20 maggio 2024

PEPPINO IMPASTATO RACCONTA LA MARCIA PER LA PACE ORGANIZZATA DA D. DOLCI NEL 1967

 



LA MARCIA PER LA PACE E LO SVILUPPO DELLA SICILIA OCCIDENTALE ORGANIZZATA
DA DANILO DOLCI NEL 1967
MARCIA DELLA PROTESTA E DELLA SPERANZA

Il 5 di marzo, domenica, un grande convegno popolare, presieduto da Danilo Dolci, Lorenzo Barbera, Corrado Gorghi (consigliere nazionale della D.C.), Salvo Riela, Bruno Zevi, Angelo Ganazzoli (presidente dell’E.S.A.) e Leo­nardo Di Salvo, nella sala del cinema “Nuovo” di Partanna, analizza con attenzione tutti i più gravi problemi che affliggono incessantemente le genti delle valli del Belice, del Carboj e dello Jato e mette dettagliatamente a fuoco gli obiettivi della manifestazione popolare che deve avere il suo inizio nella mattinata del giorno seguente. La relazione di base, nella prima parte della giornata, viene svolta da Lorenzo Barbera, dirigente del centro di pianificazione delle valli. Egli ribadisce innanzi tutto la necessità che vengano costruite o definite le di­ghe: Arancio sul Carboj, per ora funzionante al 50%, Poma sullo Jato, Garcia sul Belice destro, Cicio sul Modione, Malvello sulla sorgente Malvello. Defi­nendo o costruendo queste dighe si verrebbero a creare infatti 36.100 posti nuovi in agricoltura.
Il suo secondo appunto è rivolto alla riforma agraria: in seguito alla vecchia riforma sono stati assegnati circa 1.400 lotti. La superficie investita dalla riforma è di circa il 2,8% dell’intera superficie della valle del Belice. Ogni lotto misura circa 4 ettari ed ha un reddito lordo scarsissimo che va dalle 200 alle 350 mila lire annue. Tutto questo naturalmente perché sono stati assegnati i terreni peggiori, senza possibilità alcuna di trasformazione.
Di questi 1.400 lotti circa 670 sono stati forniti di case coloniche che sono a loro volta rimaste per molti anni prive di ogni servizio come l’acqua, la scuola etc. Tra il 1952 e il 1958 sono stati spesi circa 2 miliardi e 700 milioni di lire per munire di attrezzature queste abitazioni, ma attualmente delle 670 case soltanto 260 sono abitate con una certa stabilità. Soltanto uno di tutti i villaggi è effettivamente abitato e funzionante: Piano Cavaliere, che la D.C. utilizza come propaganda del suo regime con frequenti fotografie su certe riviste.
Terzo punto messo in evidenza da Barbera è quello delle scuole per tutti: nei 35 Comuni che aderiscono alla manifestazione gli abitanti sono complessivamente 342.000. Gli analfabeti sono circa 103.000.
Nei prossimi cinque anni è quindi auspicabile un piano atto ad istruire al­meno 54.000 persone, per cui sono necessarie 2200 classi di scuole popolari. Nel­la zona a sua volta il corpo insegnanti è presente nel numero di circa 5000 di cui quasi 4000 sono disoccupati. Il piano per l’istruzione popolare verrebbe quindi ad occupare gli insegnanti disoccupati. Dopo il Barbera sono intervenuti più o meno brevemente Michele Mandillo, Salvo Riela ed Angelo Ganazzoli; a quest’ultimo si deve un duro e frontale attacco alla mafia. «Non è arrestando Liggio e Panzeca che si combatte la mafia – ha detto – bisogna colpire i colletti duri, cioè le persone che stanno dietro gli esecutori. Solo così possono venir fuori i nomi di uomini politici, di professionisti, di notabili».
Nel pomeriggio di poi, sotto la presidenza di Bruno Zevi, è intervenuto per primo Simone Gatto ribadendo con fermezza la necessità di ristrutturare la Sicilia in Comuni e in comprensori di Comuni, eliminando così le ormai superate province. Sono intervenuti tra gli altri M. Pantaleone e V. Giacalone.
Il 6 di marzo, lunedì, alle 10 circa da Partanna, parte il lungo corteo della marcia della protesta e della speranza per la pace e per lo sviluppo socio-economico della Sicilia occidentale. Guidano la colonna Danilo Dolci, Bruno Zevi, Ernesto Treccani, Antonio Uccello, Lorenzo Barbera ed il piccolo e timido vietnamita VO VAN AI, eroe della resistenza del suo popolo contro i francesi, delicato poeta e sociologo di indiscussa preparazione. Lungo il percorso che da Partanna porta a Castelvetrano, punto di arrivo della prima tappa, alla vistosissima schiera di marciatori si aggiungono gruppi di gente, contadini, operai della valle del Belice. Hanno portato “pane e tumazzu” per fare colazione durante le soste della estenuante marcia. Dai loro volti segnati dalle fatiche del lavoro e dalle lunghe sofferenze traspaiono fermezza e soddisfazione: uno stato d’animo veramente sorprendente per la gente di questa zona che conosce molto da vicino la prepotenza di certi personaggi, il “bavagghiu” alla bocca e la lupara.
Attraverso Castelvetrano la colonna conclude la prima tappa alla diga Delia alle 16.
Il giorno successivo, 7 di marzo, martedì, la suggestiva marcia da Castelve­trano raggiunge Menfi, dove i pubblici discorsi di Dolci e di Lucio Lombardo Radice tracciano i programmi e le caratteristiche della manifestazione, auspicando un maggiore benessere per i lavoratori e per i contadini siciliani che lottano per una Sicilia nuova.
Il mercoledì 8 marzo, la colonna arriva a conclusione della terza tappa della marcia, a S. Margherita Belice. L’incontro tra la popolazione della cittadina ed i marciatori avviene in uno stanzone fresco di intonaco posto sul corso principale.
Dopo il solito discorso chiarificatore di Dolci, prende la parola Ernesto Treccani dichiarando con commossa semplicità e con grande chiarezza il suo scopo preciso, che è quello di contribuire con i suoi mezzi alla rinascita ed al risveglio della povera gente di Sicilia e spiegando quale è il senso del lavoro di un pittore, come esso può contribuire attraverso il segno grafico a dare una spinta di vita sociale. È intervenuto quindi Carlo Levi parlando delle sue esperienze compiute nel 1935 nei paesini della Lucania dove egli fu costretto ad abitare per lunghi anni come esiliato politico. Il mondo già espresso nei suoi libri “Cristo si è fermato ad Eboli” e “Le parole sono pietre” è venuto così fuori in un discorso di estrema semplicità.
È intervenuto infine lo scultore palermitano G. Baragli che ha accomunato la sua esperienza di “emigrato” a quella ancor più grave dei contadini presenti in sala che sono stati costretti in questi anni ad espatriare all’estero.
Il giovedì 9 marzo si giunge, nel tardo pomeriggio, a Roccamena.
L’incontro con il pubblico del paese viene interamente dedicato alla pace. Si proietta un documentario sulle atrocità che gli americani compiono nel Vietnam e vengono letti alcuni stralci di reportages e di testimonianze di questa guerra balorda:
«Prendono un Viet e gli fanno mettere le mani sulle guance, poi prendono un filo di ferro e glielo fanno passare attraverso la guancia, fin dentro la bocca, poi fanno passare il filo attraverso l’altra guancia e l’altro mano, poi tirano il filo». La voce è di Vito Cipolla.
Si conclude a Partinico in piazza Garibaldi la quinta e penultima tappa, senza dubbio una delle più dure (30 Km), nella serata del venerdì 10 marzo con un pubblico incontro tra gli organizzatori ed il popolo della cittadina e con la lettura di un messaggio d’adesione e di solidarietà inviato da Roma ai manifestanti dai pittori Renato Guttuso e Corrado Cagli. Altrettanto lunga ed estenuante è l’ultima tappa che da Partinico, attraverso Borgetto, Pioppo e Mon­reale, conduce i marciatori a Palermo. La colonna, che durante il percorso si era vistosamente infoltita diventa nutritissima alle porte della città. Gruppi di giovani, con cartelli inneggianti alla pace ed allo sviluppo sociale ed economico della nostra terra, confluiscono con incredibile continuità nella fiumana immensa dei manifestanti che per il corso Calatafimi scende rumorosamente, e per le grida di protesta e per le richieste, fatte ad alta voce, del diritto alla vita ed alla libertà, verso il centro della città.
In piazza Kalsa alle 17,30 avviene il festosissimo incontro tra i marciatori e la Palermo operaia.
È una grande manifestazione popolare il cui significato si individua in due punti essenziali: condanna aperta della attuale classe dirigente per l’inefficienza ormai lungamente dimostrata nel risolvere i problemi più urgenti e vitali dell’isola; ferma volontà di rompere con un mondo, con una maniera di condurre la cosa pubblica, tutte cose che puzzano di marcio.
Per primo dalla tribuna interviene D. Dolci leggendo alla cittadinanza la risoluzione del convegno di Partanna e ribadendo in secondo luogo la necessità che la commissione parlamentare antimafia renda pubblici gli atti in suo possesso.
Altri interventi fanno registrare Nino D’Angelo, Sergio Rapisardi, Lorenzo Barbera e Carlo Levi che definisce la manifestazione «un Parlamento democratico, che è sorto come presa di coscienza che rappresenta una realtà unitaria».
Conclude la serie di interventi molto drammaticamente Vo Van Ai: «Tut­ta la mia infanzia e quella della mia generazione non ha conosciuto che la guerra. A tredici anni ho conosciuto la prigione. La prima notte che mi hanno arrestato, nella camera degli interrogatori ho visto coi miei occhi cinque miei compatrioti torturati fino alla morte. Ho visto donne violentate, villaggi incendiati, bambini gettati nel fuoco. Ma tutte queste immagini esprimono soltanto la milionesima parte di quanto avviene attualmente nel Sud Vietnam, giorno dopo giorno, notte dopo notte. Avete mai visto dei bambini napalmizzati? Avete mai visto madri divenire folli davanti ad atrocità incommensurabili? Immagi­nate il cielo della Sicilia tutta ad un tratto stracciato da migliaia di aerei della morte, il cui solo rumore dei motori ci rende folli? Immaginate le vostre case e le vostre spiagge divenire d’un tratto basi militari? Ora nel Sud Vietnam una prostituta può nutrire quattro persone (la ruffiana che l’alberga, il protettore, l’uomo che col triciclo le porta il cliente e lei stessa), mentre un operaio specializzato non ha il lavoro per guadagnarsi il suo pane. Ci sono ragazze che scambiano il loro corpo per un pezzo di pane o per una bottiglia di latte. E chi deve ricevere aiuti governativi vede che le sue somme attraversando tante mani burocratiche divengono un niente.
Né la libertà, né democrazia ora esistono nel Sud Vietnam. Chi parla di pace e di neutralismo viene tacciato come comunista, imprigionato ed ucciso.
Affinché una soluzione sia realizzabile, è necessario che tutti i popoli del mondo facciano pressione sui loro governi perché questi all’unanimità domandino:
1) La cessazione immediata di tutti i bombardamenti americani nel Viet­nam.
2) La cessazione del sostegno americano al governo Ky nel Sud Vietnam.
3) La costituzione al Sud di un governo civile eletto dal popolo, indipendente da tutte le ingerenze straniere, che possa lavorare effettivamente per la pace, negoziando per la cessazione delle ostilità e tendendo alla riunificazione.
Voi avete sentito che i nostri problemi sono anche vostri; come io sento che i vostri problemi sono anche i miei. La soluzione dei problemi fondamentali nel Vietnam, nella Sicilia, in ogni paese del mondo è necessaria non solo al singolo paese ma a ciascuno al mondo. Viva il Vietnam e la Sicilia». Jerry Cooper, cantante negro ha cantato infine uno spiritual.

Articolo di Giuseppe Impastato pubblicato dal periodico “L’Idea” (1967)

CATTOLICI, ACCANTO A PAPA FRANCESCO, CONTRO LE GUERRE

 


Uscire dal sistema guerra


Pasquale Pugliese
20 Maggio 2024

Con l’Europa che invece di mediare spende in armamenti cifre mostruose (e accantona la proposta di istituire un Corpo civile europeo di pace) e l’infinito massacro di Gaza in corso, si è svolta a Verona l’Arena di Pace, promossa da pezzi del mondo cattolico e aperta a tutti i pacifisti e nonviolenti, laici e cattolici. Un barlume di speranza ricco di proposte



Era avvenuta da poche settimane la rivoluzione in Ucraina – o il colpo di stato, a seconda della prospettiva – in seguito alla quale ci fu l’annessione della Crimea alla Russia e l’inizio del conflitto armato nel Donbass tra milizie filorusse e filogovernative, quando si svolse a Verona l’Arena di Pace e Disarmo del 25 aprile 2014 dalla quale fu lanciata la Campagna per la difesa civile non armata e nonviolenta, che prenderà il nome “Un’altra difesa è possibile”.

Una campagna non ancora conclusa che, già dieci anni fa, proponeva attraverso una legge di iniziativa popolare (e successive proposte di iniziativa parlamentare), tra le altre cose, la costituzione dei Corpi civili di pace come forza non armata capace di intervenire nei conflitti con gli strumenti della nonviolenza, invece di inviarvi armi e armati. Scrivevo allora che era necessario “far diventare l’Arena di pace e disarmo il punto di partenza di una nuova grande mobilitazione europea per il disarmo e la pace per superare le politiche di potenza che hanno dominato i secoli degli imperialismi e delle guerre mondiali attraverso l’esercizio del potere dei popoli, l’unico capace di imporre politiche di pace” (7 marzo 2014).


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Invece, in questi dieci anni, tutti i governi che si sono succeduti in Italia hanno ignorato la proposta dei Corpi civili di pace, che avrebbero dotato il nostro paese di un “mezzo” costituzionale di “risoluzione delle controversie internazionali”, anziché la ripudiata guerra; la guerra regionale del Donbass, con l’invasione russa dell’Ucraina, è stata internazionalizzata e subisce un’escalation che ogni giorno rischia di scatenare l’apocalisse nucleare; l’Europa, schiacciata sulla politica di potenza statunitense, anziché svolgere il ruolo di Terzo mediatore, spende oggi in armamenti il 62% in più e, invece di approntare un Corpo civile europeo di pace, secondo la proposta avanzata da Alex Langer al Parlamento europeo fin dal 1995, minaccia l’invio di soldati a morire nelle trincee ucraine. In questo scenario disastroso – e mentre continua senza sosta il massacro di Gaza, che ogni giorno che passa assume le dimensioni del genocidio – si è svolta, sabato 18 maggio a Verona, la nuova Arena di Pace con la presenza di papa Francesco.

Promossa dalla Diocesi di Verona e dalle riviste cattoliche impegnate per la pace, sulla scia delle “Arene” precedenti, l’Arena di pace del 2024 ha visto la presenza di oltre 12.000 pacifisti e nonviolenti, laici e cattolici, riuniti in uno scenario straordinario con la bandiera bianca in mano – oltre alle bandiere arcobaleno – a ribadire l’urgenza dell’impegno per la pace, attraverso il disarmo e la costruzione degli strumenti nonviolenti di gestione dei conflitti, anziché la follia della nuova corsa agli armamenti che genera immensi profitti con le guerre.

Papa Francesco ha fatto una lezione di nonviolenza contro il bellicismo dilagante, spiegando che “dobbiamo saper fare i conti con la fisiologia dei conflitti, che sono una sfida alla creatività, per uscirne non con la violenza, ma al di sopra, attraverso il dialogo che prevede l’ascolto della pluralità”. Sembra evocare, Francesco, l’approccio di Johan Galtung, il fondatore dei Peace Studies, sul “trascendimento” dei conflitti attraverso la nonviolenza: prendersene cura e lavorarci con la fatica della mediazione creativa, anziché esasperarli e armarli.

L’Arena di pace 2024 è stata preparata nelle settimane precedenti dai Tavoli di lavoro, tra i quali quello su Pace e Disarmo partecipato dai movimenti per la nonviolenza, che ha elaborato un denso documento che indica le strade “per uscire dal sistema di guerra”. Si va dal ridurre progressivamente e rapidamente le spese militari e destinare le risorse liberate a politiche culturali e sociali alla sottoscrizione del Trattato per la proibizione delle armi nucleari, allontanando dal territorio italiano tutte le testate presenti; dalla costituzione della Difesa civile non armata e nonviolenta, con il relativo “Dipartimento” come primo nucleo di un futuro “Ministero della Pace” all’istituzione dei Corpi civili di pace, a partire dal nostro Paese; dal vietare senza eccezioni l’esportazione di armi e la cooperazione militare con paesi in guerra, difendendo la Legge 185/90 oggi sotto attacco, al fare della scuola una istituzione educativa che formi alla pace attraverso la nonviolenza, contrastandone i processi di militarizzazione con l’ingresso delle forze armate, e liberando anche l’Università dai condizionamenti del complesso militare-industriale. Insomma un rinnovato impegno programmatico dei “costruttori di pace”, tanto più necessario quanto più, come ha detto in conclusione papa Francesco, “la pace è nelle mani dei popoli che devono averne coscienza ed organizzarsi”. Rispondendo così anche all’appello registrato da Edgar Morin, le cui condizioni di salute a quasi 103 anni non hanno consentito di essere presente fisicamente, ma che non ha voluto far mancare la propria voce all’Arena di Verona: di fronte “a tanti pericoli, tante guerre, tanta difficoltà a trattare i problemi fondamentali dell’umanità, c’è bisogno di una coscienza fortissima della necessità di lavorare insieme per fare un movimento ardente e forte per la pace”. Vista la sordità dei governi, dieci anni dopo è più urgente che mai.


Pezzi  ripresi da https://comune-info.net/uscire-dal-sistema-guerra/

LA BANDIERA ROSSA VISTA DA GRAMSCI E PASOLINI

 


Alla bandiera rossa

 di PIER PAOLO PASOLINI

Per chi conosce solo il tuo colore,
bandiera rossa,
tu devi realmente esistere, perché lui
esista:
chi era coperto di croste è coperto di
piaghe,
il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese
africano,
l'analfabeta una bufala o un cane.
Chi conosceva appena il tuo colore,
bandiera rossa,
sta per non conoscerti più, neanche coi
sensi:  /  tu che già vanti tante glorie borghesi e
operaie,
ridiventa straccio, e il più povero ti
sventoli.

IN OCCIDENTE TUTTO, PERSINO LA CONTESTAZIONE, PARTE DAGLI U.S.A.

 



Nel 1964 a Berkeley il “Free Speech Movement” inaugurò la stagione delle proteste nelle università americane. Il cinema gli dedicò due film: “Il laureato” e “Fragole e sangue”.

Umberto Gentiloni

Berkeley la ribelle

«Ribellione nel Campus» titola il 30 settembre 1964 il «San Francisco Chronicle»; ventiquattro ore dopo il «Daily Cal», periodico dell’Università di California: «È guerra a Berkeley»; in pochi giorni la rivolta conquista le prime pagine, irrompe nei notiziari; la più grande università pubblica degli Stati Uniti si scopre d’improvviso inquieta e ribelle. È l’inizio di una nuova conflittualità che dal cuore dei campus americani si spinge oltre il perimetro del sistema formativo.

Dal mese di marzo l’autorità accademica aveva posto limiti e divieti alle attività studentesche: iniziative pubbliche e manifestazioni politiche potevano turbare il regolare svolgimento dei corsi. Un tavolino all’ingresso principale diventa il simbolo degli studenti: comizi volanti, distribuzioni di volantini e raccolta di firme che chiedono la riduzione delle tasse d’iscrizione. Poche settimane e lo scontro si acuisce: ai divieti del rettore seguono proteste e sit-in; nei caffè, nei viali che costeggiano l’università si susseguono incontri e cortei spontanei; da un microfono nella piazza principale Sproul Plaza, si alternano interventi di tre minuti con cui il neonato movimento muove i primi passi comunicando a voce alta idee e slogan.



Nasce così nelle turbolente settimane di autunno di 50 anni fa il Free Speech Movement (Fsm); la Bay area di San Francisco diventa laboratorio della nuova sinistra americana. «Per la prima volta non eravamo l’élite privilegiata che poteva permettersi di studiare a lungo, ci sentivamo l’avanguardia di un movimento che voleva cambiare nel profondo la società americana», così John Searle, protagonista di allora, a lungo docente di filosofia nel campus californiano. «I divieti erano solo la causa scatenante, noi chiedevamo di poter esprimere liberamente le nostre idee sugli argomenti più diversi, dai libri di testo alla musica rock, dal sesso alla politica del governo. Ma la cosa che ricordo con più piacere è la voglia di stare insieme, di riempire i luoghi dell’università di un senso di comunità che ancora oggi lega molti di noi a questo luogo».

Gli ultimi mesi di quell’anno speciale sono segnati da nuove proteste e arresti a catena fino a quando gli studenti non ottengono il riconoscimento della libera espressione fuori e dentro l’università. L’onda non si placa, il simbolo della rivolta scuote convenzioni e luoghi del sapere lungo tutti gli Anni Sessanta; le ragioni più profonde non si esauriscono nella richiesta dei free speeches, della libertà di espressione senza limiti o restrizioni: l’università fa esplodere le contraddizioni vecchie e nuove della società statunitense. I luoghi di allora conservano il fascino sbiadito della memoria: nella grande piazza si alternano tre volte alla settimana oratori improvvisati che propongono argomenti e riflessioni e se ci si allontana per poche decine di metri imboccando Telegraph Avenue si arriva a People’s Park un piccolo giardino di proprietà dell’università dove alloggiavano campeggiatori e musicisti incuriositi dalle aspirazioni del movimento.



Nel 1966 le autorità accademiche decidono di costruirci un dormitorio e un parcheggio; gli studenti e gli attivisti del Berkeley Peace Brigade oppositori della guerra in Vietnam prendono possesso del parco. Si va allo scontro. Il governatore della California Ronald Reagan invia centinaia di soldati, studenti e forze dell’ordine si affrontano in quello che molti ancora ricordano come il martedì di sangue; oltre cento feriti e una nuvola di fumo, un misto di lacrimogeni e auto bruciate che copre per ore la città. «Il parco non si tocca» è lo slogan unificante; Joan Baez si unisce agli studenti cantando da Sproul Plaza.

Oggi è un piccolo angolo della memoria ritrovo abbandonato per homeless che vi si trasferiscono da mezza America in cerca di sostegni e amicizie. Harold vive nel parco da decenni, è il padrone di casa, annaffia le piante, custodisce le aiuole sorveglia con orgoglio il museo di foto e murales degli anni d’oro. Per lui l’orologio del tempo è ancora fermo al 1964: «Ho nostalgia della rivolta degli Anni 60, delle tante persone che ogni giorno arrivavano da tante università del Paese, eravamo un simbolo e una speranza per tutti; poi la violenza ha rovinato tutto e la droga ha distrutto anche le menti». I bilanci sono un esercizio complicato.

Carlos Munoz docente di storia contemporanea a Berkeley va oltre le ricorrenze: «Tra luci e ombre la memoria di 50 anni fa appare lontana anche se è indubbio che le lotte studentesche, il movimento dei diritti civili e il Vietnam hanno cambiato tradizioni e cultura della società americana. E quelle spinte sono giunte fino agli angoli più diversi del pianeta. Dopo il settembre 1964 niente è tornato come prima. L’università era cambiata e, nonostante i nostri tanti errori, era cambiata in meglio. Quella stagione ha lasciato una grande eredità: l’idea di una generazione che non si riconosceva nelle categorie e nelle analisi della guerra fredda. Il rock, la critica all’autoritarismo e di lì a poco la dimensione internazionale della protesta superavano cortine e divieti. Per tanti di noi il muro di Berlino è cominciato a cadere in quegli anni. Siamo stati i figli di un mondo nuovo che oggi ancora non c’è».



Nel manifesto degli studenti - conservato nella Bancroft Library - si legge: «Il mondo del 1964 è lo stesso del 1945-46, stessi odi, stesse divisioni, stessi pericoli di guerre. Se non facciamo qualcosa adesso rischiamo di essere in colpevole ritardo». Quarant’anni sono il tempo di due generazioni. Il sogno irrealizzato di un’America più giusta vive di nuovi stimoli e interessi. «Questa università è la coscienza viva di una possibile civiltà degli Stati Uniti che, dal bordo dell’oceano può arrivare nel cuore del Paese», così Martin Luther King saluta nel maggio 1967 gli studenti riuniti a Sproul Plaza. Una coscienza inquieta e ribelle fatta di memorie e speranze, ma forse più di ogni altra cosa di un desiderio continuo di guardare avanti.
La Stampa - 1.10.2014

19 maggio 2024

TINA MODOTTI TRA FOTOGRAFIA E RIVOLUZIONE

 


TINA MODOTTI: una fotografa rivoluzionaria

Amicizie e rivoluzioni all’ombra delle palme californiane e sotto il Popocatepétl, sull’altipiano di Città del Messico. Fotografie, circoli letterari, vertigini erotiche e molta politica militante. 

 

Luca Celada

L’avanguardia? Ha appetiti piccanti


Tina Modotti era sbarcata a San Francisco proveniente dalla natia Udine nel 1913 dopo una traversata in bastimento in terza classe. Sola e appena diciassettenne Tina, si era imbarcata per raggiungere il padre Giuseppe che aveva accarezzato l’idea di fare il fotografo come suo fratello Pietro, ma in California finì per aprire un’officina meccanica generale.

Tina invece trova lavoro come sarta, cappellaia e operai tessile – il mestiere già esercitato in patria sin dall’età di 12 anni. Lei, però, è anche inesorabilmente attratta dai teatri di Little Italy sui cui palcoscenici diventa presto una celebrità, in virtù dei ruoli interpretati in sceneggiate e melodrammi e le opere di D’Annunzio e Pirandello che attraggono un folto pubblico di emigrati.

La svolta per la giovane donna avviene con l’incontro con Roubaix de l’Abrie Richey; lo pseudonimo è l’artificio ostentato da un giovane poseur – Robo fra gli amici – che ama esibire uno stile bohemièn assorbito durante gli studi artistici a New York. Per Tina lascerà la moglie adolescente, trasferendosi con lei a Los Angeles. Sarà il primo di una serie di incontri folgoranti che segneranno l’intensa vita artistica e passionale di Modotti. 

A Los Angeles Tina e Robo trovano una città molto più piccola e polverosa ma anche più futurista, satura di possibilità dopo la fine della guerra e dell’influenza spagnola. È una specie di paesone semiedificato e «messicaneggiante», dove scorrazzano i Keystone Cops di Mack Sennett e continuano a sbarcare futuri luminari dell’industria cinematografica in pieno boom – come Buster Keaton, appena giunto quello stesso anno da New York.


I due giovani affittano un appartamento nel Bryson – l’elegante immobile da poco finito su Lafayette Park, vicino al centro – dove risiedono già molti giovani in carriera hollywoodiana. Tina vi si aggregherà presto, ottenendo le prime scritture per piccoli ruoli in film muti. La «bellezza italica» esotica e levantina, esercita un forte fascino negli anni de Lo Sceicco e Tina, attrice avvenente e disinibita, trova quasi subito un ruolo da protagonista in The Tiger’s Coat, un lungometraggio che gira nell’estate del 1920 nei teatri di posa che diverranno di lì a poco i Paramount Studios. Interpreta una fascinosa ingenue messicana.

Los Angeles riflette i paradossi dell’epoca. Mentre le folle premono sulle corde di velluto alle prime monumentali di Valentino e Chaplin – in città c’è il fermento politico di un emergente movimento operaio. Socialisti, comunisti e Wobblies internazionalisti del Iww (International workers of the world) organizzano comizi e scioperi. Il vicino Messico è scosso dalle fasi finali della rivoluzione. Pancho Villa spadroneggia nel nord e sconfina spesso in territorio yankees, sfuggendo all’esercito americano (e si premura di far filmare le incursioni dai cinegiornali di Hollywood). 

A pochi passi dagli studios di Sennett, Tom Mix e, di lì a breve, Walt Disney, quando il cinema aveva la sua base nel quartiere di Edendale, c’è la fattoria dove l’anarchico Ricardo Flóres Magon tiene banco con esuli rivoluzionari messicani (prima di venire richiuso e ucciso in prigione dalle autorità americane). Modotti non è una delle mille starlette che arrivano quotidianamente in città e che darebbero l’anima per metà del suo successo. Il suo destino sta nel giro di artisti d’avanguardia che frequenta con Robo e, senza ancora saperlo, proprio nella militanza politica che la attirerà a sud del confine.

Lei e Robo aprono un’officina artistica vicino al centro per traferirsi poi in una casa nella Valley, allora campagna. Nell’atelier, Robo tinge batik su sete pregiate che Tina trasforma in capi d’abbigliamento per signore raffinate. Vi sono letture, incontri e salotti – un giro di cui fanno parte, fra gli altri, l’architetti Lloyd Wright e Rudolph Schindler, appena giunto da Vienna. E c’è anche Edward Weston, destinato a consacrarsi fra i maggiori innovatori della fotografia artistica. Tina ne diviene la modella preferita e, a stretto giro, l’amante. Fra i due nasce una passione vertiginosa in cui la sperimentazione (Tina inizia ad assisterlo in camera oscura, nell’arte che fu di suo zio) si unisce all’attrazione fisica. 

Weston è sposato con quattro figli e ha già un passionale rapporto con Margrethe Mather, singolare figura di artista, ex prostituta bohemiènne, bisessuale e libertina, anche lei dedita alla sperimentazione formale con la fotografia. Nell’ambiente dell’avanguardia losangelese si intrecciano collaborazioni creative e rapporti poliamorosi. Se non consenzienti Robo e la moglie di Weston sono sicuramente a conoscenza di quella fra Tina e Edward. E lo è anche Mather con cui Weston produce ancora lavori di prorompente forza erotica e innovativa. Nell’aprile del ’21 il fotografo confiderà a un amico: «La mia vita è assai ricca – forse anche troppo – non solo credo di aver prodotto del buon lavoro ultimamente, ma ho anche avuto una storia squisita… le foto che credo siano fra le mie migliori, sono di una certa Tina De Richey, una dolcissima ragazza italiana…».

Nel 1923 Robo parte per Città del Messico e inizia a organizzare una mostra cui dovrebbero partecipare anche Tina, Weston e Margrethe Mather. Lui morirà di vaiolo e per Modotti, che arriverà solo due giorni dopo, si aprirà un nuovo capitolo della vita. Ciudad De Mexico la seduce: entro un anno vi si trasferisce assieme stavolta a Weston, con cui inizia una proficua collaborazione, alla quale si affianca ben presto il lavoro documentario, a sfondo sociale.

Le foto di Modotti documentano il movimento operaio e la realtà campesina che affascina anche lo stesso Weston e in quegli anni artisti come Sergej Ejzenštejn. Il Messico post rivoluzionario è un calderone di sperimentazione sociale tragicamente destinata a non arrivare mai a piena fruizione, ma che produce un enorme fermento artistico e intellettuale. Tina è subito nel giro dei muralisti, di Orozco, Siqueiros Diego Rivera e Frieda Khalo. I nuovi sodalizi artistici e militanti per Tina conducono anche a un nuovo travolgente amore, quello più grande, per il giovane rivoluzionario cubano Julio Antonio Mella, co-fondatore del partito comunista cubano che, esule in Messico, dirige in quegli anni il quotidiano anti-Machado, Cuba Libre.

Qui l’intreccio artistico, sentimentale e politico della vita di Tina Modotti si infittisce e si offusca, prende una svolta oscura e dolorosa. Il 10 gennaio del 1929 mentre rincasa con Tina, Mella viene assassinato. Il proiettile sparato a bruciapelo porta la firma del conflitto interno sempre più stridente che dilania il comunismo internazionale. Su mandanti ed esecutori dell’omicidio non si farà mai luce. Vengono fermate alcune persone poi rilasciate. Il delitto, in un primo tempo, viene imputato dal governo messicano proprio a Modotti che verrà strenuamente difesa da Diego Rivera. E molti ravvisano in un quadro del celebre pittore – En El Arsenal – gli indizi più attendibili. In quel quadro Tina è raffigurata mentre porge una cintura di munizioni all’amato Mella. Dietro di loro incombe con cipiglio minaccioso Vittorio Vidali. 

Il comunista istriano è l’ultimo uomo che segna la vita della Modotti, ma molti vedono in questo staliniano di ferro – enforcer della linea del comintern stalinista, agente del Nkvd che sarà implicato nella morte anche di Trotsky – il carnefice più plausibile di Mella. Sono illazioni fosche, sintomatiche degli opachi conflitti ideologici dell’epoca, mai dimostrate ma che non impediscono che sulla relazione fra Modotti e Vidali continui a gravare il sospetto di un rapporto strumentale, venato di plagio e di violenza. Tina resterà al suo fianco, lo seguirà a Mosca poi nella guerra di Spagna – dove l’ormai ex fotografa opera nel soccorso rosso. È l’ultimo sodalizio che durerà fino alla fine della sua straordinaria vita. Tina Modotti morirà nel gennaio 1942, in un taxi, nell’amato Messico dov’era tornata, per un presunto infarto. 

Il manifesto – 25 agosto 2018


18 maggio 2024

LA MEDEA DI PASOLINI NELLE FOTO DI MIMMO CATTARINICH

 







FACCIAMO UN PONTE...

 


Facciamo un ponte

Alessandro Ghebreigziabiher
17 Maggio 2024

Foto di No Ponte

C’era una volta un Paese.
Che dai, sappiamo bene quale sia, ma sembra che il più delle volte ci sforziamo tutti di dimenticarlo.
Come se fosse un Paese uguale agli altri, ecco.
Nel Paese come se fosse uguale agli altri immaginate una stanza gremita da loro, le persone che contano, che ragionano e decidono per la collettività.
All’improvviso, anche se non è affatto così, al centro del discorso arriva il maltempo, le frane e i crolli.
In una sola parola, l’emergenza.
Bisogna rispondere con tempestività e intelligenza, tutti confabulano, chi urla, chi replica più pacatamente, mentre si ode una voce dal fondo esclamare: “Facciamo un ponte!
La maggior parte lo ignora e riprende a discutere, partendo come si fa in questi casi dall’attualità, ovvero le case e i territori allagati.
C’è chi parla di evento straordinario e invoca addirittura un Piano Marshall per la Protezione civile.

Al contempo, la voce di cui sopra incalza: “E allora facciamo un ponte!
Il gruppo dirigente persevera nell’ignorarla e continua a confrontarsi sui problemi all’ordine del giorno. Si discute di intere regioni in ginocchio, danni e disastri, un vero inferno d’acqua.
Ma il tizio non demorde e grida sempre più convinto: “Facciamo un ponte!
I leader, o presunti tali, continuano a trascurarlo e riprendono il necessario conciliabolo, ragionando anche sulle sciagure accadute in precedenza in altre zone, dove si è prolungato perfino di un anno lo stato di emergenza e con un bollettino disastroso per strade e ferrovie.
Eppure, tutto ciò sembra non intaccare la fissazione dell’unica voce dissonante: “Facciamo un ponte!” ripete il nostro come un disco folle, più che rotto.
Gli altri preferiscono riflettere di fronte a ulteriori numeri, il modo migliore per capire cosa stia accadendo, e se ne palesano di preoccupanti riguardo alla quantità di terremoti relativi solo al mese di marzo, laddove comparati con quelli della fine dell’anno scorso.
Inoltre, non può che allarmare la drammatica sentenza riguardo alla mobilità urbana su rotaia qualora il Paese come se fosse uguale agli altri venga messo a confronto con questi ultimi. Si parla di maglia nera, ovvero ultimo posto.
“Cosa facciamo per affrontare tutto ciò?” si chiedono in molti. Be’, nonostante la gravità della situazione, si leva tonante il solito grido con la propria geniale soluzione: “Un ponte, ecco cosa facciamo!
A quel punto alcuni cominciano a spazientirsi e a causa degli scoraggianti dati sulle alluvioni e le inondazioni relativi all’anno scorso e a quelli precedenti, uno tra costoro di quelli arrivati da poco si volta incuriosito e domanda alla persona più vicina: “Ma chi è quel tipo che insiste a proporre di fare un ponte dinanzi al terrificante sfacelo in cui si trovano le nostre infrastrutture?”
“È il Ministro…” fa l’altro sconsolato.


Storie e Notizie N.2240 / Video podcast su Youtube

Articolo ripreso da: https://comune-info.net/facciamo-un-ponte/


17 maggio 2024

CLARA ZETKIN SULLA "EMANCIPATION DE LA FEMME"

 


FRANCO BIFO BERARDI, TEMPO-MORTE-ASTRAZIONE

 

https://youtu.be/g0Y6JkisNbA


Tempo, morte e astrazione


Franco Beradi Bifo
11 Maggio 2024

La rimozione della morte accompagna da sempre la civiltà bianca occidentale. C’è una ragione profonda, dice Bifo, di questa rimozione: il capitalismo è il tentativo più riuscito di realizzare l’eternità, l’accumulazione di capitale è eterna, non importa se non lo è la vita delle persone. Accumulazione di potere significa tentare all’infinito di intensificare in tanti modi diversi la produttività in ogni ambito della vita: in questo contesto la digitalizzazione (che implica una gigantesca e costante stimolazione informativa da cui sembra impossibile difendersi) e la precarizzazione del lavoro favoriscono effetti psichici, cognitivi e dunque sociali devastanti. Panico, depressione, ma anche azzeramento del tempo per la percezione di sé, per l’affettività, per il pensiero critico collettivo. Anche così si spiega la crescita del bisogno di violenza e del bisogno di guerra…

Foto di Jené Stephaniuk su Unsplash

Uno sguardo ironico sulla direzione del tempo, sulla ricerca di sintonia con il divenire nulla, mi appare sempre più urgente. Forse è solo una mia urgenza personale, o forse è un’urgenza filosofica per chiunque si rende conto di quanto tossica sia l’atmosfera fisica e psichica in cui siamo immersi.

Il tema su cui il Congresso di Filosofia Galiziana ci invita a riflettere è quello del tempo, ma io non pretendo di parlarne in maniera esaustiva. Mi limito a riferirmi a due prospettive filosofiche che nella modernità hanno pensato il tempo.

La prima è la prospettiva kantiana, che inaugura un filone mentalista, o innatista della filosofia moderna, facendo del tempo una categoria trascendentale, una pre-condizione dell’attività mentale. In Kant la parola “trascendentale” indica il primato della forma-tempo (e della forma-spazio) rispetto all’esperienza. Puro da ogni esperienza è dunque il tempo kantiano, perché solo nel tempo si può percepire, esperire, conoscere.

C’è però un’altra visione del tempo che mi interessa più direttamente. È quella che prende forma nel pensiero di Henri Bergson: l’idea del tempo come durata, come esperienza, come flusso di percezione che produce, esperendola, la sua dimensione temporale.

Due visioni opposte, se vogliamo, ma anche complementari: secondo la prima il tempo è condizione in cui si dà l’esperienza, per la seconda non vi è tempo se non come tempo dell’esperienza.

L’etimologia della parola latina ex-periri è equivoca. Deriva da ex-perior: ci provo, passo attraverso. Andare a/traverso: per-ire.

C’è la morte, nell’orizzonte dell’esperienza nel tempo, e il tempo soggettivo è segnato da questa consapevolezza del venir meno. Il tempo è l’autopercezione di un divenire, del divenire di un corpo entro l’orizzonte del suo divenire nulla.

Deleuze e Guattari hanno proposto il concetto di divenire come metamorfosi degli esseri viventi: hanno parlato di divenir minore, divenir donna, divenir animale, divenir altro… Non hanno parlato di divenire nulla, che invece mi pare una prospettiva non solo interessante, ma forse anche indispensabile.

Il divenir nulla rimane impensato nella cultura moderna, pur essendo il processo che meglio ci permette di comprendere la potenza della coscienza: potenza di porre in essere il mondo per un soggetto cosciente, e potenza di annientare il mondo per un soggetto cosciente. Eppure questo divenire è ignorato dal pensiero e dalla pratica, nella sfera della civiltà occidentale. Perché?

Essais sur l’histoire de la mort en Occident, di Philip Ariès, è un libro sulle ragioni per cui nella sfera culturale dell’occidente – particolarmente nella sfera culturale bianca protestante, quel divenire non può essere pensato: una società che premia soltanto chi vince identifica la morte con una sconfitta inammissibile. Rimozione della morte: la civiltà bianca occidentale non può concettualizzare quell’evento perché incompatibile con la proiezione di un futuro di espansione illimitata, che è l’anima della colonizzazione bianca del mondo.

C’è una ragione profonda di questa rimozione: il capitalismo è il tentativo più riuscito di realizzare l’eternità. L’accumulazione di capitale è eterna. Il valore, in quanto astrazione del tempo di vita, è eterna, anche se si tratta di un’eternità che ci costa la mortificazione della vita reale. Attraverso la mortificazione del tempo vissuto realizziamo l’eternità del capitalismo.

La frase di Mark Fisher “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo” sembra un paradosso. Non lo è. È più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo perché la fine del mondo è possibile, anzi sta effettivamente accadendo. La fine del capitalismo non è possibile perché il capitalismo è eterno, in quanto si costituisce nello spazio dell’astrazione, e l’astrazione è eterna: non esiste.

Però quella dell’astrazione è una non esistenza che presuppone il sacrificio dell’esistenza reale di innumerevoli esseri umani.

Il capitalismo instaura una dimensione percettiva in cui il futuro è espansione illimitata. Il futuro non finisce mai, dunque l’espansione è illimitata. Entro le condizioni epidemiche della modernità non si può pensare il futuro senza pensare la crescita, condizione dello sviluppo capitalistico.

Il futurismo non fu solo un movimento letterario, ma un carattere profondo della cultura capitalistica in tutti i momenti del suo sviluppo. All’inizio del secolo ventesimo il futurismo si afferma come la modalità più decisiva nella percezione del tempo, al punto che non si può immaginare una relazione sociale o produttiva, senza espansione. Il futuro deve essere espansione altrimenti c’è un disturbo, un pericolo, una disgrazia depressiva che non possiamo tollerare.

Mi viene in mente quel che scrive Milan Kundera in La vita è altrove (Adelphi):

“Pensate che il passato, solo perché è già stato, sia compiuto e immutabile? Ah, no, il suo abito è fatto di taffetà cangiante, e ogni volta che ci voltiamo a guardarlo lo vediamo con colori diversi…”.

Il passato cioè esiste solo nella memoria, e la memoria, come una giacca di taffetà cambia perché con il passare del tempo cambiamo prospettiva, e vediamo aspetti che prima non vedevamo mentre qualcosa la dimentichiamo. Il futuro, invece, ci arriva addosso come un inconoscibile che non possiamo né prevedere né modificare con la volontà.

Il futuro del capitalismo è un inconoscibile al quale non possiamo sfuggire perché il capitalismo funziona come un complesso di automatismi attraverso i quali l’astrazione (valorizzazione) si impone sopra il concreto (il lavoro vivo). La storia del capitalismo è una storia di crescita perché la tecnica rende possibile una costante accelerazione del tempo di lavoro.

È nell’intensificazione della produttività del lavoro nell’unità di tempo che si trova la soluzione dell’enigma che chiamiamo crescita, o sviluppo o progresso. In questa storia di accelerazione, che è la storia del lavoro e della sua progressiva astrazione, si è verificato qualcosa di nuovo negli ultimi decenni: la digitalizzazione del lavoro ha reso possibile un’intensificazione fantastica della produzione di plusvalore. Di questa intensificazione quel che più mi interessa non è la dimensione economica dell’accelerazione produttiva, ma gli effetti psichici e cognitivi.

Mi riferisco alla cellularizzazione del tempo di vita, all’effetto di ubiquità della produzione alla scomparsa o rarefazione del corpo dell’altro nel processo di comunicazione.

Grazie alla tecnologia digitale ogni individuo può ricevere e mandare una massa crescente di informazione; l’informazione non è solo segni immateriali ma anche trasmissione di stimoli materiali che giungono alla materia nervosa di cui il cervello è composto, stimolando l’organismo sensibile in maniera sempre più rapida. Patologie come i disturbi dell’attenzione che caratterizzano i comportamenti cognitivi delle generazioni digitali non si possono comprendere se non riflettendo sull’effetto fisico o piuttosto cognitivo prodotto dalla stimolazione informativa.

Non possiamo sapere se ci sia un punto di rottura in questa accelerazione, quel che conosciamo bene è la diffusione di patologie psichiche nella generazione più giovane. Mi pare di comprendere che ci sono due effetti essenziali della sovra-stimolazione. Il primo è un effetto che si può definire come panico, un effetto di accelerazione della reazione psichica che si manifesta come sensazione di non essere all’altezza del tempo, di essere sempre in ritardo, di essere sopraffatti da un’onda di eventi che non possiamo comprendere in successione.

Un organismo che soffra a lungo di questa stimolazione panica può a un certo punto collassare e passare a una modalità depressiva: caduta della tensione desiderante che segue all’effetto panico.

I due effetti sono da vedere – sul piano collettivo – come patologie complementari che si alimentano a vicenda.

La precarizzazione del lavoro è il contesto in cui questo doppio effetto patogeno si manifesta e si alimenta. Che significa precarietà a livello lavorativo e giuridico lo sappiamo bene: una interruzione della relazione normativa tra il datore di lavoro e il lavoratore, una rottura che obbliga il lavoratore a vivere sempre in una condizione di concorrenza e di competizione con gli altri lavoratori. In una condizione di attesa continua

Marx spiega che i proletari diventano operai quando entrano nella fabbrica. C’è concorrenza tra proletari quando si presentano davanti alla fabbrica perché competono per entrare. Quando sono entrati in fabbrica diviene possibile fra loro l’amicizia, la solidarietà di classe. È questa la trasformazione da proletari a operai. Ma la precarizzazione generale del lavoro cambia la prospettiva, perché ogni giorno i proletari sono costretti a competere tra loro senza possibilità di trasformarsi in lavoratori capaci di solidarietà.

Il concetto di precarietà non si limita alla dimensione lavorativa, ma si deve analizzare come concetto psicopatologico. Quando diciamo precarietà diciamo una condizione in cui la relazione sociale affettiva e sociale con l’altro è sempre in pericolo, è sempre in una condizione di ridefinizione. La trasformazione digitale comporta che il lavoratore non incontra mai il corpo dell’altro lavoratore pur collaborando con lui alla produzione di (astratto) valore.

La sfida del capitalismo mira verso l’eternità attraverso l’astrazione del lavoro e attraverso l’accumulazione virtualmente infinita del valore. Ma a un certo punto della storia del capitalismo, si verifica un fenomeno che definirei come esaurimento. L’eternità (astratta) della produzione di valore non toglie di mezzo il corpo, e il corpo (concreto) vive nel tempo:  invecchiamento, esaurimento, divenire nulla. Il capitalismo è virtualmente eterno, ma i corpi dei lavoratori, della società vivente, non sono eterni. Sono corpi che si esauriscono, che invecchiano, che muoiono. Questa contraddizione è scandalosa, è qualcosa che non può si può pensare, tanto è vero che pensarla, dirla ad alta voce suscita un certo imbarazzo. Questo scandalo della morte è qualcosa che lo sviluppo capitalista non intende riconoscereC’è tutta una macchineria economica, ideologica, pubblicitaria che mira negare l’esaurimento, però l’esaurimento avviene, anche se non ne dobbiamo parlare.

L’invecchiamento della popolazione bianca nel nord del mondo ha diverse facce: anzitutto è un effetto del prolungamento del tempo di vita, che è un successo straordinario della medicina e della scienza in generale, ma è anche un fallimento del filosofo, perché il filosofo non ha saputo pensare l’invecchiamento nelle sue implicazioni sociali, politiche, etiche. D’altro lato l’invecchiamento del mondo è legato a un altro fenomeno non meno interessante che si chiama denatalità.

Il tema è enorme, forse il più grande argomento del tempo in cui viviamo e di quello futuro. I politici in generale, ad esempio i politici (e le politiche) italiane parlano di inverno demografico, parlano di pericolo della denatalità. Le donne non fanno figli, è un pericolo per l’ordine sociale, che possiamo fare?

La versione ufficiale è che si tratti di un problema essenzialmente economico: non ci sono asili, occorrono soldi per le madri, occorrono congedi per i padri e cose del genere. Ma io credo che la denatalità sia un fenomeno molto più complesso di quello che l’economia può comprendere. Anzitutto è un effetto della libertà delle donne, in secondo luogo è un effetto della separazione della sessualità dalla procreazione, resa possibile dalle tecniche contraccettive e abortive. In terzo luogo, e soprattutto, mi pare che la denatalità oggi sia l’effetto di una coscienza diffusa in gran parte del mondo del carattere terminale del nostro tempo. Consciamente o inconsciamente le donne hanno deciso che non è buona cosa generare le vittime dell’inferno climatico inevitabile, le vittime della guerra nucleare sempre più probabile.

In Corea del Sud il tasso di riproduzione è sceso a 0.7 che vuol dire che i coreani sono destinati a sparire nel giro di qualche generazione. Ma lo stesso accade in tutto l’emisfero nord, e tende a divenire la tendenza generalizzato nel corso del secolo. Un crollo demografico di proporzioni eccezionali, che secondo alcuni demografi (vedi ad esempio Spear Dean) farà scendere la popolazione ai livelli in cui si trovava alla fine del secolo diciannove. (nytimes.com)


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L’invecchiamento della popolazione del nord del mondo sta producendo effetti culturali psichici e sociali enormi, che si manifestano con quel che appare come un ritorno del fascismo anche se non è propriamente un ritorno del fascismo. Chiaramente i partiti che discendono dal fascismo storico vincono le elezioni con una propaganda di tipo razzista. Ma si tratta davvero di un ritorno del fascismo storico?

Il fascismo era centrato sulla giovinezza, come ci ricorda la canzone dei fascisti italiani. Il fascismo è essenzialmente futurista, fenomeno di conquista, di aggressività colonialista, di coraggio maschile. Non mi pare che il fascismo di oggi sia giovane, né coraggioso, né finalizzato alla conquista. Gli europei come i nordamericani, come i russi temono quella che vedono come un’invasione dei poveri del mondo, degli affamati, di coloro che subiscono più duramente la guerra e gli effetti del cambio climatico. Insomma direi che il movimento reazionario globale di cui si moltiplicano i segni da un decennio, è un fascismo dei vecchi. È un fascismo che teme l’invasione dal sud, un fascismo alla rovescia. Un fascismo della paura non del coraggio conquistatore.

La genesi psichica di questo movimento reazionario la spieghiamo solo se comprendiamo il fatto che l’identificazione del futuro con l’espansione è radicata in maniera talmente profonda che non riusciamo a pensare l’esaurimento, né l’invecchiamento, né la morte. È l’impotenza che la civiltà bianca non riesce ad affrontare ed elaborare. L’impotenza dell’organismo nel tempo: questo è il nucleo della psicosi di massa che torna e ritorna nella storia dell’Occidente.

La persona che meglio parla del fascismo contemporaneo è probabilmente Michel Houellebecq, che è un razzista, se vogliamo, un machista un po’ caricaturale, ma comunque è colui che meglio racconta dall’interno la solitudine maschile contemporanea.

L’extension du domaine de la lutte è un libro che spiega la genesi dell’aggressività maschile bianca senescente come motore principale del movimento reazionario globale. Aneantir parla invece della disperazione che l’invecchiamento della civiltà bianca produce.

L’aggressività è iscritta nello psichismo della civiltà bianca, ma il problema è che adesso le energie scemano, e l’aggressività ci riesce male: non siamo in grado di riconoscere la nostra impotenza, a livello politico come a livello sessuale, e pretendiamo di riaffermare la supremazia bianca con la tecnologia, l’economia, le armi. La supremazia bianca giunge ora al suo momento declinante, e a questo punto la demenza senile sembra prendere il sopravvento. La guerra ucraina, guerra inter-bianca, rischia di evolvere in maniera sempre più drammatica, verso la guerra nucleare. Una rissa tra vecchi dementi dotati di armi spaventosamente potenti rischia di finire male per tutti.

L’invecchiamento, e la demenza senile sono la radice profonda della psicosi che si manifesta come fascismo di ritorno.

Ma un’altra radice del fascismo contemporaneo è il caos, o meglio la percezione del caos. Parliamo del caos, perché il caos ha molto a che fare con il tempo. Infatti per capire cosa vuol dire caos dobbiamo partire dal tempo vissuto, dal tempo mentale.

Il caos non esiste in sé. Nel mondo non c’è nulla che si possa definire come caos. Esso infatti è solo una misura del rapporto fra velocità dei processi in cui siamo coinvolti, velocità dell’infosfera, e ritmo dell’elaborazione mentale, emotiva oltre che intellettuale. Stiamo parlando di una relazione tra ritmo di elaborazione mentale e ritmo della stimolazione info-neurale che la mente riceve.

Per millenni la mente umana ha agito in un ambiente in cui l’informazione viaggiava con la velocità della relazione immediata, o con la velocità del testo scritto. Una velocità relativamente lenta che è andata accelerando nel corso della modernità, fino al momento di un’esplosione fantastica, conseguente più o meno all’introduzione dell’elettronica, e alla digitalizzazione della semiosi universale. Da quel momento l’infosfera ha preso a moltiplicarsi fantasticamente. E se dico che si moltiplica sto dicendo che si accelera in rapporto alla mente ricevente.

La mente viene esposta allora a una massa di informazioni che non sono semplici segni immateriali, ma sono stimoli nervosi che la mente non può elaborare, e producono effetti di sovraccarico, di panico, di caos. Gli stimoli che giungono dall’infosfera agiscono come un costante appello all’attenzione, come una mobilitazione perpetua delle energie attentive, e questa mobilitazione non lascia spazio alla percezione di sé, all’affettività, né alla critica.

Che facciamo in questa situazione? Nelle condizioni di caos la reazione psichica del soggetto si può fare aggressiva: il caos spinge l’organismo al bisogno di violenza, al bisogno di guerra.

La fine del tempo è impensabile, ma non è impensabile la fine del tempo umano. Il tempo umano è qualcosa di concreto. L’astrazione ci sopravviverà, probabilmente, per quel che ce ne frega. Ma il tempo umano contempla oggi la probabilità della sua fine.

Il mondo non è l’astrazione, ma è il corpo massacrato dei palestinesi, il corpo massacrato della vita sociale nei luoghi devastati dal collasso climatico. Questo corpo concreto non può sopravvivere nell’accelerazione caotica crescente.

Per concludere debbo dire però che il quadro che sono andato delineando, lo scenario del probabile e dell’inevitabile che sono andato delineando, va relativizzato.Perché l’inevitabile in generale non si verifica, in quanto l’imprevedibile prende il sopravvento. Non mi interessa parlare di speranza, una parola che non pronuncio.


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Mi interessa pensare, parlare, agire in termini di imprevedibile. E dell’imprevedibile nulla possiamo dire. Di quello che non possiamo dire dobbiamo tacere. Possiamo descrivere l’inevitabile ma non possiamo sapere quale evento, quale creazione, quale algoritmo, quale forma di vita stia prendendo forma come possibilità che sta al di fuori della nostra conoscenza.

Se ci limitiamo a descrivere le condizioni oggettive e soggettive del presente ci rendiamo conto che non c’è modo di sfuggire a una tendenza verso l’annientamento dell’umano. Se parlo di quel che conosco non vedo alcuna via d’uscita. Ma quel che io conosco non è tutto: non conosco l’imprevedibile. Non parlo di qualcosa di mistico, ma della produzione mentale, immaginativa, estetica, tecnica, che non appartiene al campo del conosciuto e dell’esistente. Come al solito è l’ignoranza (forse) che ci salva. È il non sapere che salva dal sapere.


Testo dell’intervento alla conferenza ospitata dal Teatro principal di Pontevedra, il 4 aprile 2024, nel contesto della Settimana galiziana di Filosofia