione a quell’importantissimo incarico sarebbe stato il grido di un bambino, che in una riunione popolare avrebbe invocato «Ambrogio vescovo!», suscitando un immediato entusiasmo popolare in quella che Cardini definisce una evidente «messinscena», un «ben architettato episodio di organizzazione del consenso», un genere di «spontaneità popolare accuratamente pilotata». Dietro la quale è ancora ben riconoscibile la regia di Probo. In ogni caso, a seguito di quell’acclamazione, Ambrogio si fece battezzare, divenne vescovo (con qualche irregolarità formale) e non tardò a liberarsi dell’ingombrante appoggio del suo potente protettore.
Da quel momento comparve al suo fianco il presbitero Simpliciano, fedele di Atanasio, che gli fu accanto tutta la vita e, nonostante avesse venti anni più di lui, gli sopravvisse. Per un breve periodo ci fu anche suo fratello Satiro, che Cardini sospetta nutrisse simpatie ariane. Quanto a lui, nel 376, in contrasto con l’imperatrice Giustina, si oppose all’elezione a Sirmio di un vescovo seguace di Ario e dal 378 iniziarono a comparire spunti anti-ariani nelle sue omelie. Giusto in tempo per essere in sintonia con l’editto di Tessalonica (380), con il quale l’imperatore d’Oriente, Teodosio, impose «a tutti i popoli a noi soggetti» la disciplina apostolica e la dottrina evangelica del credo «nell’unica divinità» di Padre, Figlio e Spirito Santo. Sicché Teodosio, secondo Franco Cardini, «ben più adeguatamente di Costantino, può essere considerato il vero fondatore dell’impero romano-cristiano».

Comunque la partita religiosa si riaprì nel 386, quando Giustina impose un decreto per la libertà di culto che consentiva agli ariani di pretendere una basilica in cui poter celebrare il rito. Ambrogio si oppose con forza e una folla («spontaneamente convocata», ironizza Cardini) scese in piazza a spalleggiare il vescovo, creando «una situazione al limite della legalità». La «contesa delle basiliche» andò avanti per settimane, incrinò il rapporto di Giustina con il proprio figlio Valentiniano, si concluse con il trionfo di Ambrogio e la sconfitta della libertà di professare religioni diverse da quella stabilita al Concilio di Nicea.
Il vescovo di Milano, una volta piegata la corona d’Occidente, si dedicò a sottomettere quella d’Oriente. Vale a dire Teodosio. Una prima volta, nel corso di una cerimonia religiosa, il vescovo invitò l’imperatore a lasciare il presbiterio e ad andarsi a sedere, sia pure in prima fila, tra i fedeli. Quasi esplicito il significato, sotto il profilo simbolico, di questo gesto. Ma l’occasione decisiva si presentò, dopo una serie di piccoli e grandi sgarbi da parte dell’autorità religiosa nei confronti di quella imperiale, con l’orrenda vicenda del tempio di Callinicum (l’odierna Raqqa). Lì un gruppo di cristiani aveva date alle fiamme una sinagoga, l’imperatore li aveva condannati a risarcire la comunità ebraica: Ambrogio impose a Teodosio di revocare quell’ingiunzione.
Poi, nel 390, ci fu la strage di Tessalonica. Un auriga dei giochi circensi era stato imprigionato per «comportamento immorale». I suoi tifosi avevano reagito aggredendo a sassate un funzionario imperiale, Buterico, che era stato ucciso e trascinato per le vie della città greca. Teodosio giudicò sospetta quell’esplosione di rabbia e accondiscese alla richiesta dei militari di reprimere con violenza (migliaia di morti) i rivoltosi.

Ambrogio ne approfittò per umiliare una seconda volta Teodosio, chiedendogli un pubblico pentimento per l’eccidio. L’imperatore provò a resistere, ma poi decise di sottomettersi all’ingiunzione. Secondo la ricostruzione di Paolino, Teodosio «pianse pubblicamente nella Chiesa il suo peccato… con lamenti e lacrime invocò il perdono». Anche Agostino, nel De civitate Dei , ricorda la scena: Teodosio «fece penitenza con tale impegno» che tra i fedeli il «dolore nel vedere umiliata la maestà dell’imperatore» prevalse sullo sdegno per il ricordo della strage. Teodosio si accorse probabilmente di quel che era accaduto nel profondo e, per rimediare, si recò a Roma dove fu accolto da senatori e ottimati con feste che più o meno esplicitamente rendevano omaggio agli antichi culti pagani.
    Rubens, Ambrogio e Teodosio

Tuttavia l’episodio dell’imperatore «penitente per imposizione di un vescovo», osserva l’autore, fece scalpore in tutta l’ecumene romana: era la prima volta che «l’Augusto, da principe aureolato di autorità sacrale qual era sempre stato, da vicario del Cristo in terra, era sceso al livello di un semplice fedele, pronto ad umiliarsi per ricevere il perdono». Ambrogio approfittò di quell’atto di sottomissione per riprendere e condurre a compimento «il progetto di delegittimazione totale e irreversibile dei ceti diversi da quello cristiano niceno in tutto l’impero».

Fu lui ad ispirare l’editto del 391 che vietava qualunque forma di ossequio alle divinità «gentili» nella città di Roma e prevedeva pesanti sanzioni per i funzionari inadempienti. Era la «totale palinodia» rispetto al comportamento tenuto e alle misure adottate dall’imperatore un po’ meno di due anni prima nel corso della menzionata visita a Roma. Da quel momento fino alla morte, nel 397, Ambrogio esercitò una sorta di «dittatura» sottile sul potere imperiale d’Oriente e d’Occidente. Anche a costo di lasciarsi andare ad imprudenze, di commettere errori, e di fare scelte in contraddizione con i suoi principi. Ma la sua missione era compiuta.

I l suo lascito fu inequivocabile. Dal momento che il sovrano era stato per lui non al di sopra, bensì all’interno della Chiesa, ne discendeva che risultava subordinato all’autorità ecclesiale. In tal senso, Ambrogio si pone alla base «di un lungo e complesso itinerario che in vario modo, attraverso l’agostinismo politico, la riforma della Chiesa dell’XI secolo e il monarchismo pontificio», ha configurato una ben delineata tradizione. Tradizione «che in ambito cattolico — una volta battute le eresie e isolati come eretici o comunque pericolosi molti movimenti “non conformisti” medievali — solo il conciliarismo quattrocentesco, in una certa misura il Vaticano II e, oggi, le scelte innovatrici di papa Francesco, hanno teso in qualche modo a limitare e a correggere».

Un messaggio venuto da lontano, radicato nella certezza che «il liberare e il mantener libero il clero dai controlli e dai condizionamenti di qualunque autorità terrena — ben al di là se non al contrario di quanto Gesù dichiara esplicitamente a Pilato — sarebbe stata condizione necessaria e sufficiente per salvarlo dalle tentazioni terrene». E sappiamo, aggiunge Cardini, che «l’intera storia della Chiesa dimostra l’opposto». Dopo Ambrogio, la Chiesa romana divenne potente «con la forza di una mirabile espansione intellettuale e missionaria, ma anche con l’inflessibilità e l’intransigenza della fedeltà a un disegno egemonico affermatosi poi tra l’XI e il XVI secolo attraverso la rimozione delle istanze provenienti dal mondo greco, da quello orientale, da quello vario, insidioso e imprevedibile delle eresie, da quello musulmano (pensiero filosofico-scientifico a parte), salvo dover poi subire i contraccolpi degli scismi, della Riforma protestante, dell’offensiva razionalistico-scientifica».

Traendo ispirazioni e suggestioni da Francesco d’Assisi, Nicola Cusano ed Erasmo da Rotterdam, Cardini si chiede se, «astraendo dal modello e dal magistero ambrosiani la Chiesa sarebbe mai giunta a dover concepire i tribunali inquisitoriali, ad affrontare scismi e riforme, a subire lo “strappo culturale” della “modernità” con il relativo processo di secolarizzazione». Dubbi e rilievi che, come è evidente, vanno ben al di là della figura storica di Ambrogio.


Il Corriere della sera – 26 aprile 2016

SONO D'ACCORDO CON PAPA FRANCESCO!




Spero di scandalizzare i falsi laici del Corsera e del Foglio, con tutto il codazzo che li accompagna, affermando che - sul terrorismo -  la penso esattamente come Papa Francesco: non siamo di fronte ad una nuova guerra di religione; siamo dentro una guerra fondata su sporchi interessi economici.
E meritano anche di essere ricordate e condivise queste altre sue parole: "Quando sono arrivato in Italia non conoscevo la parola EXTRACOMUNITARIO: questo è TERRORISMO LINGUISTICO."
Francesco Virga

27 luglio 2016

LA DANZA SICULA DI FRANCESCA DI MARCO 1 e 2

Francesca Di Marco in uno scatto di Maria Ribaudo


      Abbiamo già segnalato in questo blog l'originale contributo dato da Francesca Di Marco alla poesia siciliana contemporanea (Cfr. http://cesim-marineo.blogspot.it/2016/05/francesca-di-marco-suona-e-balla-oltre.html).
        La poetessa marinese l'anno scorso ha partecipato al Concorso internazionale "Echi di poesia dialettale" organizzato dal Centro di ricerche "La Grande Madre" di Bonito (AV). I versi di Francesca, che siamo lieti di pubblicare oggi in questo spazio, sono stati inseriti in una Antologia di poesia dialettale edita quest'anno dallo stesso Centro avellinese. (fv)




DANZA

 
-‘mpastata di terra e fangu
 di rina di mari
 m’arrivugghi u sangu
 quannu ti sentu cantari

-Sciroccu sugnu d’immernu
 e tramuntana di staciuni
 nesci fora di stu ‘nfernu
 scordati di la ragiuni

-Si nun t’abballu frevi mi veni
 lu me cori nun la cunteni
sta smania d’arma squeta
e stu duluri chi mi ‘nqueta

-Sfoa ‘nta li to pedi
 Sfoa cu li to vrazza
Lu respiru cedi
E lu cori si strazza

-Li me sensi su stanchi
mentri movu ancora i cianchi
la testa furrìa forti
nunn’esisti cchiù la morti

-Siddu abballi soni e canti
e duni vuci a sta terra amanti
ca ti curri dintra li vini:
ringrazia Diu, ca ancora ci camini.

Francesca Di Marco


PS: Per dare agli amici non siciliani che seguono questo blog la possibilità di comprendere meglio i versi di Francesca, pur consapevoli del fatto che ogni poesia è intraducibile e perde sempre qualcosa in ogni traduzione, offriamo  la traduzione italiana fatta dalla stessa poetessa:

 DANZA  -impastata di terra e fango/di sabbia del mare/ mi ribolle il sangue /quando ti sento cantare/   Scirocco sono d’inverno/  e tramontana nella bella stagione/esci fuori da questo inferno/ dimentica la ragione/ -Se non ti ballo febbre mi viene/il mio cuore non la contiene /questa smania di anima irrequieta/questo dolore che non mi lascia in pace/ -Dai sfogo nei tuoi piedi/dai sfogo con le tue braccia/il respiro cede/ e il cuore si straccia/-I miei sensi sono stanchi/mentre muovo ancora i fianchi/la testa gira forte/non esiste più la morte/-Se balli, suoni e canti/e presti voce a questa terra amante/che ti scorre dentro le vene/: ringrazia Dio, perché ancora la calpesti (sei viva)