31 marzo 2016

L' INTERVISTA INEDITA DI PRIMO LEVI


Diventa libro una lunga intervista a Primo Levi registrata poche settimane prima del suicidio e finora inedita.


Maurizio Crosetti

Quei nastri registrati nascosti per trent’anni


Arriva tra noi all’improvviso un libro molto importante e necessario. Una voce, quella inconfondibile di Primo Levi, così mite e tormentata, gentile e dolente, ritorna dopo quasi trent’anni come se fosse ieri in questo Io che vi parlo (Einaudi).

Una voce che Giovanni Tesio, tra i nostri maggiori italianisti e biografo ufficiale di Levi, nonché suo amico e lettore privilegiato, aveva registrato su cassetta poche settimane prima del suicidio dello scrittore, in vista di una biografia autorizzata. Tre incontri discreti e profondi, per un futuro che non ci sarebbe stato. Trent’anni è lo spazio enorme di un rispetto e di un’attesa: rispetto verso la famiglia di Levi, che dopo la sua morte avrebbe potuto essere ferita da queste confidenze, e attesa che il tempo fosse pronto ad accoglierne di nuovo la voce.

Ed eccola, dunque, inconfondibile, potentissima come il tuono e leggera come un soffio. Se ne sente la grana e la cadenza, in certi momenti è come sporgersi sull’abisso: quando Primo Levi racconta, per la prima volta, le ferite della giovinezza, la timidezza quasi patologica verso le donne, i segni di diversità avvertiti sulla propria pelle di ebreo ben prima e forse addirittura ben oltre Auschwitz, l’innamoramento (platonico) per la compagna partigiana poi andata in gas. E, ancora e sopra ogni cosa, quel senso di colpa profondissimo, ineliminabile: la colpa di essere vivo, l’identico tormento che innerva il testo forse più importante di Levi, I sommersi e i salvati.

Qui, parlando con Tesio, il grande scrittore si ferma prima della Shoah. Narra gli anni di lui bambino, quella bizzarra famiglia da Sistema periodico, e poi la scuola, i giochi, le infinite avventure in montagna per “assaggiare la carne dell’orso”. Si potrebbe dire, un Levi prima di Levi che però lo contiene già tutto e ne illumina ogni spiegazione.

Fa tenerezza la fragilità di Levi quando chiede all’amico di non andare oltre, o di spegnere il magnetofono per una confidenza più profonda. Oppure, quando si ferma sul confine delle cose di cui è bene non dare conto, perché un autore è fatto anche di silenzio. Infine, è commovente sapere che queste parole sono state le ultime pronunciate da Levi prima del buio. E bisogna ringraziare Giovanni Tesio per come ha custodito negli anni questo dono e per come ce lo porge, adesso che il tempo è compiuto.


La Repubblica – 30 marzo 2016

30 marzo 2016

HEIDEGGER HA MANIPOLATO PLATONE



In un bell'articolo, pubblicato nelle pagine culturali del Corsera  di qualche giorno fa, si mostra chiaramente come Platone, al contrario di Martin Heidegger,  riteneva che il filosofo dovesse opporsi alle idee dominanti proponendo idee nuove per il governo della città. Anche a costo di esporsi e rischiare



PLATONE INTELLETTUALE DISORGANICO


di Mauro Bonazzi

Il 21 aprile 1933 Martin Heidegger fu eletto rettore dell’Università di Friburgo. Adolf Hitler era al potere dal 30 gennaio, il 1° maggio Heidegger aderiva ufficialmente al partito. Il 27 maggio tenne la prolusione inaugurale, L’autoaffermazione dell’università tedesca , una rivendicazione della missione politica dell’università, che doveva schierarsi in prima linea nella costruzione del nuovo ordine. Era il tempo della chiamata del destino: il filosofo aveva risposto, ponendosi alla guida della sua comunità, pronto per la «lotta» (parola che ritorna ossessivamente nel discorso) in un cammino «da cui non vi è ritorno». Come Platone, pensarono tanti (e molti ripetono oggi), che nella Repubblica aveva descritto lo Stato ideale e non aveva esitato a imbarcarsi per Siracusa, pieno di vergogna se si fosse rivelato un filosofo «buono solo a parlare, ma incapace di tradurre in atto le sue idee».
Il rinvio era quasi d’obbligo. Nella Germania di quegli anni Platone era, insieme a Nietzsche, un punto di riferimento imprescindibile, tanto per ideologi come Hans Günther o Alfred Rosenberg quanto per gli studiosi eredi della grande tradizione accademica tedesca. Sempre in quel 1933, ad esempio, Kurt Hildebrandt, professore a Kiel, pubblicava Platone. La lotta dello spirito per la potenza , un tomo voluminoso e tutt’altro che banale (fu tradotto anche in italiano da Giorgio Colli, per Einaudi nel 1947), per celebrare l’eroica battaglia di Platone in difesa della patria, contro caos e disordine. Platone, il filosofo guerriero e «l’educatore dell’uomo tedesco». Il titolo, con la parola Kampf , «lotta», a evocare il Mein Kampf di Hitler, spiegava da solo fin troppo.
Nello stesso spirito, il discorso di Heidegger culminava con una citazione di Platone, esaltante e minacciosa allo stesso tempo: «Tutto ciò che è grande è nella tempesta». Era come un crescendo wagneriano, capace di evocazioni inattese, di paralleli illuminanti. «Tempesta» in tedesco è Sturm : come Sturm-Abteilung , le SA, insomma, le famigerate camicie brune, che avevano accompagnato il Führer alla conquista della Germania e che ora sedevano tra i banchi dell’Università di Friburgo, raccolte intorno al filosofo nell’ora decisiva. Il sogno di Platone finalmente si avverava.
Il problema, però, è che Platone aveva scritto un’altra cosa. Convinto che tra il greco e il tedesco corresse un’affinità intima ed essenziale, Heidegger non ha mai avuto paura di tentare traduzioni ardite in cerca di sensi reconditi o verità nascoste. Ma in questo caso (e non è il solo) nessuna rivelazione attende il lettore: molto banalmente la traduzione è sbagliata. Nel testo si legge che «ciò che è grande è instabile». Non è un dettaglio da poco, perché cambia tutto. La distanza tra Heidegger e Platone si misura anche da qui.
Nato nel 1889, Heidegger ha accompagnato la Germania nella catastrofe da adulto. Platone ha assistito al tracollo di Atene da giovane. La guerra persa contro Sparta, il conflitto civile in cui gli aristocratici (molti dei quali suoi parenti) si erano macchiati di violenze e misfatti, il processo democratico contro Socrate: non c’è da stupirsi se maturò la convinzione che si dovessero cercare nuove strade, lontano dalle piste battute della politica tradizionale, per rifondare la città su basi solide. È questo il senso della tesi tanto abusata della Repubblica : non ci sarà fine ai mali degli uomini fino a quando i filosofi non governeranno o i governanti non diventeranno filosofi. La filosofia deve farsi carico della città. Ma non c’è niente di enfatico nelle parole di Platone. Socrate prevede che la sua affermazione sarà accolta da derisione e disprezzo; Glaucone, il suo interlocutore, paventa addirittura che molti lo inseguiranno con i bastoni. Come succede al filosofo nel mito della caverna: cerca di liberare i suoi compagni dalle catene e loro lo uccidono. Allegorie trasparenti, che evocano la morte del Socrate storico e rivelano il disincanto di chi sa quanto sia difficile opporsi al potere dei pregiudizi e dell’ingiustizia.
Ma perché impegnarsi allora, tornare nella caverna?
È la domanda che, in quegli stessi anni, si poneva Leo Strauss: ebreo, aveva seguito le lezioni di Heidegger, e presto sarebbe stato costretto all’esilio. Con Platone nella valigia, leggendolo e rileggendolo, in cerca del suo messaggio profondo. I problemi in effetti non mancano, perché la Repubblica si regge su una contraddizione evidente. La gente non vuole che il filosofo governi (e infatti lo uccidono); il filosofo, immerso nelle sue conoscenze, non ha nessun interesse a governare: perché mai dovrebbe allora rientrare nella caverna? Non sarà che la Repubblica , paradossalmente, ci vuole insegnare proprio il contrario di quello che afferma, vale a dire che politica e filosofia devono restare separate? Era un’idea che aveva solleticato Aristotele, come spiega Giuseppe Cambiano nel suo ultimo libro Come nave in tempesta (Laterza), e che Strauss ha sviluppato approfonditamente, a partire dal saggio Una nuova interpretazione della filosofia politica di Platone (pubblicato nel 1946 e ora tradotto da Quodlibet).
Il filosofo, però, rientra nella caverna. Perché? Forse perché, a pensarci bene, non ne è mai uscito. Perché è sulla stessa barca, spiega ancora Cambiano, e rischia di affondare con gli altri. E soprattutto perché, senza la compagnia degli altri uomini, non sarebbe più uomo neanche lui. Non gli resta allora che combattere per le sue idee, discutere, spesso esporsi al ridicolo, a volte rischiare la vita. In fondo l’utopia platonica è tutta qui: non l’elaborazione di un modello perfetto da imporre con la forza, ma una riflessione critica che ci aiuti a comprendere e correggere il mondo in cui viviamo. Tra ideale e reale c’è sempre una frizione, un contrasto latente. Il rischio, ben presente nelle scelte di Heidegger, è quello di dimenticare il primo per appiattirsi sul secondo; il compito della filosofia, per Platone, è evitare questa deriva, che conduce al cinismo di chi pensa che nulla possa cambiare, e che l’affermazione di se stesso sia l’unico valore da adottare. Immaginare il non-luogo (l’utopia, appunto) per tenere aperto il campo del possibile, come ha detto Paul Ricœur. Per questo, quando ne ha avuta la possibilità, Platone si è imbarcato alla volta di Siracusa, per convertire Dionisio alla filosofia.
Riesce difficile immaginare qualcosa di analogo tra Heidegger e Hitler. Non ci sono destini da cavalcare, ma la consapevolezza di chi è pronto a impegnarsi per cambiare quello che non va. Contro il suo tempo, per il suo tempo. Non è un compito facile, il prezzo da pagare a volte è alto. Ma «ciò che è grande è instabile»: fragile, rischioso, e per questo deve essere difeso.
Heidegger e Platone, insomma, divergono perché hanno una diversa concezione della realtà e del filosofo — dell’intellettuale, diremmo noi oggi. Il libro di Donatella Di Cesare sui Quaderni neri, da poco uscito in seconda edizione, aiuta a chiarire il problema. Per Heidegger, il filosofo è organico alla sua comunità, radicato nella sua terra; parla in suo nome e in sua difesa, da lei traendo ispirazione e autenticità. Sono idee condivise in quegli anni, che ritornano anche oggi nel rinvio ossessivo alle nostre radici, manco fossimo alberi, o nei continui inviti a difendere e preservare la nostra identità (senza peraltro mai chiarire in cosa consista, poi, questa identità). La polemica è contro chi rifiuta questo rapporto: «sradicati», incapaci perciò di profondità; privi di legami con la comunità del popolo, indifferenti dunque al destino della patria che li nutre. Pericolosi. Il bersaglio principale, inutile dirlo, erano gli ebrei, il popolo del deserto, dove non si possono mettere radici. E con loro gli intellettuali, capaci solo di pensieri astratti, propagatori di principi vuoti perché universali. Ma non è questa anche la posizione di Platone?
Il termine più usato per descrivere Socrate, nei dialoghi platonici, è atopos . Lo si traduce spesso con «bizzarro, strano», per indicare l’originalità della filosofia e anche il fastidio, o il disprezzo, con cui essa viene accolta da chi mal sopporta di veder messe in discussione le proprie certezze. Ma il termine dice di più. A-topos , alla lettera, significa «senza luogo». Ed è in questo significato che rivela la natura autentica del filosofo, la sua libertà. Il filosofo: privo di radici, e perciò libero di muoversi; libero dai luoghi comuni della sua terra; libero di alzare lo sguardo verso altre realtà. Come l’albatros di Baudelaire, goffo sulla tolda della nave, «esule sulla terra», ma «re dell’azzurro» quando finalmente dispiega le ali, in volo, negli spazi sconfinati del cielo (sconfinati come lo sono quelli del deserto, viene da chiosare, in cui gli ebrei riconquistarono la libertà). E per questo utile per la città, quando può mostrarle nuove strade, aiutarla a non arroccarsi in se stessa. Non è per nulla semplice il mestiere del filosofo, sempre in bilico tra la tentazione di perdersi negli spazi sconfinati dell’ideale e i rischi concreti che lo attendono all’interno della caverna. Ma proprio per questo è così appassionante.


Corriere della sera, La Lettura,  27. 3.16

 



PIERO CIAMPI CANTAUTORE E POETA


Il testo che segue compare nel disco antologico Ciampi ve lo faccio vedere io, antologia dedicata al cantautore livornese con interpretazioni di Bobo Rondelli.

Piero Ciampi: un cantautore? No, un poeta!

 di John Vignola e Antonio Vivaldi

Si può dire, oggi, questo di Piero Ciampi: che è stato capace, per indole o per abitudine, magari per entrambe, di cambiare l’idea della cosiddetta canzone d’autore e di portarla da qualche altra parte.
Sarà un caso che Ciampi, proprio come capita anche a Luigi Tenco, piaccia a nomi importanti del rock italiano quali Mauro Ermanno Giovanardi, Cristina Donà, gli Afterhours.
La sua indole anarchica, la sua spontaneità, il suo andare controcorrente in maniera così vitale, inesorabile, divengono qualcosa di tremendamente vicino  a quella rivoluzione  punk  che, quando incide le sue canzoni più importanti, non è ancora arrivata.
Ovviamente, Piero Ciampi non è un punk, anche se, come i punk, non sa suonare bene nessuno strumento. Come loro ama provocare, come i maestri della beat generation americana ama confondere vita e arte (pagando spesso questa scelta a caro prezzo) e lo fa non come gesto studiato davanti allo specchio, ma come scelta inevitabile; quasi ogni sua parola è poesia, quasi ogni sua azione ha una potenza drammatica e diventa subito racconto.

ciampipiero

Gianni Marchetti costruisce addosso ai suoi versi un vestito melodico, struggente, certe volte ridondante, ma lui non segue quasi mai le melodie oppure le abbandona per poi recuperarle quando sembra troppo tardi.
Il suo modo di declamare le canzoni è più vicino alla poesia, ma le rime sono tutt’altro che baciate. Le storie attingono dalla sua esperienza personale, ma non sono solo brani di vita vissuta, magari male; riescono a essere epiche e picaresche, commoventi e grottesche  fino a comporre un grande affresco umano degno, senza esagerare, di Musil e Carver.
Sono storie impressionanti, perché Piero sa usare in maniera molto personale la voce. Una voce inconfondibile, paurosa, drammatica: non è quella di un attore, ma, appunto, di un poeta come pochi, almeno nel mondo della musica sospesa fra i Festival di Sanremo e qualcosa che non si riesce a definire bene, per cui si usa il termine ‘d’autore’ con scarsa convinzione (degli artisti).
Non è un caso, allora, che il paragone con Tenco allontani entrambi da qualsiasi appartenenza, che la passione di entrambi per il jazz li smarchi dall’ossessione italiana per il melodramma e che, alla fine, la gloria, se così si può dire, postuma, sia legata a questo precorrere i tempi che è, assolutamente, inconsapevole e al tempo stesso geniale.

pubblicato mercoledì, 30 marzo 2016 ·

CANTAUTORI. In memoria di Gianmaria Testa




Gianmaria Testa

Le traiettorie delle mongolfiere

Lasciano tracce impercettibili
le traiettorie delle mongolfiere
e l'uomo che sorveglia il cielo
non scioglie la matassa del volo
e non distingue più l'inizio
di quando sono partite
sopra gli ormeggi e la zavorra sono partite
tolti gli ormeggi e la zavorra
sono partite

A guardarle sono quasi immobili
lune piene contro il cielo chiaro
e l'uomo che le sorveglia
adesso non è più sicuro
se veramente sono mai partite
oppure sono sempre state lì
senza legami, colorate e immobili
così

Anche noi, anche noi
con gli occhi controvento al cielo
abbiamo cercato e perso
le tracce del loro volo
dentro le nuvole del pomeriggio
nei pomeriggi delle città
ma chissà dove è incominciato tutto
chissà

Anche noi, anche noi
con le mani puntate al cielo
abbiamo inseguito e perso
le tracce del loro volo
anche noi, anche noi
nelle nuvole del pomeriggio
nei pomeriggi delle città
ma chissà dove è incominciato tutto
chissà


Erri De Luca

Allora compagno, non ci abbracceremo più. Non abbiamo creduto ai generosi tempi supplementari dell’aldilà, perciò ci siamo abbracciati al termine delle nostre serate su un palco. Erano precedute da una cena e dal vino, che ci seguiva anche sulla pedana della ribalta. Ci siamo abbracciati, cento, mille volte, il mio braccio ha lo stampo della tua spalla, il tuo braccio della mia. Usciva, dal fascio di luce senza inchini, salutando con il verso di una tua canzone:

e con la mano, che non veda nessuno,

con questa mano ti saluterò.

 *****

Ricordiamo Gianmaria Testa, cantautore dal percorso umano e artistico “differente”, scomparso prematuramente questa mattina, con un’intervista realizzata nel 2007, uscita originariamente su Carta (fonte immagine).

Gianmaria Testa è una delle figure più interessanti della canzone d’autore contemporanea: dopo un esordio “francese”, sta finalmente avendo il successo che merita anche da noi. Di poche settimane fa è l’assegnazione della Targa Tenco come miglior disco a «Da questa parte del mare». Ora viene ristampato «Lampo», il suo terzo disco, che risale al 1999, in una bella edizione con i testi tradotti in inglese, francese, tedesco. «La traduzione dei testi è uno dei motivi della ristampa – spiega Gian Maria Testa, che abbiamo incontrato a Roma – L’altro è che questo disco in Italia è stato distribuito poco e male. Eppure c’erano molte richieste: qualcuno l’ha comprato all’estero, qualcun altro l’ha scaricato da internet. Ora Harmonia Mundi ha deciso di ripubblicare anche questo, come ha fatto con i primi due, in formato libro-disco».

In «Lampo» indaghi la dinamica del tempo. Di tempo dal 1999 ne è passato: cosa resta?
Avrei voluto ricantarle, queste canzoni. Perché fare un disco significa fare una fotografia di quel momento lì. Poi le canzoni evolvono. Queste, poi, le ho spesso cantate in concerto. Le ragioni che hanno portato alla loro scrittura si allontanano, quella che poteva essere una rabbia magari è diventato un ricordo malinconico. Allora la canti in modo un po’ diverso. Comunque sia, prima di ogni disco dico ai musicisti che dobbiamo poterci sedere in un bar, alla fine del lavoro, bere un bicchiere e dirci che tra vent’anni non avremo vergogna di quello che abbiamo fatto. Con «Lampo» è successo. Quelle canzoni raccontavano la loro piccola verità tutt’ora valida, nonostante il depositarsi degli anni.
Il successo è arrivato tardi. Il primo disco a 36 anni…
Ho fatto il ferroviere, il capostazione a Cuneo, fino al primo aprile di quest’anno. L’ho fatto per 25 anni. Anche quando già mi andava bene non ho voluto smettere. Ora ho dovuto, perché è un lavoro che richiede una certa resistenza. Ho fatto il primo disco a 36 anni perché fino ad allora non avevo ricevuto proposte serie: in Italia mi si chiedeva sempre di cambiare qualcosa, volevano “confezionare un prodotto”. Poi dalla Francia arrivò la proposta della Label Bleu, che mi ha lasciato piena libertà. Con loro sono stato chiaro: io ho una famiglia e un lavoro, e non intendo stravolgere la mia esistenza. Loro hanno accettato e gli ha portato bene, perché è stato il disco più venduto della Label Bleu.
Per la prima volta al Premio Tenco hanno vinto cinque artisti di etichette indipendenti. È un segnale?
È un fatto molto importante. Per il premio ero contento come un bambino, perché lo seguo da quando ero ragazzo e ha sempre rispecchiato i miei gusti. Ero molto contento ma anche in imbarazzo: perché io mi chiamo volentieri fuori dalla mondanità di questo mestiere, sono solo uno che fa canzoni. Per quanto riguarda le etichette indipendenti, penso che non sia casuale. Le major hanno perso la loro forza, gli è stata tolta dall’andare avanti delle cose. Io, ad esempio, non riesco ad essere contrario al “file sharing”: non potrei mai dire a uno che si scarica il mio disco che lo sta rubando. Se ti scarichi un disco e ti piace probabilmente dopo lo compri, se puoi permettertelo. Se non puoi permettertelo, è giusto che lo ascolti comunque.
Perché la Francia scopre prima i nostri cantautori?
Non so risponderti. Io all’estero non ho un pubblico di italo-qualcosa, cioè di migranti: quelli sentono di più Toto Cotugno, cercano l’Italia che hanno lasciato. Non sono aggiornati. Ma nell’area francofona esiste un gusto per quella che viene definita «une voix à l’italienne»: nel loro immaginario ci sono due voci all’italiana, il bel canto e la voce ruvida. Un tipo di canto che non c’è nel loro panorama musicale, e forse per questo la amano. Ma succede anche altrove, a Vienna o in Germania.

Spesso ai cantautori si chiede un “messaggio”. A sinistra, più che altrove, si fa questa associazione facile.

Non ho mai creduto alla propulsione politica delle canzoni, mentre credo molto al dovere dell’atteggiamento. Un atteggiamento politico significa dire i sì e i no necessari. Io vengo da una generazione che diceva “anche il privato è politico” e sono rimasto molto legato a quella concezione. Oltre alla politica, occorre avere un comportamento etico coerente. Un obbligo che sento è far saper al pubblico da che parte sto, così che si possa regolare. Ad esempio, dopo il mio ultimo disco sull’emigrazione ho ricevuto delle contestazioni: dopo un concerto a Treviso, un gruppo di persone è venuto da me e mi ha detto «belle le canzoni, ma non condividiamo nulla». Va bene anche quello, è un modo di discutere.

Quindi un musicista deve schierarsi?

Penso di sì. Questi sono tempi di grande confusione, non si può generarne altra. I ragazzi vivono una condizione difficile: noi, quando eravamo giovani, credevamo che il futuro sarebbe stato pieno di cose migliori; ci siamo sbagliati, certo, ma pensa ai ragazzi di oggi, che vedono il futuro come una dimensione peggiorativa del presente. Da ogni punto di vista: ambientale, sociale, politico… Non si può vivere serenamente il presente, se non ci sono prospettive per il futuro.
Il disco sull’emigrazione l’ho fatto proprio per i ragazzi, per ricordare a loro e a noi quello che eravamo solo qualche decennio fa: immigrati. Anche a casa nostra. A Torino si scriveva sulle case “Affittasi ma non ai meridionali”. È passata una sola generazione, e già abbiamo un partito xenofobo come la Lega, facciamo leggi speciali, abbiamo i Cpt.
Viviamo in un mondo al contrario: gli Usa, che sono la più grande nazione di emigranti – perché hanno sterminato la popolazione originaria – stanno facendo un muro per bloccare altri emigranti come loro. Credo che la storia ci renderà conto di questo atteggiamento, di questo disumanesimo.
Certo, so che non è facile, anche a me può dare fastidio che andando in macchina tentino sei volte di lavarmi il vetro, ma non mi fermo lì. Come non riesco ad aderire a questa richiesta di sicurezza. Ma davvero vi sentite assediati? Ma da cosa? Io non voglio sentire che la sicurezza deve essere una delle priorità della sinistra, ma scherziamo?
Tu, da cantautore, hai a che fare con la parola. Se negli anni della tua formazione la parola era il tempio del confronto, oggi sembra sia diventata il tempio della mistificazione. Com’è stato possibile?
La parola ha seguito il destino dei contratti. C’è stato un tempo in cui una stretta di mano valeva tutto. Ti racconto un episodio: mio padre comprava le uve Barbera da due fratelli poveri in canna che avevano solo una vigna. Noi il vino ce lo facevamo da soli. Uno dei fratelli si faceva 25 chilometri tra le colline per venire a contrattare con mio padre. Concluso l’affare si stringevano la mano. Un anno, Pinotto (il suo nome, cioè Giuseppe) tornò il giorno dopo e mio padre gli chiese: «Cos’è successo?, ci siamo visti ieri…». Lui rispose: «Mi sono sbagliato, ti ho chiesto una lira in più». Mio padre aveva accettato il prezzo perché pensava fosse il giusto, perché non si sarebbero mai traditi dopo una stretta di mano. Lo stesso valeva per Pinotto.
La superficialità con cui abbiamo tradito qualunque cosa ha tradito anche il potere della parola. Se guardo la tv e vedo, che so, Ballarò, spengo. Perché quelle chiacchiere, da qualunque parte provengono, non servono a nulla. Oggi si afferma e domani si rettifica. Da quanto tempo è così? Qualcosa di salvifico credo possa venire non tanto dalla canzone, ma dalla poesia. La canzone si è tradita mille volte, oggi si giustifica con una bella voce e dei capelli biondi… È un peccato, perché la canzone è davvero popolare, arriva subito. Ma d’altronde è normale; come diceva Troisi, il successo è un megafono: se sei stronzo, diventi mille volte più stronzo.

 da  http://www.minimaetmoralia.it/wp/altre-latitudini-in-ricordo-di-gianmaria-testa/

29 marzo 2016

C. BENEDETTI SULLA MORTE DI PASOLINI

Pasolini con sua madre


Pasolini, Cefis e la macchinazione

Carla Benedetti




Consiglio di vedere il bel film di David Grieco La macchinazione:
a tutti coloro che credono che Pasolini sia morto da “frocio”;
a tutti coloro che non pensano possibile una matrice politico-criminale di quell’orribile massacro;
ai tanti che chiedono con forza e con sgomento un po’ di verità su quella vicenda vecchia di quarant’anni, certamente lontana nel tempo, ma che resta tuttora una ferita aperta nel nostro paese ad alto tasso di corruzione, di segreti di Stato e di ingiustizia;
ai tanti che oggi giustamente pretendono una verità sull’omicidio di Giulio Regeni, mentre le autorità egiziane tentano di nasconderla dietro la versione di comodo di un rapimento a scopo di lucro, nonostante gli evidenti segni di tortura impressi sul suo corpo. Anche l’omicidio di Pasolini ha avuto fin da subito la sua versione di copertura, e non meno piena di contraddizioni. Solo che, a differenza di quella su Regeni, la versione ufficiale dell’omicidio di Pasolini ha convinto quasi tutti ed ha retto per decenni.
Molti hanno creduto alla sceneggiata del frocio che va in giro di notte a suo rischio e pericolo, ucciso da un ragazzino e da qualche altro balordo fascista e omofobo. Vi hanno creduto per disinformazione, per indifferenza, per automatismo, qualcuno anche per paura. Nemmeno le ultime indagini, conclusesi qualche mese fa con una richiesta di archiviazione, hanno osato sfiorare la verità, depistata da tanti anni, lasciando ancora una volta nel buio moventi, mandanti e esecutori.
E anche a tutti quei letterati, scrittori, giornalisti, politici e esponenti del movimento gay che negli ultimi anni hanno sposato dogmaticamente la versione ufficiale dell’omicidio di Pasolini, tappandosi gli occhi sulle sue evidenti contraddizioni, mettendo a tacere i propri scrupoli di verità, consiglio di vedere questo film. Certo non cambieranno posizione, ma forse perderanno un po’ di baldanza nel mostrarsi così privi di dubbi.
So bene che non basta un film a fare definitivamente chiarezza su un delitto che per quarant’anni è stato inquinato da depistaggi, connivenze e paura di parlare (e non per opera di autorità egiziane, ma delle nostre, quelle di un paese democratico!). Un film però può dare consistenza di immagini e di racconto a un’altra ricostruzione dell’omicidio, altamente plausibile, certamente più plausibile di quella ufficiale, ormai smentita da tanti fatti, indizi e testimonianze che sono venuti a galla negli ultimi anni. La macchinazione riesce a farlo bene, perché è molto accurato nella ricostruzione delle circostanze, ed è soprattutto un film riuscito.
Poiché è stato detto da qualche recensore che il film di Grieco è un’interpretazione fantasiosa dell’omicidio di Pasolini, elenco qui innanzitutto ciò che il film ci mostra di ormai accertato, in contrasto con la versione ufficiale (quella sì davvero fantasiosa!). E dirò man mano anche qualcosa sulla felice sceneggiatura, sulle soluzioni filmiche adottate, sulla forza di alcune immagini.
Prima fra tutte quella che chiude il film: una schiera di carri armati-trivelle, dotati di potenti fari, che spuntano all’orizzonte nella notte, e avanzano lentamente verso il corpo martoriato e ormai senza vita di Pasolini, ripreso in primo piano, nel buio. Un recensore lo ha considerato un espediente filmico da quattro soldi, a me è parso molto efficace – tra l’altro a pochi mesi da un referendum che chiede di fermare l’arrivo di altre trivelle.
Dunque, primo dato. Il film ci mostra che Pasolini e Pelosi già si conoscevano da qualche mese, avevano una specie di relazione, una frequentazione abituale. Invece, la versione ufficiale sostiene che Pasolini quella notte rimorchiò uno sconosciuto alla stazione Termini.
Secondo dato. Il film ci mostra che Pasolini, la notte in cui è stato ucciso, doveva incontrare dei ricattatori. Che si era recato all’appuntamento con qualche milione di lire sotto il tappetino della sua auto, da consegnare ai ladri, in cambio della restituzione di alcune pellicole di Salò, a cui stava allora lavorando, e già in fase di montaggio. Le bobine erano state rubate dagli stabilimenti romani della Technicolor. Questo dato, accertato, e che immediatamente fa pensare a un agguato – Pasolini attirato in una trappola con la scusa della restituzione dei negativi – non viene menzionato nella versione ufficiale, secondo la quale Pasolini quella notte andava in cerca di ragazzi per incontri sessuali mercenari.
Terzo dato - ed è questo a mio parere il maggior pregio del film sul piano documentario - Grieco mette bene in evidenza il rapporto tra l’omicidio e ciò che Pasolini scriveva in quegli anni, in particolare nel romanzo Petrolio, rimasto incompiuto.
Pasolini è stato ucciso mentre stava scrivendo qualcosa che la morte ha interrotto. Se avessero ucciso un giornalista oppure un magistrato che stava conducendo un’inchiesta, sarebbe venuto a chiunque lo scrupolo di controllare se in ciò che stava preparando, e che gli è stato impedito di portare a termine, non ci fosse per caso qualcosa che desse fastidio a qualcuno di molto potente. Invece questo scrupolo non è venuto agli inquirenti all’epoca dei primi processi. Non solo, non è venuto nemmeno ai tanti critici e letterati che negli anni hanno studiato quel libro, e che anzi spesso e volentieri lo hanno interpretato come un “documento” della “patologia” sessuale del suo autore. Il primo ad avere avuto questo scrupolo non è stato né uno dei filologi che hanno editato le carte di Pasolini, né un critico letterario, né un giornalista. E’ stato un magistrato, il sostituto procuratore pavese Vincenzo Calia, mentre stava indagando sull’omicidio di Mattei.
Nella sua richiesta di archiviazione, del 2003, contenente una documentazione importantissima quanto meno per la verità storica, Calia inserisce una pagina di Petrolio. Del resto il titolo stesso non può non richiamare l’attenzione di chi sta indagando sull’omicidio del presidente dell’Eni. Calia si accorge che in quel romanzo Pasolini era già arrivato, molti anni prima di lui, alle sue stesse conclusioni, additando in Eugenio Cefis (successore di Mattei alla presidenza dell’Eni, poi presidente della Montedison, nonché fondatore della P2, secondo un’informativa del Sismi) uno dei possibili mandanti dell’omicidio di Mattei.
Cefis è in effetti un personaggio-chiave del romanzo, che Pasolini prende a rappresentante del nuovo potere criminale-mafioso-finanziario che si stava affermando in Italia, e che reggeva le fila di stragi e omicidi, oltre che di immensi affari. Di Cefis Pasolini parla più volte anche nei suoi ultimi scritti corsari e giornalistici - in altre parole lo prende di mira. In Petrolio inserisce addirittura tre suoi discorsi, che tiene nella cartella assieme alle informative che i Sevizi segreti mandavano ogni mattina a Cefis, i cosiddetti “mattinali”, pubblicati da “l’Espresso” il 4 e l’11 agosto 1974.
Tra le carte di Petrolio c’erano anche le fotocopie di uno strano libro, subito ritirato dalla circolazione e all’epoca introvabile, intitolato Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente(oggi ripubblicato da Effigie). Questo libro, scritto probabilmente da un nemico di Cefis che si nascondeva dietro lo pseudonimo di Giorgio Steimez, rivelava le “malefatte” del successore di Mattei, ne svelava l’immenso impero economico privato accumulato con fondi pubblici, con indicati con precisione i nomi delle aziende e i relativi prestanomi, e accennava infine anche alla sua responsabilità nell’omicidio di Mattei. Pasolini riversa tutti questi materiali nel romanzo. Non solo, ma scrive anche (o progetta di scrivere) un capitolo intitolato “Lampi sull’Eni” di cui nell’edizione postuma di Petrolio resta solo il titolo e una pagina bianca, in cui si sarebeb dovto parlare dell’ambiguo passato partigiano di Cefis.
Tutte queste relazioni tra l’opera di Pasolini e il suo omicidio, che il film ha il merito di riportare in primo piano, sono state occultate per tanto tempo: non solo tenute fuori dalle indagini di polizia e magistratura, ma persino da quelle dei critici e dei filologi che si sono occupati delle edizioni e dell’interpretazione di Petrolio.
Sì, occultate, è il verbo giusto. Innanzitutto Petrolio è stato tenuto nascosto per ben diciassette anni dopo la morte di Pasolini, tanti ce ne sono voluti perché gli eredi si decidessero a darlo alle stampe nel 1992, quando ormai le indagini e i processi si erano chiusi da tempo.
Ma c’è di più. Nell’edizione postuma, uscita nel 1992 a cura dell’erede Graziella Chiarcossi e di Maria Careri, con la supervisione del filologo Aurelio Roncaglia, i discorsi di Cefis non sono stati inseriti. E così anche nelle edizioni successive. Eppure Pasolini aveva indicato chiaramente negli appunti di Petrolio che quei discorsi, che stavano lì, tra le sue carte, accessibilissimi ai curatori, erano parte integrante del romanzo. Aveva persino indicato il punto esatto in cui intendeva inserirli, cioè tra la prima e la seconda parte, a dividere in due il libro «in modo perfettamente simmetrico ed esplicito».
Se a questo si aggiunge l’assenza del capitolo “Lampi sull’Eni”, di cui resta solo il titolo e una pagina bianca (non sappiamo però con certezza se sia stato sottratto o se Pasolini non abbia fatto in tempo a scriverlo, avendolo però progettato), la lacuna nell’edizione di Petrolio diventa ancor più significativa. Quando il romanzo fu finalmente pubblicato, diciassette anni dopo la morte di Pasolini, tra le tante recensioni negative che il libro ebbe, spesso puntate sul solo aspetto “erotico”, ve ne fu anche una che parlò “di un immenso repertorio di sconcezze d’autore, di un’ enciclopedia di episodi ero-porno-sadomaso, di una galleria di situazioni omo ed eterosessuali, come soltanto dall’autore di Salò ci si può aspettare” (Nello Ajello). E’ chiaro che se Petrolio fosse uscito con i discorsi di Eugenio Cefis al centro del romanzo, in modo “perfettamente simmetrico e esplicito”, come voleva Pasolini, una simile chiave di lettura, fuorviante e occultante, sarebbe stata molto più ardua da sostenere.
La macchinazione riporta in primo piano proprio questi contenuti del romanzo, per tanto tempo occultati da inquirenti, eredi, filologi e critici. Riporta in primo piano le accuse che Pasolini muoveva a Cefis riguardo alle sue responsabilità nell’omicidio di Mattei, nelle stragi e nella creazione di un potere politico criminale mafioso all’ombra delle multinazionali – cose che Pasolini intendeva far esplodere nell’opinione pubblica, con la forza della sua notorietà e della sua autorevolezza. Grieco usa a questo scopo un felice espediente di finzione. Fa incontrare Pasolini con Giorgio Steimez, li fa dialogare in tre incontri successivi, che in realtà non sono mai avvenuti (per lo meno non ci sono prove). È questa la “fantasia” che il regista si è concesso, una felice finzione che permette al film di portare in scena in modo efficace e senza pesantezze ciò che Pasolini apprende da quel libro su Cefis, nonché il quadro dell’Italia del tempo. I due attori, Roberto Citran (Steimez) e Massimo Ranieri (Pasolini) danno qui il meglio della loro interpretazione.
Quarto dato. La versione ufficiale, così piena di contraddizioni, era una messinscena pensata a tavolino in tutti i suoi dettagli, come in un copione. E proprio un copione diventa nel film. Pelosi viene scritturato da un improbabile regista per recitare in un finto film in cui gli è riservata la parte di un ragazzo che uccide un omosessuale che cerca di violentarlo. Si vede Pelosi intento a studiare la parte… che sarà quella che dovrà poi recitare davanti alla polizia al momento dell’arresto. Anche questa è fantasia. Ma è una finzione efficace che riesce a rendere concreta e cinematograficamente fruibile una verità: il fatto cioè che la versione ufficiale dell’omicidio di Pasolini sia stata costruita come un copione. Non era che una sceneggiata, quella a cui si è creduto per tanti anni! Nel film Pelosi fa leggere il copione a Pasolini che intuisce ciò che gli stanno preparando.
Quinto dato. Esecutori e mandanti. Questo è stato mi pare il punto più criticato del film, il fatto cioè che il regista metta in campo troppi personaggi, i cui rapporti sono di difficile comprensione per lo spettatore. In effetti sono molti i personaggi. Ma tanti sono quelli che effettivamente hanno preso parte, a diversi livelli, all’agguato e all’omicidio, come risulta da diverse inchieste e testimonianze. Ormai è certo che sul luogo del delitto ci fossero almeno altre cinque persone oltre a Pelosi e Pasolini, e che tra queste ci fossero sicuramente i fratelli Borsellino (i due che nel film si spostano con la moto), Antonio Pinna (è l’uomo che viene indotto a passare con l’auto, simile a quella di Pasolini, sopra la vittima ancora agonizzante), e Sergio Placidi (lo spacciatore di cocaina). Lo schema seguito per l’agguato, il pestaggio e l’omicidio risulta comunque abbastanza chiaro nel film. Nel delitto hanno in effetti operato tre livelli: quello dei ragazzi di borgata, tra cui lo stesso Pelosi, piccoli criminali, ladri, ma ignari fino all’ultimo di ciò che stanno preparando ai danni di Pasolini. Poi il livello dei criminali veri, che si stanno organizzando in quella che sarà poi conosciuta come la Banda della Magliana. E infine il livello più alto, quello dei mandanti, che si può solo inferire, perché le prove ancora mancano, e a cui il film giustamente non dà un volto preciso (basta l’allusione a un imprecisato onorevole a colloquio con uno dei criminali a far intuire lo schema a tre livelli).
Sesto dato. Perché Pelosi si fa complice della sceneggiata, e addirittura si autoaccusa? L’avvocato di Pelosi è Rocco Mangia, legato alla P2, messo lì per difendere il ragazzo, in realtà per fargli dire quello che deve dire, senza contraddirsi, senza dire di più di quello che gli è stato ordinato, e anche per minacciarlo quando occorre. Nel film vediamo l’avvocato dire a Pelosi di aver preso “sotto custodia” la sua famiglia. Del resto versa al padre delle somme di denaro. Paga il suo silenzio e il suo “disonore” di vedere il proprio figlio su tutti i giornali, non solo omicida ma anche marchettaro che va con un frocio (questo è ciò che più lo disturba).
E a proposito di disonore, come mai coloro che hanno parlato e ricamato per anni sulla “bella morte di Pasolini”, sulla sua “morte sacrificale”, sulla “bella morte omosessuale” non si sono mai resi conto che si trattava anche di una morte infamante? Quella sceneggiata riservava a Pasolini oltre che una morte atroce fatta di calci, percosse, corpi contundenti, e di una lenta agonia durata parecchi minuti (la scena finale della Macchinazione ce la racconta come non è mai stata raccontata in nessun altro film, nemmeno in quello di Abel Ferrara, che si ferma proprio a quel punto, nel momento in cui Pasolini è fatto scendere dall’auto e va incontro agli assassini), ma anche una morte disonorevole: Pasolini doveva morire mentre tentava di violentare un minorenne, ucciso da quest’ultimo per legittima difesa. La delegittimazione di Pasolini come personaggio pubblico, già tentata in vari modi quando era in vita (processi a non finire, persino uno per tentata rapina a un distributore) prosegue anche nell’omicidio, nel tipo di allestimento che hanno scelto per farlo morire “da frocio”.







pubblicato da c.benedetti nella rubrica cinema il 29 marzo 2016  http://www.ilprimoamore.com