31 ottobre 2014

ALLA FIERA DELLA VANITA'


Una riflessione di Marco Revelli che va al cuore del pensiero neoliberista, prima berlusconiano e oggi renziano.

Marco Revelli

Modernità. L’eguaglianza non è più la virtù

L’opzione disegualitaria (o, più apertamente, anti-egualitaria) è stata – e in buona misura continua ad essere, anche se più mascherata – parte integrante della dogmatica neoclassica che ha offerto il proprio hardware teorico all’ideologia neoliberista fin dall’origine della sua lotta per l’egemonia, alla fine degli anni Settanta e per tutto il corso degli anni Ottanta del secolo scorso.

L’idea che “un eccesso di uguaglianza faccia male all’economia” – o, più esplicitamente che “una buona dose di diseguaglianza faccia bene alla crescita” –, ha alimentato le politiche di deregulation prevalse nell’epicentro anglosassone e affermatesi nel circuito della globalizzazione. Ha motivato la rivoluzione fiscale, che ha drasticamente abbattuto le progressività delle aliquote e frenato le politiche redistributive negli Stati Uniti e in Gran Bretagna; e ha generato le dure conditionalities dei Programmi di aggiustamento strutturale (Structural Adjustment Programs) del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, fortemente incentrate sulle priorità del taglio della spesa sociale, sulla rimozione del controllo dei prezzi e la riduzione dei sussidi statali, sulla focalizzazione della produzione sulle esportazioni, sulle privatizzazioni e sul perfezionamento dei diritti del capitale d’investimento estero rispetto alle leggi nazionali.

Oltre, naturalmente, ad aver permeato gli insegnamenti economici impartiti da un numero crescente di cattedre delle più accreditate università, nelle business school, nei think tank e nelle pubblicazioni di un gran numero di fondazioni.

“L’eguaglianza non è più una virtù” potrebbe essere assunto come il motto che ha contraddistinto la massiccia e articolata reazione anti-keynesiana di fine secolo: dopo un cinquantennio nel quale l’eguaglianza, in qualche misura, il valore sociale prevalente – l’“idea regolativa” sulla quale si erano orientate le politiche pubbliche dell’Occidente democratico e le stesse Carte costituzionali dei paesi civili –, si registrava, esplicitamente, un punto di rottura.

Una sorta di rovesciamento, che anche là dove l’eguaglianza non veniva identificata come un ostacolo al “progresso economico”, la si retrocedeva comunque da valore finale a funzione strumentale. O la si poneva non più come presupposto ma, tutt’al più, come conseguenza dello sviluppo, da perseguire con altri mezzi, compreso quello di un’iniziale opzione disegualitaria.

Lo scenario nel quale quella “rottura” si è prodotta era – lo ricordiamo – segnato da una crisi profonda del modello che aveva caratterizzato la parte centrale del secolo, in particolare il trentennio 1945-1975, definito da Eric Hobsbawm come “l’età dell’oro” del suo “secolo breve ” e che i francesi chiamano le “trenta gloriose”.

Da un lato la stagflazione – l’intreccio paralizzante di un elevato processo di inflazione e di una altrettanto grave stagnazione – si presentava come un male economico refrattario alle tradizionali politiche anticicliche e offriva l’immagine di un punto di arresto o comunque di un tetto raggiunto dallo sviluppo difficilmente superabile con i mezzi tradizionali.

Dall’altro lato, la cosiddetta “crisi fiscale dello Stato” – caratterizzata da un emergente debito pubblico pur in presenza di una pressione fiscale ai propri massimi – limitava i margini d’intervento delle autorità politiche e delle agenzie pubbliche, lasciando intravvedere nell’insostenibile carico fiscale il principale ostacolo alla ripresa della crescita nei paesi a capitalismo maturo.

Per parte sua, la globalizzazione incipiente lasciava intravvedere la possibilità di un’espansione esogena della domanda, grazie all’ampliamento e all’integrazione dei mercati su scala planetaria. Non stupisce che in un simile contesto si sia strutturato, e sia diventato rapidamente egemone, un paradigma socio-economico orientato alla rottura di tutti i precedenti compromessi sociali – quelli che, fino ad allora, avevano contribuito a formare l’idea prevalente di “società giusta” e che ora apparivano responsabili dell’insopportabile overload delle finanze pubbliche – e basato su una rinnovata centralità del mercato e sulla prospettiva di uno sviluppo trainato prioritariamente dall’offerta (supply-side) – in contrapposizione alle teorie keynesiane che si focalizzavano sulla domanda aggregata (demand-side) – nonché sull’effetto incentivo di una minore tassazione per la formazione di capitali disponibili all’investimento pubblico.

Un paradigma, possiamo aggiungere, nel quale i grandi temi che avevano segnato il lungo ciclo precedente – la questione della piena occupazione, da un lato, e quella della povertà, dell’altro – finivano per assumere una posizione secondaria (così è per le politiche di contrasto alla povertà, ridimensionate con l’argomento dell’“azzardo morale”) o addirittura alternativa (un certo tasso di disoccupazione poteva essere considerato funzionale all’abbassamento del costo del lavoro). Un paradigma, appunto, nel quale l’ineguaglianza cessava di essere considerata un vizio per trasformarsi, entro certi limiti, in risorsa.


il Fatto – 30 ottobre 2014

INGIUSTIZIA PER STEFANO CUCCHI

La famiglia di Stefano Cucchi




Questa sera partecipo al dolore della famiglia Cucchi facendo mia la nota pubblicata da una cara amica su  http://buchi-nella-sabbia.blogspot.it/  :



A Stefano Cucchi e alla sua famiglia dedico una poesia nata quarantaquattro anni fa per Pinelli. Al SAP e a Giovanardi, il mio disprezzo.


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L'alibi del morto

Giuda dice che l'alibi del morto
era crollato: per questo il morto è sceso nel cortile.
Ma l'alibi era buono; il morto è riabilitato:
nessuno dice che Giuda aveva torto.

*

Il perito settore dice che le ferite
non sono incompatibili con la meccanica di
una caduta dall'alto. Il giornale conclude
che dunque il morto si è suicidato.

*

Miserabili vecchi che per pietà
di se stessi dovrebbero esser morti
ci parlano degli specchi, ci ammoniscono, ci insegnano il futuro,
escono dagli specchi per baciare i morti.

*

L'assassino s'è affrettato a sparlare del morto.
S'era sentito un assassino compatire un morto.
S'era visto un assassino baciare la fronte di un morto.
Vedi che gli assassini non trascurano i morti.


20.30 cordoglio del beone.
20.31 rampogne del furfante.
20.32 consigli dell’idiota.
20.33 ultimatum del boia.

*

La Borsa è sana, la Borsa reagisce
con splendido, inatteso, confortante vigore
alle notizie dal fronte, ai proclami, alla limpida morte
del legionario ucciso dal nemico.

*

Corvi senz'ali all'ombra
piatta della bilancia
trinità di sicari
brandiscono la lancia.

*

Giuda dice: la gente ai miei guerrieri
ha buttato dei sassi, per questo han caricato.
Di chi c'era nessuno se n'è accorto:
ma il Senato dice che Giuda non ha torto.

*

Non predicate la dittatura
di una classe sull’altra, non è il vostro lavoro.
Non dite niente che possa suscitare
l’odio di classe: ci pensano già loro.

*

Parlo per me ma forse anche per voi.
Amici, diciamo la verità:
di sentirci oppressi ci sentiamo felici;
ci importa adesso esser vittime, non esser liberi poi.

Giovanni Raboni, 1970
da Cadenza d’inganno

RENZI FIGLIO LEGITTIMO DI D'ALEMA



L'articolo seguente spiega con chiarezza la ragione per cui la cosiddetta "sinistra" PD è ancor meno credibile di Renzi.

Il premier è figlio (legittimo) di D’Alema e Bersani

 Roberto Della Seta 

Renzi pensa, parla, agi­sce come un poli­tico di destra? Può darsi, in molti casi è evi­dente, ma le domande a que­sto punto diven­tano altre e sono più impe­gna­tive: com’è pos­si­bile che un poli­tico così abbia “espu­gnato” senza grande dif­fi­coltà il Pd e oggi goda di un con­senso lar­ga­mente mag­gio­ri­ta­rio nell’elettorato che si sente di sini­stra e che ha sem­pre votato a sini­stra? Dipende solo dalle sue doti obiet­ti­va­mente straor­di­na­rie di istrione e dema­gogo? Io non credo, penso che se il Pd si sta tra­sfor­mando nel par­tito per­so­nale di Renzi per­dendo molti con­no­tati tra­di­zio­nali di un par­tito “di sini­stra”, que­sto dipende da com’è stata la sini­stra prima di lui.

Renzi, insomma, è figlio di D’Alema e di Ber­sani, nel senso che il suo avvento è la con­se­guenza di una sini­stra, della sini­stra ita­liana erede del Pci, che non ha mai fatto i conti con i pro­pri ritardi, i vizi, le ano­ma­lie rispetto a buona parte delle sini­stre euro­pee. Una sini­stra che da tempo non è più “con­tem­po­ra­nea”: per que­sto si è pro­gres­si­va­mente allon­ta­nata dagli ita­liani, com­presi tanti che hanno con­ti­nuato a votarla per abi­tu­dine o per man­canza di alter­na­tive, e anche per que­sto Renzi l’ha “spianata”.

Non ha fatto i conti, la sini­stra ex-Pci, con tre que­stioni su cui si sono costruiti prima il suo declino e poi la sua defi­ni­tiva sconfitta.

Una que­stione è squi­si­ta­mente ideo­lo­gica. Gli ex-Pci cam­bia­rono il nome subito dopo l’Ottantanove, quando peral­tro la “cosa” già aveva già pochis­simo di comu­ni­sta. Ma di quella sto­ria hanno con­ser­vato un abito men­tale che è stato di grave osta­colo per la com­pren­sione dei cam­bia­menti del mondo e dell’Italia. Così, hanno con­ti­nuato a misu­rare il pro­gresso secondo cate­go­rie anti­di­lu­viane che sepa­rano strut­tura – il lavoro, la con­di­zione mate­riale delle per­sone — e sovra­strut­tura – la lega­lità, la cul­tura, l’ambiente, la dimen­sione imma­te­riale del benes­sere -, e a con­ce­pire l’economia e lo svi­luppo come un secolo fa: certo non più “soviet e elet­tri­fi­ca­zione” ma comun­que car­bone (Ilva e din­torni), asfalto, cemento.


Così, sono rima­sti pri­gio­nieri dell’idea del pri­mato della poli­tica sulla società, e della con­vin­zione di essere – loro élite poli­tica — migliori del popolo rozzo e igno­rante che si fa infi­noc­chiare da Ber­lu­sconi o da Grillo; così, ancora, pro­prio in quanto ex-comunisti hanno ten­tato di tutto per dimo­strare di non esserlo più: dando prova di una com­pia­cenza siste­ma­tica verso inte­ressi costi­tuiti e poteri forti, pra­ti­cando una rigo­rosa asti­nenza da qua­lun­que radi­ca­lità si chiami patri­mo­niale o stop al con­sumo di suolo o diritti degli omo­ses­suali… 

Una seconda que­stione è cul­tu­rale. Oggi l’alfabeto poli­tico della sini­stra nove­cen­te­sca è del tutto insuf­fi­ciente a rap­pre­sen­tare i valori, i biso­gni, gli inte­ressi di chi si con­si­dera “di sini­stra”. Fatica a inte­grare pie­na­mente nel pro­prio discorso temi come l’ambiente che set­tori cre­scenti della società con­si­de­rano cen­trali, non rie­sce a vedere che mal­grado i drammi incom­benti legati a disoc­cu­pa­zione e povertà sem­pre di meno le per­sone basano il pro­prio “essere sociale” pre­va­len­te­mente sul lavoro.

In nes­suno dei movi­menti sociali e di opi­nione degli ultimi decenni ascri­vi­bili a idea­lità di sini­stra, il lavoro è stato l’elemento cen­trale: dall’ambientalismo al fem­mi­ni­smo, dai no-global ai movi­menti gio­va­nili, dalle mobi­li­ta­zioni per i diritti civili a quelle per i beni comuni. Il lavoro natu­ral­mente conta tut­tora mol­tis­simo, conta tanto più in una sta­gione di dram­ma­tica crisi eco­no­mica.


Da il manifesto del 30 ottobre 2014

LA PARTE E IL TUTTO: Una parodia semiseria della dialettica hegeliana.


 Sinistra_hegeliana #1 Piccolissimo
di Jamila Mascat

 Adorno rinfacciava ad Hegel di non nutrire nessuna “simpatia per l’utopia del particolare (fur die Utopie des Besonderen), sotterrato sotto l’universalità”. Eppure le tante e variabili declinazioni del rapporto tra la parte e il tutto – la scissione, la contraddizione, la mediazione, la conciliazione, per ricordarne alcune – sono state il tormento speculativo della sua filosofia.
La simpatia, in effetti, scarseggia, ma non si può certo incolpare Hegel di negligenza: il particolare – onnipresente nella costellazione del sistema, e riottoso a suo modo – è stato per lui oggetto di affannose tribolazioni. Posto, infatti, che “il vero è l’intero”, c’è bisogno di determinare come diventi anche fattualmente realizzabile. In altre parole: vogliamo tutto, ma come?
Così comincia il gioco delle parti, commedia degli equivoci e delle imposture, a cui Hegel si dedica con animo, pazienza e lucidità. Il particolare, infatti, è una mina vagante e pericolosa nonostante gli ingegnosi tentativi della dialettica di tenerlo a bada. Il tranello più insidioso è quello in cui precipita il formalismo – fautore del modello dell’universale astratto – ovvero entre autres la morale kantiana. Hegel descrive questo capitombolo nelle pagine del Saggio sulle maniere di trattare il diritto naturale (1802-03) più o meno in questi termini: per Kant la struttura formale della massima è suscettibile di accogliere solo quei contenuti che si prestano ad essere universalizzati senza incappare in alcuna contraddizione. Quindi la massima secondo cui “ognuno può negare di aver un deposito della cui consegna nessuno gli può dar prova” (leggi: ognuno può negare di aver ricevuto dei soldi in deposito da qualcun altro, se nulla dimostra il contrario) non è una massima e non può diventarlo, Kant dixit secondo Hegel, pena la deposizione del concetto stesso di deposito, il che equivarrebbe a un’impasse contraddittoria. Ma, obietta Hegel, se non ci fosse più alcun deposito (e nemmeno il suo concetto), non ci sarebbe propriamente nessuna contraddizione, a meno di considerare l’esistenza della proprietà (e del suo concetto) un presupposto assoluto, incontrovertibile e necessario. A ben vedere, allora, il problema si pone solo concedendo, in maniera del tutto arbitraria, la legittimità universale di un contenuto particolare (il deposito, per l’appunto). Hegel, che non è affatto un critico della proprietà privata, qui vuole solo evidenziare un vizio logico carico di ricadute pratiche: l’universale astratto, la massima, che a prima vista si mostra super partes e super inclusiva, si rivela in realtà troppo di parte e troppo esclusiva, perché presuppone implicitamente un contenuto specifico non dichiarato (alias, ancora una volta, il riconoscimento del valore inviolabile della proprietà).
A questo punto abbiamo di fronte un universale falso – nel linguaggio digitale un fake, che si nasconde surrettiziamente dietro a un’identità falsificata – non a causa di un’innocente metonimia, ma per colpa di un’usurpazione unilaterale: la colpa della parte che si impossessa del tutto di nascosto.
Hegel, va detto, non ce l’ha con la parte per partito preso, il vero guaio, come si diceva, è l’impostura; e il particolare, al contrario, deve saper fare la sua parte, deve cioè irrimediabilmente parteggiare.
E’ per questo che Aimé Césaire ebbe un colpo di fulmine per la Fenomenologia dello Spirito e, quando apparve la prima traduzione di Jean Hyppolite, entusiasta, volle subito mostrarla a Senghor: “Ascolta quello che dice Hegel, Léopold! Per arrivare all’universale bisogna immergersi nel particolare!”.
Fu così che l’autore del Cahier d’un retour au pays natal trovò a sorpresa in Hegel, colui che aveva confinato l’Africa nell’anticamera della Storia, un’ottima giustificazione per non rinunciare alla propria parte, alla négritude.
In un’intervista del 1997, Césaire torna a rendergli omaggio: In Occidente ci hanno sempre detto che per diventare universali dovevamo partire dalla negazione del fatto di essere neri. Al contrario, io mi sono sempre detto che più siamo neri, più saremo universali”, e questo grazie alla lezione hegeliana.
Nella lettera a Maurice Thorez, con cui nel 1956 dice addio al Partito comunista francese (Pcf), Césaire precisa che esistono due distinte maniere di “perdersi”: per “segregazione” nel particolare o per “diluizione” nell’universale. Da parte sua ribadisce di non voler in alcun modo pietrificarsi in un “particolarismo stretto” né, altrettanto risolutamente, “dissolversi in un universalismo disincarnato”. Ma se il particolare si accredita positivamente come incarnazione dell’universale, la parte, che designa la posta in gioco non negoziabile del compromesso politico tra i comunisti delle Antille e i comunisti della métropole, è precisamente “la questione coloniale”, ovvero il voto favorevole dei 146 deputati del Pcf al conferimento di poteri speciali all’esecutivo dell’allora primo ministro Guy Mollet per sostenere l’intervento francese in Algeria. Su quella “parte” non è possibile transigere secondo Césaire, che pochi mesi dopo l’episodio presenta le dimissioni dall’incarico di deputato del partito.
Come tutti
Potrebbe sembrare controproducente, a giudicare dai tempi che corrono, la scelta di fare appello a Césaire e Hegel: uno (morto nel 2008) a malapena potrebbe aver visto o toccato un Iphone in vita sua, l’altro (nato nel 1770) appartiene a un’epoca in cui non esistevano nemmeno i telefoni a gettone. Ma l’appello, in effetti, vale poco più di un pretesto per provare a capire che fine ha fatto la Parte. O meglio, che brutta fine ha fatto la Parte: squalificata e sbeffeggiata – perché disonesta, faziosa, tifosa e soprattutto ideologica – dal pulpito del desiderio di essere come tutti – insignito dell’ultimo premio Strega.
Non sono riuscita a venire a capo di questa storia in modo sensato, in compenso mi sono venute in mente due storielle sentite. Due love stories, intendo, molto diverse tra loro: quella tra la parte e il tutto, e quella tra la parte e i tutti (quei tutti come tutti desidereremmo essere, secondo Francesco Piccolo).
Quando la parte incontra il tutto, è desiderio di riscatto e subito amore a prima vista. È un amore appassionato, collettivo, intenso, dialettico, faticoso, neorealista. Con la parte che ce la mette tutta e il tutto che non si concede; la parte che non si dà per vinta e il tutto che non molla. Un amore politicamente scorretto, irriverente, fatto di tattiche e strategie, prevaricazioni, battaglie, vertenze, assalti alla diligenza, agguati, occupazioni e scioperi generali; può durare una vita o culminare in una disfatta colma d’affetto: che funzioni o meno, c’eravamo tanto amati. Invece, tra la parte e i tutti (che non è plurale perché è un prototipo) non c’è amore che tenga, è ipocrisia, oltraggio, passione triste e crudele, spremitura a freddo, stillicidio, parossismo dell’incomunicabilità, veleno, nouvelle vague. Pensavi fosse amore e invece era un machete.
I tutti giocano con la parte come Leone Gala gioca con i gusci d’uovo nella pièce di Pirandello. Cioè così:
Leone: [...] Tu devi guardarti di te stesso, del sentimento che questo caso suscita subito in te e con cui t’assalta! Immediatamente, ghermirlo e vuotarlo, trarne il concetto, e allora puoi anche giocarci. Guarda, è come se t’arrivasse all’improvviso, non sai da dove, un uovo fresco
Guido: Un uovo fresco?
Leone: Un uovo fresco.
Guido: E se t’arriva invece una palla di piombo?
Leone: Allora ti vuota lei, e non se ne parla più.
Guido: Ma perché un uovo fresco, scusa?
Leone: Per darti una nuova immagine dei casi e dei concetti. Se non sei pronto a ghermirlo, te ne lascerai cogliere o lo lascerai cadere. Nell’un caso e nell’altro, ti si squacquererà davanti o addosso. Se sei pronto, lo prendi, lo fori, e te lo bevi. Che ti resta in mano?
Guido: Il guscio vuoto.
Leone: E questo è il concetto! Lo infilzi nel pernio del tuo spillo e ti diverti a farlo girare, o, lieve lieve ormai, te lo giuochi come una palla di celluloide, da una mano all’altra: là, là e là… poi: paf. Lo schiacci tra le mani e lo butti via.
La parte, dal canto suo, le uova le rompe, le sbatte e a volte magari le tira. I tutti si preservano (per evitare di farsi scquaquerare davanti o addosso) dilettandosi con i gusci vuoti, la parte si consuma, si sporca.
La parte non s’illude di essere più profonda dei tutti superficiali, ma rigetta il moralismo insulso che permea da capo a piedi questa infelice dicotomia e che esprime visibilmente ancora un altro desiderio, più perverso e più cristiano. I tutti, infatti, reclamano assoluzione, esigono di essere mondati del peccato originale di avere abdicato a quella responsabilità a cui Sartre inchiodava gli uomini e soprattutto gli intellettuali: il compito di “immischiarsi in quello che non li riguarda”. Sartre, lui, non avrebbe assolto proprio nessuno – “Je tiens Flaubert et Goncourt pour responsables de la repression qui suivit la Commune parce qu’ils n’ont pas écrit une seule ligne pour l’empêcher”. E ancora: “Non è affare loro, si dirà, ma il processo di Calas era forse affare di Voltaire? La condanna di Dreyfus era affare di Zola? L’amministrazione del Congo affare di Gide?”.
Ci avrebbe pensato, in compenso, la prima Leopolda del 2010, quando rottamazione rimava con assoluzione, a togliere tutti i peccati del mondo. L’ultima, la n.5, quella di governo, memorabile attestazione di arroganza e pessime maniere, ha superato se stessa cospargendo sindacati, lavoro, lavoratori & co. di una raffica di insulti sprezzanti (poi, dai gettoni a.C. ai manganelli DC c’è voluto poco, poco più di 48 ore).
Senza arte né parte
La parte incalza i tutti: “scegliete da che parte stare”, ma i tutti rispondono che stanno con tutti. La parte ripete che non è possibile. I tutti sfrontati canticchiano i Beatles, con l’inglese fracassato del premier: well, you know, we all want to change the world. I tutti pretendono spudoratamente che sia davvero così. La parte replica con l’International, invocando un tutto che rivendica consapevolmente il proprio essere di parte –– le monde va changer de base/ nous ne sommes rien, soyons tout! –.
I tutti confondono le carte in tavola, insistono che gli va bene tutto e il contrario di tutto, in onore del ‘pluralismo’, in spregio all’ ‘estremismo’, in virtù del ‘confronto’. Esibiscono con disinvoltura il loro tutto flaccido come un babà, e fieri di una rammollita nonchalance proclamano che al mondo c’è posto per tutti, in nome di quella ben nota ‘tolleranza’ che Marcuse preferiva chiamare con un altro nome: “confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà”.
La parte semplicemente difende gli interessi della sua parte, contro quell’altra parte che sventolando la bandiera del Partito della Nazione (e della Restaurazione) finge subdolamente di essere per tutti. Mentre la parte ha il coraggio di dire: “non siete roba mia”, i tutti preferiscono rappresentarsi come tutti per non perdere i consensi di nessuno. 
E’ chiaro che bisogna dare un taglio a questa penosa vicenda sentimentale. Tra la parte e i tutti non si coltiva un amore impossibile, ma solo una crudele lotta (di classe) ad armi impari.
Io e Annie si chiude con quella famosa battuta di Allen/Alvy che, dopo aver rincontrato Annie a distanza di qualche tempo dalla loro separazione, si compiace della donna fantastica che ha di fronte e conclude che in fondo le storie d’amore – le più irrazionali, pazze e assurde – vanno avanti malgrado tutto perché ognuno di noi ha bisogno di uova (già, ancora uova).
Per questo siamo perfino disposti ad accettare che nostro fratello creda di essere una gallina e rifiutiamo di farlo curare. Ma le piazze, almeno, funzionano diversamente e, ribellandosi all’incantesimo dei fratelli che vestono i panni delle galline, per approvvigionarsi di uova alla fine preferiscono assaltare i pollai.
Il bello delle parti
Stamattina, rimasticando quello che ho letto nei giorni scorsi, dopo la piazza di sabato e le sciagurate manganellate del 29 ottobre contro gli operai delle acciaierie di Terni in corteo a Roma, ho pensato, d’accordo con quello che scrive Alessandro Robecchi, che tra gli alfieri delle fantomatiche due sinistre – inesorabilmente ritratte con la solita cantilena: la vecchia e la nuova, la pavida e la spericolata, la creativa e la retriva – nessuno dovrebbe avere ancora la sfacciataggine di dire “siamo della stessa parte” (né la stoltezza di ipotizzare che, al dunque, le due parti si equivalgono).
Che a pensarci bene diventa insostenibile anche il goffo binomio delle due sinistre se, come dice Luciano Gallino, una delle condizioni che, ieri come oggi, fanno la differenza tra destra e sinistra è quasi tautologicamente “la scelta della parte sociale da cui stare” – e a Firenze “c’erano soprattutto persone a cui l’idea di stare dalla parte dei più deboli e magari di dichiararlo appariva semplicemente repellente”.
C’è da augurarsi che salti agli occhi pure l’insensatezza degli argomenti generosamente dispiegati per suggerire che i discorsi di Renzi in garage e Camusso in piazza siano solo le due brutte facce della stessa medaglia, nel tentativo di reperire isomorfismi deformi, commensurare brutture incommensurabili, soppesare nuovi ottimismi e obsolescenze, supercazzole e Case del popolo (ma soprattutto, a che pro?). Con il risultato, ancora una volta, di non stare e non andare da nessuna parte.
La sensazione è che il revanscismo delle assoluzioni generazionali e le commisurazioni tanto scontate quanto forzatamente ricercate solleticano e seducono chi desidera essere come tutti – un orizzonte a dir poco angusto – e allo stesso tempo rivoltano lo stomaco di quanti reclamano di stare da una parte, con la propria parte. Una parte informe, una parte dissestata, una parte non unanime, ma una parte che con le sue tante anime può provare a immaginare un inverno più caldo dell’autunno, perché, sebbene la posta sia incerta, allo stato attuale c’è davvero poco da perdere.
Il bello di questa parte è proprio che NON vuole essere come tutti, pur sperando che molt* siano con lei. Il bello è che preferisce le bandiere rosse e regala volentieri le cinquanta sfumature di grigiore agli editoriali e agli opinionismi, pillole avvelenate del giorno dopo.
Tutto il resto è noia – la noia letale di tutti quelli che, non avendo più un mondo da trasformare né un ordine da rovesciare, sono condannati a una quiete perpetua di prima classe per ricamare ovazioni impotenti al potere; erezioni tristi per coiti modesti. Tutto il resto è Piccolo (e simili). Anzi piccolissimo.


Articolo pubblicato il 31 ottobre 2014 su nazioneindiana

MAFIA E FASCISMO



Martedì 4 novembre 2014, ore 17.30, al Gramsci di Palermo si  presenta il libro “La mafia alla sbarra. I processi fascisti a Palermo” di Manoela Patti (Istituto Poligrafico Europeo, 2014.

CASTORIADIS IL RIBELLE



Filosofo radicale, psicanalista, economista: una biografia in Francia rivaluta un pensatore influente e misconosciuto.

Massimiliano Panarari

Castoriadis, il ribelle che ispirò i liberali francesi

Cornélius Castoriadis, chi era costui? A riscoprire una delle più interessanti (e misconosciute) figure di intellettuale del secondo Novecento (anche se lui per primo rigettava l’etichetta di intellò) ci pensa la sua prima biografia appena uscita in Francia. E anche il fatto che sia stato necessario attendere tanto tempo, persino nel Paese dove l’originale (e per certi tratti visionario) filosofo dell’«immaginario sociale» e del «fare pensante» ha vissuto e scritto, prima dell’uscita di un volume che ne ricostruisse integralmente esistenza e pensiero molto ci dice della sua «irregolarità».

A colmare tale lacuna, e a raccontare quanto, al di là delle apparenze, questo eccentrico pensatore di origini greche sia stato importante per la scena culturale transalpina, ci pensa nel suo Castoriadis. Une vie (La Découverte, pp. 532, euro 24) lo storico delle idee François Dosse.

Castoriadis (1922-1997) fu filosofo e psicanalista (disciplina che esercitò anche professionalmente), lavorò come economista al segretariato internazionale dell’Ocse ed ebbe (alla fine) riconoscimenti accademici rilevanti (negli anni Ottanta divenne directeur d’études all’École des Hautes Études di Parigi), ricevendo gli apprezzamenti di protagonisti importanti del mondo scena culturale come Edgar Morin (che lo definiva un «titano dello spirito») e Pierre Vidal-Naquet (che lo considerava un «genio»).

Ma rimase sempre marginale perché troppo «fuori dalle righe»: quindi una sorta di eminenza grigia (o, meglio, rossissima) della sinistra eterodossa, la cui influenza fu sotterranea e carsica, e assai meno evidente di quella dei filosofi-star della French Theory (da Foucault a Derrida, passando per Lacan). E che, però, si rivelò durevole e, soprattutto, trasversale, arrivando a toccare intellettuali politicamente molto distanti dalla matrice delle sue concezioni. Che era quella del socialismo di sinistra novecentesco e del filone dell’autogestione e delle repubbliche dei consigli, ovvero quel peculiare intreccio di marxismo libertario e anarchismo che aveva messo al centro della propria teoria e (difficoltosissima) prassi una certa nozione di autonomia, nella quale il pensiero di Castoriadis troverà il proprio fulcro.



Ed era precisamente quella che gli attirò appunto l’interesse, a partire dagli anni Ottanta, della pattuglia di intellettuali liberali (e social-liberali) che avrebbero riorientato la battaglia delle idee in Francia, da François Furet a Pierre Nora, da Bernard Manin a Marcel Gauchet, da Jacques Julliard a Luc Ferry e Alain Renaut. E, in primis, del filosofo politico Claude Lefort che ebbe nel corso degli anni una «conversione» liberaleggiante e con cui Castoriadis aveva condiviso una giovanile militanza trotzkista e fondato, nel 1947, la rivista Socialisme ou barbarie, alla quale questo libro attribuisce una rilevanza addirittura superiore, nella preparazione del clima intellettuale del Sessantotto, a quella del situazionismo.

Il testo di Dosse si incarica innanzitutto di ricostruire le ragioni di questo mancato riconoscimento pubblico in seno a una nazione che ai suoi intellettuali «impegnati» ha sempre eretto monumenti (trasformandoli pure in merce di esportazione). E di svelare il «mistero» di un pensatore che, pur essendosi collocato su prospettive politiche assai lontane, entrò tuttavia in sintonia profonda e venne riconosciuto come riferimento a cui guardare proprio dagli artefici della revanche del liberalismo.

La ragione – secondo lo studioso – consiste nella ricollocazione al centro del dibattito (e delle discipline) di quella filosofia politica (seppur, in qualche modo, rivisitata e contaminata) che il «Sessantotto pensiero» e il post-strutturalismo avevano emarginato. Nonché, la critica serrata e intransigente (da sinistra) di Castoriadis al socialismo reale e al totalitarismo comunista, che si affiancò a quella dei nouveaux philosophes e della deuxième gauche e circolò moltissimo tra gli esponenti della rinnovata cultura politica liberale, cementando, a suo modo, una «comunità di pensiero».

D’altronde, la stessa idea di rivoluzione, così centrale nelle sue teorizzazioni, nulla ha a che fare con la violenza politica, ma costituisce l’accelerazione di quel progetto di «auto-trasformazione esplicita» delle istituzioni da parte della società (e, dunque, in nome dell’autonomia) che, a ben guardare e mutatis mutandis, non poteva dispiacere al gruppo di intellettuali che avrebbe contribuito all’affermazione del neoliberalismo in Francia.

Sliding doors, per così dire. Ben differenti da quelle, molto solide e tanto tipiche di un certo gusto architettonico, dell’appartamento di Castoriadis a rue de l’Alboni, nel XVI arrondissement della capitale, che, a inizio anni Settanta, Bernardo Bertolucci trasformò in set ambientandovi il suo celeberrimo Ultimo tango a Parigi.


La Stampa – 31 ottobre 2014

I SOLDATI FUCILATI DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE




Cento anni dalla prima guerra mondiale. Per tanti una grande guerra patriottica, la IV Guerra D'Indipendenza veniva ancora presentata nei libri scolastici postfascisti!  Per noi un criminale e inutile massacro che generò il fascismo. Molti lo pensavano anche allora. “Criminali, signori ufficiali, che la guerra l'avete voluta”: cantavano così i soldati nelle trincee. Mio nonno Francesco, che da povero fante stette in trincea durante la guerra rimanendo vivo per miracolo, mi raccontava episodi simili. I comandi risposero con le fucilazioni. Migliaia dopo il crollo del fronte russo e la rivoluzione d'ottobre per paura che il contagio antimilitarista si allargasse.
 Una pagina poco gloriosa della I guerra mondiale che ci si ostina a celare. E l'attuale ministro della guerra, la “democratica” Pinotti spesso ripresa circondata da generali, non fa ben sperare.

Paolo Rumiz

L’ultima ferita della Grande guerra. “L’Italia riabiliti i militari fucilati”



Reintegro a pieno titolo dei fucilati del ‘15-’18 nella memoria nazionale. Vittime come gli altri. Soldati che hanno sofferto come gli altri. Manca questo riconoscimento perché possa dirsi completa in Europa la partecipazione dell’Italia alle onoranze ai Caduti della Grande guerra. I principali Paesi belligeranti — Francia, Germania, Inghilterra — ci hanno pensato da tempo, con atti politici, interventi presidenziali, monumenti, e l’aggiornamento delle liste dei Caduti. Quasi ovunque i condannati sono stati tolti dal ghetto della vergogna e della rimozione. Manca il nostro Paese, quello che ha fatto più largo uso della giustizia sommaria: 750 fucilati con processo, 200 colpiti da decimazione per estrazione a sorte, e un numero incalcolabile di soldati uccisi per le vie brevi dai loro ufficiali o dai carabinieri per codardia, ribellione o episodi di pazzia.

«Se non ora, quando?», si chiede il sostituto procuratore di Padova Sergio Dini, ex magistrato militare, che ha già chiamato in causa il ministro della difesa Pinotti. «Assistendo a luglio al concerto di Redipuglia, dove il maestro Muti ha radunato orchestrali di tutti i Paesi belligeranti, il presidente Napolitano ha fatto un passo importante di riconciliazione con l’ex nemico. Ora manca solo la riconciliazione con noi stessi, l’abbraccio ai ragazzi della mala morte. Le Forze armate dovrebbero capirlo, a meno che non vogliano negare che quelle esecuzioni — dal loro punto di vista — siano servite a qualcosa. Se i fucilati ebbero una funzione, essa sia riconosciuta. Non farlo sarebbe accanimento. Anche perché si fucilarono solo soldati semplici, povera gente. Vogliamo portarci dietro ancora questo anacronismo di classe?».



E dire che l’Italia è stata uno dei primi Paesi a porre il problema con film ( Uomini contro , di Francesco Rosi), con libri e ricerche storiografiche. Ed è stato anche il primo in Europa a erigere un monumento ai fucilati. È accaduto diciotto anni fa a Cercivento, sui monti della Carnia, sul luogo di una delle più ingiuste esecuzioni, il pra dai fusilâz, un prato che per decenni i valligiani rifiutarono di falciare in segno di protesta.

Una memoria tenace, passata di bocca in bocca, che ha dato vita a un corpus di memoria orale ancora vivissimo e al quale nel ‘96 il sindaco Edimiro Della Pietra, mettendosi contro le autorità militari e rischiando una denuncia di apologia di reato, ha voluto dar forma di monumento.  

Quella di Cercivento è una storia che riassume le altre. È il giugno del ‘16. Gli austriaci stanno sfondando su Vicenza con la Strafexpedition. Nella zona del Monte Coglians c’è il battaglione alpini Tolmezzo, considerato infido dagli ufficiali «forestieri» per via dei cognomi mezzi tedeschi dei carnici arruolati e dei tanti di essi che hanno lavorato da emigranti in terra d’Austria. Hanno una perfetta conoscenza del terreno, ma gli alti comandi non si fidano a sfruttarla e insistono a ordinare azioni suicide.

Quando viene deciso un attacco alle rocce della cima Cellon in pieno giorno e senza supporto di artiglieria, alcuni soldati suggeriscono di compiere l’assalto col favore della notte. È quanto basta perché il comandante, un napoletano di nome Armando Ciofi, coperto dal tenente generale Michele Salazar, comandante della 26ª divisione, gridi alla «rivolta in faccia al nemico» e ordini la corte marziale.



Il processo si svolge di notte, in una cornice lugubre, nella chiesa che il prete di Cercivento, terrorizzato, è obbligato a desacralizzare. Sul processo incombono le circolari Cadorna, che chiedono «severa repressione», diffidano da sentenze che si discostino «dalle richieste dell’accusa» e ricordano il «sacro potere » degli ufficiali di passare subito per le armi «recalcitranti e vigliacchi». Gli accusati sono decine, e ciascuno ha nove minuti per l’autodifesa.

Un’ora prima dell’alba, la sentenza. Quattro condanne alla fucilazione. Tutti carnici: Giambattista Corradazzi, Silvio Gaetano Ortis, Basilio Matiz e Angelo Massaro, emigrante in Germania che ha scelto di rientrare «per servire la patria». Mentre lo portano via grida: «Ecco il ringraziamento per quanto abbiamo fatto». Il prete, don Zuliani, confessa i morituri. È sconvolto, propone inutilmente di sostituirsi ai soldati davanti al plotone. Dopo, non vorrà più rientrare nella chiesa «maledetta » e diverrà balbuziente a vita. La prima scarica uccide tre condannati, solo Matiz è ferito e si contorce urlando. Lo rimettono sulla sedia. Nuova scarica e non basta ancora. Perché sia finita ci vogliono tre colpi di pistola alla testa.

La gente assiste senza parole. Solo un vecchio grida: «Vigliacchi di italiani, siete venuti a portare guerra! Con gli austriaci abbiamo sempre mangiato, e voi venite ad ammazzarci i figli!». L’ufficiale risponde secco: «Vecchio taci, che ce n’è anche per te». L’intero reparto sarà trasferito per punizione sull’altopiano di Asiago e lassù, un po’ di tempo dopo, il comandante Ciofi sarà fatto secco in zona non battuta da fuoco nemico, quasi certamente per vendetta.

Settant’anni dopo, il nipote di Gaetano Ortis, un militare di carriera, chiederà la revisione del processo, ma il tribunale militare di sorveglianza di Roma risponderà con una beffa che resterà nella storia: la domanda non può essere accettata «perché non presentata dall’interessato».  

Pure Caporetto sarà pagata da soldati semplici. L’allora vescovo di Treviso, Longhin: «Se i tedeschi saranno come questi nostri sciagurati italiani, cosa ci resterà? Qui si fucila senza pietà. Preghiamo». E intanto nessuno toccherà i veri responsabili della disfatta, i generali Capello o Badoglio. Il secondo sarà addirittura promosso. Diversa la sorte di Andrea Graziani, noto per avere fucilato uno che l’aveva guardato con la cicca in bocca. A guerra finita sarà trovato morto lungo la ferrovia dopo il passaggio del suo treno. Ma molto più a lungo si trascinerà nella memoria nazionale il senso di un’irrisolta ingiustizia.

La Repubblica – 31 ottobre 2014

RILEGGIAMO FOUCAULT

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di Girolamo De Michele

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Sandro Chignola, Foucault oltre Foucault. Una politica della filosofia, Derive Approdi, Roma 2014, pp. 208, € 17.00.

“Ne tombez pas amoureux du pouvoir” (Michel Foucault, 1977)

Sottotitolare “una politica della filosofia” una raccolta di studi che tira le fila di un lavoro più che decennale significa prendere precisi impegni con il lettore: tra i quali, una voluta delimitazione della quantità dei destinatari, in favore di una precisa selezione qualitativa. Una “politica della filosofia” è, in primo luogo, l’opposto di una moda filosofica, qual è la cosiddetta “Italian Theory”, quell’insipida minestra precotta e scaldata da chi dissolve la critica foucaultiana in una teoria buona per tutte le stagioni (e per tutti i prìncipi).
È l’opposto di una lettura “autoriale”, nella quale Foucault è messo sotto i riflettori in quanto «autore localizzabile in una miniera discorsiva unica», insomma trasformato in un feticcio accademico – al prezzo di disconoscere la rottura che la sua pratica filosofica ha prodotto1.
È l’opposto di quella classica modalità di lettura che trasforma l’interpretazione in una “piccola pedagogia” che «insegna all’allievo che non c’è niente al di fuori del testo»; che è quanto Foucault rinfacciava a Derrida2 ai tempi della polemica sulla Storia della follia.
Infine, il riferimento a una politica della filosofia significa intendere la filosofia come un fatto politico, come uno strumento per quelli che lottano, resistono e non accettano più lo stato di cose presente (p. 174): non solo e non tanto (come è stato scritto) come una “cassetta degli attrezzi”, ma come una sfida e, al tempo stesso, «una critica permanente al nostro essere storico». Uno stile o un’etica che, a dispetto di ogni presunta estetizzazione, consiste nel sentire «l’ethos della modernità» come uno stare sulla soglia, un «essere alla frontiera» (p. 11), su quei confini dai quali siamo continuamente attraversati.
Sentire l’ethos della modernità: caricarsi del compito di analizzare “ce qui se passe“‚ nelle relazioni di potere dalle quali siamo costituiti (p. 76), e alle quali al tempo stesso resistiamo.
L’attenzione al ce qui se passe si lega al “nous n’en sommes plus là” con cui Foucault prendeva le distanze dai situazionisti e dalla scuola di Francoforte (p. 82): la nostra società non è più quella. Ma il nous n’en sommes plus là assume il più ampio senso di uno strumento regolativo della ragione critica: il piede sul limite dell’attualità comporta non solo lo sguardo (mutuato da Nietzsche) “in favore di un tempo futuro”, ma anche una presa di distanze sia temporale che teorica.
In una battuta: acquisita la novità terminologica (nel Foucault degli anni ’77-’84, su cui si concentrano i saggi di Chignola) di concetti come “biopotere” e “biopolitica”, “governamentalità” e “soggettivazione”, “società dei governati” e “parrhesia“, perché assumerli come concetti?


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Partiamo da una questione in apparenza laterale: quella della verità. Sin dalla rinuncia di una fondazione strutturale della propria epistemologia (Le parole e le cose) e dalla sua sostituzione con un’Archeologia del sapere, su Foucault si è allungata l’ombra di un relativismo che sarebbe rafforzato dal suo debito – mai nascosto – con Nietzsche: se si è potuta fraintendere per un secolo e mezzo l’affermazione nietzscheana che “non esistono fatti, ma solo opinioni”, a maggior ragione può essere definito Foucault come pensatore disinteressato alla questione della verità. Al contrario: non c’è forse argomento che gli stia più a cuore della verità, delle sue condizioni di possibilità, del suo statuto. Ma la verità non è una “cosa”, non sta, immobile ed immutabile, in un qualche luogo etereo: «La verità, così come lo è il soggetto, è un prodotto. A ogni presa di parola corrisponde, in quella battaglia quotidiana che fa della realtà un conflitto, un posizionamento specifico e un’irriducibile parzialità, non l’irenica neutralità che spetterebbe di diritto a un’impossibile postura di sorvolo» (p. 20). Come ricorda in una delle sue ultime prese di parola, Foucault ha passato una vita filosofica a interrogarsi sul modo in cui il soggetto umano entra nei giochi di verità, e in quali rapporti entra con questi giochi. Non si tratta quindi di trovare la verità nascosta all’interno del mondo, ma – con un duplice, contemporaneo movimento – di svelare le strategie di potere che permettono di affermarla come tale, e di piantare una differente verità nel cuore delle cose stesse. La verità è una pratica, non un disvelamento di un qualcosa che abbiamo dimenticato in un qualche naufragio della ragione o del senso della vita: è essa stessa potere, e ha a che fare con le condizioni di esistenza del potere.
Di quel potere la cui natura è stata offuscata dall’ossessione statocentrica della teoria politica – altri direbbe: «l’orgoglio triviale della ragion di Stato» – che, da Hobbes in poi, ha concepito il potere come discendente da un centro statuale. Da cui l’equivoco del diritto – con la sua retorica liberale dei “diritti individuali” – come limite dello Stato e del potere, e non come uno strumento analitico del potere che «fissa il soggetto a una volontà “libera”, ma solo per piegarne le resistenze, costringerlo al lavoro, vincolarlo alla forma del salario» (p. 64). Per Foucault «lo Stato non ha mai avuto l’unità che gli viene attribuita. Né come “soggetto” della storia costituzionale, né come sintesi sovrana delle sue funzioni. Lo Stato è sempre stato un insieme di procedure e di tecnologie giuridiche ed extragiuridiche che solo l’incantamento filosofico-politico cui la modernità è soggiaciuta ha potuto imporre di pensare in termini unitari e di monopolio sovrano della decisione» (p. 36). Non è lo Stato a creare le condizioni che rendono possibili «i rapporti tra i soggetti in astratti rapporti di diritto»: allo Stato preesiste «un ambiente sfuggente ed opaco» – il circuito della circolazione e valorizzazione – nel quale esso Stato «cala i propri dispositivi di regolazione» senza poterlo controllare né piegare ai propri fini (pp. 160-61). Da qui la necessità dei concetti di biopotere – «l’insieme dei meccanismi attraverso i quali l’umanità, per quanto attiene alle sue funzioni biologiche e vitali, entra, a partire dal XVIII secolo, nel campo di intervento del potere» e di biopolitica – «la comparsa, nell’antropologia politica su cui l’economia si fonda, di un soggetto la cui cooperazione [...] intreccia reti di valorizzazione che si indirizzano allo Stato solo indirettamente, per chiedere a esso di garantire le condizioni di libertà sulle quali rilanciare le dinamiche acquisitive e proprietarie, e che esprimono istanze e bisogni mai formalizzabili, antivedibili o totalizzabili dal punto di vista di quest’ultimo» (p. 37).

Questa lettura svela il Welfare State non come un correttivo al cattivo mercato che un potere “buono” pone in atto, ma come uno degli strumenti attraverso i quali il soggetto viene costituito in quanto libero per il mercato e assoggettato a un potere reticolare. Sia chiaro: non c’è in Foucault – mi si perdoni la banalità – alcuna pulsione al liberismo selvaggio. Si tratta piuttosto di comprendere il Welfare come strumento di controllo di un soggetto che si percepisce entro i limiti prefissati dalla sua costituzione – come incapace di ottenere quelle prestazioni che lo Stato sociale benignamente gli eroga; e soprattutto, tornando al ce qui se passe, di comprendere come l’odierna progressiva delegificazione e privatizzazione dei servizi e delle prestazioni sociali sia non un’anomalia o un pervertimento, ma una variazione delle relazioni resa possibile dalle stesse regole costitutive dei giochi di potere. Più in generale, il processo di decostituzionalizzazione – mantenimento delle costituzioni formali, e loro svuotamento materiale attraverso atti amministrativi improntati a criteri di efficienza, performatività e risparmio – non è un’aberrazione, ma una diversa, più funzionale modalità del rapporto tra Stato e mercato.

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Così come – per rispondere in modo serio a un’altra banalità – la società del controllo in cui si sostanzia l’esercizio del biopotere nelle sue forme di governance (la “governamentalità”) non consiste in una proliferazione di microspie e telecamere ad ogni angolo di strada, ma in una scomposizione analitica delle pratiche, dell’agire quotidiano che riduce la complessità della vita in dati discreti, numerabili, quantificabili (il culto della valutazione numerica che prende il posto della materialità dell’esistente, dall’istruzione all’erogazione di prestazioni vitali, fino alla messa in sicurezza del territorio e dell’ambiente): riduzione attuata non per l’imposizione di un gendarme esterno, ma per l’azione di quel gendarme interno alla stessa costituzione del soggetto come docile e obbediente. Detto di sfuggita, ma non per caso: non dovrebbe stupire l’accorto uso retorico degli indici di valutazione quantitativi in quelle forme di “pastoralato dolce” – democratico o poetico – che tanta disillusione hanno causato in chi, per dirla con De André, è diventato così coglione da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni.
Vale la pena di rileggere il confronto con Noam Chomsky del 1974, laddove Foucault non aveva problemi a dichiarare che «se per democrazia si intende l’esercizio effettivo del potere da parte di una popolazione non divisa né ordinata in gerarchie di classe», è evidente che viviamo «sotto il regime di una dittatura di classe, di un potere di classe»; ma proprio perché «questo dominio non è la semplice espressione di uno sfruttamento economico», è necessario saper riconoscere i luoghi e le forme in cui si esercita questo «potere di classe», pena il rischio di «permettere loro di continuare ad esistere e di vedere rinascere questo potere di classe dopo un apparente processo rivoluzionario»3.

Il potere, dunque, non «può essere univocamente imputato a istituzioni o cose». Il potere non è un “oggetto”, ma «un fascio di relazioni più o meno gerarchizzate, più o meno coordinate, costantemente minacciate dalla stessa libertà che esso cerca di domare e dalle forme di resistenza che lo attraversano». Lungi dall’essere un trascendentale, il potere è una «struttura anonima, silenziosa e sfuggente», multiforme ed eterogenea, che pervade la realtà, e che può essere analizzato «là dove esso si rende visibile. E cioè: a partire da ciò che gli resiste. La resistenza al potere (il corpo da disciplinare, l’individuo da educare, il folle da rinchiudere) deve essere assunta come il “catalizzatore chimico” che permette di tracciarne i profili e le traiettorie» (pp. 20-21).
Del potere non è possibile tracciare degli ideal-tipi: esso «non va analizzato rilevandone una supposta razionalità interna (una teleologia, un’intenzione, una linearità). Ciò che lo caratterizza, secondo i suoi differenti campi di applicazione, è piuttosto «la capacità o meno di risolvere confronti strategici», in un continuo «scontro bellicoso delle forze» con «la libertà, la resistenza, le eccedenze che debordano il suo codice», anticipandolo e precedondolo (p. 21).

Le conseguenze di questo denso grumo concettuale sono molte, e rilevanti. E costituiscono, nel loro insieme, un cantiere ancora aperto sia per la prematura scomparsa di Foucault, sia per l’attualità delle pratiche cui rimandano. Foucault non postula una ragione univoca che sarebbe stata pervertita nelle sue finalità (magari dalla tecnica o da un qualche oscuro oblio), ma una ramificazione molteplice e incessante della ragione (p. 144). Una continua scissione, che si manifesta nella contrapposizione fra la ratio della governance, dell’esercizio del biopotere, e la ratio, irriducibile e contrapposta, del soggetto che resiste – la ragione dei governati. Questa biforcazione costitutiva in forme antagonistiche assume la forma di una produzione e circolazione di forme della differenza, di una scissione sempre in atto e mai componibile secondo le forme della dialettica.
A queste altezze è possibile impostare un confronto tra Foucault e Marx libero dalle pastoie di letture che ne segnalavano una supposta incompatibilità. A dire il vero, non mancano i luoghi in cui Foucault puntualizzava il proprio rapporto com Marx – ad esempio in un’intervista del 1975: «Io cito Marx senza dirlo, senza metterlo tra virgolette, e siccome loro non sono capaci di riconoscere i testi di Marx, io passo per quello che non lo cita. Forse che un fisico, quando fa della fisica, prova il bisogno di citare Newton ed Einstein?»4. Ed è vero che comincia ad esserci un’adeguata bibliografia sul rapporto Marx-Foucault5: ma la questione non è riconducibile alla mera teoria.
Quale Marx è rintracciabile all’interno dell’analitica del potere di Foucault? Chignola richiama, con buone ragioni, il rapporto tra il «conflitto come tensore dell’analitica del potere» e l’azione delle tecnologie disciplinari che «prima ancora di una semplice funzione di garanzia in rapporto alla riproduzione del rapporto capitalistico di valorizzazione […] vengono a svolgere in rapporto all’organizzazione delle disposizioni a produrre alle quali deve essere assoggettato il corpo operaio» (p. 66). Siamo cioè all’intersezione fra i Grundrisse e il primo libro del Capitale, tra la descrizione della circolazione come distribuzione analitica delle relazioni di dominio e «il processo complessivo di fabbricazione della forza-lavoro come disposizione soggettiva oggettivamente uniformata alle condizioni di produzione» (p. 67): su quel terreno che ha il suo imprescindibile riferimento nel Marx oltre Marx di Negri. Vale ricordare che il negriano quaderno di lavoro sui Grundrisse è coevo alla schedatura degli scritti di Foucault dal quale scaturì quel Sul metodo della critica della politica6, che resta uno dei più acuti studi sul “primo” Foucault.
Infine, l’individuazione di una “società dei governati” come luogo di resistenza alle relazioni di potere, come espressione di un punto di vista irriducibile alle figure della sovranità permette di tracciare la line anche al tempo stesso collega e distanzia il “punto di vista operaio” dell’operaismo dalla “parrhesia dei governati” in quello che è stato chiamato “post-operaismo”. È indubbio che un punto fermo, in una narrazione che è tutto fuorché retorica, sia stato posto in quella famosa pagina del 1964 nella quale si affermava che «a livello di capitale socialmente sviluppato, lo sviluppo capitalistico è subordinato alle lotte operaie, viene dopo di esse e ad esse deve far corrispondere il meccanismo politico della propria produzione»7. Ma è altrettanto vero, per ricordare una vecchia storia, che «Pat Garrett e Billy Kid erano due che facevano una loro battaglia contro i proprietari fondiari. Ma Pat Garrett era un legalitario: non gli piaceva che Billy ammazzasse i nemici anche alla festa di nozze quando lui aveva deciso per la tregua con l’esercito, la polizia, i proprietari. Pat fa la scelta e diventa sceriffo. A malincuore. Di fatto diventa alleato dei proprietari»8. Ed è vero che oggi Pat Garrett siede al Senato e vota la spending rewiev: e quanto l’incapacità di liberarsi dall’ossessione statocentrica (sublimando lo Stato in partito) abbia contribuito ai suoi destini, non è difficile da cogliere. Nous n’en sommes plus là: comprendere il senso della distanza che intercorre tra quel 1964 e il ce qui se passe – a maggior ragione, quella che intercorre tra l’oggi e il 1905 – significa, come minimo, evitare di continuare a cercare la corazzata Potemkin dentro un qualsiasi meet-up grillino, e di scambiare un Walking Dead per il risorto pope Gapon.

Ma se la soggettività è terreno di perenne conflitto, non c’è il rischio di cadere nell’accettazione acritica o strumentale di qualsivoglia forma di attitudine polemica in nome di un’ingenua esaltazione dello spurio e del contraddittorio? Parimenti: non c’è il rischio di legittimare come parrhesia qualunque enunciazione o presa di parola? Dopo tutto, s’è pur sentita in tempi recenti la parola parrhesia sgocciolare in modo impudente dalle bocche di laudatori di Monti o Renzi.
Per rispondere, bisogna focalizzare cosa Foucault ha cercato negli anni in cui ha dedicato la parte prevalente della propria attività al mondo greco.
Nei greci, Foucault ha cercato forme di relazioni, di soggettivazione – di costruzione di soggettività e di pratiche del sé su di sé – anteriori alla nascita di quel potere pastorale che, sorto dal tardo cristianesimo, costituisce la matrice delle relazioni di

 potere nell’Occidente. 

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«La storia dei greci, scrive Chignola citando Nietzsche, è uno specchio che riflette sempre qualcosa che non sta nello specchio stesso». Come la famosa scena dello specchio in Profondo rosso, «ciò che essa ci restituisce, non è soltanto una parola che ci parla allo stesso tempo “dell’oggi e del ieri” [...] ma anche qualcosa di più, di quanto sia in essa contenuto» (111-112): il “gioco serio” del dire platonico (ciò che Derrida fraintendeva come logocentrismo) non come dire all’ascoltatore – foss’anche il politico – cosa fare o come comportarsi, ma «di esistere come discorso filosofico e come veridizione filosofica» (p. 188); l’intuizione stoica di una dimensione del comune – l’uomo come koinōnikon zôon – anteriore all’individuazione; la sfida e il coraggio del dire il vero senza nulla omettere, assumendosene il rischio a fronte del potere, da parte dei cinici.
La parrhesia dei governati non è un mero atto locutorio o performativo interno alle forme della democrazia, nelle quali si dà un’indifferenziata presa di parola attraverso la quale chiunque pretende di parlare «non in quanto governato (e cioè: in quanto attestato su di una posizione che non è quella di chi governa; una posizione specifica, localizzata all’interno di circuiti parziali di potere, intimamente legata a bisogni o desideri che spingono la soggettivazione), ma in quanto “governante” […], avendo una pretesa di intervento e di competenza universale, che coincide con lo sguardo del sovrano e si identifica con la sua competenza di parola, e che lavora perciò al ricompattamento delle doxai sulle quali scivolano il senso comune, la chiacchiera, il discorso del potere, funzioni discorsive che non richiedono alcuna forma di coraggio, ma un istinto mimetico ripetitivo e gregario, e cioè perfettamente funzionale al pastorato» (p. 184): difficile non pensare alle attuali forme di perversione del “popolo sovrano” – che, come sottolineava Tocqueville, esce dalla servitù nel giorno delle elezioni per rientrarvi subito dopo aver indicato il proprio padrone – nelle retoriche della rivolta fiscale, del giustizialismo, della democrazia digitale, non a caso intrecciate con retoriche emergenziali e razzistiche, nelle quali si equivocano grilli per lucciole e lucciole per  forconi?
In questa cattiva parrhesia agisce l’illusione che la figura del governato possa sostituire quella del governante: che i due fuochi dell’ellisse – figura che descrive il perimetro delle relazioni di potere e resistenza – possano coincidere. Al contrario, nella parrhesia dei governati «ciascuno dei due fuochi si mantiene di fronte all’altro, e all’interno della quale si spazializza una tensione» (p. 100). Il governato non pretende che il governante dica la verità – ciò è di fatto impossibile: «Ciò che è possibile fare è piuttosto chiedergli di rendere conto delle finalità che persegue e di come esso lo faccia. Si tratta di interpellarlo, costringerlo al confronto; si tratta di imporre a chi governa le priorità e le agende politiche del governato, esprimendo in questi termini il potere, destituente e costituente insieme, della libertà» (p. 106). Sfuggendo al ricatto retorico che vorrebbe il governante costretto a dire ciò che si debba fare: compito del governato non è governare, ma delimitare, trattenere, controbattere il potere9.
Alle pratiche di assoggettamento, i governanti oppongono pratiche di disindividualizzazione, di costruzione libera e autonoma del sé, di soggettivazione: si pensi, per tornare ancora a un tema attuale, alla questione omosessuale, rispetto alla quale Foucault opponeva alla richiesta di “diritti politici” per i gay la lotta per la costruzione di figure di soggettività nelle quali la sessualità non fosse elemento di individuazione e distinzione. «Non chiedete alla politica, scriveva Foucault presentando L’anti-Edipo, di ristabilire i “diritti” dell’individuo come sono stati definiti dalla filosofia. L’individuo è il prodotto del potere. Ciò ch’è necessario fare, è “disindividualizzare” attraverso la moltiplicazione e il dispiegamento dei diversi concatenamenti. Il gruppo non deve essere il legame organico che unisce individui gerarchizzati, ma un costante generatore di “disindividualizzazione”»10

La parrhesia non è certo una prerogativa dei soli filosofi: nondimeno, è una pratica che, mettendo in gioco la vita stessa, mette in questione lo stesso statuto del “filosofo”. «Il gioco “serio” della filosofia non consiste nel dire o nel mostrare agli uomini come dovrebbero condurre le proprie relazioni secondo uno schema di socializzazione ideale, ma nel rammentare loro incessantemente [...] che ciò che nella filosofia è “reale” è la pratica: “ces pratiques que l’on exerce sur soi” e sugli altri, quando si abbia il coraggio di affrontare la prova dell’ascolto». «Ciò che toglie la filosofia dalla sua inoperosità – vuota chiacchiera, dotta speculazione, prestazione accademica salariata», è il fatto che essa «si rivolge, può rivolgersi, ha il coraggio di rivolgersi a chi esercita il potere», e attraverso questo atto «la veridizione filosofica mostra la propria realtà» (98). Parafrasando Sally Field (che a sua volta parafrasava un filosofo serbo): filosofo è, chi il filosofo fa.


  1. Sto riferendo a Foucault le parole con le quali parlava dell’uso di Marx-autore in Questions à Michel Foucault sur la géographie (1976), in Dits et écrits, Gallimard, Paris 2001 [d'ora in poi DE], vol. II, n. 169, p. 39. 
  2. Al netto delle sue omissioni, elisioni e cancellazioni – fatto salvo lo sfondone di attribuire a Descartes le interpolazioni del suo traduttore. 
  3. Human Nature: Justice versus Power, in DE, vol I, n. 132, pp. 1363-64, trad. it. Michel Foucault, Noam Chomsky, Invariante biologico e potere politico, Derive Approdi, Roma 2005; il dibattito è visibile su YouTube qui (il passo citato ai minuti 39-41), con l’avvvertenza che il testo a stampa è stato rivisto dagli autori rispetto al dibattito. 
  4. Entretien sur la prison: le livre et sa méthode, DE, vol. I, n. 156, p. 1620 
  5. Stéphane Legrand, Le marxisme oublié de Foucault, “Actuel Marx” n. 36, 2004/2, pp. 27-43; Pierre Macherey, Il soggetto produttivi. Da Foucault a Marx, ombre corte, Verona 2013; Sandro Mezzadra, Nei cantieri marxiani. Il soggetto e la sua produzione, manifestolibri, Roma 2014. 
  6. Antonio Negri, Sul metodo della critica della politica (1977), “aut aut” n. 167-168, 1978, pp. 197-212, poi in Macchina tempo. Rompicapi Liberazione Costituzione, Feltrinelli, Milano 1982, pp. 70-84. 
  7. Mario Tronti, Lenin in Inghilterra, in “Classe operaia”, 1, 1964, poi in Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966, ried. Derive Approdi, Roma 2006, p. 87. 
  8. Pat Garrett e Billy Kid ovvero i consigli del sindacato e l’autonomia operaia, “Rosso” n. 10, maggio 1974. 
  9. Sul “ricatto della proposta” – «Ok, questa è la tua protesta, ma dov’è la proposta? Sai solo essere negativo o hai qualche idea costruttiva? Sai, non basta criticare il mondo, bisogna progettarne uno diverso, metterci la faccia…» correlata alla retorica del buonismo e della corresponsabilità, si veda Luca Rastello, I buoni, Chiarelettere, Milano 2014 (la citazione è a p. 117). 
  10. Prefazione all’edizione americana di Deleuze-Guattari, L’anti-Edipo, in DE, vol. II, n. 189, pp. 135-136. 

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    Testo pubblicato  il · in Recensioni · sul sito http://www.carmillaonline.com

EDUARDO DE FILIPPO RICORDATO DA CAMILLERI


Il 31 ottobre 1984 moriva Eduardo De Filippo. Pubblichiamo un ricordo di Andrea Camilleri apparso sul sito dell’università Sapienza.

Camilleri ricorda Eduardo

di Andrea Camilleri

Il mio rapporto con Eduardo è nato con una serie per la televisione. Questa serie veniva dal proposito del secondo canale televisivo, nel ‘60, di distinguersi come programmazione, dal primo canale, per la qualità delle commedie (inaugurammo addirittura con un lavoro di uno scrittore come Giuseppe Dessì “La trincea”). C’erano dei grossi propositi e fu incaricato un importante funzionario del secondo che era Maurizio Ferrara, straordinario organizzatore, di vedere, di portare Eduardo De Filippo a fare le sue commedie in Rai. Credo che Maurizio abbia trattato a lungo con De Filippo ma c’era un problema di fondo; allora c’era una diffusa ostilità verso la Rai da parte della sinistra e quindi portare Eduardo in televisione sarebbe stato l’equivalente della breccia di Porta Pia, praticamente era questa l’operazione alla quale Bernabei per esempio teneva moltissimo. A un certo punto Maurizio Ferrara ci disse che le trattative erano concluse e che quindi si poteva ipotizzare seriamente la partecipazione di Eduardo a una serie televisiva, per quel periodo quanto più esaustiva possibile, (credo che fossero otto titoli all’epoca). Allora venne in mente alla direzione del secondo canale di chiamare me a produrre, ovvero delegato alla produzione di questa prima serie di Eduardo, a causa di vari problemi.
Naturalmente il primo problema era Eduardo, “come maneggiarlo” questo grosso, esplosivo Eduardo. In secondo luogo Eduardo era un uomo di teatro e quindi loro dovevano ‘ripescare’ uno che di teatro si intendesse, per metterglielo accanto. Io avevo questi requisiti e quindi mi incontrai con lui, presente Maurizio Ferrara, alla Rai. Lì capitò subito una sorta di piccolo miracolo nel senso che gli fui molto simpatico immediatamente. Naturalmente io sapevo non a memoria, ma quasi, tutte le sue commedie, le avevo viste. Gli raccontai un episodio che mi era capitato a proposito de “La grande magia”. Ero giovane, allievo dell’Accademia di Arte Drammatica: vidi la commedia una prima volta, ci tornai la seconda sera, la terza sera, la quarta sera, ogni volta entravo così, di straforo, con la complicità del direttore del teatro, e tutte le sere incontrai Silvio D’Amico. Eravamo diventati due habituè di quella straordinaria commedia. Per quanto riguardava le trasmissioni, si pose subito il problema del cosiddetto “adattamento televisivo” che in realtà non era gran cosa ma una sorta di ‘ampliamento dello spazio’. In teatro non c’era bisogno di avere un’anticamera, si sentivano le voci, mentre qui invece tutto doveva essere più realistico, ma non ci fu necessità di aggiungere battute. Aldo Nicolaj che fu l’adattatore risolse i vari problemi con Eduardo in due o tre sedute.
Ci fu un certo ‘allungamento’ delle sedute a causa di una grossa interruzione dovuta alla morte della moglie di Eduardo che avvenne proprio in quei giorni, in quei mesi, nei quali lavoravamo; e per una volta, e questo per me rimane un episodio memorabile, per una volta Aldo Nicolaj ed io andammo a trovarlo all’isola e fu un viaggio, non dico ‘omerico’ ma quasi, perché la strada per arrivare a questo Nerano, paese dal quale si partì, era stata tutta interrotta, ci si poteva arrivare solo via mare. Allora ci imbarcammo tutti e due in giacca e cravatta perché dovevamo incontrare Eduardo, ma dopo un quarto d’ora eravamo in condizioni penose, praticamente ci eravamo levati la giacca, la cravatta, la camicia, tutto… Arrivammo in quest’isola, cominciammo a salire, c’erano dei gradini e in mezzo un marinaio seduto, ed ebbi l’impressione che fosse vestito e truccato da marinaio perché era ‘troppo’ marinaio. Mi disse “Eduardo non c’è”. “E dov’è Eduardo?”. “Eduardo è a Positano. Provate a venire nel pomeriggio”. Nel pomeriggio arrivammo, non c’era il marinaio, e così vedemmo Eduardo nel suo habitat splendido, la sua villa. Luca era un bambino; mi ricordo, mi disse era stato troppo in acqua, era cotto dal sole. Fu un pomeriggio straordinario con un Eduardo ‘diverso’, nel suo ambiente, ridemmo da matti.
Lì in quell’occasione stabilimmo le riprese, stabilimmo quanti giorni avremmo impiegato per queste, per le prove. Dopodiché io ebbi una sorta di ‘comando’ da parte della direzione generale, da parte di Bernabei, che bisognava fare in modo che non capitasse assolutamente niente durante la lavorazione perché immediatamente ci sarebbe stata eco sui giornali ed era bene evitare queste cose. Ma Eduardo mi prevenne e disse: “Sentite Camilleri, io so che c’è questa censura” (che effettivamente c’era) ” così, prima di entrare in sala prove, non in studio, parliamo di tutto questo. Alcune cose, se non portano fastidio a me, le tagliamo, altre non le taglio, e voi riferite a chi di dovere che io non le taglio”. E così facemmo. Proprio quando lui entrò in studio i copioni erano ‘ne varietur’, erano accettati da lui e dalla direzione quindi questo grosso scoglio della censura di allora era stato superato. Lui fu molto comprensivo; non accettò alcuni tagli di una stupidità davvero mostruosa, per cui ero il primo io a vergognarmi, senonché i patti non li potei rispettare almeno in un punto. Il punto é in una commedia, credo che sia Le voci di dentro, in cui una battuta dice: “Una volta le feste si facevano con un prete, un sacrestano, quattro persone dietro e venivano una meraviglia. Ora per farle ci vogliono un ministro, quattro sottosegretari e vengono una schifezza”. Mi chiamano e mi dicono “Bisogna tagliare questa battuta”. “E no” dico ” io avevo un patto con Eduardo. Il patto era di dirgli prima questi tagli, ora io non me la sento di chiederglielo”. Noi eravamo già in studio, ci avevano pensato tardi.
Alle due del pomeriggio avevamo l’appuntamento, mi innervosisco talmente che nell’uscire di casa metto un piede nell’anta della porta per cui mi spacco gli occhiali di netto; non avevo un paio di ricambio quindi vado in studio in stato di menomazione assoluta dovendo poi discutere con Eduardo sui tagli. Mi metto in un angolo e decido “io mi gioco la carriera ma non gli dico niente” e soffrivo perché lui faceva riprovare molto bene questa battuta. “Che ve ne pare?”. “Molto bella, Eduardo, viene benissimo”. Dopo un’ora, un’ora e mezza mi fa “Non vi sembra troppo lunga come battuta?” “Sì, effettivamente un po’ lunga lo é”. “Tagliamo?”. “Tagliamo!”. “Tagliamo qui quando dice che ora coi ministri, coi sottosegretari viene una schifezza”. E la tagliò. Ma rimase a guardarmi per un po’ in quei suoi silenzi. Registrammo questa scena, questo atto, (allora si registrava un atto tutto intero, non c’era possibilità di montaggio), e scendendo allo studio 3 per andare a prendere alle 17 e 30 il rituale caffè, lui mi fa dentro l’ascensore “Voi quella battuta la volevate tagliata, vero?”. “Sì, Eduardo”. “E perché non me l’avete detto?”. “Eduà, perché me l’hanno detto ieri e io non avevo il coraggio, e poi mi sono rotto gli occhiali, non vedo niente. Ma a voi chi ve l’ha detto di tagliarla?”. “La faccia vostra me l’ha detto, la faccia che facevata mentre io la provavo. E poi ho visto come vi è tornata la felicità sulla faccia”. Naturalmente, episodi di questo genere, ne sono successi tanti.
La Rai mi aveva dato l’incarico di fare di queste commedie, anche una sorta di volumetto, e questo era venuto, anche tipograficamente, molto bene. In questo volumetto io dovevo fare una introduzione di due o tre pagine sul teatro di Eduardo e poi raccontare ognuna delle commedie che si sarebbero trasmesse. C’erano delle foto di lui splendide; era venuto apposta Mulas a farle. Io dissi “Guardate Eduà che Sik-Sik l’artefice magico non fa serata, è più breve rispetto allíorario canonico “. E lui “Scrivete che io prima di Sik-Sik l’artefice magico, faccio una specie di piccola carrellata su quello che facevo nell’avanspettacolo, i miei esordi”. E lo realizzò con molta eleganza, con molta grazia. Tutta la scenografia era costituita da uno di quei porta abiti delle sartorie teatrali, pieno di costumi suoi e lui ne prendeva uno, indossava la giacca e faceva il personaggio che aveva fatto vent’anni prima, trent’anni prima, e devo dire che era un momento straordinario di teatro puro. Non c’era scenografia, non c’era niente, c’era solo lui, un accenno di costumi e lì cantò, ballò, raccontò quell’episodio e dovemmo fermarci e rifarlo di nuovo perché non era stato provato, delle battute arrivarono per la prima volta allo studio e i cameraman non seppero tenere la risata.
Era l’episodio, non so quanto noto, in cui lui raccontava che il suo impresario aveva chiamato una famosa cantante di avanspettacolo, Eduardo ne faceva anche il nome, io non lo ricordo più, la quale la prima sera a Napoli disse: “Sentite, io stasera non posso cantare perché ho solo un filo di voce e invece di cantare dirò…” e disse la canzone, la disse come un fine dicitore. Siccome il pubblico era rimasto deluso, l’impresario chiese a Eduardo di buttarsi, di sgambettare, di ballare, per risollevare le sorti della serata.
E così il povero Eduardo giovanetto suda, sgambetta, balla e canta. La seconda sera la cantante si ripresenta e dice: “La voce non mi è tornata, invece di cantare dirò ” e disse la canzone. “Io mi ero scocciato” raccontava Eduardo “e così, entrai in scena zoppo e dissi: egregio pubblico, io stasera dovevo ballare ma siccome mi ero azzoppato una gamba passeggero’” e così fece. Questo episodio valse l’interruzione della ripresa perché detto da lui e fatto contemporaneamente, col suo costume e il suo passeggiare, risultava esilarante. Questo per esempio é un documento straordinario e nella prima serata mettemmo assieme queste memorie e Sik Sik l’artefice magico.
Per quanto riguarda la commedia Ditegli sempre di sì, questa fu una ripresa straordinaria per me. Io venivo dall’Accademia d’Arte Drammatica, ero stato allievo di Orazio Costa, avevo un’idea del teatro in un certo modo e ho imparato in quei 7 o 8 mesi che sono stato con Eduardo assai più di teatro di quanto non avessi imparato in anni di Accademia. Lì mi capitò uno di questi straordinari momenti di insegnamento. Mentre faceva Ditegli sempre di sì, aveva un attor giovane molto bello come ragazzo, Lima, e costui non era d’accordo con l’impostazione che Eduardo aveva dato al personaggio, faceva resistenza, ma nessuno osava dire ad Eduardo, che tutti chiamavano direttore, “non sono d’accordo”. Noi eravamo costretti a registrare un atto per intero e Lima, arrivato davanti a Eduardo nella scena che aveva con lui, recitò in un modo completamente diverso da come avevano fino a quel momento provato, tanto che De Stefani ed io pensammo: fra due minuti ci andiamo a prendere un caffè perché Eduardo interromperà. Invece Eduardo non interruppe, ma diede un’interpretazione al suo personaggio, spero che esista ancora la registrazione, che non sia stata distrutta anche questa, straordinaria, imprevista anche per noi. Poi alla fine di quest’atto mi chiamò, mi disse: “Camillé venite con me”.
Andammo nel suo camerino, si sedette e poi disse: “Mandatemi Lima !”. Arrivò questo giovane attore, lo fece accomodare e gli parlò: ”Allora, vi faccio una domanda: che cos’è la recitazione fra due attori, non improvvisata? Eh Lima? Due attori che hanno provato per giorni, magari annoiati, magari avevano altri pensieri. Che cos’è? “. “Ma direttore non lo so perché mi fa questa domanda”. “Vi faccio la domanda perché voi siete una persona che bara al gioco. E la recitazione è un accordo di onestà, prima di tutto, e di lealtà, tra due attori che sono sullo stesso palcoscenico, hanno concordato come devono combaciare nella recitazione, in quello che il pubblico deve vedere. Voi cambiate le carte in tavola e non solo barate, ma mi mettete in una difficoltà infinita. Io oggi ho voluto dimostrarvi che, appena ho capito che cosa stavate facendo, io vi stendevo. E l’ho fatto”. ” La possiamo rifare direttore ?”. ” No caro, rimane quella che è!”.
Questa semplice idea dell’accordo, cioè dell’accordo leale fra due persone che devono affrontare una stessa situazione, e uno dei due fa carte false, procurando danno all’altro, è un esempio per me pratico, proprio di teatro straordinario. Però, nessuno me lo aveva mai presentato sotto questa forma, in Accademia. In questo episodio sentii dietro una sorta di tradizione, delle grosse compagnie di giro, della capacita che potevano avere tali attori, d’improvvisare, di concertare. In genere lui improvvisava con attori di tradizione, di grossa tradizione; con Petito improvvisava, si concedeva questo lusso. Quel tipo d’improvvisazione che spinge all’estremo limite, quasi per gioco, il compagno, cimentandolo in una sorta di fuoco d’invenzioni, ma con misura, senza strafare. Addirittura certe prove, certe scene, lui le saltava; cioè le provava con tutti gli altri e si riservava gli ultimi 10 minuti di prova con Petito o con altri di quel calibro.
Un altro momento affascinante è stato Natale in casa Cupiello con Pietro De Vico e Enzo Petito. Pietro De Vico da anni non lo recitava con lui ed Eduardo lo volle apposta per quella registrazione. C’erano dei discorsi sotterranei, non detti, fra loro. “Camilleri, vi ho chiamato. Voglio De Vico!”. De Vico sapeva il significato di quella chiamata, dell’ingaggio in quella situazione. Era emozionante, in questo senso, vederli lavorare.
Per esempio in Filumena Marturano, un attimo prima di cominciare le riprese lui disse a Regina Bianchi: “Regì, guarda che poi questo Titina se lo guarda”. Regina tirò la parte in un modo, un modo eccezionale e quando finimmo il primo atto, la scena in cui lei ha i soldi, io mi buttai giù dalla scaletta, per correre ad abbracciarla; mi svenne tra le braccia perché grande era stata la tensione provocata dalle parole di Eduardo. Lui glielo aveva detto apposta, per metterla in uno stato emotivo eccezionale.
C’è una cosa, inoltre, che mi ha sempre colpito in Eduardo regista. Di solito il regista dice, ti spiega, ti dice qual è la sua intenzione, cerca una mediazione dell’attore condizionata sempre dall’idea che ha lui. Eduardo aveva un modo di intervenire che non del tipo ‘ora te lo faccio io’. Perché sapeva che l’attore poteva tentare di imitarlo ma poi era costretto a recitare secondo il suo proprio modo. Anche questa è una grossa apertura di orizzonti straordinari: Eduardo era convinto che l’attore sapesse “fare”. Questa era la fiducia che lui aveva. Molti dicevano che Eduardo non amasse tanto i suoi attori. Non li amava nella loro pigrizia però. Sapeva che avevano delle possibilità, delle potenzialità. Tant’è vero che spesso e volentieri venivano fuori.
Tutti i registi sono cattivi. Eduardo probabilmente lo era esplicitamente cattivo, ma, torno a dire che era una cattiveria mirata, per tirare fuori dall’attore i suoi personaggi; capiva perfettamente gli attori, sapeva quando era giornata e quando non lo era. Questo non significava per lui dare confidenza o meno, è stato sempre dentro la sua posizione ma aveva la capacità di proiettarsi all’interno degli altri, dell’altro attore non del personaggio, il personaggio veniva dopo.
Una cosa che ha molto valore era la sua sensibilità per le telecamere, perché Stefano de Stefani, un regista di tutto rispetto, faceva quasi solo il tecnico, mentre tutta la direzione era di Eduardo, non solo per quanto riguardava la recitazione.
Lui non aveva mai visto una telecamera prima, aveva visto solo macchine da presa, ma un’ora e mezzo gli bastò per capire. Eduardo si impadronì immediatamente di questo, che, come raccontano aneddoti famosi, chiamava un “elettrodomestico”. Tornando sempre alla storia della censura, avevano detto che bisognava togliere i “per Dio” che l’ex aiuto di Domenico Soriano ogni tanto dice se mi ricordo “per Dio”, battuta straordinaria, meravigliosa. “Tanto vale togliere il personaggio, io non li levo”. Quelli della rete si arresero davanti a tanta sicurezza.
Eduardo in ripresa disse: “Qui Stefano mi dai il primo piano su questi – per Dio – che lui dice”. Poi rivedeva la scena e, anche se era venuta perfetta, lui la rifaceva. ”Stefano i -per Dio- non li riprendere più in primo piano”. Aveva evidentemente intuito che questi primi piani davano un peso eccessivo all’interiezione e che non era il caso di sottolinearli così.
Tra l’altro, in quell’occasione ho capito che tutta questa diversità della televisione, riprendendo il teatro, poteva essere valido aiuto. Eduardo mi disse un’altra cosa straordinaria che, da sola, vale un trattato sulla televisione: “Quella è cecata, ha un solo occhio” – disse – “Nel senso che la gente vede con un unico occhio. Il mio”.
Lui soffriva della scelta di quello che c’era da mostrare televisivamente, in un teatro fatto di relazioni tra personaggi, di ‘controscene’, se vogliamo. Questo fu il vero problema quando cominciò a riprendere. Infatti, Filumena Marturano, per l’ottanta per cento è tutta giocata sui primi piani, in maniera da prendere anche le controscene, le azioni. Quindi la televisione l’aveva capita immediatamente, anche all’interno del mezzo stesso.
Lui teorizzò alla fine, soprattutto nell’ultimo periodo, nel ‘78, questa idea che la televisione è ‘lo spettatore con il binocolo’, e quindi la ripresa va fatta di qua dal boccascena, senza più adattamento. Proprio come lo spettatore che concentra l’attenzione in un primo piano, il carrello è lo spostamento degli occhi dello spettatore, lo zoom il concentrarsi dell’attenzione, lui ha dato poi anche dei modelli.
Circa le riprese di Napoli Milionaria non ho ricordi particolari perché, in realtà, tutto si svolse in una tranquillità che, nella memoria, diventa quasi irreale. Anche perché quei pochi incidenti che capitarono, lui li fece capitare a bella posta, preavvisandomi: “Domani guardate che faccio succedere questo, voi non vi preoccupate!”. Io, era un sabato, dovevo raggiungere la famiglia con Eduardo: “Ma voi non vi preoccupate, lunedì riprendiamo tranquillamente”. Mi telefonarono: lui aveva fatto una scenata per la scenografia, aveva detto: “Basta io me ne vado! Vado a Napoli, non registro più!”. Uscì dallo studio e se ne andò davvero. Allora mi raggiunsero dov’ero io con telefonate terrorizzate.
L’unico dubbio che ebbi è che fosse andato veramente a Napoli. Telefonai a casa sua: era tranquillo: “Perché vi siete preoccupato? Vi avevo detto che lunedì ci vedevamo?”.
Tutto questo nasceva da una discussione tra lui e il direttore del centro di produzione, che era un triestino. “Salvando l’unità d’Italia era meglio se se la tenevano!” Questa era la sua opinione in proposito. Sul fatto della scenografia quello diceva: “Noi l’abbiamo già fatta, voi dovevate approvarla prima, perché non avete fatto prima queste osservazioni?”. E lui: “Anche in teatro mi capita di fare osservazioni. Una volta che uno ‘vede’ la cosa. la cambia!”. E lo scenografo: “No, ormai noi non possiamo cambiare, le giornate lavorative, le ore di lavoro…” Piantò la grana e se ne andò. E lui mi disse: “Lunedì mattina in due ore si cambia come io ho chiesto.”. Infatti il lunedì mattina andai in studio, lui arrivò puntuale: la scena era stata cambiata e tutto filò tranquillamente.
Di episodi ce ne sono tanti. Per esempio quello degli spaghetti in Sabato, Domenica e Lunedì dove l’atto finisce con un attore vestito a Pulcinella che deve andare a recitare il personaggio e gli altri devono andare a mangiare gli spaghetti. Questo attore, non si è mai capito perché, all’ultimo secondo, momento in cui saluta tutti ed esce, invece di uscire normalmente, oltretutto era anche inquadrato dalla telecamera, si piegò sulle ginocchia ed uscì praticamente a quattro zampe. “E che avete fatto?!?” disse Eduardo. Bisognava rifare tutto. Si era avvicinata la pausa serale e mangiammo qualche cosa, riprendemmo alle nove meno un quarto di sera, entrammo nello studio per primi Eduardo ed io ed Eduardo mi disse: “Io non ho il coraggio di vedere in che stato stanno gli spaghetti, guardate voi!”. Io alzai il coperchio, infilai dentro la forchetta: un blocco compatto di spaghetti. Fu una cosa drammatica perché il bar di via Teulada era chiuso, andare in un ristorante vicino era l’unica soluzione ma avrebbe ritardato la registrazione. Insomma una serata veramente indimenticabile. E poi Eduardo ci teneva a come fossero cotti quegli spaghetti “Perché me li devo mangiare io!”, diceva. Mi ricordo che mi accompagnò al ristorante, dove naturalmente, si fecero in quaranta per fare gli spaghetti come diceva lui: al punto giusto di cattura, calcolando anche il trasporto dal ristorante allo studio e all’inizio delle riprese. Una cosa meravigliosa!
Un altro episodio straordinario è ne Le voci di dentro dove c’è quel personaggio magnifico dello zio che parla con i mortaretti e che dice, nel momento nel quale muore: ”Ma io che parlo a fare?” e poi accende quella sorta di fontana luminosa verde. Alle prove tutto procede benissimo in studio, tutto. Naturalmente ogni volta bisognava accendere una fontanella nuova. C’era il trovarobe che metteva la fonatanella nuova. Al momento della registrazione procede tutto meravigliosamente bene, lo zio accende la fontanella verde, gioco di fuoco e succede un cataclisma, nel senso che parte un razzo strepitoso, all’interno dello studio, esplodendo, provocando il panico generale; in più siccome nella scenografia c’erano centinaia di sedie impagliate, questo razzo va, ovviamente, ad infilarsi dentro alle sedie, incendiandole. Arrivano i vigili del fuoco in studio, io mi ero precipitato dalla scaletta di regia e, in mezzo al fumo, in piedi e assolutamente tristissimo trovai Eduardo che mi disse: “Lo vedete perché io non posso vedere la televisione? Perché la televisione è in mano ai preti e ai piemontesi che non distinguono una fontanella da un ‘mascone’.”
Poi, quando mandarono in onda queste otto commedie, io dissi a mia moglie: “Appena finiscono di andare in onda scrivo una lettera ad Eduardo nella quale gli dico che cosa è stato per me lavorare con lui tutti questi mesi.”. Non feci in tempo perché l’indomani la posta mi recapitò una lettera di Eduardo che diceva: “Camilleri voi non sapete che cosa è stato, per me, lavorare con voi sei mesi.” E di questo mi diede la prova: quattro, cinque anni dopo mi telefonò un poeta che io stimavo tantissimo, Vittorio Sereni, che era direttore editoriale della Mondadori. E mi disse, io non lo conoscevo: “Potrei vederla all’albergo Plaza? Le vorrei parlare”. Andai a trovare Sereni il quale mi disse: “Senta Camilleri, a noi della Mondadori c’è venuto in mente di fare un libro. Eduardo De Filippo non ha mai risposto a tutti quelli che, nel corso della sua carriera, gli hanno spedito già quattro casse di lettere. Gli è venuto in mente di rispondere ora, a distanza di tanto tempo. Si tratta di scegliere una cinquantina di lettere, darle a Eduardo e Eduardo deve elaborare una risposta facendone un libro di Eduardo De Filippo a cura di Andrea Camilleri. Il nome suo l’ha fatto Eduardo.”
Allora andai da Eduardo con Vittorio Sereni e Eduardo mi disse: “Sentite Camilleri qua ci ho queste quattro casse di corrispondenza. Voi ve la leggete in santa pace e scegliete cinquanta lettere cattive, anzi è meglio, e io rispondo. Siete voi che avete in mano il libro; io non dirò nulla sulla scelta che voi fate delle lettere, basta che non ne scrivete una voi e la mettete in mezzo”. Firmai il contratto con la Mondadori e mi capitò, mentre stavo leggendo le lettere, un fatto personale gravissimo per cui io quel libro non lo feci mai. E arrivato ad un certo punto Sereni mi scrisse dandomi una sorta di ultimatum e io risposi che non l’avrei fatto. Sereni mi ritelefonò dicendomi: “Il problema è che Eduardo non lo vuole fare con nessun altro.” Alla Pergola a Firenze incontrai Eduardo, mi chiamò in disparte e disse: “Perché?”. Io gli spiegai che cosa mi era capitato, mi abbracciò e la cosa finì li e rimase, per me, questa grande occasione perduta.
L’immagine che uno aveva di Eduardo era di un uomo corazzato, un uomo che si difendeva anche recitando la parte che si era assegnata lui stesso nella vita. Non so come nel ‘60 ero preoccupato perché una delle mie figlie aveva la febbre alta; non pensai all’incidente della bambina di Eduardo e gli dissi che ero un po’ preoccupato per mia figlia. Rispose: “Io l’ho persa una figlia”. E mi raccontò minutamente come lui aveva vissuto la cosa e si mise a piangere. Non è una cosa che si sopportava facilmente veder piangere Eduardo. È stata una cosa inenarrabile, penosa. Mi dispiace anche di averla rammentata.
Aveva delle battute a volte, di una cattiveria ‘teatrale’ che è un particolare tipo di cattiveria, una cattiveria senza cattiveria vera, profonda. Uscimmo una volta dallo Studio 3 e davanti ci trovammo De Sica. De Sica credo che proprio in quei giorni avesse fatto un film che si chiamava Il Diluvio Universale. De Sica lo vide e cominciò ad andargli incontro, lui si voltò verso di me e disse: “‘O Diluvio , ‘o maestro dello sciacquone!”. Io mi dovetti allontanare per non assistere a questo incontro perché ero preso da un ‘fou rir’ per come l’aveva detto. Aveva un uso tutto particolare degli avverbi. Io no so se fa parte del napoletano. Questo mi è stato raccontato da una persona degna di fede.
A Napoli andarono Giorgio Strheler, Virginio Pueker, Paolo Grassi e Ruggero Jacobbi, per trattare la traduzione e la messinscena di non so quale Molière. Andarono a mangiare; Virginio Pueker, che portava la macchina, l’aveva lasciata sotto un evidentissimo cartello di divieto di sosta. Quindi, via via che si avvicinavano, finito di mangiare, verso la macchina, vedevano un agente, un vigile, che stava prendendo una multa, io credo con particolare soddisfazione, dato che la macchina era targata MI, Milano. Allora Virginio va dal vigile e gli dice: “Senta io non avevo capito che era un divieto di sosta”. “Perché Milano dov’è ? Non è in Italia?” dice il vigile. In quel momento però scorge Eduardo. Quindi avviene naturalmente una sorta di sfida all’OK Corral, cioè a dire Giorgio Streheler e Ruggiero da un lato, Virginio Pueker e Paolo Grassi dall’altro, il vigile urbano ed Eduardo che si fronteggiano. Allora il vigile fa: “Sono vostri?” indicando gli uomini ed Eduardo risponde: “Eventualmente!”. Straordinario! Cioè a dire è un uso incredibile. Voleva dire in quel caso:‘ A seconda di come ti metti’.
Quando ci fece visitare l’isola, a me e ad Aldo Nicolaj, mi fece vedere che aveva la centrale elettrica autonoma, un generatore. “Così io me la spasso qui la sera, accendo il televisore, e guardo mio fratello Peppino che fa ‘Peppino al balcone’.”. Questo era il suo spazio serale dell’isola. Lo scopo della televisione era questo!
Per quanto riguarda il suo rapporto con Peppino, secondo me, c’era una voglia di teatro anche tra di loro. Tutti e due confluivano nel grande amore per Titina, su questo non c’è il minimo dubbio. Tutte e due amavano Titina. Peppino era come schiacciato un po’ dal peso di Eduardo, che stimava enormemente. Eduardo faceva finta di non stimare Peppino, ma faceva finta. Io credo che le cose stessero in questo modo. A me personalmente capitò, alcuni anni dopo aver fatto il produttore di Eduardo, di dirigere Peppino in sei puntate di una trasmissione che si chiamava la Carretta dei Comici, di Vittoria Ottolenghi, dove si partiva dalla Commedia dell’Arte e si arrivava alle grandi Farse dell’Ottocento. Un giorno, mentre scendevo da via Teulada, un signore mi disse: “C’è Eduardo che vi chiama!” Infatti mi voltai, mi fermai e c’era Eduardo che mi stava inseguendo. Si avvicinò col fiatone e mi disse: “Come state Camillé? Come state?”. “Sto bene Eduardo! E voi? So che avete avuto…”, perché gli avevano messo il pace-maker “No. Ma sto bene, sto bene”. E quindi segue una di queste pause mostruose di Eduardo, in cui non sai che dire, che fare. Dopodiché solleva gli occhi, mi guarda e fà: “So che dopo di me avete lavorato con mio fratello Peppino !”. Allargò le braccia: “Che ci volete fà Camillé, la vita!” E se ne andò. Io sono convinto che si era fatto la corsa solo per dire questa battuta finale. Si capiva che Eduardo avrebbe dato la vita per una battuta!
La battuta era evidentemente per lui quello che oggi chiamano l’input. E attorno ci costruiva una commedia.
Io gli chiesi una volta dei suoi rapporti con Pirandello. Avevano fatto L’Abito Nuovo insieme. Lui aveva una sorta di stima-disistima. Stima l’aveva come uomo di teatro, aveva minore stima come inventore di commedie. Mi raccontò che i Sei Personaggi… in realtà non erano originali, ma risalivano non so a quale fonte. Però diceva alla fine: “Come l’ha saputo strutturare lui…”. Ecco ero curioso avrei voluto saperne di più, ma poi finiva che il lavoro ci prendeva e di altre questioni si parlava poco.
Questo fatto di lavorare su commedie di altri, toccò anche Eduardo. Filumena Marturano come spunto, nasce da una commedia di Aniére, una commedia argentina, più fatto di cronaca, di questa donna che si era andata a sposare in punto di morte dall’amante, dopo trent’anni.
Quando mi capita, rivedo volentieri le sue commedie. È impressionante la non datazione di alcune cose: Napoli Milionaria è ambientata lì, nella Napoli del dopoguerra, dopoguerra eterno, quei sentimenti, quelle cose che ci sono dentro, e anche con una coscienza dell’ovvietà di una data situazione, che è una finezza strepitosa.
Se si pensa che Filumena Marturano comincia dove un altro autore avrebbe fatto il terzo atto, ovvero comincia a cose fatte, È un’altra cosa straordinaria di Eduardo.
Anche la storia di un atto che poi si moltiplica in tre atti, per esempio, è qualcosa che capita sovente in Eduardo. Drammaturgicamente è stato proprio un grande, forse gli è nuociuto essere anche regista, attore, oltre che autore. Ma lui teneva soprattutto ad essere un grande attore, cosa che è stata sempre la sua passione.
Esiste un legame, un ascendente che l’attore esercita sullo spettatore e fa parte di quel mistero vero dell’attore che ‘avverte’ il pubblico. I tempi nella televisione erano molto diversi. Ci fu un ritardo iniziale il primo giorno, (lo dico onestamente e possono testimoniarlo i superstiti di questa cosa), perché il secondo giorno di prove lui volle non registrare, ma riprovare. Siccome noi registravamo in ordine, la prima cosa che lui vedeva era questa carrellata che precedeva Sik Sik. Eduardo si studiò a lungo, abbassò tantissimo i livelli, alterò molto i ritmi. Credo che quell’esperienza sulla sua pelle gli sia servita moltissimo per l’impostazione. Non ha dovuto più correggere dopo, adeguare certi ritmi con il ritmo televisivo. La cosa che lui voleva, ed in questo era molto preciso ed insistente, era che sul copione ci fosse scritta la telecamera e il piano, allora l’obbiettivo non c’era, (non c’era lo zoom). Quindi questo copione se lo portava a casa. Voglio dire che quando poi arrivava a registrare, a provare in studio prima di registrare, faceva pochissime correzioni perché, questa sorta di adeguamento dell’immagine alla parola se l’era studiata a casa.
Il teleromanzo Peppino Girella nacque proprio nei giorni nei quali lavorava per le otto commedie e venne da una proposta di Maurizio Ferrara. Eduardo rispose quasi immediatamente dicendo: “Una mezza idea io ce l’avevo” e lì comincio’ ad elaborare Peppino Girella.
Ma di questo con me non parlò mai perché si sapeva che io con la serie delle commedie avrei chiuso con Eduardo; passavo ad occuparmi di una serie sulla quale la rete contava molto che era la serie di Maigret che ho prodotto io, per tutte le trenta puntate, con Gino Cervi.
Tornando a Eduardo, il personaggio, dei suoi, che più mi affascina è quello dei primi dieci minuti del Sindaco del Rione Sanità, quando non parla. È una lezione di presenza scenica a livelli mostruosi. Il risveglio, la mattina, e lui ‘ciabattando’ per la casa. Questa sorta di scommessa azzardata di iniziare il lavoro senza una battuta, lasciando una sorta di tensione sempre, per dire: “Ma dove va a finire?”. Questo, come attore, è il momento in cui io l’ho trovato proprio straordinario. Poi ci sono i momenti che sono più espliciti di Eduardo. Ma un altro momento che, a me personalmente, ha sempre commosso, perché era la stessa cosa che faceva in teatro, in Filumena Marturano l’ha ripetuta in televisione, è il momento nel quale si volta perché sente Filumena che piange. Ecco! Basta solo il dettaglio della faccia, quando si volta, perché l’ha sentita prima, quindi il voltarsi è una conferma: momento davvero straziante. E lo spettatore è preceduto dalla battuta: “Solo chi ha provato la felicità, la gioia, può piangere”. E se la disegna tutta lui in faccia, praticamente le ruba la scena: per una frazione di secondo tu convergi solo su di lui.
La cosa che ritengo davvero straordinaria è come per i napoletani lui sia ancora presente, vivo, nei modi di dire, nelle citazioni di sue battute. Noi siamo stati a Vicolo San Liborio, vicolo di Filumena Marturano, ed è nata come una specie di piccola inchiesta e la gente è convinta che Filumena Marturano abitava lì e ci hanno mostrato la casa. È diventato ormai più che un personaggio, è qualcosa di vivo. Questo è straordinario.

Documento ripreso da   venerdì, 31 ottobre 2014