31 gennaio 2013

IL RITORNO DI VINCENZO CONSOLO




L’editore Sellerio ha ristampato una serie di articoli scritti da Vincenzo Consolo negli anni settanta per il giornale L’ORA di Palermo. Cogliamo l’occasione per tornare a parlare di un autore che ci è tanto caro con la recensione del libro di Corrado Stajano e un breve profilo critico dello scrittore scritto da una autrice che deve tanto a Consolo.

Corrado Stajano - CRONACHE SICILIANE DI VINCENZO CONSOLO

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Tanti anni fa Vincenzo Consolo raccontò di quando, da giovane, correva alla stazione del suo paese natale, Sant’Agata di Militello, «ad aspettare il “mio” giornale, il giornale dell’altra Sicilia, quella vera e storica della cultura e della speranza: “L’Ora”. Dalla sua cronaca apprendevo ora con gioia, ora con raccapriccio, delle occupazioni delle terre, delle uccisioni dei sindacalisti, della mafia, di Danilo Dolci, di Li Causi».Il grande scrittore siciliano è morto il 21 gennaio dell’anno scorso a Milano, lontano dalla sua isola amata e disamata. L’editore Sellerio, per l’occasione, ha pubblicato in volume gli articoli che Consolo scrisse sull’«Ora» in diversi periodi della vita: Esercizi di cronaca, a cura di Salvatore Grassia, con una prefazione di Salvatore Silvano Nigro (pp. 243, 13). Negli anni, Consolo collaborò a diversi giornali, «Tempo illustrato», «Il Messaggero», il «Corriere della Sera», «L’Unità», «il manifesto», ma per lui «L’Ora» fu sempre la voce di casa, il foglio più consonante, «il mio giornale», appunto. E sarebbe stato forse questo il titolo da dare alla raccolta uscita adesso, di grande interesse per la biografia dello scrittore.È una lezione di umiltà per Consolo il giornalismo. Non aveva, nei suoi confronti, la puzza sotto il naso di tanti letterati che disprezzano e insieme ambiscono a scrivere sui giornali. «Altro che dorata e comoda distanza, altro che metafora della scrittura letteraria! Com’è difficile il mestiere di giornalista e di giornalista in una città come Palermo, e in un giornale come “L’Ora”» scrisse.Il linguaggio, nei suoi romanzi, è essenziale. Ma nei suoi articoli dimentica del tutto il suo espressionismo barocco, usa soltanto l’italiano limpido e chiaro. Collaborò all’«Ora» dal 1964 e seguitò a scrivere su quel giornale della sinistra fin quando chiuse i battenti. Nel 1975 ? stava per finire, inquieto, il suo capolavoro, Il sorriso dell’ignoto marinaio ? lavorò per sei mesi nella redazione del quotidiano. Seguì allora a Trapani, nel Collegio dei gesuiti diventato Tribunale, il processo Vinci, l’uomo accusato di aver ucciso a Marsala tre bambine gettandole in un pozzo, condannato all’ergastolo per quegli orribili delitti. Scrisse la cronaca quotidiana del processo, testimone illuministico delle doppie verità, dei misteri, delle menzogne, delle isterie popolari, tra la tragedia greca e la manzoniana Storia della colonna infame. Protagonista è sempre il dubbio, i suoi resoconti sono minuziosi, a Consolo non sfugge nulla, attento alle figure e ai comportamenti dei giudici e all’enigmatico silenzio dell’imputato. Sa rendere partecipe il lettore del clima di follia che in quell’estate africana divise la città. Conobbe non superficialmente Giangiacomo Ciaccio Montalto, l’umanissimo e colto pubblico ministero del processo, che il 25 gennaio 1983 sarà ucciso dalla mafia. A lui Consolo dedicherà sul «Messaggero» pagine doloranti e bellissime.Gli articoli sul processo Vinci ? cento pagine ? letti adesso sembrano un libro nel libro. Consolo scrisse sull’«Ora» di molti temi. Il rapimento Corleo, parente dei ricchissimi cugini Salvo, gli esattori di Salemi, una cupa storia di mafia, ma usando il lato comico del suo primo libro, La ferita dell’aprile, raccontò anche storie gogoliane di vita siciliana andando a vedere gli uffici di Palermo, lo Stato civile, l’Inps, le Imposte dirette, con i loro grotteschi capiufficio, gli ispettori, gli impiegati.Lontano dalla Sicilia, invece i suoi articoli sembrano le lettere a casa di un eterno emigrato. Che cosa succede al Nord? Anche questo: un contadino salernitano viene licenziato da un’azienda di Codogno perché sa parlare soltanto nel suo dialetto.Scrisse affettuosamente di Franco Trincale, il cantastorie siciliano, e di Gaetano Manusé, il bancarellaio dalla faccia araba che vendeva libri dietro l’abside della chiesa di San Fedele, a Milano, ebbe clienti illustri, Montale, Toscanini, Luigi Einaudi, la Callas e tra le mani una Vita di Alfieri postillata da Stendhal.Il 12 giugno dell’anno scorso, sul «Corriere», Cesare Segre, recensendo La mia isola è Las Vegas, il libro di racconti uscito postumo, scrisse tra l’altro che «al dolore della perdita si mescola la consapevolezza, anche, dei mutamenti che questa perdita ha implicato per il quadro attuale della narrativa italiana. Si sa che Consolo era tra le figure di maggiore spicco del romanzo di fine Novecento».Si sa ora che era anche un ottimo giornalista.
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Corrado Stajano, 21 gennaio 2013 - Corriere della Sera



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MARIA ATTANASIO - PER VINCENZO CONSOLO, POETA E PROFETA


Benchè tutti i suoi libri siano traboccanti di citazioni, epigrafi e continui riferimenti a poeti d’ogni luogo e tempo –da Omero a Teocrito, ad Ariosto, a Iacopo da Lentini, a Shaekespeare, a Leopardi, a D’Annunzio, a Dante, e a tanti altri- Vincenzo Consolo non ha mai pubblicato un libro di versi, a differenza degli altri scrittori contemporanei siciliani –Sciascia, Addamo, Bufalino, Bonaviri, D’Arrigo, ad esempio- la cui narrativa è stata spesso affiancata o preceduta da un’autonoma produzione poetica.
Eppure è poeta, il più poeta tra i narratori siciliani; non si tratta di una generica liricità che crocianamente trasborda in ogni genere, ma di una testualità che, dentro le sequenze del tempo narrativo dei romanzi, e in quelle argomentative della saggistica, fonde libertà espressiva e referenzialità compositiva, ragioni etiche e motivazioni estetiche, ideologia e parola: immaginifica interazione tra la lingua della memoria, che restituisce il passato come metafora del presente, e la memoria della lingua, che, immergendosi nella lievitante stratificazione culturale e mitica delle parole, restituisce significatività al linguaggio.
Vincenzo Consolo ha sempre respinto la piatta orizzontalità della lingua -quella da lui definita tecnologica-aziendale che, diffusa dai mezzi di informazione, rende afasica la realtà- spingendo invece la sua prosa a contaminarsi con altri generi, soprattutto con la verticalità immaginativa e demercificata del linguaggio poetico. La poesia è infatti oggi l’unica tra le arti che non diventa merce, perchè il suo linguaggio, traboccando sempre dalla pura formulazione linguistica, non può mai totalmente identificarsi con quello della comunicazione: coscienza anticipante, rispetto ai valori del proprio tempo -per usare, sotto un’altra ottica, una felice espressione di Herman Bloch-, ma anche coscienza critica nei confronti del linguaggio del proprio tempo. La sua ricerca espressiva si muove perciò verso una scrittura che sia, insieme, esperienza di verità -non di semplice realtà- e testimonianza di libertà: verità della storia -nella storia- e libertà della parola -nella parola.
Una vera e propria struttura-azione di poesia potentemente interviene a costituire il corpo stesso della sua narratività, restringendo gli spazi di comunicazione, dissolvendo ogni ordinata sequenzialità di tempi e di sintassi, travalicando ogni rigida separazione tra i generi, ed emergendo in punte espressive -disancorate dalla narrazione- con due difformi e spesso simultanei riporti: tragico nei confronti della storia, lirico nei confronti della natura; una dimensione, quest’ultima, vissuta quasi con un senso di imbarazzo dalla coscienza etica e ideologica dell’autore, che ne teme la smemorante e avvolgente bellezza fuori dalla storia. Al cui malioso richiamo però non può sottrarsi.
Poeta e profeta, Vincenzo Consolo. La sua scrittura non è mai rotonda frontalità espressiva, levigato specchio, ma frantumazione caleidoscopica, allusivo aggiramento, inesauribile nominazione, fino a una sorta di vertiginoso scarto tra parola e realtà- anticipando il disastro di una contemporaneità afasica e impotente –di cui la Sicilia è simbolo- che ha perduto la storia e la parola.
Lo scarto tra parola e realtà, tra racconto e afasia, si acutizza infatti vertiginosamente ne Lo spasimo di Palermo, in cui una lingua espressionista ne disarticola l’apparenza di romanzo in gorghi di immagini, assonanze, rime, enjamblement. Sulla stasi e il silenzio della storia (-“Solca la nave la distesa piana, la corrente scialba, tarda veleggia verso il porto fermo, le fanrasime del tempo. La storia è sempre uguale.”-), si stende il requiem della poesia: rito di morte e, insieme, esorcismo contro la morte, di una scrittura che sul ciglio degli abissi “si raggela, si fa suono fermo, forma compatta, simbolo sfuggente”; barocca fascinazione tonale di un linguaggio risuonante di rime, nominazioni, fastose metafore, che simultaneamente si pone come emergenza espressiva ed estremo gesto di libertà ideologica in una condizione umana coatta dalle istituzioni di potere e dall’assertorietà definitoria, ma anch’essa ideologica, del linguaggio.
Non resta allora che l’afasia o la poesia.
E Vincenzo sceglie la poesia.
 

IL CARTEGGIO LA CAVA - SCIASCIA










A Marsala giovedì 31 gennaio p.v. alle ore 18.00
presso lo studio di comunicazione culturale OTIUM in via XI maggio, 43
Florindo Rubbettino racconterà 40 anni di editoria.
Con questo importate appuntamento prende il via la rassegna Viaggio intorno al libro, che vedrà nei prossimi mesi il susseguirsi di incontri con editori, per scoprire cosa ruota intorno alla produzione del libro, dalla prima fase della scrittura fino a raggiungere i suoi lettori.
Nel corso dell’incontro verrà presentato il cofanetto i gioielli edito dallo stesso editore Rubbettino per festeggiare il suo 40° anno di età.
 Il cofanetto si compone di quattro titoli:
·         Il mio piano non è quello di Keynes di Luigi Einaudi,
·         Sul problema del metodo della psicologia del pensiero di Karl Popper,
·         Italia mille anni. Dall'età feudale all'Italia moderna ed europea di Rosario Romeo
·         In nome dello stato di Ludwig von Mises.
Si tratta di quattro pubblicazioni in cui prendono voce scritti inediti di quattro importati pensatori della nostra epoca.
L’incontro con Rubbettino sarà anche spazio per una riflessione sulla  recente pubblicazione del carteggio tra Mario la Cava e Leonardo Sciascia, un volume dal titolo Lettere dal centro del mondo, 1951-1988 che racchiude 37 anni di corrispondenza tra due importanti intellettuali, A tracciare la recensione dell’epistolario sarà Franco Virga. Mentre a Massimo Graffeo è affidato il compito di far rivivere, attraverso le letture tratte dal testo, il clima di questa intensa corrispondenza.
Avremo modo si attraversare il mondo della cultura delle grandi scuole di pensiero, in una conversazione che ruoterà intorno a queste sollecitazioni: crisi economica, fuga dal nazismo, psicologia del pensiero, storia d’Italia.
Ma avremo soprattutto l’occasione per confrontarci direttamente con la profonda semplicità degli intellettuali di casa nostra, il calabrese Mario La Cava e il siciliano Leonardo Sciascia.
Ci piace pensare che sarà una occasione per costruire un ponte narrativo capace di sostenere quanti ancora credono che la cultura sia un patrimonio imprescindibile.


30 gennaio 2013

USTICA




L’amica Francesca sul suo irraggiungibile blog http://buchi-nella-sabbia.blogspot.it/  ha commentato con poche, definitive parole l’ultima sentenza relativa all’aereo abbattuto sul mare di Ustica:

 
Civilmente,
l'aereo è stato abbattuto.
L'aereo è stato abbattuto
così civilmente
da non lasciare traccia
penalmente.


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P.S.


Finalmente la verità su Ustica emerge anche a livello giudiziario. Nulla che non si sapesse già, come dimostra "Ustica, scenari di guerra" di Leonora Sartori e Andrea Vivaldo. Ne proponiamo la prefazione.


Fabrizio Colarieti - Ragioni di Stato

La domanda, trent’anni dopo, è sempre la stessa: perché? Il 27 giugno 1980, un minuto prima delle 21, precipitava dal cielo di Ustica al fondo del Mar Tirreno un DC-9 della compagnia Itavia, in volo da Bologna a Palermo con a bordo ottantuno passeggeri. Sono passati trent’anni dalla più grave tragedia dell’aviazione italiana, subito divenuta il caso Ustica.

Quella notte la storia comincia con un aereo che scompare dagli schermi radar e i suoi passeggeri (64 adulti e 13 bambini) e l'equipaggio (2 piloti e 2 assistenti di volo), inghiottiti dal mare. Immediate le tesi su quello che doveva sembrare a tutti i costi un incidente, una sciagura del tutto casuale, forse un caso remoto – ricordate? - di cedimento strutturale. Mille ipotesi, mille inchieste, il silenzio di tanti, l’impunità e il mistero che sempre più avvolgeva quello strano incidente. Invece quella sera, lassù, c’era la guerra: questo hanno raccontato agli italiani i magistrati che hanno indagato sulla Strage di Ustica. Lo hanno detto anche ai familiari delle vittime, senza però lasciare loro la possibilità di gridare “assassino” a qualcuno, perché, riassumendo il mare di carte giudiziarie in cui è scritta questa storia, restano ancora oggi “ignoti gli autori del reato”. Loro, i passeggeri e l'equipaggio, affrontarono quel volo da inconsapevoli vittime di una scellerata Ragion di Stato. Non sapevano di certo che non sarebbero mai atterrati e che la loro fine sarebbe diventata un giallo. Lungo trent’anni. 

Tra quei passeggeri c’era Alberto Bonfietti, 37 anni, giornalista del quotidiano “Lotta Continua”, che non ha avuto il tempo di appuntare un ultimo pensiero nel suo taccuino. Così come Francesco, Paolo, Daniela, Andrea e Marianna. Forse neanche loro hanno avuto un istante per pensare un'ultima volta ai loro cari, in attesa a Palermo. Non ha avuto il tempo di scrivere sul suo diario "segreto" neanche Giuliana Superchi, 11 anni, e al papà, che la stava aspettando a terra, non ha potuto far vedere la pagella. Anche Rosa De Dominicis, 21 anni, allieva hostess, non ha avuto modo di capire se quello fosse davvero il lavoro della sua vita. Questa è Ustica. Quella notte le tenebre hanno inghiottito tutto questo, senza appello: la vita di quelle sfortunate persone, la dignità del nostro Paese, le prove e la verità su un caso mai chiuso per la giustizia italiana. Quella notte è successo qualcosa che nessuno doveva sapere. Sapevano e sanno ancora oggi, tuttavia, solo coloro che dovevano proteggere il volo di quell'aereo e che, invece, sono diventati per sempre i custodi di un segreto inconfessabile.

La storia va ripercorsa dall’inizio, in quell'attimo, il tempo monco del “Gua...”, inciso nell'ultimo pezzetto del nastro che girava dentro la scatola nera: un frammento di parola che non ha dato risposte, ma solo un indizio. Sull’aereo, tranne il comandante Domenico Gatti, colui che gridò al microfono quel “Gua...”, nessuno ha avuto il tempo di accorgersi di quanto stava avvenendo nel cielo attorno al DC-9. Oggi, a sentire le parole del senatore a vita Francesco Cossiga, che all'epoca era il presidente del Consiglio dei ministri - parole che, ventotto anni dopo, hanno ispirato un nuovo filone investigativo su cui lavora ancora la Procura di Roma - sembra certo che quella notte nei cieli italiani si consumò una battaglia aerea che vide i caccia della Marina francese colpire l'aereo sbagliato nel posto giusto: lì, in quel tratto di buio sopra il Tirreno, doveva esserci l’aereo con a bordo il Muammar Gheddafi, non il DC-9. Un errore, quindi, che attende ancora che sia fatta giustizia.

Dubbi non ce n’erano, fin dall’inizio, fin dalle ore successive mentre tutti puntavano il dito contro la compagnia Itavia, accusata di far volare aerei “carretta”, messa prima in ginocchio e poi fatta fallire. Cinque mesi dopo la strage, due tra i massimi esperti di guerra aerea, gli americani John Transue e John Macidull, guardando il tracciato radar di Ciampino, non ebbero alcun dubbio: nel punto dove il DC-9 è scomparso, un altro aereo, un caccia, ha compiuto una manovra d’attacco da manuale, incrociando la rotta dell’Itavia da ovest verso est. Questo contesto, per chi ha indagato, altro non è che la realtà, chiara e semplice, che non può certamente essere più negata, tanto più da chi aveva precisi obblighi verso i cittadini.

Probabilmente anche Gheddafi sa qualcosa in più di noi, dato che in questi trent’anni non ha mai smesso di affermare che quella sera la Libia fu vittima tanto e quanto il nostro Paese. L'ultima volta lo ha ripetuto davanti alle sue Tv, era il 31 agosto 2003, in occasione del 34esimo anniversario della Rivoluzione libica. Non ha mai smesso di accusare chi probabilmente voleva ucciderlo: forse gli americani, forse i francesi. Insomma i suoi nemici dichiarati. Forse era proprio il suo l'aereo che doveva essere tirato giù, quello che doveva essere lì, nel punto Condor al posto dell'Itavia. Si salvò dall’imboscata - sempre secondo Cossiga - perché i nostri Servizi segreti fecero in tempo ad avvisarlo.

È perciò impossibile accontentarsi degli esiti di un processo penale, già concluso, che si doveva limitare a giudicare la condotta dei vertici dell'Aeronautica militare italiana. Pure loro, i militari che quella notte sedevano davanti ai radar, sanno come sono andate le cose. Per la giustizia, per la Cassazione che nel 2007 li ha assolti “perché il fatto non sussiste”, gli allora vertici dello Stato maggiore dell’Ami non depistarono le indagini né - come sosteneva l’accusa - omisero di comunicare al governo quanto accaduto. Cosa era davvero accaduto lo sapeva, probabilmente, anche Mario Alberto Dettori, il radarista trovato impiccato a un albero nel 1987. Era in servizio al radar quella notte a Grosseto e vide qualcosa che lo turbò, una verità di cui si ammalò e che lentamente ha finito per schiacciarlo. Non è il solo, Dettori, perché in questa storia ci sono anche altre otto vittime collaterali che, come lui, hanno sfiorato la verità e a cui è toccata la stessa sorte dei passeggeri del volo India Hotel 8-7-0. Una sorte infame che li ha attesi - tutti - nascosta dietro un angolo. Le vittime sul DC-9 non c’entravano nulla e nulla sapevano della guerra fredda, silenziosa e strisciante, in corso proprio intorno a loro, in quel buco nero, a metà strada tra Ponza e Ustica: un puntino che sulle carte aeronautiche è chiamato Condor. La versione dei fatti che somiglia di più alla verità, gli italiani la immaginano, l’hanno letta sui giornali, sui libri, l’hanno ascoltata al cinema, nei teatri, l’hanno compresa addirittura attraverso i disegni di un fumetto. Ma vale la pena ripeterla.

Nel ’99, dopo nove anni di istruttoria, il giudice Rosario Priore, l’unico che in questa storia provò ad arrivare fino in fondo, scrisse nero su bianco che il DC-9 fu vittima di “un’azione militare di intercettamento messa in atto, verosimilmente, nei confronti dell’aereo che era nascosto sotto di esso”. Un atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, un’operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui furono violati confini e diritti. L’Itavia 870 - concluse la scienza - rimase vittima fortuita di questa azione: di una near collision con un altro velivolo o, peggio ancora, tirato giù da un missile. Quella notte intorno al DC-9, lo dicono i tabulati di Ciampino - miracolosamente scampati dall’azione sistematica e scientifica, di distruzione delle prove - c’erano in volo aerei militari di almeno quattro Paesi: Italia, Libia, Stati Uniti e Francia. Dai depistaggi, ai non so, dai non ricordo, ai colpi di lametta che tagliano intere pagine di registri, dalle bobine cancellate agli aerei che volavano senza nome, è scampata un’unica verità: l’aerovia percorsa dal DC-9, l’Ambra 13, nel punto Condor era intersecata dall’aerovia militare francese Delta Whisky 12.

Quella sera, sarà un caso, dalla base francese di Solenzara in Corsica decollarono diverse coppie di Mirage e in mare c’era almeno una portaerei transalpina. Troppi indizi, nessun alibi e, fino a prova contraria, la parola di un ex Capo di Stato, Cossiga. E poi, come non ricordare quel MiG 23 libico, quello ritrovato sulla Sila, caduto - dice la nostra Aeronautica - il 18 luglio ‘80, perché era rimasto senza benzina, ma con dentro un pilota che indossava divisa e anfibi della nostra Aeronautica, morto almeno venti giorni prima, forse addirittura sempre quel 27 giugno. Un MiG con qualche buco di troppo sulla carlinga, che interessa a molti: alla Cia, ai nostri Servizi, ai Carabinieri di Crotone, che lo cercano a fine giugno e che negheranno per anni di essersene interessati. Un MiG che verosimilmente “buca” lo spazio aereo italiano mentre nel basso Mediterraneo è in corso un’imponente esercitazione della Nato. Forse la chiave di volta è proprio il suo ruolo, forse, come disse una volta Giovanni Spadolini ai giornalisti: “Scoprite cosa è successo a quel MiG caduto sulla Sila e troverete la chiave per capire la strage di Ustica”. Solo pezzi mancanti, in un enorme puzzle che la magistratura non è riuscita, in trent’anni, a rimettere assieme. Come, ad esempio, le risposte alle decine di rogatorie internazionali promosse nel corso dell’istruttoria, che tre nostri alleati e partner commerciali (Francia, Stati Uniti e Libia), non hanno mai ritenuto opportuno fornire.

Ciò che sappiamo, che le indagini hanno certamente chiarito, è che quella sera tutto si consumò sotto gli “occhi” di decine di stazioni radar, sopra le antenne di una dozzina di basi “sigint” dell’intelligence americana, sotto l’ombrello di copertura di numerosi satelliti spia e a portata di un aereo radar Awacs della Nato in volo sull’Appennino tosco-emiliano. Il corridoio percorso dal DC-9 da Bologna a Ponza era tutt’altro che libero, era affollatissimo e anche questo lo sappiamo per le tracce nei tabulati radar, nelle risposte fornite dalla stessa Nato, nelle conversazioni terra-bordo-terra e nelle telefonate intercorse tra Ciampino e l’attaché militare della Usa Embassy of Rome.

Un segreto che non c'è, anzi che non esiste sulla carta. E’ recente, infatti, la conferma da parte del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza che nessun segreto di Stato è stato mai apposto su atti o documenti inerenti il caso Ustica. Ma questo già lo sapevamo: “Si stima - scrisse il giudice Priore nelle conclusioni della sua monumentale istruttoria - che ci si sia trovati innanzi a qualcosa che è sfuggito e ancora oggi sfugge al controllo istituzionale ed alle garanzie poste dall’ordinamento. Da un punto di vista formale il segreto non esiste; nella sostanza invece esiste ed è stato opposto nei fatti ostacolando ed impedendo di accertare gli eventi e le responsabilità”.

Il muro di gomma è stato fatale per tutti, e tutti ne sono rimasti invischiati, mentitori e sinceri. Da questa brutta storia il Paese è uscito con le ossa rotte, ferito nella sua sovranità e con esso l’Aeronautica, inseguita per sempre dall’ombra del sospetto. La scienza e la magistratura non possono fare più nulla, solo la politica, e con essa la diplomazia, può ancora andare fino in fondo, chiedendo conto di tutto questo ai nostri alleati e ai suoi apparati d’intelligence, con la più elementare e scontata delle domande. Ancora una volta, sempre la stessa: perché?

Leonora Sartori- Andrea Vivaldo
Ustica, scenari di guerra
Edizioni Becco Giallo, 2010
15 euro