28 febbraio 2017

G. NUSCIS, USCIRE DALLA GABBIA



Non una rivoluzione d’ottobre, servirebbe, ma la semplice, coerente applicazione della Costituzione repubblicana, con riferimento ai suoi “Principi fondamentali” (artt. 1 – 12).
Come uscire dall’attuale quadro politico ed economico paventato in questa intervista, e nelle cronache quotidiane? https://it.businessinsider.com/gli-italiani-stanno-investendo-soldi-fuori-dalla-penisola-per-paura-che-leuro-si-spacchi/
E’ davvero impossibile rompere con le scelte fatte fino ad oggi, tentando strade nuove, come questa? 
  1. Creare, partendo dai territori, un’autonomia economica (soprattutto alimentare ed energetica) valorizzando le risorse esistenti e limitando quanto più possibile le importazioni;
  2. garantire un lavoro (lavoro garantito) a tutti i disoccupati residenti da almeno 5 anni nel territorio nazionale (da retribuirsi con l’equivalente della soglia di povertà relativa di 780 euro netti mensili), attraverso una drastica e coraggiosa distribuzione delle risorse pubbliche e una tassazione con aliquota progressiva; prevedendo il ritorno alla gestione pubblica delle banche di risparmio, e di acqua, energia e trasporti; l’utilizzo collettivo di imprese fallite o in crisi create con contributi pubblici; l’esecuzione diretta di opere pubbliche non complesse da parte dei disoccupati, adeguatamente formati e coordinati;
  3. creare un nuovo sistema di sicurezza che garantisca a tutti una capacità minima di spesa – in quanto persone: che esistono, che lavorano o che non possono lavorare, che hanno lavorato a lungo e raggiunto una giusta anzianità – eliminando ogni privilegio e contributo lobbistico, contenendo l’eccessivo divario economico costituito da stipendi, pensioni e rendite spropositate;
  4. solo dopo una trasformazione sociale ed economica nei termini anzidetti, mettere le istituzioni europee in mora, affiché entro un dato termine le regole e le decisioni siano poste in essere *esclusivamente* da organismi democraticamente eletti dai cittadini (Parlamento europeo); col diritto, decorso inutilmente tale termine, di uscire dall’Unione europea. Non si può continuare a vivere schiavizzati dai potentati economici che si nascondono dietro le istituzioni europee e la magmatica normativa suggerita dagli studi legali dei potentati finanziari e lobbistici.
Nessuno può impedirci di migliorare la nostra Costituzione. Ma intanto che c’è, non è forse giusto che chi non la osserva ed applica, a dispregio dei giuramenti di fedeltà e del ruolo di rappresentanza istituzionale ricoperto, sia finalmente chiamato a risponderne?
GN

Testo tratto da https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2017/03/01/la-gabbia/

L'ORRORE DELLA VECCHIEZZA



Simone de Beauvoir e i suoi critici
Rossana Rossanda
 
L’indegna vecchia signora è Simone de Beauvoir. Come in Francia, l’Italia puntualmente si duole che non ci abbia lasciato l’immagine d’un Sartre morente che le fosse apparso come Goethe agli occhi, un po’ offuscati, di Eckermann: il corpo d’un giovane iddio. Se ne duole anche Enrico Filippini, su “Repubblica” di domenica, anche se dice che non va bene; ma termina anche lui con lo stesso giudizio — per non parlare dell’elegante titolo («E poi tutto fu Nausea», gioco di parole pseudo-sartriano: ma, dei titoli, non sarà responsabile lui). Del resto, “il manifesto” ha fatto lo stesso. Non voglio tornare sulla Cerimonia degli addii, l’ho fatto su “Orsaminore”: ma chi, specie se uomo, legge “Orsaminore”? Una rivista di donne non si legge per definizione, neanche da parte di Enrico Filippini, che — non dubito, ci avrebbe almeno messo fra parentesi (salvo “Orsaminore”). Voglio solo chiedermi quale paura, dunque, abbiamo della malattia e del corpo che si deteriora, e non sempre per l’avvicinarsi della morte, da non poter attribuire che a una singolare durezza di cuore il parlarne? O siamo ancora così vittoriani da trovare «indecente» che si pani di mancanze, gambe tremanti, memorie cadute, barcollamenti e, dio non voglia, urine? O così inconsapevolmente ipocriti da non volere che il «grande», cioè quello che «si vede» — perché i piccoli restano invisibili sempre, giovani o vecchi che siano — resti fino all’ultimo decorosamente esente dagli oltraggi che ci infligge il ciclo della vita, in modo da non turbare l’immagine della nostra fine attraverso la descrizione della sua?
Si parla e riparla d’un nuovo rapporto, laico, ravvicinato, con il corpo, ma di esso accettiamo solo il profilo giovanilistico: di Sartre non si sarebbe mai potuto dire «hollywoodiano», ma ci viene sempre ricordato che la sua bruttezza era riscattata dall’intelligenza. Ma perché riscattata? E come mai corpo non sono anche le malattie del corpo, concepite tuttavia come «decadimento» rispetto alla nostra tuttora prassitelica idea dell’umana forma? Perché, se malato, va nascosto come una vergogna? Perché la testimonianza d’un impari dibattersi con il male non può essere attribuita a un tragico rapporto finale di tenerezza e dolore, ma solo a perversità o vendetta? O voyeurismo, appena non si somigli ai bronzi di Riace?
La verità è che per noi, così moderni, anzi postmoderni, il corpo resta vergognoso e segreto, per fortuna coperto dal guscio della pelle e da quello degli abiti, esponibile solo al suo meglio, perdonabile nella sua nudità solo se soggetto o oggetto di erotismo. Per il resto, da tener ben celato. Luogo della debolezza, della paura, dell’io indifeso.
Per questo, pavidi come siamo, la vecchiezza ci fa orrore; fa orrore anche alle femministe, che pur dicono di avere una diversa sensibilità, non astratta e crudele, ma ravvicinata e diretta col corpo, che sarebbe propria delle donne, come figlie più prossime della natura.
Ma la natura crea le forme della vita e regolarmente le distrugge; vita e morte, giovinezza e vecchiaia sono assolutamente e ugualmente naturali. Anche la malattia lo è. E non sempre siamo così fortunati da esser colpiti dalla freccia di Apollo o di Artemide, in modo da lasciare ai posteri, o solo ai nostri cari, l’ultimo colpo d’occhio su di noi assolutamente integri; solo, ma è una breve parentesi prima dei funerali, non vivi.
Davvero, per essere paesi che invecchiano per il decrescere della natalità e l’allungarsi della «speranza di vita», vi arriviamo con una cultura che al «vecchio» non può che far paura. Anzi, perché non consigliargli di coprirsi il volto, o la persona, con un velo, come il peccatore di Hawthorne — deperire è «peccato» —, stabilire che i municipi decentrino gli ospedali fuori vista come i cimiteri, e istituire per gli intellettuali un’unica censura, che ci protegga tutti dall’offesa alla morale, ai sentimenti e al comune senso del pudore, quando osassero parlare del disfarsi d’una «forma». Sia punito, e non solo dai recensori, chi ce lo ricorda come destino umano e quasi sempre ineluttabile.

"il manifesto", ritaglio senza data ma 1981

F. PESSOA, Il segreto del cercare



Il segreto del Cercare è che non si trova.
Eterni mondi, infinitamente,
gli uni negli altri; senza fine decorrono
inutili. Noi, Dei, Dei di Dei;
in essi intercalati e perduti
neppure noi stessi nell'infinito troviamo.
Tutto è sempre diverso, e sempre avanti
agli uomini e agli Dei va l'incerta luce
della verità suprema.


Fernando Pessoa, Faust (Ultimo atto)

LE RADICI DELLA CRISI

 
 *
Torna lo spettro di Weimar: la crisi prolungata genera il populismo e i miti dell'uomo forte e della nazione minacciata. Contro il sovranismo è ancora utile l'opera di George L. Mosse.
Benedetta Tobagi
Queste nostre democrazie fragili
Trump cavalca il risentimento di una middle class convinta di poter tornare a passati splendori a suon di protezionismo e discriminazione. Marine Le Pen incendia le folle ben oltre i confini francesi rilanciando parole d’ordine come «padroni a casa nostra» e un mitico «risveglio dei popoli». In Italia la destra cerca di ricompattarsi sotto l’ombrello “sovranista” (il neologismo per chi vuole smontare l’euro e l’Ue in nome del feticcio della sovranità nazionale). Lo scorso sabato, i fantasmi del luglio ’60 hanno scosso Genova in occasione del convegno “Per l’Europa delle patrie”, organizzato da Forza Nuova, ospiti d’onore alcuni leader dell’estrema destra europea neonazista e negazionista.

In L’umanità in tempi bui Hannah Arendt raccomandava di farsi «pescatori di perle», le perle di pensiero di chi ha penetrato con sguardo acuto i tempi oscuri. Di fronte ai rigurgiti del peggior Novecento, mentre gli intellettuali statunitensi si rimettono umilmente a studiare i prodromi del fascismo italiano, a noi può tornare utile rileggere uno dei più grandi e influenti storici del Novecento, George L. Mosse.
 
 

Nato nel 1918 e morto nel ’99, ebreo tedesco (rampollo di un’illustre famiglia di editori, sfuggì al nazismo riparando negli Usa) e omosessuale (fece coming out negli anni Ottanta) fu un outisder da ogni punto di vista: caratteristica che contribuì non poco a formare il suo sguardo libero, originale e provocatorio. Con La nazionalizzazione delle masse (1975) impresse alla storiografia la “svolta culturale” che rivoluzionò gli studi sui fascismi e le masse in politica nel XX secolo. Il suo vasto programma di ricerca, pervaso da un forte afflato etico, ruotò in gran parte attorno a un problema ancora attualissimo: la debolezza delle democrazie parlamentari nei momenti di crisi.

Il tema percorre sia La nazionalizzazione che un’altra grande opera, L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste (1980), in particolare la sezione in cui tenta di tracciare una teoria generale del fascismo. Una sintesi del suo pensiero emerge nella lunga Intervista su Aldo Moro, una disamina della crisi della democrazia italiana nel quadro internazionale (riproposta da Rubbettino nel 2015). Correva l’anno 1979, ma le riflessioni di Mosse intorno allo statista Dc assassinato, rilette oggi, offrono una griglia d’analisi pertinente ai problemi che ci assediano. A tratti, sono quasi profetiche.

Premessa: la libertà, politica ed economica, non può sopravvivere senza le strutture del sistema parlamentare, ma la storia ha mostrato che il “meno peggio” tra i sistemi politici è molto fragile, quando si trova sotto pressione. Non serve una guerra mondiale: basta una crisi economica seria e prolungata. Anche se il fascismo non si ripresenterà mai nelle stesse forme degli anni Trenta, i germi di crisi e dissoluzione del sistema permangono.

Il deficit originario che affligge la democrazia parlamentare, spiega Mosse, è l’inefficacia dei suoi meccanismi di partecipazione, limitati essenzialmente al momento del voto, come già avvertiva Rousseau. Questi si sono ancor più ristretti con la crisi dei grandi partiti, tradizionali strumenti di integrazione delle masse. Finché la maggior parte delle persone riesce a vivere dignitosamente, il sistema va avanti per inerzia; quando la scarsità incombe, le tensioni riemergono.

La democrazia parlamentare vive di mediazioni basate sulle facoltà critiche e razionali, ma la cittadinanza, continua Mosse, smette con facilità di avvertirne i benefici quando la qualità della vita peggiora, la classe di governo colleziona fallimenti ed episodi di corruzione, la burocrazia è opprimente, manca una prospettiva per il futuro. In questi frangenti, il “leader forte” che risolve, in cui identificarsi, appare rassicurante, anziché una minaccia: non a caso, secondo recenti sondaggi, in Italia lo auspicano 8 cittadini su 10.

Mosse evidenzia un paradosso ancora attualissimo: per essere statisti di successo nei sistemi parlamentari contemporanei bisogna diventare in certa misura “leader carismatici”, capaci di muovere le passioni più che appellarsi alla ragione — anche se è quest’ultima a essere essenziale in una democrazia sana. L’irrazionale ha una presa molto maggiore su una popolazione alienata, quando il mondo appare pericoloso e incomprensibile.

Per questo oggi il mito della nazione, cioè la più potente idea-guida del XIX e XX secolo, capace di creare coesione, mobilitare passioni e superare le divisioni di classe, profondamente radicata nella cultura occidentale, s’è ridestata con vigore. Ripiegare nella comunità nazionale offre l’allucinazione consolatoria del ritorno a un passato mitizzato, a misura d’uomo, contro un mondo dominato dal potere misterioso del denaro.
La frustrazione, infatti, è incanalata contro “le banche” e “l’Europa”, incarnazioni delle grandi forze spersonalizzanti del capitalismo finanziario, arcinemico individuato già più di un secolo fa (e sopravvissuto allo spettro gemello del marxismo). Il bisogno di rassicurazione è tutt’uno con quello di avere la sensazione di partecipare, di contare qualcosa, anziché essere condannati all’impotenza e all’irrilevanza.

È una delle chiavi del boom del Movimento 5 stelle, unico soggetto parzialmente alternativo alle destre: al rassicurante carisma del capo e a originali riedizioni dei grandi raduni ritualizzati unisce la retorica dell’“uno vale uno” e un ventaglio di strumenti, dai meet up alle consultazioni online, che soddisfano il bisogno di partecipazione, sebbene in modo più apparente che sostanziale. Anche perché molte persone non hanno gli strumenti intellettuali per comprendere la differenza, e questo ci porta all’ultima considerazione. Anche se non mancano della capacità di leggere una realtà sempre più complicata, le persone hanno comunque bisogno di «cogliere la vita nel suo complesso e a capire da sé», scrive Mosse (ne L’uomo e le masse). Per questo, le teorie del complotto e i “falsi” costruiti per compiacere credenze diffuse hanno tanta presa.

Ossessionato dall’interrogativo di Machiavelli, «come può l’uomo virtuoso sopravvivere in un mondo malvagio?», Mosse incitava a non rassegnarsi a un presunto declino della democrazia. Accanto a misure politiche adeguate, le forze progressiste devono elaborare strumenti per soddisfare il bisogno di partecipazione. Un buon suggerimento viene da Barack Obama: nel discorso d’addio ha rievocato il “community organizing” con cui si fece le ossa a Chicago, una tecnica di empowerment della cittadinanza assai efficace, poco nota in Italia (per saperne di più communityorganizing. it).

L’importante è non restare inerti. Mosse e tante altre guide possono aiutarci a ragionare sul passato, che è uno strumento vivo a nostra disposizione, non un presagio di condanna.

La Repubblica – 14 febbraio 2017
*Le illustrazioni sono tutte di George Grosz

27 febbraio 2017

G. RITSOS, Il vento marino e la rugiada dell'alba



Parlavi di cose che non vedevano
e loro ridevano.
Ma tu rema sul fiume oscuro
controcorrente;
va’ per la via sconosciuta
alla cieca, ostinato,
e cerca parole radicate
come il nodoso ulivo –
lascia che ridano.
Desidera che dimori l’altro mondo
nella soffocante solitudine odierna
in questo presente smemorato –
lasciali pure.
Il vento marino e la rugiada dell’alba
esistono senza che alcuno li cerchi.

Ghiorgios Seferis

M. GIAQUINTA, C' è qualcosa che non torna

Opera di Mario Sironi

C'è qualcosa che non torna
stanotte, che non torna
non torna indietro,
non torna a posto,
non torna all'inizio,
non torna da dove
si è mosso,
non torna al punto
del suo a capo,
nonostante la chiarità
della luce e dell'aria
(rosa scemo il cielo
si vergogna del gozzo
disperato d'un gabbiano)
nonostante la mischia
della gente che vocìa
e la festa ubriaca di noia,
nonostante il suono
insolente delle auto
nonostante i coriandoli
e le madri nervose
e mo' ti porto da tu' nonna
così la smetti di frignare.
"E ride e par che capisca"
le cita fingendo interesse
alla conversazione
e invece la vuole
e cammina storto
per essere pronto
all' abbraccio
mentre lei ha il passo lungo
e tanta voglia di casa.
Le coperte si muovono
per terra col freddo
anche se la sera
(quella sì che capisce)
non vuole infuriare
s'è chinata sulle cose
piano e non le ha offese.
Una vetrina ordina
con una scrittura infantile
"mettimi giù" mentre
in fondo alla bottega
un cuore sta all'angolo
di un ring verde prato
come un pugile.
Luci basse fiammellano
tra i tavoli pieni
di vino e forchette
dentro la fila diffusa
di localucci stretti di gente.
Una birra scura
ingollata per strada
spartita in due dentro
parole rollate tra la lingua
come sigarette.
Cupole gravide ed elettriche
catarifrangenti
e affarate di luce
traspaiono ondulate
dai rami che tramano
e trapungono i palazzi
dell'inverno cieco
di questa città eterna.

Qualcosa non torna
stanotte, non torna
qualcosa di te.


Marilina Giaquinta

J. SARAMAGO RICORDA LE GRIDA DI GIORDANO BRUNO


Le grida di Giordano Bruno

In fin dei conti, non c’è grande differenza tra un dizionario biografico e un normale cimitero. Le tre righe secche e indifferenti con cui nella maggior parte dei casi i dizionaristi riassumono una vita sono l’equivalente della semplice sepoltura che accoglie i resti di coloro che (mi si perdoni il facile gioco) non lasciano resti. La pagina piena, con autografo e fotografia, è il mausoleo di bella pietra, porte di ferro e corona di bronzo, più il pellegrinaggio annuale. Ma il visitatore farà bene a non lasciarsi confondere dalle facciate d’architetto, dalle sculture e dalle croci, dalle prefiche di marmo, da tutto lo scenario che la morte pomposa ha sempre apprezzato. Così come dovrà fare attenzione, se si trova in campo aperto, senza riferimenti, a dove mette i piedi perché non gli accada di trovarsi sotto le scarpe il più grande uomo del mondo.
Non starà tuttavia calpestando la tomba di Giordano Bruno, perché questi fu bruciato a Roma, arse atrocemente come arde il corpo umano, e di lui, che io sappia, neppure le ceneri furono conservate. Ma allo stesso Giordano, affinché ogni cosa stia nel posto che le compete e giustizia infine sia fatta, furono riservate quattro righe in questo dizionario biografico. In cosi poco spazio, in cosi poche lettere, tra la data di nascita (1548) e la data di morte (1600), limiti di un universo personale che visse nel mondo, ben poco si dice: italiano, filosofo, panteista, domenicano, abbandonò l’ordine, si rifiutò di rinunciare alle proprie idee, fu bruciato vivo. Nient’altro. Nasce e vive un uomo, lotta e muore, così, per questo. Quattro righe, riposa in pace, pace alla tua anima se in lei credevi. E noi facciamo un’eccellente figura tra amici, in società, in riunione, a un tavolo di ristorante, nelle discussioni profonde, se lasciamo cadere al momento opportuno, in modo spigliato e competente, la mezza dozzina di parole di cui abbiamo fatto una specie di grimaldello o di chiave falsa che crediamo possa aprire una vita e una coscienza.
Ma, per nostra costernazione, se siamo in un momento di rara lucidità, le grida di Giordano Bruno erompono come un’esplosione che ci strappa di mano il bicchiere di whisky e ci spegne sulle labbra il sorriso intellettuale che abbiamo scelto per parlare di certi casi. Si, questa è la verità, la scomoda verità che viene a sconvolgere il pacato intento del dialogo: Giordano Bruno gridò quando fu bruciato. Il dizionario dice soltanto che fu bruciato, non dice che gridò. E allora, che dizionario è mai questo che non informa ? A che mi serve una biografia di Giordano Bruno che non parla delle grida che egli lanciò, li, a Roma, in una piazza o in un cortile, circondato dalla folla, chi attizzava il fuoco, chi assisteva, chi redigeva serenamente l’atto dell’esecuzione?
Troppo spesso dimentichiamo che gli uomini sono di car ne che facilmente soffre. Fin dall’infanzia gli educatori ci parlano di martiri, ci danno esempi di civismo e di morale a loro spese, ma non dicono quanto furono dolorosi il martirio, la tortura. Tutto rimane astratto, filtrato, come se guarda, seguiamo la scena, a Roma, attraverso spesse pareti di vetro che soffocassero i suoni, e le immagini perdessero la violenza del gesto per opera, grazia e virtù della rifrazione. E allora possiamo dire, tranquillamente, gli uni agli altri che Giordano Bruno fu bruciato. Se gridò, non lo abbiamo udito. E se non l’abbiamo udito, dov’è il dolore?
Ma gridò, amici miei. E continua a gridare.

José Saramago, Di questo mondo e di altri, Einaudi, 2007

GIORDANO BRUNO VISTO DA MASSIMO CACCIARI


Riparliamo di Giordano Bruno proponendo un bell'articolo di Massimo Cacciari. Il 17 febbraio 1600 il filosofo fu arso a Roma mentre in Europa infuriavano le guerre civili. Per Cacciari Bruno è la vittima di un declino politico e morale che somiglia al tempo di oggi.


Massimo Cacciari

Giordano Bruno, Il rogo in cui iniziò il tramonto dell'Europa
Quando Giordano Bruno è condotto al rogo e getta in faccia ai suoi carnefici le parole: «forse avete più paura voi nell’infliggermi questa condanna, che io nel subirla», e Tommaso Campanella, torturato crudelmente a Castel Nuovo, simula la pazzia per salvarsi la vita, l’Europa è nel vortice di quelle guerre civili e tra Stati, guerre “totali”, politiche e religiose, economiche e ideali, che solo dopo mezzo secolo troveranno una “pace”, gravida di tutti i futuri e ancor più tremendi conflitti.
Queste lotte segnavano per Bruno la decadenza d’Europa, il suo declino politico e morale. In lui e in Campanella soffia lo spirito dei grandi riformatori. Per entrambi è vuota qualsiasi filosofia che non liberi l’uomo alla ricerca della propria felicità. Qualsiasi atto è lecito per perseguirla, poiché la nostra natura la esige come proprio fine. Ma per conquistarla è necessario sconfiggere, e in noi stessi anzitutto, i dèmoni della superstizione, della paura, dell’invidia, dell’egoismo, dell’ingiustizia.
Occorre dar loro lo spaccio, preparando l’attesa di nuovi eroi fondatori, novelli Perseo, liberatori di Andromeda- Europa prigioniera dei mostri. Vengono Bruno e Campanella dall’esperienza diretta delle sciagurate condizioni dei popoli del Mezzogiorno, scorre nelle loro vene l’antico sangue dei nomoteti pitagorici di Magna Grecia, e anche quello della profezia medievale dell’abate di San Giovanni in Fiore.

Tale era anche il significato autentico della tradizione civile, repubblicana del nostro Umanesimo. Non resuscitare l’Antico, ma suscitare i moderni ad esserne all’altezza, a emularne la virtù, cioè la potenza della mente e delle arti, la loro potenza costruttiva. E come attingere a questa altezza senza furore? Nulla di vagamente “estatico” nel termine, nulla di immaginosamente “romantico” o irrazionale. Una grande riforma politica e religiosa, tale da coinvolgere in sé tutte le dimensioni della vita, neppure sarebbe concepibile senza che ad essa tendessero tutte le nostre facoltà, tutta la mente e tutto il cuore, e il corpo stesso.
Sì, questo corpo, le sue mani, strumento divino, i suoi nervi, sono infinitamente più che res extensa. Materia non è inopia, non è egestas, ma “cosa divina,e ottima parente”. Tutto è animato; non un atomo di materia è “inorganico”. Vibra in questo genus italicum del pensiero europeo l’idea di physis, Natura naturans, fonte inesauribile, delle prime filosofie, di Democrito, di Empedocle, ma anche della Venus lucreziana.
Per Bruno, la Natura è infinita esplicazione attraverso infiniti effetti dell’Infinita Causa. Effetti finiti, certo, res singulares, finite vestigia o ombre di quella Causa, ma formanti un Tutto infinito. La Causa è ad essi immanente. L’”ottuso senso” coglie soltanto enti divisi, separati gli uni dagli altri, o connessioni parziali. Ma la mente, che mi dota “le spalle di ali”, riconosce la Armonia di anima e materia, e riconoscendo l’Infinità della Causa sa pure infinita la finitezza delle sue esplicazioni.
Infinitas finita. È questa la stessa infinità della nostra intelligenza, che tutto indaga, che di ogni ente finito vuole scoprire l’essenza, eppure “mai s’appaga”. Nella Causa o in Dio essere e potere coincidono in atto. E tuttavia anche per noi la coincidenza vale, anche noi siamo per ciò che possiamo; la perfezione del nostro essere si commisura alla sua potenza.
Quanto più comprendiamo l’armonia tra Infinita Causa e infinità dei suoi effetti, tanto più la nostra mente si rivelerà perfetta esplicazione della stessa Causa. E se questo è il fine che la sua natura le impone, se in sé e in tutta la Natura nulla vede che possa essere costretto in rigidi, predeterminati confini, nessuna Legge che possa prevedere le forme in cui potrebbe esplicarsi l’Infinita Causa, allora l’intero cosmo le apparirà immagine di libertà.
Con le ali della mente ogni “fittizio carcere” viene trasgredito. «Non sono fini, termini, margini, muraglie che ne defrodino e suttragano la infinita copia de le cose». Come inchiodare l’intelligenza a singole apparenze? Come murarla, se essa è vestigio, orma, ombra dell’Infinito? Prima o poi è inevitabile si risvegli. Ma non v’è nel discorso del Nolano alcuna retorica dell’”oltrepassamento”, del “sempre oltre”.
La fecondità della Natura, cui la mente partecipa in quanto ne costituisce la parte osservante- interpretante, non si risolve in un mero “gettar fuori” membra disperse, quasi relitti di una risacca. La Natura crea e armonizza, creando connette e compone; i suoi elementi, pur restando sempre distinti, senza confondersi mai, dialogano gli uni con gli altri, anche a infinita distanza, si “ricordano” l’uno dell’altro anche dopo tempi infiniti. Un divino colloquio appare, in fondo, la stessa Causa. È di questo colloquio che la filosofia è chiamata a farsi immagine.
Il filosofo studia l’amicizia tra gli essenti, le forme della loro connessione. È magia buona, che “sposa” gli elementi. La guerra che ci separa fino a negarci non è allora soltanto un regresso allo stato dell’uomo lupo all’uomo, non è soltanto pazzia opposta a quel furore, di cui si è detto, ma pretenderebbe negare il supremo, ontologico vincolo di amore che regge l’universo nell’infinità dei suoi mondi.
Ogni muraglia che qui si voglia innalzare tradisce, allora, non semplicemente questa o quella idea, o è ingiusta nei confronti di questo o quell’uomo, ma pretende di ribellarsi all’eterno creare della Natura stessa, di cui la libertà della mente è esplicazione e immagine.
L’Europa che si sprofonda nella sua caverna egoica, che sta portando a esiti estremi quel declino morale e politico, già tragicamente illuminato il 17 febbraio del 1600 dal rogo di Campo dei Fiori, questa Europa di mura, fittizie carceri e impotenti potenze, sarà eruttata via dalla potenza della stessa Natura, se si ostinerà a non ascoltare la voce dei suoi grandi, lo spietato realismo delle loro profezie, le loro dolorose verità. Memoria attiva, immaginativa, memoria di forze che possono essere genesi del nostro futuro. Memoria che questa Europa sembra impegnata solo a dimenticare.

La Repubblica – 17 febbraio 2017

UNO SPETTACOLO DI YOUSIF LATIF YARALLA DA NON PERDERE


2 marzo 2017 - 21:00
YOUSIF LATIF YARALLA & RICCARDO PALUMBO (Iran/Sicilia)
a cura di Lelio Giannetto /CURVA MINORE

YOUSIF LATIF JARALLA & Riccardo Palumbo (Iran /Sicilia)
Un viaggio sbagliato. Amadou nella pancia della balena

Performance narrativa e musicale in tre storie
Yousif Latif Jaralla narrazione, voce, tamburo
Riccardo Palumbo violoncello

Tutti conosciamo le imprese culturali e l’impegno sociale, religioso, politico e artistico del ‘principe’ Yousif Latif Jaralla.
Un viaggio sbagliato. Amadou nella pancia della balena è uno spettacolo che mette insieme diversi linguaggi espressivi: la musica e la letteratura della narrazione. La musica del violoncello incantatore costituisce tessitura musicale che trama una sorta di tappeto volante insieme al suono della voce e del tamburo sufi che scorrono di continuo come un mare sempre in movimento. È un omaggio alla vita come gesto di divinazione suprema, come battesimo della morte ed epifania della resistenza che scorre nelle vene di antichissime culture cullate da un Mediterraneo, padre generatore di vita ma capace di accogliere nei più profondi abissi tutti gli angeli della salvezza, martiri della vita. Tutto ciò raccontato da uno dei più grandi rappresentanti della tradizione persiana della narrazione: Yousif Latif Jaralla, nato a Bagdad e trasferitosi a Palermo più di venticinque anni addietro, è infatti originario e originale erede dei racconti delle Mille e Una Notte, figlio della Tradizione orale dell’Oriente. Ci racconterà che per vivere c’è bisogno di lottare, ma anche di sognare. Lo spettacolo ci condurrà nel sogno dell’immaginazione, dove storie di suoni e parole sapranno in/cantare trasportandoci nel mito di una realtà che ci appartiene… da lontano e da vicino. “C’è sempre un’altra storia, nel profondo di un naufrago, che non può mai essere raccontata, perché deve ancora fare i conti con il senso e il non-senso della vita, deve forare la sua visibile corazza di superficie, decifrare i suoi dettagli, capire gli impulsi dolenti, annodarne i fili, trovare le radici… ma a forza di girare costantemente intorno a questa vita e fissarla ossessivamente, ci si rimane dentro, soli e persi nei nascosti cunicoli dell’esistenza, senza voler più liberarsene, anche perché lassù, fuori, il mondo non ti spiega che il sogno e la speranza, quando non ti uccidono, diventano cause di dolore e tormento. Amadou nella pancia della balena: tre storie di ragazzi dispersi in quei cunicoli”. (Y.L. Jaralla)

26 febbraio 2017

CAPORALI IN GIACCA E CRAVATTA




Oggi vogliamo ricordare la bracciante pugliese, stroncata da un infarto mentre lavorava in nero ad Andria, con le parole di un poeta e con un articolo dell' ANSA. 
Nell'occasione ci domandiamo: quanti sono oggi le vittime del moderno caporalato? Perchè si aspetta sempre il morto prima d'intervenire?

Morte di una bracciante

... tutta è una corsa, una dura e maledetta corsa, e come è difficile e crudele mantenere accesi i lumi di vita in questa corsa fino all' ultimo respiro.
Questa corsa che ti brucia i giorni, che ti spegne i sogni, che ti fa scoppiare il cuore di fatica.
Ma quanto ti costava un piatto di pasta, Paola?
Quanto ti costava respirare


Yousif Latif Jaralla


*****




Caporalato: bracciante morta di fatica
 6 arresti.
Frantumato muro d'omertà dopo la morte di Paola Clemente




Sono stati i diari delle braccianti, gli appunti annotati sui calendari delle loro case, a svelare che il nuovo caporale che in tre mesi, tra giugno e settembre 2015, ha sfruttato e sottopagato circa 600 lavoratrici pugliesi era un'agenzia interinale di Noicattaro, alle porte di Bari. La stessa agenzia - la Infor Group - che aveva reclutato la 49enne tarantina Paola Clemente, stroncata da un infarto mentre lavorava all'acinellatura dell'uva sotto un telone nelle campagne di Andria. Era il 13 luglio del 2015, una giornata in cui il caldo era soffocante. Oggi in sei, tra cui l'ex datore di lavoro di Paola Clemente e il titolare dell'azienda dei bus su cui la donna viaggiava ogni giorno, sono stati arrestati al termine di un'indagine di Polizia e Guardia di Finanza. L'inchiesta non riguarda la morte della donna, sulla quale è in corso una consulenza di un docente di Medicina del lavoro che dovrà accertare se vi sia stato nesso di causalità tra decesso e superlavoro, ma lo sfruttamento di Paola e di oltre 600 braccianti.
IL MARITO, NESSUNO MUOIA PU' COME PAOLA - "Tutto quello che abbiamo fatto è stato soltanto per la memoria di Paola e perché nessuna possa più lavorare nelle sue stesse condizioni. Siamo gente semplice, la nostra è una battaglia di dignità. Oggi è una giornata importante". Lo dice - in un'intervista a Repubblica - Stefano Arcuri, marito di Paola Clemente. "Devo ringraziare gli investigatori, i magistrati, ma anche tutte le istituzioni - ha detto ancora - per quello che hanno fatto per noi in questi mesi. Il presidente della Camera, Laura Boldrini, il ministro Martina, la sottosegretaria Bellanova. A loro chiedo soltanto una cosa: abbiamo sofferto troppo, per favore, non fatelo accadere mai più. Nessuno più deve lavorare e morire come Paola".
Le vittime dello sfruttamento - secondo l'accusa - sono donne poverissime con figli da sfamare e mariti spesso senza lavoro, in molti casi ex lavoratori dell'Ilva di Taranto. Quello che più colpisce delle 302 pagine del provvedimento restrittivo è la straziante confessione di alcune braccianti, sfruttate e sottopagate dall'agenzia interinale. Una donna racconta agli inquirenti che un giorno, sul pullman, nel momento in cui venivano distribuite le buste paga, "alcune donne si sono lamentate dei giorni mancanti e G. ha detto che noi lo sapevamo, quindi, non dovevamo lamentarci. Nessuna ha più parlato, anche perché si ha paura di perdere il lavoro, anche io adesso ho paura di perdere il lavoro e di essere chiamata infame. Ho un mutuo da pagare, mio marito lavora da poco, mentre prima stava in Cassa integrazione. Dovete capire che il lavoro qui non c'è e, perderlo, è una tragedia. Quindi, se molte di noi hanno paura di parlare è comprensibile".
Un'altra fa mettere a verbale al pm Alessandro Pesce che "se fai la guerra perdi, perché il giorno dopo non vai più a lavorare". E una sua collega aggiunge: "Per noi 32 euro al giorno sono necessari per sopravvivere". Testimonianze coraggiose che commuovono il procuratore di Trani, Francesco Giannella: "Nell'indagine è emerso - spiega - che il caporalato moderno si è concretizzato esclusivamente attraverso l'intermediazione di un'agenzia interinale. E' una forma più moderna e più tecnologica rispetto a quella del passato". Ma il motore che lo alimenta è sempre lo stesso: "l'assoluta povertà delle braccianti che vedono nei caporali i loro benefattori", anche se questi le sorvegliano pure quando vanno in bagno e bacchettano se non lavorano bene. In ballo - ha quantificato la Guardia di finanza - c'è una paga di 30 euro al giorno a fronte di 12 ore di lavoro, compresi gli spostamenti dei braccianti in pullman per centinaia di chilometri da Taranto e Brindisi fino alle campagne di Andria, Barletta e Canosa.
Contratto collettivo alla mano, la Gdf ha quantificato che le lavoratrici avrebbero dovuto percepire 86 euro al giorno, cioè quasi il triplo, e che in tre mesi l'agenzia interinale non ha pagato 943 giornate lavorative. Di queste accuse dovranno ora rispondere, a vario titolo, gli arrestati: il responsabile dell'agenzia interinale per la quale lavorava Paola Clemente, Pietro Bello, i suoi due dipendenti, Oronzo Catacchio e Gianpietro Marinaro; Ciro Grassi, titolare dell'agenzia di trasporto, Lucia Maria Marinaro, moglie di Grassi e lavoratrice fittizia, e Giovanna Marinaro, che reclutava le braccianti. Immancabili le reazioni politiche, a cominciare da quella della presidente della Camera, Laura Boldrini, che spera che la nuova legge sul caporalato, la legge Martina, entrata in vigore dopo i fatti contestati agli indagati, "si dimostri una risposta efficace per debellare una forma di schiavismo intollerabile". "La tragedia di Paola Clemente - dice il ministro dell'Agricoltura Maurizio Martina - è ancora viva in tutti noi e la nuova legge contro il caporalato ha segnato un punto di svolta".
   
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NEL CASO DREYFUS UNA CHIAVE PER CAPIRE IL NOSTRO PRESENTE


J'accuse 

Claudio Vercel

C'è qualcosa di sinistramente attuale nelle tante pagine vergate da Emile Zola ai tempi dell'Affaire Dreyfus e che ci vengono ora riproposte, in una sistemazione definitiva, dalla casa editrice La Giuntina (L'affaire Dreyfus. La verità in cammino, pp. 230, euro 9,90). La vicenda è nota al punto da non richiedere d’essere richiamata se non per sommi capi. Nel 1894 un capitano d’artiglieria francese, Alfred Dreyfus, ingiustamente accusato di spionaggio a favore dei tedeschi, finisce ai lavori forzati nell’Isola del diavolo, nella Guyana francese. Solo una intensa campagna di stampa, condotta dallo stesso Zola, permette di riabilitarlo, liberandolo dai ceppi e riconsegnandolo alla società civile. La quale, a onor del vero, da subito si era rivelata poco propensa a una pacata discussione, vivacizzando invece una diatriba che spaccò in due la nazione, tra sostenitori della colpevolezza e innocentisti.
L’oggetto del contendere era costituito soprattutto dall’origine ebraica dell’imputato. In un progressivo cortocircuito della comunicazione e del giudizio, la sua radice «etnica» era stata accostata all’accusa di tradimento e di cospirazione, traslando l’una nell’altra e viceversa, in una sorta di reciprocità immediata tra appartenenza di gruppo e propensione all’infedeltà. Le tensioni franco-prussiane, e le frustrazioni maturate dal paese, non da ultima la vicenda sanguinosa della Comune del 1871, non ancora digerita a distanza di una ventina d’anni, erano deflagrate in una miscela esplosiva nel momento in cui alcuni avevano ravvisato nell’identità dell’incolpevole militare il suggello di una colpa tanto antica quanto inemendabile.
La storia, in sé tristemente banale, era così destinata a segnare un solco profondissimo, che arriva fino ad oggi. Non a caso si fa risalire ad essa la radice dell’antisemitismo contemporaneo. Poste queste premesse, in quale modo la vicenda Dreyfus ci parla ancora e, non di meno, perché? In realtà la storia che travolge l’incolpevole militare, indifferente alla sua ascendenza ebraica, è una vera e propria cassetta degli attrezzi della modernità. Ci sono tanti elementi che si sarebbero incontrati successivamente, in molte altre vicende: il ruolo della stampa e della comunicazione nell’enfatizzare e nel guidare le reazioni della collettività; il concorso degli apparati pubblici nella stigmatizzazione razziale del «reprobo», sancendo il nesso tra ebraicità e condotta deviante; l’enfasi sulla dimensione del complotto, di cui Dreyfus sarebbe stato la punta di un ben più ampio iceberg, ancora sommerso; la necessità, sostenuta a pie’ sospinto dalla destra cattolica - alla ricerca di una precisa identità politica -, di provvedere a una pulizia sistematica del «corpo nazionale», infettato dalle troppe presenze straniere; la prassi di continuo depistamento attuata dalle autorità militari e l’acquiescenza di quelle politiche.
Sul versante ideologico, ciò che viene inoculata nell’opinione pubblica è la convinzione che la nazione, in sé «sana», sia minacciata da forze tanto potenti quanto irriconoscibili. Di lì a non molto i «Protocolli dei saggi anziani di Sion», artefatto della polizia politica zarista, sarebbero intervenuti a dare sostanza a questa percezione ondivaga e incerta, trasformandola in una solida teoria, politicamente spendibile: sono gli ebrei a tirare i sottili fili del destino mondiale e la liberazione collettiva passa, obbligatoriamente, attraverso l’identificazione e la neutralizzazione dei parassiti. La storia delle sofferenze dell’umanità si emenda attraverso una nuova forma di giustizia sociale, che non è quella che implica la redistribuzione della ricchezza ma lo smascheramento dei cospiratori che stanno alle spalle della Terza Repubblica.
A una lettura ingenua il dispositivo che la vicenda Dreyfus mette in moto, e le passioni che orchestra, esacerbandole ad arte potevano sembrare appartenere alla trivialità di un passato oramai superato dalla modernità. Quest’ultima, declinata positivisticamente come progressiva evoluzione, avrebbe infatti dovuto garantire l’emancipazione degli spiriti dalla barbarie dell’inconsapevolezza e dell’ignoranza. In realtà il caso del capitano francese è tutto fuorché un vuoto di coscienza, rivelando, nella dialettica delle sue diverse parti, una intrinseca razionalità, che bene si prestava alle esigenze di una società in mutamento accelerato quale quella francese di fine secolo. E di riflesso, di quelle europee e mediterranee, non da ultime le comunità nazionali degli imperi in decadenza, dall’austroungarico all’ottomano.
In questa ottica l’affaire Dreyfuss è parte del più ampio processo di metamorfosi ideologica del nazionalismo successivo all’età romantica, dove alla formulazione dell’idea che una nazione andasse costituendosi, come nel caso dei risorgimenti, attraverso l’inclusione degli individui, si era ora sostituito il principio della definizione dei confini materiali e culturali attraverso la selezione e l’esclusione. Il fantasma dell’ebreo errante, nomade ma sempre uguale a sé, capace di contaminare le società con le quali entra in contatto, che nella pubblicistica di quegli anni prende piede, alimentandosi sia del vecchio antigiudaismo di matrice cristiana che di nuove suggestioni, ridisegna la funzione sociale dell’antisemitismo. Il quale diventa uno dei fattori nella mobilitazione collettiva e nella costruzione di identità politiche. 
Coeva alle vicende che coinvolgono Dreyfus è, ad esempio, la traiettoria di Karl Lueger, carismatico borgomastro di Menna, noto per essere stato l’ispiratore politico di Hitler. Alla questione sociale, posta dal movimento operaio e dal mondo del lavoro, sempre più prossimo al transito verso la produzione di massa, subentrava l’incapsulamento delle istanze di giustizia collettiva all’interno di una logica etnica che avrebbe conosciuto molte fortune nei decenni successivi. Qualcosa ci induce a pensare che la potenza di tale manipolazione non sia tramontata, quanto meno a giudicare dall’«antica ferocia» che si annida dietro i razzismi contemporanei, al confronto con le metamorfosi dell’economia postfordista, in un clima di «eccezione» che livella qualsiasi tentativo mediazione. La storia non si ripete ma il cliché paranoide dimostra di avere una lunga durata.
“il manifesto”, 3 gennaio 2012