31 dicembre 2014

L' ATTUALITA' DI GIUSEPPE BERTO



Paolo Di Paolo


L’attualità di Giuseppe Berto
Il contrario di uno scrittore italiano
Non c’è niente che possa fare di lui uno scrittore alla moda. Non ammicca, non lusinga, raramente sorride. Parla di sé sempre sospeso fra orgoglio irritante, spavaldo e impudica autocommiserazione. Non appartiene a bande, «a clan di vario genere»; fa un vanto del proprio anticonformismo, di un carattere «scorbutico» e intransigente. Che c’entra, uno così, con l’Italia che si prepara al 2015?

D’altra parte, Giuseppe Berto è uscito per tempo di scena, nell’autunno del livido 1978, dopo avere pubblicato un romanzo che porta nel titolo la sua ossessione: La gloria. Cercata per via letteraria come un riscatto: «Per farti vedere - lo dice rivolgendosi al padre - che avevi torto», per prendere fiato da un senso di colpa remoto e inarginabile. Quello che fa del suo romanzo più noto, Il male oscuro, uscito giusto mezzo secolo fa, una inquietante «Lettera al padre» di quattrocento pagine, da novello Franz Kafka seduto su un lettino d’analista.

«Immagino la tua fierezza davanti alla lapide dei caduti col nome del primogenito scolpito nel marmo, vedi non è che proprio non lo volessi non mi è capitato ecco tutto» si rivolge ancora il figlio artista al severo padre carabiniere. «Ecco tutto»: sì, sembra una frase qualunque, ma l’intera opera di Berto sta proprio lì, dentro un disarmato, spudorato «ecco tutto».

A cent’anni dalla nascita - Berto era nato a Mogliano Veneto il 27 dicembre del 1914, anno «dei più disgraziati dell’intera storia umana» - tornano in libreria, per Bur Rizzoli, tutti i suoi libri, gli viene dedicato un francobollo e l’associazione che porta il suo nome affida l’archivio alla regione Veneto. Ma fare i conti con Berto significa accettare la sua letteratura ruvida, che non alleggerisce né edulcora, che non assolve, e prova a scrollarsi di dosso ogni retorica, come il soldato di Guerra in camicia nera vorrebbe scrollarsi di dosso i pidocchi.

Nello stesso anno dell’esordio di Calvino, il ’47, Berto pubblica Il cielo è rosso, titolo trovato da Longanesi, che lo lancia come scrittore della provincia italiana dallo sguardo americano, fra Hemingway e Steinbeck: d’altra parte lo aveva scritto in una prigione in Texas, arrestato dalle forze alleate in Africa, dove si era arruolato da giovane fascista. Qualcosa fa pensare anche a Faulkner, nella tragedia di un destino collettivo, in quella fuga - nel romanzo seguente, Le opere di Dio - di un’intera famiglia, che carica su un carro tutti i propri averi, comprese le galline e un maiale, per mettersi in salvo dalla guerra.

Ma quella «perduta gente» non ha meta, e le figure che Berto tratteggia con la sua prosa rapida e nervosa appartengono infine a un sovra-tempo senza calendari. Dove l’innocenza, però, si confonde sempre con la colpa: «Forse non siamo cattivi - disse la madre - Ma non siamo neanche buoni come si dovrebbe. Bisognerebbe capire di più, Rossa».

Bisognerebbe capire di più: questo interessa a Berto, che si rompe la testa pur di comprendere. Comprendere come potesse esaltarlo, ad esempio, lo spettacolo dei proiettili che illuminavano il cielo a giorno, sul fronte africano. O come si possa, a vent’anni, sbagliare per entusiasmo, e poi finire per perdere tutto: «Non possiedo che questa divisa sporca e malandata, due camicie e un solo paio di mutande, colonizzate da un’incredibile quantità di pidocchi». Comprendere, ancora, come si diventa fabbricatori della propria stessa sofferenza, naufragando in un malessere che la mente comunica al corpo fino a invaderlo del tutto.

Così, nel Male oscuro, cerca spietatamente di comprendersi, con una furia e una sincerità disperate, ottenendo un risultato che anticipa esperimenti simili di scrittori come Houellebecq o Knausgard (il recente La morte del padre) e non invecchia al confronto. Nella Gloria, il Giuda traditore e insieme complice di Gesù precorre quello dell’ultimo, bellissimo romanzo di Amos Oz (Giuda, Feltrinelli): «Non vi è un solo colpevole; non c’è nessuno che non sia un esecutore». Vale lo stesso per ogni storia d’amore, fra tenerezza e rabbia, come dimostra nel sorprendente e sensuale La cosa buffa, facendo innamorare e disamorare un alter ego ventenne di una ragazza.

È una martellante scrittura del risentimento, quella di Berto: poco italiana nella sua assenza di pose da commedia, nel suo rifiuto assoluto per ogni indulgenza e auto-indulgenza. Sgradevole perfino, nella sua tensione anti-estetica: il linguaggio può essere ancora un fatto morale prima che estetico? Berto se lo domanda di continuo, sfidando, prima che gli altri, se stesso. E resta solo.

Come lo vede da lontano Montanelli: risucchiato per vivere dal mondo del cinema, Berto restava «il meno adatto - lui così scontroso e impacciato e candido - a muoversi con disinvoltura in quel mondo di dritti, di venditori di fumo, di assegni a vuoto, di cambiali in protesto e di promesse non mantenute. Quando lo vedevo in via Veneto o in Piazza del Popolo imbrancato con certi tipi, pensavo a Fitzgerald e mi si stringeva il cuore».


La Stampa – 30 dicembre 2014

LA FORZA DELL' AMORE





Un'unica forza, l'amore, unisce infiniti mondi, li rende vivi. 

Giordano Bruno

SARAMAGO: A te ritorno, mare

Bambina nel mare argentato (Joaquín Sorolla,1909)


Devo all'amica Marina Mar la scoperta del quadro di sopra e dei magnifici versi che seguono:



A te ritorno, mare, al gusto forte
del sale che mi porta in bocca il vento,
al tuo chiarore, a questa sorte
che mi fu data di scordar la morte
pure sapendo che la vita è un niente.


A te ritorno, mare, corpo disteso,
al tuo poter di pace e di tormenta,
al clamor di dio incatenato,
di terra femminile circondato,
schiavo della tua stessa libertà.


A te ritorno, mare, come chi sa
da questa tua lezione trar profitto.
E prima che la vita mi finisca,
con tutta l’acqua che la terra accoglie
in volontà mutata, armato il petto.


José Saramago 


SCRITTORI E POPOLO SECONDO ASOR ROSA




Non ho mai amato il saggio Scrittori e popolo (1965) di Asor Rosa che ha contribuito non poco a fraintendere l'autentico pensiero di Gramsci. Considerato comunque il peso che il saggio ha avuto nel dibattito culturale e politico degli ultimi 40 anni, non sorprende che abbia avuto diverse edizioni. Non  a caso se ne parla ancora.  (fv)



Alberto Asor Rosa

Siamo rimasti senza il popolo

Intervista di Raffaelle De Santis

Pochi intellettuali come Alberto Asor Rosa hanno contribuito ad indagare a fondo il rapporto tra società e cultura. Asor Rosa è tra gli studiosi maggiormente animati da passione civile, autore di opere chiave, da Scrittori e popolo, in procinto di una nuova edizione a cinquant’anni dalla prima, alla Storia europea della letteratura italiana. Al ruolo del popolo nella nostra letteratura ha dedicato pagine importanti della sua vasta produzione critica.

Professore, è vero che oggi manca un grande romanzo sociale sul modello di quelli del passato?

«Quel tipo di romanzo nasce quando si ha alle spalle una realtà psicologica e intellettuale in cui la questione sociale ha un rilievo straordinario, che va al di là dei confini della letteratura. È stato così per Verga ma anche più recentemente per i neorealisti. Non è più così oggi».

Fatichiamo a prendere atto della realtà in cui viviamo?

«Dovremmo ragionare sul perché nonostante l’aumento delle diseguaglianze la questione sociale non vive nella coscienza della gente. Anche sui media assistiamo alla stessa disattenzione».

Eppure il bestseller di Thomas Piketty Il capitale nel X-XI secolo ha portato di nuovo alla ribalta il tema delle disuguaglianze sociali.

«Piketty è un fenomeno puramente intellettuale che ha avuto un enorme successo ma non trasforma la teoria in coscienza della prassi. Il tema dell’ingiustizia sociale rimane però assolutamente non popolare. La percezione e la condanna delle disuguaglianze nelle nostre società è stata respinta ai margini, non interessa ».

È una colpa da imputare agli scrittori?

«Il romanziere non può provocare qualcosa che non c’è. Come fa ad occuparsi del conflitto sociale e delle sue prospettive quando questi temi, soprattutto in Italia, non sono centrali, anzi sono marginalizzati? I teorici e gli analisti che se ne occupano si contano sulle dita di una mano e non sfondano il muro dell’indifferenza ».

Manca il coraggio della denuncia?

«Non parlerei di coraggio, perché in passato questa formula è stata spesso usata per chiedere agli scrittori cose sbagliate. In realtà i processi creativi sono più spontanei e naturali che indotti. Altrimenti si rischia di cadere in una posizione ideologica».

Nel suo libro Scrittori e popolo, lei demistificava il populismo di molti nostri letterati.

«Il libro, pubblicato nel 1965, è nato nel clima operaista di quegli anni. Allora denunciavo l’aspetto velleitario e ideologico di una critica sociale che non nasceva da intenti esclusivamente artistici ».

Come cambia oggi la prospettiva? È possibile che tra i nuovi scrittori nessuno abbia una coscienza sociale?

«Nella nuova edizione del libro ci saranno, tra gli altri, Melania Mazzucco, Giorgio Vasta, Nicola Lagioia, Mario Desiati, Valeria Parrella, ma non voglio dire di più. Se oggi gli scrittori non guardano al popolo è comprensibile: perché dovrebbero inventare qualcosa che non c’è?»
Fa anche questo parte del “grande silenzio” di cui parla nel libro intervista con Simonetta Fiori?

«Negli scrittori del neorealismo, in Vasco Pratolini, Carlo Bernari, Elio Vittorini, un’idea di popolo c’era, anche se riduttiva o sopraffatta dall’istanza ideologica. Era sanzionabile l’idea populista, ma questi scrittori contribuivano a far conoscere la realtà, la documentavano. Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri è un grande testo di testimonianza sul mondo operaio. Ragazzi di vita e Una vita violenta di Pasolini hanno un marchio ideologico discutibile ma in quei libri c’è un’impronta reale. Il silenzio attuale di scrittori e intellettuali nasce dalla cecità rispetto alla questione sociale. La gente volta la testa dall’altra parte».

Rimpiange lo scrittore engagé?

«Come abitudine mentale tendo a non rimpiangere niente. Mi sembra una stagione passata, a cui è seguita nella letteratura una ricerca più povera, ristretta alle vicende dell’io, senza aperture al mondo esterno. Ormai i personaggi della narrativa sono fondamentalmente incardinati nella propria vicenda individuale».

La Repubblica – 28 dicembre 2014

FAVOLE E LEGGENDE CHE RESISTONO AL TEMPO



LETTURE  PER LA FINE DELL' ANNO

di Francesca Matteoni

Il paesaggio si è raggelato e qua, sulle colline, gli alberi si sono finalmente bruniti del tutto – è caduta perfino un po’ di neve, poi lavata via dalle piogge. Quindi benvenuto inverno che spingi i gatti dentro le case e lontano dalle loro mappe campestri, che fai proliferare le tazze di tè e cioccolate calde e sognare stufe antiche, ciocchi di legno nel caminetto, mondi polari di silenzio e occhi selvatici. Benvenuti libri di favole crudeli, Natali stregati, leggende del nord.
Per quest’anno che volge alla fine ne ho tre, letti e ancora sul comodino, pubblicati dalla casa editrice Iperborea specializzata in testi letterari scandinavi, baltici e nederlandesi.
Si comincia con le Fiabe lapponi, primo volume di una serie di fiabe scandinave a cura di Bruno Berni. Le storie qui raccolte ne riecheggiano altre della tradizione letteraria europea, riplasmata dalle atmosfere settentrionali: come spiega molto bene Berni stesso nella postfazione, i temi e i personaggi che conosciamo, per esempio, da I cigni selvatici di Andersen o I sette corvi dei Grimm, o ancora da Il gatto con gli stivali di Perrault o dalle molte storie di amori impossibili fra esseri umani e coloro che abitano isole fatate o il fondo del mare, ritornano ne La fanciulla che cercava i suoi fratelli, Il ragazzo povero e la volpe, Il giovane pescatore e la donna del mare, ma la voce che le racconta ne muta le forme e perfino il sentimento. Sono queste le fiabe approdate attraverso libri, narrazioni, improvvisazioni di ignoti cantastorie presso un popolo estremo la cui storia scritta è giovane: il primo libro in lingua sami, Vita del lappone,  uscì infatti all’inizio del Novecento a firma di Johan Turi per illustrare gli usi e i costumi di una nazione nomade, priva di confini politici e che pure così profondamente sapeva della terra e delle sue stagioni. La magia si mescola all’ineluttabilità del destino, come nella storia in apertura, La zampa d’orso, dove la natura animale ha il sopravvento su quella umana e il capofamiglia, mutatosi in orso all’arrivo dell’autunno, verrà ucciso per errore dai figli. Possibile non pensare, leggendo, a uno scenario nel quale l’uomo è un’esistenza come un’altra, segnata dai ritmi dell’anno tra foreste che si diradano a rocce e acquitrini investiti dalle aurore boreali nelle lunghe notti invernali?
Incontriamo poi le creature del folklore sami: lo Stallo, un orco sciocco che però può avere la meglio su un’intera sida (l’accampamento lappone); la perfida Acceš-ædne e la vecchia Gieddegæš-galggo, piena di buoni consigli. Non meno importante è la commistione di tradizioni autoctone
 

 sida 

 e influenze cristiane, che rimanda ai disegni sui tamburi sami, dove la chiesa è una delle tante presenze magiche fra uomini-renna e spiriti. Le storie sono accompagnate dalle  incisioni di John Andreas Savio, artista norvegese di origine sami, che rappresentò la vita quotidiana dei lapponi, con i tricorni e gli abiti tradizionali, i cani e le slitte, la vastità di un mondo in dispersione attorno a gruppi sparuti di tende.
Gli altri due libri provengono invece dall’estro della grande scrittrice svedese Selma Lagerlöf. Sono testi composti da fiabe morali e piccoli racconti, in cui l’elemento fantastico si traduce in figure, credenze e superstizioni cristiane che ruotano attorno al Natale. Il libro di Natale, tradotto e curato da Maria Cristina Lombardi, inizia con il ricordo dei doni la sera della vigilia e l’attesa, da parte della bambina, del regalo più desiderato ovvero un libro. Il lettore si rivedrà forse, da ragazzo o bambina, circondato dalle carte scintillanti e le coccarde e poi immerso nel fitto delle pagine in un pomeriggio eterno di luci dell’albero e di candele, mentre il tempo sta per finire e cominciare di nuovo. Seguono la leggenda di Santa Lucia, santa siracusana trasformata in colei che porta i regali nel mondo scandinavo; episodi tratti dalla Bibbia ridetti davanti al focolare di una fattoria svedese; avventure di redenzione personale attraverso oggetti semplici caricati di significati allegorici; presagi dall’infanzia di Gesù; e le due che preferisco, le traversie del pettirosso che ottiene infine la ragione del suo nome pungendosi con una spina della corona del Cristo e Il capodanno degli animali in cui una fata silvana decide le sorti degli animali domestici e fra loro chi finirà preda delle belve feroci. È nella vicenda del pettirosso, dispiegata dalle origini del creato fino alla morte del Cristo sulla croce, che mi sembra di riconoscere il nucleo del libro, una sorta di religiosità o fede popolare per cui incantesimi e sacrifici tendono non tanto alla liberazione da una colpa o da un peccato, ma alla conquista tutta umana e tutta ancora da compiere dell’atto compassionevole.

savio 2 

La leggenda della rosa di Natale introduce e dà il titolo all’altro libro (tradotto da Maria Svendsen Bianchi) e ci riporta appieno in una fiaba antica, perigliosa eppure rischiarata da ciò che i suoi protagonisti riescono a comprendere. Nella leggenda il lettore di fiabe rivedrà la foresta ostile che circonda la dimora della Bestia e penserà al fiore fatato  del suo destino –  una rosa. Non un principe stregato in un aspetto bestiale, ma una famiglia di briganti vive in questi luoghi e, costretti all’isolamento dal resto degli umani, sono anche gli unici che ogni Natale vedono accadere un miracolo: come uno spirito della primavera il Bambino che nasce fa sbocciare nella notte fiori e piante luminose dove erano spini, rami secchi, rovi e sterpi. Ma perché sia vero occorre crederci senza alcuna riserva. Si muovono nelle storie violinisti insuperbiti cui una passeggiata presso un torrente e il timor panico restituiscono l’umiltà e la memoria, e altri violinisti dagli abiti rattoppati ma dall’archetto portentoso; una giovane sposa che deve svegliarsi dal sogno per affrontare la morte in mare del marito e dunque tornare a vivere;  imperatrici e re che apprendono cosa sia un tesoro dalle aspettative e dalle difficoltà del popolo. E anche una vecchia sola che conosce il valore della condivisione perfino quando diviene un dialogo con le anime dei morti intrappolate in un purgatorio di monti e ghiacci.
Con questi racconti attraversiamo l’inverno e non ci chiediamo troppo del lieto fine: accediamo piuttosto una lanterna nel freddo, un lumino diverso sull’albero – un gesto di fede, che è un altro modo per dire immaginazione.
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Immagini di John Andreas Savio   

Testo tratto da http://www.nazioneindiana.com/

30 dicembre 2014

INNI ORFICI




Esce in Francia una edizione curatissima degli Inni orfici, poesie per iniziati che svelano i segreti della tradizione dionisiaca.

Armando Torno 
Inni orfici  
Negli ultimi decenni diversi documenti degli antichi Orfici – movimento religioso che influenzò la filosofia greca sin dalle origini – sono venuti alla luce. Innanzitutto, nel 1962, si scoprì il Papiro di Derveni (città della Grecia, presso Salonicco): prezioso testo in dialetto ionico, con elementi in attico, contenente una cosmogonia che principia da Zeus. Si rivolge ai soli "iniziati".

Sono poi state ritrovate nel 1978 le Tavolette in Osso di Olbia (sita sul Mar Nero), né sono mancate diverse acquisizioni di laminette su cui furono scritte istruzioni religiose utili al defunto per il transito nel l'Ade. Inoltre, nel 2004, lo spagnolo Aberto Bernabé ha dato una nuova edizione dei frammenti e delle testimonianze degli Orfici (Poetae epici Graeci, parte II, fascicolo I, Bibliotheca Teubneriana) che sostituisce quella di Otto Kern, risalente al 1922. Il cantore Orfeo, il mitico fondatore, suscitò dibattiti sin da Platone, filosofo che fece suo il dualismo corpo-anima di questa scuola; Aristotele, invece, nell'opera Sulla filosofia espresse dubbi sulla reale esistenza storica del personaggio.

Tra i documenti tardi dell'orfismo ci sono giunti 87 inni, preceduti da un proemio a Museo. Si tratta, per usare una definizione che prendiamo dall'edizione della Fondazione Lorenzo Valla dell'opera, curata da Gabriella Ricciardelli nel 2000, della più singolare raccolta di preghiere pagane. La loro datazione non trova concordi i filologi, ma è possibile situarla alla fine del II o all'inizio del III secolo della nostra era, in Asia Minore, forse a Pergamo. 

Nascerebbe in seno a un gruppo di devoti a Dioniso: i fedeli credono che Orfeo abbia fondato i misteri del dio e preparano un libro a testimonianza. Ogni inno è dedicato a una divinità e le preghiere evocano profumi: il tutto senza sacrifici cruenti, ché il culto dionisiaco-orfico ha orrore del sangue versato. Gli dei moltiplicano i loro nomi, o meglio si assimilano ad altri: Dioniso può essere Eracle e Zeus, a sua volta Eracle è anche il Sole, Artemide diviene Ecate (dea alla quale era consacrata la Sibilla Cumana). Il processo di passaggio da un dio all'altro non esclude ricorsi alla filosofia, che in tal caso è sovente quella della tradizione stoica, altre volte si ricorre al neoplatonismo.

Gli Inni Orfici saranno apprezzati e studiati nel Rinascimento; anzi Marsilio Ficino e non pochi suoi contemporanei credevano fossero opera dello stesso Orfeo. Giovanni Pico della Mirandola in una delle Conclusiones Orphicae scrive: «Nell'ambito della magia spirituale non c'è niente di più efficace degli Inni di Orfeo, se si eseguono con il consenso di una musica adatta, di un'opportuna disposizione dell'animo e delle altre circostanze ben note al saggio». Anche se queste preghiere pagane sono diventate per noi un documento tardo, e non hanno per esempio la medesima valenza dei frammenti tramandatici da Onomacrito di Atene (fine VI secolo a.C.), contemporaneo di Pisistrato, restano utili per chi crede nei valori della tradizione. Non furono scritte da Orfeo ma ne testimoniano il messaggio religioso.


Ora Marie-Christine Fayant (Università di Valenciennes), nella collana dei classici greci delle Belles Lettres, offre una nuova edizione con tutti gli aggiornamenti possibili degli inni in questione: Hymnes Orphiques, con testo critico greco, traduzione francese e un formidabile apparato di note.

Ogni singola composizione è introdotta e dettagliatamente annotata. Chiude il lavoro un vasto saggio sulla teologia presente nei brevi componimenti scritti in esametri, rilevando i punti comuni della cosmogonia degli Inni e delle teogonie orfiche. La studiosa nota tra l'altro: «Sembra probabile che la raccolta sia l'opera di un solo autore» (introduzione, p. XXX). E ancora, richiamandosi alla Ricciarelli, la Fayant sostiene che tali Inni siano stati composti e riuniti per accompagnare i riti religiosi di un'associazione privata (in essi non vi sono allusioni a un culto ufficiale).

Orfici troppo poco per taluni, decisamente poco poetici per altri, questi incantesimi rivelano – al pari degli Inni omerici, di quelli di Callimaco o di Proclo – l'infinito sussurro mistico di un mondo abitato dagli dei. Litanie ferventi – le chiama la Fayant – seppur dotate di un certo formalismo, riflettono una dimensione divina che si apprestava a cedere spazio a un'altra rivelazione. Tra le liberalità religiose e le filosofie del mondo imperiale romano.

Il Sole 24 ore – 28 dicembre 2014

29 dicembre 2014

IL CAPODANNO DI GRAMSCI








"Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno.

Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date.

Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna. E sono diventati cosí invadenti e cosí fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Cosí la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa la film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante.

Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore. Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca.[...] "

 

Antonio Gramsci, Capodanno,  Gennaio 1916, l’Avanti!

28 dicembre 2014

UN NATALE DEL GIOVANE PASOLINI



 Pasolini coi suoi "zuvinins" di Versuta (1944)

 Dal bellissimo sito   http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/molteniblog/ questa mattina prendo una perla:
  
 IL NATALE DI PPP PER I BAMBINI DI VERSUTA


Il Natale di PPP per i bambini di Versuta, di Angela Felice - See more at: http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/molteniblog/il-natale-di-ppp-per-i-bambini-di-versuta-di-angela-felice/#sthash.Irk0ubIb.RZ2qL6PW.dpuf
di  ANGELA FELICE



Come si sa, Pasolini insieme alla madre Susanna sfollò durante la guerra, dalla fine del 1944 al 1947, a Versuta, un minuscolo borgo contadino a pochi chilometri da Casarsa. Lì, sempre non  inoperoso,  il giovane Pier Paolo dette vita a una libera scuola “a tempo pieno” per i ragazzi a cui le operazioni militari  e il dissesto delle vie di comunicazione impedivano di frequentare le lezioni regolari. Alcuni di questi piccoli allievi (Learco Cossarin, Dante Spagnol, Bepino Bertolin e altri) hanno conservato un quadernetto di poesie che il loro mirabile insegnante compose per loro, per far dimenticare con la poesia la paura e per cantare l’umile bellezza del mondo semplice.
Queste perle, luminose se non altro per il  valore di resistenza morale che oppongono al male degli uomini e della storia, sono state pubblicate in parte nel volume  Pasolini in Friuli 1943-1946 (ed.  Arti Grafiche Friulane, 1976)  e poi soprattutto nell’antologia curata da Nico Naldini Un paese di temporali e di primule (Guanda, 1993). Dalla raccoltina di quattordici poesie  “1944”  di quest’ultima  edizione  ne scegliamo una che si richiama al Natale di guerra ma pare prescinderne in nome della grazia dei sogni bambini.
Che sia di buon augurio per i lettori di questo blog.

Natale del ragazzo

Muschio verde e tenerello
grotta verde e illuminata
con la mucca e l’asinello
e la vergine incantata.

Incantata sul bambino
e Giuseppe col bastone
e i Re Magi tutti d’oro
e i Pastori in Processione.

Pecorelle presso i laghi,
le montagne coi castelli,
sentierini bianchi, bianchi,
e lucenti torrentelli.

Per me bimbo tremante,
tutto è sogno nel mio cuore,
tutto è sogno qui d’intorno.

Pier Paolo Pasolini con i suoi “zuvinìns” di Versuta  (1944) - See more at: http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/molteniblog/il-natale-di-ppp-per-i-bambini-di-versuta-di-angela-felice/#sthash.Irk0ubIb.RZ2qL6PW.dpuf