30 giugno 2020

MUSICA E POESIA IN PIER PAOLO PASOLINI





In rete oggi trovate l'ultimo numero della rivista bimestrale DIALOGHI MEDITERRANEI. Il numero è ricco di diversi contributi. Tra gli altri vi segnalo la mia lettura di uno dei libri più belli che siano mai stati scritti sul poeta corsaro:
 CLAUDIA CALABRESE, Pasolini e la musica, la musica e Pasolini. Correspondances. Diastema editrice 2019. Questo è il link dell'articolo: 

 http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/pasolini-tra-incanto-e-disincanto/?fbclid=IwAR319DvZuOGPNvgpevR51Fn3s2brEBQAIWWGCL2Xv0e353EwdX0cyByPO2o


STORIA DI MONTANELLI







Giorgio Amico
Quando Montanelli preparava il colpo di stato e la guerra civile
"Fu Montanelli a insegnarci il rispetto per i nemici" con questo titolo Francesco Merlo interviene sulla Repubblica del 16 giugno a proposito dell'imbrattamento della statua che il comune di Milano ha dedicato al giornalista. Dunque, imbrattamenti simbolici a parte, per Repubblica Montanelli fu un maestro di tolleranza. Peccato che le cose non stiano proprio così e forse l'illustre giornalista avrebbe dovuto documentarsi un po' meglio prima di scrivere il suo francamente imbarazzante compitino.
Noi l'abbiamo fatto. 
Dal 1953 al 1956 Claire Booth Luce,  moglie di Henry Luce, fondatore ed editore di alcuni tra i più importanti periodici americani, quali Time, Life e Fortune e grande sostenitore del Partito repubblicano, fu ambasciatrice degli Stati Uniti a Roma, Nominata dal presidente Eisenhower come ricompensa per il sostegno decisivo che il marito aveva dato alla sua campagna elettorale. Incapace di comprendere le sottigliezze della politica italiana, l'ambasciatrice si rivelò ben preso una severa critica della politica della DC considerata troppo morbida verso il partito comunista. Per eliminare la minaccia comunista occorreva ben altra politica. 
Di conseguenza uno dei primi atti della Luce fu l'apertura ai fascisti. Il 21 aprile 1954 il deputato missino Anfuso incontra il Consigliere d'ambasciata Eugene Durbrow. È il primo incontro di cui si trova traccia nella documentazione del Dipartimento di Stato. Ovviamente contatti fra americani e neofascisti c'erano stati sempre a partire almeno dall'aprile 1945, basti ricordare il rocambolesco salvataggio del comandante della X MAS, Junio Valerio Borghese, sottratto alla giustizia partigiana nei giorni dell'insurrezione e trasportato a Roma travestito da ufficiale dell'esercito americano. Questa volta però la cosa è diversa: l'incontro è ufficiale e il MSI è trattato come un qualsiasi altro partito politico italiano, ovviamente se di orientamento anticomunista. Da allora i contatti saranno regolari.
La Luce fu anche fautrice di un deciso spostamento conservatore dell'asse politico, spostando il baricentro dei governi centristi a destra, in modo da ridurre il peso nell'esecutivo dei partiti laici moderati (PRI,PSDI) e di aumentare invece la forza contrattuale nei confronti della DC del PLI. A questo fine sostenne con decisione lo spostamento a destra del Partito liberale con la nuova segreteria Malagodi e la creazione di un comitato permanente di coordinamento (CONFITESA) fra Confindustria, Confcommercio e Confagricoltura allo scopo di sostenenre e finanziare i candidati del PLI e della destra DC alle elezioni amministrative del 1956.
In quest'ottica l'ambasciatrice intensificò i suoi rapporti con gli ambienti più conservatori e in particolare con personaggi come Randolfo Pacciardi, il capo dell'Ufficio Affari Riservati del Ministero dell'Interno (il nuovo nome che aveva assunto l'OVRA fascista) Gesualdo Barletta e esponenti di punta della stampa.
Particolarmente stretto fu il legame con Indro Montanelli con cui nel 1954 ci fu un intenso scambio di lettere. In queste lettere Montanelli chiedeva l'appoggio americano per una decisa azione anticomunista che doveva una volta per tutte risolvere il problema rappresentato dal PCI. Il giornalista, che vantava l'appoggio di un nutrito gruppo di industriali, proponeva l'organizzazione di una rete "terroristica" (l'aggettivo è di Montanelli) da attivare nel caso il PCI si fosse avvicinato troppo all'area del potere. Montanelli concordava con il giudizio negativo sulla politica democristiana e da questa valutazione faceva discendere l'idea che il comunismo era destinato in tempi non troppo lunghi a imporsi in Italia, sfruttando le contraddizioni del sistema e l'insoddisfazione profonda delle masse popolari. Il PCI andava fermato a tutti i costi e dunque in caso di una possibile vittoria elettorale, la questione andava risolta con le armi.
Nel corso dell'anno Montanelli si recò più volte di persona all'ambasciata americana a Roma per perorare direttamente la sua causa, sempre accolto con grande calore dall'ambasciatrice. Dalle lettere scambiate fra i due e ora rese pubbliche, risulta che Montanelli in più occasioni accennò ad una "organizzazione segreta" della Confindustria in stretti rapporti con l'organizzazione "Pace e Libertà" di Edgardo Sogno creata in funzione anticomunista dalla CIA. Il primo obiettivo era espellere con ogni mezzo i comunisti dalle fabbriche, con atti provocatori e licenziamenti di massa, secondariamente andava rafforzata la presenza dei cosiddetti "sindacati liberi", CISL e UIL. Ma i compiti dell'organizzazione non si limitavano ad un'azione anticomunista nell'ambito dei luoghi di lavoro, ma investivano l'intera società e i suoi ordinamenti democratici.
Occorre, scrive Montanelli in una delle sue missive, "difendere l'Italia fino ad accettare o anche affrettare la morte della democrazia", se questa agevola i piani del nemico. Un atteggiamento davvero rispettoso per chi non la pensava come lui.
Particolarmente significativa è la lettera che Montanelli scrive alla Luce il 6 maggio 1954. In essa, dopo una serie di considerazioni sulla incapacità della DC di affrontare in modo deciso il pericolo comunista, il giornalista propone un dettagliato piano d'azione:
"La polizia e l'esercito sono inquinati di comunismo: i carabinieri, senza il Re, hanno perso ogni mordente: la magistratura è vile. E in tutto il paese non c'è una forza capace di appoggiare l'azione di un uomo risoluto. Noi dobbiamo creare questa forza. (...) Questa minoranza esiste ancora e non è comunista. È l'unica nostra fortuna. Bisogna ricercarla individuo per individuo, darle una bandiera, una organizzazione terroristica e segreta e un capo. (..) La [persona] più adatta sarebbe Pacciardi: risoluto e buon organizzatore. Ma il suo passato di antifascista repubblicano lo rende impresentabile ad un gruppo di uomini che saranno nella maggior parte ex-fascisti monarchici. Propongo il generale Messe, uno dei pochissimi generali usciti dalla guerra con onore. (...) Gli forniremo noi le idee che egli non ha. Il programma deve essere semplice e chiaro. Reclutamento di qualità, non di quantità, condotto secondo la tecnica comunista delle "cellule". (...) Impegno con giuramento, da parte di tutti, a eseguire gli ordini.
(...) Nessuna pregiudiziale di provenienza politica: il passato non ci interessa. (...) Capi e gregari devono essere tutti PERSONAE GRATAE ai Carabinieri, con cui si impongono strettissimi rapporti di collaborazione e di cui dovrebbero, nel momento supremo, diventare la truppa di rincalzo. Infatti il movimento sarebbe destinato ad entrare in azione (azione armata) solo il giorno in cui, elettoralmente, la battaglia fosse definitivamente persa (...) pronti a scatenare in questo caso la guerra civile con tutte le inevitabili conseguenze, allo scopo fondamentale e basilare d'inchiodare l'Italia all'Alleanza atlantica".
Dunque per Montanelli fondamentale era tenere i comunisti fuori del governo (indipendentemente dal voto espresso dai cittadini) e l'Italia nella NATO, usando ogni mezzo disponibile, nessuno escluso, come ad esempio "la MAFIA che in sicilia ha un potere decisivo, molto più grande di quello del Governo".
È lo schema della strategia della tensione, del Piano Solo del generale De Lorenzo nel 1964, del golpe Borghese nel 1970, dei progetti golpisti di Sogno e Pacciardi negli anni '70. La Luce ne fu entusiasta e caldeggiò la cosa presso il governo americano, ma il Dipartimento di Stato bloccò il progetto, ritenendolo prematuro e troppo rischioso. Nel frattempo però la CIA stringeva con i Servizi segreti e lo Stato Maggiore dell'esercito italiano gli accordi che avrebbero portato in un breve lasso di tempo alla creazione di Gladio, organizzazione segreta con gli stessi obiettivi e le stesse modalità di funzionamento.
Per un "maestro di tolleranza" non c'è male. Vero, egregio dottor Merlo?

29 giugno 2020

LA SCUOLA, GRAMSCI E IL BAMBINO BUTTATO VIA








La scuola, Gramsci e il bambino buttato via.
Gianpaolo Francesconi

La scuola è uno spazio di scambio, di condivisione e di trasmissione di conoscenze, ma anche di affetti, di esperienze. La scuola è un luogo di umanità che si incontra.
Stamani abbiamo rivisto i banchi, le sedie, le lavagne: sembra inutile dover ribadire che la scuola è questa. Non ne esiste una diversa. Il resto è un surrogato, è solo emergenza.
La scuola è, tuttavia, sofferente. E' sofferente da troppo tempo. La scuola soffre di scarsa autostima, di una buona dose di indifferenza politica e di quasi nessuna credibilità sociale. Il dibattito di questi mesi sulla mancata riapertura è stato significativo. Un dibattito in cui la scuola è tornata ad essere oggetto di discussione, ma soltanto come ricaduta sociale di un disagio. La scuola come ammortizzatore sociale.
La scuola dovrebbe essere invece l'asse portante di una società, il cuore pulsante di ogni possibile progetto sul presente e sul futuro. La scuola crea la società e ne è creata, secondo un interscambio serrato e inevitabile. Irriducibile.
E allora bisogna tornare a rileggere questa riflessione di Antonio Gramsci del 1934. E bisogna pensare che già Gramsci, in quel momento, avvertiva le crepe di un sistema formativo che stava rinunciando alla sua più robusta tradizione. Che stava rinunciando a creare cittadini “critici”.
E' certo necessario tenere presenti tutti i cambiamenti che da allora hanno segnato la società italiana: di un paese che da contadino è diventato industriale, che ha avuto la necessità di rispondere alle esigenze di un'istruzione di massa, che ha poi, via via, rinunciato a distinguere e a selezionare.
Nel frattempo, tuttavia, abbiamo smesso di riconoscere la scuola come un luogo strategico e nevralgico, “abbiamo buttato via il bambino con l'acqua sporca“.
La pagina di Gramsci merita di essere riletta e meditata proprio per la sua straordinaria modernità, per la sua inattesa attualità.

A. GRAMSCI, Ho iniziato a lavorare a 11 anni





Mi dirigo da me da molto tempo e mi dirigevo da me già da bambino. Ho incominciato a lavorare da quando avevo 11 anni, guadagnando ben 9 lire al mese (ciò che del resto significava un chilo di pane al giorno) per 10 ore di lavoro al giorno compresa la mattina della domenica e me la passavo a smuovere i registri, che pesavano più di me e molte notti piangevo di nascosto perché mi doleva tutto il corpo. Ho conosciuto quasi sempre l’aspetto più brutale della vita e me la sono sempre cavata, bene o male. Neanche mia madre conosce tutta la mia vita e le traversie che ho passato: a lei ricordo qualche volta quella piccola parte che in prospettiva sembra ora piena di lietezza e di spensieratezza. Adesso le addolciscono la vecchiaia perché le fanno dimenticare le traversie ben più gravi e le amarezze ben più profonde che ella ha subito nello stesso tempo. Se ella sapesse che io conosco tutto quello che conosco e che quegli avvenimenti mi hanno lasciato delle cicatrici, le avvelenerei questi anni di vita in cui è bene che dimentichi e che vedendo la vita lieta dei nipotini che ha intorno confonda le prospettive e pensi realmente che le due epoche della sua vita sono la stessa e una. 

Antonio Gramsci, lettera a Tania del 2 ottobre 1932. 


LEGGETE TUTTE LE SUE STRAORDINARIE LETTERE DAL CARCERE

IL SESSISMO NEL LINGUAGGIO CONTEMPORANEO




Non sono sessista, ma…Il sessismo nel linguaggio contemporaneo.


Lei esamina ed analizza le forme del linguaggio sessista. Da dove hanno tratto origine e quali mutamenti può cogliere il suo studio tanto foriero di esempi concreti e pregnanti?
L’origine delle forme linguistiche – parole, espressioni, modi di dire – è multiforme e si perde nel tempo, ma non è la stessa del sessismo. Questo è uno strumento di potere discriminante messo in atto da una cultura patriarcale; la quale ha usato più spesso alcune espressioni proprio per diffondere ed esprimere quel potere, e queste espressioni noi oggi possiamo riconoscerle come “espressioni sessiste”. Come ci insegna la linguistica però, il significato lo fanno i parlanti nel loro uso quotidiano; quando da questo uso quotidiano saremo capaci di non usare il sessismo – così come siamo stati capaci in molti casi di abbandonare le espressioni razziste o antisemite – allora quelle stesse espressioni spariranno o passeranno a significare altro.
Proprio ponendo il focus attentivo sui femminismi, sono state condotte significative lotte per la parità. Ritiene che la lingua e le parole di cui ci si avvale nella comunicazione quotidiana, sia in maniera conscia che ingenua, racchiudano elementi di sessismo?
Sì, molte espressioni quotidiane sono sessismi. Questo, indipendentemente dalla volontà del singolo, perché la lingua conserva la storia della cultura che la usa; se la cultura italiana è profondamente sessista – e lo è, al di là di ogni ragionevole dubbio, come quelle lotte cui accennava hanno ampiamente dimostrato – queste caratteristiche non spariscono da un giorno all’altro, con l’emanazione di una legge. I tempi della cultura sono molto lenti, e servono azioni lunghe nel tempo per modificarla.
Quali metodi suggerisce per sviluppare la consapevolezza del funzionamento della cultura patriarcale e, dunque, quali antidoti consiglia?
Ascoltare cos’hanno da dire i tanti femminismi che lottano per la parità, e invece di opporsi a loro in maniera pregiudiziale, provare sulla propria pelle e nella propria esperienza quelle oppressioni patriarcali che denunciano. Facendo tesoro di queste acquisizioni, si sarà molto più responsabili delle proprie parole, dei propri gesti.
La polisemia di accezioni (genere linguistico, biologico e sociale) che sviluppa, dimostra quanto la dimensione linguistica emani riecheggiamenti nella maniera in cui si avverte la realtà, si erige l’identità e si calcificano i preconcetti. Reputa che modi di dire, proverbi e battute possano costituire l’anticamera di forme di violenza?
Più che l’anticamera, le espressioni sessiste ne sono l’impalcatura. Come la metafora dell’iceberg spiega bene, la violenza fisica è la cima visibile della montagna di ghiaccio che si vede fuori dall’acqua, e di cui tutti si accorgono. Ma quello che la tiene a galla, quello che distrugge le navi, è l’enorme mole di ghiaccio sommersa, che è formata appunto da battute, proverbi, gesti considerati “goliardici”, e così via.
Lei scrive: “[…] la storia si disinteressa dei modelli astratti e inesistenti quali sono le ‘persone’: le differenze di sesso, genere e orientamento hanno da sempre tracciato precise linee di potere, dominio, sofferenza e ingiustizia che non sono mai state indifferenti al corpo di chi le agisce e di chi le subisce. Annullare le differenze, storiche e attuali, in nome di una ‘giustizia’ uguale per tutti e tutte è la prima palese ingiustizia da evitare, la prima colossale e ipocrita mancanza di responsabilità sociale e storica”. Le differenze tra generi debbono, orbene, essere rafforzate?
Beh, più che rafforzarle o indebolirle, direi che sarebbe ora di considerarle. Nascondersi dietro un dito e fare finta che non ci siano e che non siano importanti è già una forma di discriminazione. Non si può più tacere l’evidenza che un corpo diverso sente, vede, percepisce e rielabora la realtà in modo diverso. Non si tratta di capacità maggiori o minori, di forza o di “razionalità”: si tratta di caratteristiche diverse che non possono più essere taciute, e alle quali va data la giusta importanza proprio per abbandonare definitivamente quei pregiudizi (la forza fisica, l’umore cangiante…) che da sempre hanno relegato i generi diversi dal maschile etero in una posizione subordinata.
* Lorenzo Gasparrini nasce a Roma nel 1972. Durante gli studi di filosofia e una breve carriera accademica in diverse università del centro Italia incontra testi e protagoniste dei femminismi, decidendo così, dopo aver iniziato un percorso di profonda critica personale, di dedicarsi alla diffusione e divulgazione di argomenti riguardo gli studi di genere, soprattutto rivolti a un pubblico maschile. Conduce seminari, workshop e laboratori in università, centri sociali, aziende, scuole, sindacati, ordini professionali, gruppi autorganizzati; pubblica costantemente su riviste specializzate e non, sia online che stampate. E’ autore di “NO. Del rifiuto e del suo essere un problema maschile.” (Effequ, 2019), “Non sono sessista, ma… Il sessismo nel linguaggio contemporaneo” (TLON, 2019) e “Diventare uomini. Relazioni maschili senza oppressioni” (Settenove).

DA   https://giusycapone.home.blog/2020/04/18/non-sono-sessista-ma-il-sessismo-nel-linguaggio-contemporaneo/


28 giugno 2020

EROS, VITA e POESIA






Il collo esposto è erotico.
La vena dell'avambraccio è erotica.
I polsi sono erotici.
La nuca è erotica.
Il ventre è erotico.
La voce è erotica.
La fantasia è erotica.
La fiducia è erotica.
La confidenza è erotica.
Il pensiero è erotico.
Il resto sono luoghi comuni.

Chandra Livia Candiani.

LO STUPORE DI PIRANDELLO





L' abbiamo letta tutti a scuola la novella "Ciaula scopre la luna". Ma io non mi stanco mai di rileggerla. Ed ogni volta  provo una nuova emozione. (fv) 

Ciaula scopre la Luna

[...] Per fortuna, quando la salita cominciò, Ciàula fu ripreso dalla paura del bujo della notte, a cui tra poco si sarebbe affacciato.
Attraversando le gallerie, quella sera, non gli era venuto il solito verso della cornacchia, ma un gemito raschiato, protratto. Ora, su per la scala, anche questo gemito gli venne meno, arrestato dallo sgomento del silenzio nero che avrebbe trovato nella impalpabile vacuità di fuori.
La scala era così erta, che Ciàula, con la testa protesa e schiacciata sotto il carico, pervenuto all'ultima svoltata, per quanto spingesse gli occhi a guardare in su, non poteva veder la buca che vaneggiava in alto.
Curvo, quasi toccando con la fronte lo scalino che gli stava di sopra, e su la cui lubricità la lumierina vacillante rifletteva appena un fioco lume sanguigno, egli veniva su, su, su, dal ventre della montagna, senza piacere, anzi pauroso della prossima liberazione. E non vedeva ancora la buca, che lassù lassù si apriva come un occhio chiaro, d'una deliziosa chiarità d'argento. Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaria cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato. Possibile?
Restò - appena sbucato all'aperto - sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d'argento. Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna.
Sì, egli sapeva, sapeva che cos'era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna?
Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva. Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca.

Eccola, eccola là, eccola là, la Luna... C'era la Luna! la Luna!
E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell'averla scoperta, là, mentr'ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore.

Luigi Pirandello, da Novelle per un anno

SEDUZIONI






Non si è morti fin quando si desidera sedurre ed essere sedotti.

(Charles Baudelaire)

LASCIA CHE LE COSE SI ROMPANO...




Lascia che le cose si rompano,
smetti di sforzarti di tenerle incollate.
Lascia che le persone si arrabbino.
Lascia che ti critichino,
la loro reazione non è un problema tuo.

Lascia che tutto crolli, e non ti preoccupare del dopo.
Dove andrò?
Che farò?
Nessuno si è mai perso per la via, nessuno è mai rimasto senza riparo.
Ciò che è destinato ad andarsene se ne andrà comunque.
Ciò che dovrà rimanere, rimarrà comunque.
Troppo sforzo,
non è mai buon segno,
troppo sforzo è segno di conflitto con l’Universo.
Relazioni
Lavori
Case
Amici e grandi amori.

Consegna tutto alla Terra e al Cielo, annaffia quando puoi, prega e danza ma poi lascia che sbocci ciò che deve e che le foglie secche si stacchino da sole.

Quel che se ne va, lascia sempre spazio a qualcosa di nuovo: sono le leggi universali.

E non pensare mai che non ci sia più nulla di bello per te, solo che devi smettere di trattenere quel che va lasciato andare.

Solo quando il tuo viaggio sarà terminato,
allora finiranno le possibilità,
ma fino a quel momento, lascia che tutto crolli,
lascia andare.

(Claudia Crispolti)

L. SCIASCIA E L. PIRANDELLO











"Io mi sono trovato, nei primi quindici anni di vita, a vivere dentro un pirandellismo di natura . Gli ho dato nome e me ne sono fatta un' ossessione quando, dopo aver visto Il fu Mattia Pascal di Marcel L’Herbier, ho cominciato a leggere Pirandello . Gli altri; il giudizio degli altri; il problema dell’identità; l’uno, nessuno e centomila, insomma, furono la mia ossessione quotidiana, nell’adolescenza. Era uno stato che rasentava la schizofrenia. A un certo punto – grazie agli illuministi, ecco – mi sono liberato di Pirandello, sono arrivato a detestarlo. Poi ci sono tornato: serenamente, con grande amore. Con questo mio stretto conterraneo ho avuto, si può dire, un rapporto molto somigliante a quello del figlio col padre. Anche il fascismo di Pirandello lo vedo oggi come un errore del padre, che il padre (e anche mio padre che lo è stato per quieto vivere) non poteva non fare.

Leonardo Sciascia - Davide Lajolo, Conversazione in una stanza chiusa

'RAZZA', GENERE E CLASSE






“Razza”, genere e classe

Barbara Pinelli e Martina Tazzioli  *
26 Giugno 2020   da   https://comune-info.net/razza-genere-e-classe/


Fin dai loro inizi, gli studi sull’asilo politico hanno riflettuto sul ruolo di controllo esercitato dagli enti umanitari e dalle politiche di protezione affiancando tale postura alla critica conferita ai regimi di sorveglianza e dei confini direttamente agiti. Su un altro versante, i modi con cui la sessualità entra nei sistemi di controllo dello Stato verso l’intera popolazione hanno interessato la ricerca; in particolare quella che, con una posizione femminista, ha guardato a questi sistemi mettendo al centro la prospettiva intersezionale, ovvero le connessioni strette fra genere, tecnologie della “razza” e della classe sociale.1 Tuttavia, il legame fra politiche umanitarie, funzioni di controllo, razzializzazione delle politiche e sessuazione dei corpi, più concretamente come i sistemi di regolazione della mobilità umana siano iscritti sulle linee del colore, della sessualità e della classe (e ad altre istanze ancora) rimangono nel campo dell’asilo ancora sullo sfondo.
Così, se la ricerca sui rifugiati ha messo in luce come i sistemi di welfare dei paesi di arrivo abbiano costantemente tentato di trasformare rifugiati e richiedenti asilo in soggetti dipendenti e poveri, privandoli di una propria idea di emancipazione, giustizia e libertà, la declinazione di genere, sesso e “razza” di tali processi di impoverimento, dipendenza e deprivazione di un sé etico ha ricevuto meno attenzione.2 Tale riduzione, è utile ricordare, che su più fronti infragilisce il soggetto di diritto, non è priva di finalità, ma facilita deportazioni, processi di esclusione e la stratificazione dell’inclusione sociale.
La forma concreta di questi processi si nota lungo i confini d’Europa come nelle vaste aree urbane dell’intero Nord Globale. Sul fronte del genere, il ruolo, per esempio, di “eccezione umanitaria” assegnato alle donne nelle politiche di salvataggio al confine marittimo prosegue nelle linee di salvezza morale cui devono rispondere successivamente. Per esempio, nel dover rispettare i codici morali della vittima sofferente da emancipare al fine di essere considerate soggetti ammissibili alla protezione e alla comunità morale. Se un filo si individua fra questa eccezionalità umanitaria, il ruolo della sessualità nei sistemi di regolazione delle migrazioni e la codificazione morale etnica-razziale dei corpi utile a comprendere cosa filtrano i confini (e quali corpi sono considerati ammissibili a una vita sociale e politica degna), vi è da sottolineare che anche eccezionalità e compassione si sono riconfigurate alla luce di rafforzamenti di norme nazionaliste e razziali, e si siano anch’esse fatte lievi fino a far voltare lo sguardo dinanzi alle forme più escludenti del corpo razzializzato. Ovvero alla sua morte (ai confini meridionali europei) o alla scissione forzata delle intimità più profonde delle persone (per esempio nelle rotture dei legami di filiazione negli attraversamenti fra le Americhe). Sul fronte della classe e dei processi di deprivazione economica razzializzata, è la Grecia a offrire esempi concreti. Primo paese europeo a distribuire il pocket-money a richiedenti asilo su carte prepagate tramite fondi dell’Unione Europea, le sue politiche di governo della mobilità si realizzano con privazioni economiche celate da misure di supporto umanitario-finanziario per richiedenti e rifugiati. Il supporto economico e la soluzione abitativa fornite da UNHCR e dall’UE vengono meno non appena i richiedenti asilo ottengono la protezione internazionale o, al contrario, il diniego della stessa. Tale misura di doppia privazione è stata rilanciata nel maggio 2020, in piena pandemia Covid-19, quando i rifugiati si sono trovati a far fronte a forti restrizioni sulla mobilità causate dal lockdown, da una destituzione economica e dall’imminente sfratto abitativo. Le ripetute mobilitazioni organizzate ad Atene dai rifugiati con il supporto di alcuni solidali sono riuscite a far sospendere temporaneamente la fuoriuscita forzata da abitazioni e supporto economico.
Che il genere inteso nella sua accezione intersezionale (ovvero, solo un’analisi congiunta degli assi di oppressione legati a genere, sesso, “razza”, classe può mostrarne la potenza) possa essere una prospettiva radicale per lo studio delle forme del potere non è argomento nuovo alla letteratura, alle battaglie politiche e ai movimenti di protesta per il riconoscimento di collettività rese marginali dalla storia (per esempio, dalla schiavitù e dalla segregazione razziale-sessuale). Non è inedita altresì la configurazione del margine come luogo di resistenze e di lotte, come ben insegna il femminismo afroamericano.3
È in quest’ottica che forse tenere uno sguardo sul futuro riprendendo lotte e riflessioni di chi dai margini si è riappropriato della storia può costituire un buon punto per leggere il presente. Guardando alle scene politiche attuali, la prospettiva abolizionista, in particolare nella sua declinazione femminista, le istanze portate avanti dai femminismi postcoloniali e afroamericani ci appaiono fornire chiavi analitiche per leggere il governo delle popolazioni (in particolare, qui riferita alla mobilità umana, ma da tale posizionamento si esprimono alleanze) centrato sulle intersezioni tra “razza”, classe e genere, e per investigare la configurazione nel presente di dinamiche storiche e strutturali di razzializzazione. La prospettiva abolizionista femminista e le istanze avanzate dal femminismo nero dagli anni Settanta possono costituire un metodo e una prassi nella ricerca quanto, in senso più ampio, nella critica sociale dei processi di criminalizzazione e razzializzazione di soggetti e popolazioni (quali rifugiati e migranti). È da ricordare che una messa in discussione dei meccanismi di subordinazione non può che passare da un’analisi dei processi di gerarchia, spossessamento ed esclusione che si fanno corpo in una vulnerabilità gerarchicamente distribuita (sulle linee tracciate dall’intersezionalità), e che per alcuni gruppi umani comporta anche una morte prematura4. Queste prospettive mettono al centro i movimenti anti-razzisti e le lotte contro i meccanismi di incarcerazione5. Riarticolando queste visioni nel campo delle migrazioni, si fa strada l’idea di “abolizionismo dei confini” come metodo parte di un’analisi critica centrata sui processi di razzializzazione in gioco nella categorizzazione di alcuni soggetti come “migranti”. Tale approccio permette altresì di assumere le lotte di migranti e rifugiati come lente analitica dinanzi ai molteplici meccanismi di confinamento, la loro funzione di filtro e di costruzioni gerarchiche iscritte sulle differenze di genere, corpo, “razza”, classe.
Tali riflessioni rinforzano l’idea che siano proprio coloro che si presentano sulla scena politica infrangendo sicurezze, superando le linee del colore, del genere e della classe a offrire posizioni radicali per esplorare i poteri dello Stato, della subordinazione e della distribuzione gerarchica dei diritti e delle risorse. Va da sé pertanto che discutere di rifugiati e migranti significa mettersi in una prospettiva vantaggiosa per lo studio del governo della popolazione nel suo insieme, dei modi con cui gerarchie sociali legate a razzismo, sessismo, impoverimento economico e dipendenza dalle strutture governative, codici morali e altro ancora costruiscono linee di non/ammissione. Questa prospettiva sostiene la centralità della valenza politica dei corpi e delle biografie di chi ha fatto esperienza di regimi coloniali, segregazione razziale, sessismo/razzismo, migrazioni e sradicamenti per rileggere la storia sociale nel suo insieme, la sfera politica e le sue logiche escludenti, e per pensare a rivendicazioni comuni di diritti.

Note:
1. Crenshaw, Kimberlé (1991). Mapping the Margins: Intersectionality, Identity Politics, and Violence against Women of Color. In “Stanford Law Review”, 43(6), pp. 1241-1299.
2. Luibhéid, Eithne, (2013). Pregnant on Arrival: Making the ‘Illegal’ Immigrant, University of Minnesota Press, Minneapolis. MN
3. Sandoval, Chela (2000). Methodology of the Oppressed. University of Minnesota Press, Minneapolis. MN.
4. Gilmore, Ruth Wilson (2007). Golden gulag: Prisons, surplus, crisis, and opposition in globalizing California. University of California Press.
5. Davis, Angela (2011). Abolition democracy: Beyond empire, prisons, and torture. Seven Stories Press.

*Barbara Pinelli, Ricercatrice in Antropologia, Università degli Studi Roma 3.
Martina Tazzioli, Lecturer in Politics and Technology, Goldsmiths, University of London.

Questo articolo (titolo originale completo “Razza”, genere, classe dei corpi e del potere Quando l’asilo politico diventa una prospettiva radicale per guardare allo Stato), è apparso in Escapes – Laboratorio di studi critici sulle migrazioni forzate VI Conferenza nazionale – edizione on line 26 giugno 2020.
Questo testo è distribuito con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 3.0 Italia
#escapes2020 online presentazione
#escapes2020 online programma

26 giugno 2020

INTERVISTA AL CURATORE DELLA NUOVA EDIZIONE DELL'OPERA OMNIA DI SCIASCIA


foto di ferdinando scianna




Squillacioti: “Sciascia, classico da leggere come Seneca

Intervista al curatore dell’opera omnia di Sciascia – in libreria il tomo conclusivo – per Adelphi, l’uomo che ha “riverniciato” filologicamente i testi dello scrittore: «L’eredità di Ambroise? Per me un privilegio, ma le nostre edizioni non sono paragonabili. la mia un’operazione diversa, che lui stesso capì. Nei decenni sono emerse novità importanti dagli studi sciasciani, lui fu anche barocco e ottimista. Continuerà a parlare ai lettori a distanza di secoli, come i classici greco-romani. Lettere da ritrovare e scritti dispersi? Non ci sono contorni definiti»

Se negli ultimi trent’anni c’è chi non ha creduto alla morte di Leonardo Sciascia né tantomeno a quella della materia incandescente e sulfurea di cui sono fatte le sue opere – fede nell’uomo e nella ragione come lezioni di dubbi agli interlocutori, coerenza a oltranza, alla Bernanos («Preferisco perdere dei lettori, piuttosto che ingannarli», pensiero dello scrittore francese ed epigrafe di A futura memoria), libertà di pensiero  – buona parte del merito va a chi ne ha coltivato la memoria, con quel gesto antico e nobile che è la pubblicazione di libri. Se ciò che ha scritto continua a svelare gli inganni occultati nel «buio mistificato in luce» (Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia), se Sciascia è rimasto una stella fulgida e fuori dal coro, da maneggiare con cura, un fuoriclasse che, per dirla alla Moravia, «partiva dalla chiarezza per arrivare al mistero», la casa editrice Adelphi può appuntarsi una medaglia al petto, con i suoi infaticabili collaboratori, a cominciare da Paolo Squillacioti, classe 1965, calabrese che ha completato gli studi alla Normale, direttore dell’Istituto CNR Opera del Vocabolario Italiano, curatore delle opere complete di Sciascia per la casa editrice di Roberto Calasso. Le migliaia di pagine che questo studioso – presente a tutti gli appuntamenti celebrativi a 30 anni dalla morte di Sciascia, da Milano a Palermo, da Racalmuto a Parigi – ha restituito con rigore filologico raccontano pienamente Sciascia, uomo dei silenzi, letterato finissimo, scrittore del dissenso, intellettuale disorganico e critico palpitante del potere.
Squillacioti, sono trascorsi trent’anni senza o con Sciascia? È stata più forte l’assenza o la presenza?
«Posso dare due risposte. Quella soggettiva riguarda la mia vita, non sono riuscito a sentire il vuoto, perché le mie giornate sono state estremamente piene della sua opera, che ho iniziato a leggere poco più di trent’anni fa. Quella oggettiva è ambivalente. La do con i miei mezzi, non ho le capacità di uno storico della letteratura o di un critico. Dopo tanti anni ciò che Sciascia ha scritto regge perfettamente i cambiamenti, per molti aspetti resta attuale, la sua attualità torna forte, prepotentemente, quasi unanimemente, anche laddove gli si era dato ampiamente torto, quando era in vita. Non saprei, però, visto come e quanto velocemente sono cambiate le cose, come si muoverebbe Sciascia in una società di slogan, lui che era abituato a ragionare e ad articolare il proprio pensiero, o in un mondo politico molto diverso da quello che lui ha visto da vicino, o come giudicherebbe questa nostra società ipertecnologica, lui che era così distante dalla tecnologia. Penso che la risposta soggettiva sia la migliore».
Sciascia è stato certamente un testimone esemplare del tempo che ha vissuto. Nel presente di inganni e fake news, potrebbe sembrare fuori tempo massimo. Ma è forse attuale perché ha sempre visto l’uomo senza illusioni, così com’è, con i suoi limiti?
«Lui è uno di quegli scrittori diventati classici, è assurto a questa categoria per certi versi indefinibile, non tutti lo diventano, i più sono apprezzati nel loro tempo. Lui continuerà a parlare ai lettori a distanza di secoli, come certi autori del mondo greco-romano. Naturalmente bisogna e bisognerà estrarlo dalla contingenza, dai fatti concreti che analizza, altrimenti la sua lettura sarebbe limitativa. Bisogna leggerlo come si legge Seneca, non museificarlo, ma farlo assurgere alla posizione di grande classico della cultura italiana e non solo. È una dimensione che mi sembra indubitabile, ma può darsi che io sia un perito di parte…».
Nei decenni, probabilmente, sono venute meno quelle che sembravano stelle polari della galassia Sciascia e che invece, specie se forzati, finiscono per essere incasellamenti stereotipati e simulacri riduttivi – Sciascia il mafiologo e Sciascia il lucido illuminista – ma quali spazi della sua dimensione d’artista rimasti in ombra sono emersi?
«Dal punto di vista della ricerca e del microcosmo degli studiosi di Sciascia ci sono state novità importanti, si scandagliano prospettive interessanti e diverse da certe trite e ritrite del passato. Io in parte sto provando a dare il mio contributo. Prima di tutto è emersa definitivamente la qualità letteraria delle sue opere, la sua grandezza di scrittore. È avvenuto rileggendo le sue opere oltre l’impatto polemico che spesso le accompagnava all’uscita. Molti, magari, non andavano oltre i titoli e le anticipazioni. Che avesse strutture e moduli illuministi è innegabile e noto unanimemente, ma c’è un’altra dimensione totalmente opposta nella sua opera, diciamo più analogica e barocca, che fa capo a Borges più che a Voltaire. Grazie ad alcuni studiosi si presta più attenzione a questo aspetto, che emerge già negli anni Cinquanta, in testi noti, non in carte nascoste o segrete. Certe cose erano evidenti, lì, eppure non si vedevano, si attraversano sempre gli stessi territori, si percorrevano sentieri battuti».
Come ha vissuto la pesantissima eredità di Claude Ambroise, che Sciascia volle per curare le sue opere per Bompiani?
«Per me è un assoluto privilegio che non pensavo di meritare e non è una formula retorica. Credo di avere conquistato gradualmente la sensazione e la consapevolezza d’essere all’altezza del compito che mi è stato assegnato. È un privilegio, ma anche un onere pesante. Il confronto con Ambroise non c’è, nemmeno a livello ideale, nel senso che l’edizione curata da me non può essere paragonata alla sua e all’enorme impatto che ha avuto. Io stesso non avrei potuto iniziare i miei studi sciasciani senza quell’edizione pensata da Ambroise e dallo stesso Sciascia. Col beneplacito dell’autore ha tirato fuori testi che altrimenti sarebbe stato impossibile leggere. Ha costituito un momento di svolta, per cui ho un rispetto assoluto, la sua edizione è irripetibile dal punto di vista culturale. Ho avuto bisogno di un confronto diretto con lui, una sorta di autorizzazione ideale per lavorare tranquillo. Parlammo qualche volta, in particolare una a Firenze, durante una lunghissima passeggiata. Lui era alieno da ogni tentazione filologica, era un prodigioso critico letterario, di grande finezza. La mia operazione era diversa, lo capì e mi disse che era legittimo farla. È stato un passaggio molto importante, per me, per procedere».
Come c’era bisogno di intervenire?
«Era necessario affrontare le opere complete da un altro punto di vista, perché i testi letterari sono organismi e se hanno il raffreddore devono prendere un’aspirina, per evitare malattie più gravi. C’erano dei segni di fisiologica decadenza nel testo sciasciano. Alcuni erano più curati, altri meno, rischiavano di ammalarsi, di perdere qualcosa a ogni passaggio. Stavano diventando vaghe le date di pubblicazione. L’opera di Sciascia stava fisiologicamente diventando un tutt’uno, dalle origini alla fine, come se non ci fosse un percorso. Ho cercato di porre rimedio e di individuare le cure, con la mia lente d’ingrandimento».
Col secondo tomo (Saggi letterari, storici e civili) del secondo volume, arrivato nelle librerie, si conclude il progetto delle Opere di Sciascia. I lettori quali scritti rari troveranno?
«Sono saggi che Sciascia aveva pubblicato in vita, apparentemente non c’è nessuna novità testuale, però alcuni stati rimessi a nuovo, riverniciati, parola per parola, tutte le parole hanno un peso. Sono stati ricontrollati minuziosamente sui manoscritti e rimessi a posto, penso a testi importantissimi, per esempio A futura memoria, pubblicato subito dopo la morte. La prima edizione non era ineccepibile, un po’ per fretta e un po’ perché Sciascia stava molto male. Un recupero importante è il suo primo saggio del 1953, Pirandello e il pirandellismo. Sciascia sosteneva di vergognarsi per tutta la sua produzione precedente a Le parrocchie di Regalpetra (1955, ndr), tranne che per quel saggio con le lettere inedite del premio Nobel al critico Adriano Tilgher. Saggio che non era stato più ripubblicato fino al recupero di Ambroise, che lo propose in appendice, ma senza le lettere, molto interessanti, per le quali Sciascia considerava significativo il saggio. È stato, il mio, un lavoro complementare a quello di Claudio Giunta che su Todo Modo, la rivista di studi sciasciani, ha pubblicato il carteggio fra Sciascia e l’esecutrice testamentaria di Tilgher. Altro recupero importante è quello delle note a piè di pagina, molto lunghe, di Cruciverba, a cui davano proprio il senso, perché bisognava leggere in orizzontale e verticale, note comprese. Abolendole, Sciascia si era fatto un torto, sono state recuperate, non nel saggio, ma nella nota al testo».
Le Opere che ha curato, comunque, non sono esaustive rispetto a tutto ciò che Sciascia ha scritto…
«Tra le prospettive degli studi sciasciani, non necessariamente miei personali, c’è l’amplissimo epistolario di Sciascia, lettere di assoluta importanza. Ha donato quelle ricevute alla Fondazione che porta il suo nome, a Racalmuto. Il problema è trovare tutte quelle scritte da Sciascia. Ci sono progetti singoli, come il carteggio fra Sciascia e Consolo, edito di recente da Archinto, o l’epistolario con Mario Frusco, il suo traduttore in francese, proposto dalla rivista Todo Modo. E altri progetti ci saranno. Altra cosa, per quanto mi riguarda, è la dimensione degli scritti dispersi. In tal senso la pubblicazione dei saggi di Fine del carabiniere a cavallo poteva essere la  fine, ma con la successiva uscita di quelli de Il metodo di Maigret, è stato l’inizio. Nel senso che è stato dimostrato che era possibile trovare dei chiari nuclei tematici. È cambiata la prospettiva, anche se i contorni del lavoro non sono davvero definibili».
Nell’estate appena trascorsa i maturandi d’Italia hanno avuto la possibilità di confrontarsi con un brano tratto da «Il giorno della civetta». Ai più giovani da quale titolo consiglia di iniziare per leggere Sciascia?
«Sui manuali scolatici Il giorno della civetta, che è il suo romanzo più venduto, è il testo più presente e antologizzato. È stata la scelta più scontata, ma è il suo libro più importante, non il più bello o il più significativo, quello che l’ha lanciato come scrittore a livello internazionale, pagine in cui ci sono indicazioni operative per combattere davvero la mafia. Lo consiglio anche io, da leggere o rileggere. E magari proseguire con altri libri di quel periodo, con A ciascuno il suo, che è più bello come romanzo e dal punto di vista letterario, un libro complesso, per lettori raffinati. O più avanti, con Il consiglio d’Egitto, straordinario, apparentemente diverso da Il giorno della civetta, ma con la stessa continuità ideale. Erano libri scritti con l’intenzione di fare una buona azione, non un’azione moralistica, l’obiettivo era scrivere un libro giusto e utile, incidere sulla società, per cambiare le cose con i libri. All’epoca era possibile e credo Sciascia ci sia anche riuscito. Sono libri da apprezzare per questa dimensione ottimistica, niente male per uno che passava per essere ampiamente pessimista. Ai lettori più esperti, quelli per cui contano di più le strutture letterarie, la costruzione della frase e la bellezza dello stile, più dell’articolazione della trama e di meccanismi ben congegnati, consiglio un capolavoro assoluto come Il cavaliere e la morte. Se non si è lettori attrezzati, si rischia di fraintenderlo. E, comunque, il testo di Sciascia proposto all’ultima maturità era tratto da un ebook e conteneva un errore. Lo dico per deformazione professionale da filologo. Il mio intervento serve a scongiurare questi problemi, non si troveranno i vecchi errori. Magari di nuovi e li avrò commessi io…».