31 gennaio 2017

J. L. BORGES, Non siamo altro che nuvole


Foto di Graziella Lupo Pendinelli



Non vi sarà mai cosa che non sia
una nube. Lo son le cattedrali
di vasta pietra e bibliche vetrate
che il tempo spianerà. Lo è l’Odissea,
che cambia come il mare. Se la riapri
sempre cambia qualcosa. Anche il riflesso
del tuo viso è già un altro nello specchio
ed il giorno è un dubbioso labirinto.


Siamo chi se ne va. La numerosa
nuvola che si disfa all’occidente
è nostra effigie. Incessantemente
la rosa si tramuta in altra rosa.
Sei nuvola, sei mare, sei l’oblio.
Sei anche tutto quello che hai smarrito.


Jorge Luis Borges




RENZI TRA FAVOLE E REALTA' 1 e 2











BASTA CON LA FAVOLA RENZIANA!

Per chi non l’avesse ancora capito, le attuali classi dirigenti (banchieri, grandi manager pubblici e privati, alti magistrati, partiti di governo, ecc. ecc.) stanno cercando in tutti i modi di far dimenticare l’esito del referendum costituzionale dello scorso 4 dicembre. Renzi si sta riscaldando ai bordi del campo per tornare a giocare la sua partita.
E’ ora di dire basta alla favola renziana - che, oltretutto, è soltanto una edizione aggiornata di quella berlusconiana! -  riassumibile così: 

Il mondo è cambiato. Siamo di fronte ad una svolta epocale che richiede l’uso di un nuovo modo di pensare. Il 900 è alle nostre spalle e le sue categorie concettuali non servono più per capire il presente: Non esistono più le classi sociali e la lotta di classe è superata. Categorie come DESTRA e SINISTRA non hanno più senso. Non è più tempo di parlare di DIRITTI ma di DOVERI e di RESPONSABILITA’ (da Marx si torna a Mazzini! E tutto questo lo chiamano progresso e innovazione! ) Secondo Lor Signori il mondo oggi non  è  più diviso tra CLASSI DOMINANTI e CLASSI SUBALTERNE, tra  SFRUTTATORI E SFRUTTATI, ma tra INNOVATORI e  CONSERVATORI!

E’ ora di finirla con questa favola! Proprio oggi l' ISTAT ha comunicato che la disoccupazione giovanile ha superato il 40% . E, malgrado il contributo indiretto e involontario che D' Alema sta dando al ritorno del presuntuoso Renzi, il destino di quest'ultimo mi sembra che sia segnato. L' ex Presidente del Consiglio  ha saputo creare solo chiacchiere e divisioni, lasciando il 40% dei giovani disoccupati. Renzi, al momento, è soltanto una nullità mantenuta in vita da altre nullità.   fv

P. S. : Trascrivo di seguito alcuni commenti al post di sopra visibili sul mio diario fb:


Graziella Comoglio : Ebbene sì, si è autoeliminato...misteri dei politicanti....
Angela Petese: tra tutti e due...
Francesco Virga: Ormai non so neppure io chi sia il peggiore tra D' Alema e Renzi (per non parlare di tutti gli altri protagonisti del teatrino politico contemporaneo!). Forse il più equanime è stato il vecchio Macaluso che, avendoli conosciuti meglio di me, assicura che si tratta di due grandi bugiardi!
Luana Antolini:D'Alema è veramente un brutto figuro!
Emilia Burgio LA Vera: Vorrei poterti credere.
Francesco Virga: Confesso di temere d' essere stato troppo ottimista ...Ogni tanto mi lascio prendere la mano dal desiderio…wish
Franco Mimmi:Si tratta di spaventare i Pd perché si liberino di Renzi :-)
Elisabetta Ramistella: Sono pienamente d'accordo!!!
Ester De Miro d'Ajeta: Magari il tuo sogno si avverasse!
Irene Fantini: Io condivido il tuo pensiero.
Joannes Carolus Rossi: Timeo Dalemam et dona ferentem...
 

LE Mille e una notte RACCONTATE DA ITALO CALVINO.





Sette novelle per sette spose. 

Metafore ed eros d'Oriente

 Italo Calvino

Appartenere a una civiltà poligamica anziché monogamica cambia certamente molte cose. Almeno nella struttura narrativa (unico campo in cui mi sento d’opinare) s'aprono tante possibilità che l’Occidente ignora.
Per esempio, un motivo molto diffuso nelle fiabe occidentali, l’eroe che vede un ritratto della bella e istantaneamente s’innamora, lo ritroviamo anche in Oriente, ma moltiplicato. In un poema persiano del XII secolo il re Barham vede sette ritratti di sette principesse e s’innamora di tutte e sette in una volta. Ciascuna d’esse è figlia d’un sovrano d’uno dei sette continenti; Bahram le chiede in moglie una per una e le sposa. Fa poi innalzare sette padiglioni, ognuno d’un colore diverso e «costruiti secondo l’indole dei sette pianeti». A ognuna delle principesse dei sette continenti corrisponderà un padiglione, un colore, un pianeta e un giorno della settimana; il re farà una visita settimanale a ognuna delle spose e ascolterà dalla sua voce un racconto. I vestiti del re saranno del colore del pianeta di quel giorno e le storie raccontate dalle spose saranno egualmente intonate al colore e alle virtù del pianeta rispettivo.
Questi sette racconti sono fiabe piene di meraviglie tipo le Mille e una notte, ma hanno ognuno una finalità etica (anche se non sempre riconoscibile sotto il manto simbolico) per cui il ciclo settimanale del re-sposo è una ricognizione delle virtù morali come corrispettivo umano delle proprietà del cosmo. (Poligamia carnale e spirituale dell’unico maschio-re sulle molte spose-ancelle; nella tradizione il ruolo dei sessi è irreversibile e su questo punto non c’è da aspettarsi nessuna sorpresa). I sette racconti a loro volta comprendono vicende amorose che si presentano in forma moltiplicata rispetto ai modelli occidentali.
Per esempio, lo schema tipico della fiaba d’iniziazione vuole che l’eroe passi attraverso varie prove per meritarsi la mano della fanciulla amata e un trono regale. In Occidente questo schema esige che le nozze siano tenute in serbo per il finale, oppure, se avvengono nel corso del racconto, precedono nuove vicissitudini, persecuzioni o incantesimi, in cui la sposa (o lo sposo) viene prima perduta e poi ritrovata. Invece qui leggiamo una fiaba in cui l’eroe a ogni prova che supera si guadagna una nuova sposa, più altolocata della precedente; e queste spose successive non si escludono a vicenda ma si sommano come i tesori d’esperienza e saggezza accumulati durante la vita.
Sto parlando d’un classico della letteratura persiana medievale, oggi accessibile in un volumetto della Bur edito con cura encomiabile: Nezami, Le sette principesse, introduzione e traduzione di Alessandro Bausani, note di Alessandro Bausani e Giovanna Calasso, Rizzoli. Accostarci ai capolavori della letteratura orientale per noi profani resta il più delle volte un’esperienza approssimativa, perché è tanto se attraverso le traduzioni e gli adattamenti ce ne arriva un lontano profumo, e sempre arduo risulta situare un’opere in un contesto che non conosciamo; questo poema in particolare è certo un testo quanto mai complesso per fattura stilistica e implicazioni spirituali. Ma la traduzione di Bausani (che appare minuziosamente aderente al fitto tessuto di metafore e non si tira indietro nemmeno davanti ai giochi di parole, riportando tra parentesi i vocaboli persiani), le copiose note, l’introduzione (e anche l'essenziale corredo d’illustrazioni) ci danno, io credo, qualcosa di più dell’illusione di capire che cosa questo libro è, e d’assaporame gli incanti poetici, almeno per quella parte che una traduzione in prosa può trasmettere.
Abbiamo dunque la rara fortuna d’annettere al nostro scaffale dei capolavori della letteratura mondiale un’opera godibilissima e sostanziosa. Dico rara fortuna perché quest’occasione è un privilegio di noi italiani tra tutti i lettori occidentali, se è vero quanto dice la bibliografia del volume: che l’unica traduzione inglese completa del 1924 è scorretta, quella tedesca un parziale libero rifacimento e di francesi non ne esistono. (Nella bibliografia non è invece detto, ma è giusto sia ricordato, che questa stessa traduzione di Bausani era già uscita anni fa per le edizioni «Leonardo da Vinci» di Bari, sia pur con un corredo di note meno ricco.
Nezami
Nezami (1141-1204), nato e morto a Ganjè (nell’Azerbaigiàn ora sovietico; vissuto dunque in un territorio in cui si fondono le stirpi iranica, curda e turca), musulmano sunnita (a quell’epoca gli sciiti non avevano ancora preso il sopravvento in Iran), racconta nelle Sette principesse (Haft Peikar, letteralmente «le sette effigi», databile intorno al 1200, uno dei cinque poemi da lui scritti) la storia d’un sovrano del V secolo, Bahram V, della dinastia sasanide. Nezami dunque rievoca in chiave di mistica islamica il passato della Persia zoroastriana; il suo poema celebra insieme la volontà divina a cui l’uomo deve rimettersi interamente e le varie potenzialità del mondo terrestre, con risonanze pagane e gnostiche (e anche cristiane; viene ricordato anche il grande taumaturgo Isu, ossia Gesù).
Prima e dopo le sette fiabe narrate nei sette padiglioni, il poema illustra la vita del principe, la sua educazione, le sue cacce (al leone, all’onagro, al drago), le sue guerre contro i cinesi del Gran Khan, la costruzione del castello, le sue feste ed ebbrezze, i suoi amori anche ancillari. Il poema è dunque innanzitutto un ritratto del sovrano ideale, in cui si fondono, come dice Bausani, l’antica tradizione iranica del «re sacro» e quella islamica del pio sultano, sottomesso alla legge divina.
Un sovrano ideale — pensiamo noi — dovrebbe avere un regno prospero e sudditi felici. Neanche per idea! Questi sono pregiudizi della nostra mentalità terra terra. Che un re sia un prodigio di tutte le perfezioni non esclude che il suo regno sia angariato dalle ingiustizie più crudeli, in mano a ministri perfidi e avidi. Ma dato che il re gode della grazia celeste, verrà il momento in cui la triste realtà del suo regno si svelerà ai suoi occhi. Allora egli punirà il Vizir infame e darà soddisfazione a chiunque venga a raccontargli le ingiustizie subite: ecco dunque le «storie degli offesi» anch’esse in numero di sette, ma certo meno attraenti che quelle altre.
Ristabilita la giustizia nel regno, Bahram può riorganizzare l’esercito e sbaragliare il Gran Khan della Cina. Adempiuto cosi il suo destino, non gli resta che scomparire: difatti sparisce letteralmente in una caverna, dove s’era spinto a cavallo per inseguire l’onagro che stava cacciando. Il re insomma è, dice Bausani, «l’Uomo per eccellenza»: quel che conta è l’armonia cosmica che in lui s’incarna, armonia che in una certa misura si rifletterà anche sul regno e i sudditi, ma che risiede sopratutto nella sua persona. (Anche oggi, del resto, ci sono regimi che pretendono d’essere lodevoli in sé e per sé, indipendentemente dal fatto che la gente ci viva malissimo).
Le sette principesse insomma fonde in sé due tipi di racconto «meraviglioso» orientale: quello epico-celebrativo del Libro dei Re di Firdusi (il poeta persiano del X secolo da cui Nezami prende le mosse) e quello novellistico che dalle antiche raccolte indiane porterà alle Mille e una notte. Certo il nostro piacere di lettori è più gratificato da questa seconda vena (consigliamo perciò di cominciare dalle sette fiabe e poi risalire alla cornice), ma anche la cornice è ricca d’incanti fantastici e di finezze erotiche (molto pregiate, per esempio, le carezze col piede: «Il piede del re nel fianco di quella rubacuori s’insinuava tra la seta e il broccato»), così come nelle fiabe il sentimento cosmico-religioso tocca punte molto alte. (Si veda la storia del viaggio compiuto insieme da un uomo che si rimette alla volontà di Dio e un uomo che vuole spiegare razionalmente tutti i fenomeni: la caratterizzazione psicologica dei due è così persuasiva che è impossibile non tenere per il primo, il quale non perde di vista la complessità del tutto, mentre il secondo è un saccente malevolo e meschino; la morale che possiamo tirarne è che, più della posizione filosofica, conta 3 modo eli vivere in armonia con la propria verità).
Separare comunque le varie tradizioni che convergono nelle Sette principesse è impossibile perché il vertiginoso linguaggio figurato di Nezami le assorbe nel suo crogiolo, e stende su ogni pagina una lamina dorata tempestata di metafore che s’incastonano le une nelle altre come pietre preziose d’uno sfarzoso monile. Per cui l’unità stilistica del libro appare uniforme, e s’estende anche alle partì introduttive sapienziali e mistiche. (Ricorderò tra quest’ultime la visione di Maometto che sale al cielo in sella a un cavallo angelo, fino al punto in cui le tre dimensioni scompaiono e «il Profeta vide Iddio senza spazio, udì parole senza labbra e senza suono»).
Le fioriture di questo arazzo verbale sono così lussureggianti che i nostri paralleli con le letterature occidentali, al di là delle analogie delle tematiche medievali, e attraversando la pienezza fantastica del Rinascimento d’Ariosto e Shakespeare, vanno naturalmente al barocco più carico; ma perfino l’Adone del Marino e il Pentamerone del Basile sembrano duna laconica sobrietà, paragonati alla proliferazione di metafore che ricopre fittamente il racconto di Nezami sviluppando un germoglio di racconto in ogni immagine.
Questo universo metaforico ha caratteristiche e costanti tutte sue. L’onagro, asino selvatico dell’altipiano iranico — che a vederlo nelle enciclopedie e, se ricordo bene, negli zoo, ha tutta l’aria d’un modesto ciuchino — nei versi di Nezami riveste la dignità dei più nobili animali araldici, e compare si può dire in ogni pagina. Nelle cacce del principe Bahram gli onagri sono la preda più ambita e difficile, citati spesso accanto ai leoni come avversari sui quali il cacciatore misura la sua forza e destrezza. Nelle metafore poi l’onagro è immagine di forza, anche di forza sessuale virile, ma pure di preda amorosa (l'onagro preda del leone) e di bellezza femminile e in genere di giovinezza. E poiché risulta anche avere una carne prelibata, ecco che «fanciulle dagli occhi d’onagro arrostivano al 'fuoco cosce d’onagro».
Altro elemento di metafora polivalente è il cipresso: evocato a indicare robustezza virile e naturalmente anche simbolo fallico, lo troviamo pure a modello di bellezza femminile (la statura è sempre molto pregiata), e associato alle chiome femminili, ma anche alle acque che scorrono e pure al sole del mattino. Quasi tutte le funzioni metaforiche del cipresso valgono poi anche per il cero acceso, più molte altre. Insomma il delirio delle similitudini è tale che qualsiasi cosa può voler dire qualsiasi cosa.
Come pezzi di bravura fatti di metafore una dietro l’altra si ricordano una descrizione dell’inverno, in cui a una serie d'immagini gelide («l’impeto del freddo aveva fatto spada dell'acqua e acqua della spada»; la nota spiega: le spade dei raggi solari diventano pioggia e la pioggia diventa spade di lampi; e anche se la spiegazione non rosse vera, resta sempre una bella immagine) succede un’apoteosi del fuoco, e una simmetrica descrizione della primavera, tutta d’animazione vegetale, tipo «la brezza si dette in pegno al basilico».
Catalizzatori di metafore sono pure i colori, che dominano nelle sette fiabe. Come si fa a narrare una storia tutta d’un colore? Il sistema più semplice è far vestire di quel colore i personaggi, come nella fiaba nera in cui si narra d’una signora che vestiva sempre di nero perché era stata ancella d’un re che vestiva di nero perché aveva incontrato uno straniero vestito di nero che gli aveva narrato d’un paese della Cina tutto di nerovestiti...
Altrove il legame è solo simbolico, basato sui significati attribuiti a ogni colore: il giallo è il colore del sole e dunque dei re; dunque il racconto giallo narrerà d’un re e culminerà in una seduzione, paragonata alla forzatura d’uno scrigno che racchiude l’oro.
Il racconto bianco è inaspettatamente il più erotico di tutti, immerso in una luce lattea in cui vediamo muoversi «fanciulle dal seno di giacinto e dalle gambe d’argento». Ma è anche il racconto della castità, come cercherò di spiegare, per quanto nel riassunto tutto si perda. Un giovane che tra i vari motivi di perfezione ha quello d’essere casto, vede il suo giardino invaso da fanciulle bellissime che danzano. Due di loro, dopo averlo fustigato credendolo un ladro (un certo compiacimento masochista non è escluso), lo riconoscono come padrone, gli baciano mani e piedi e lo invitano a scegliersi quella di loro che più gli piace. Lui spia le ragazze mentre fanno il bagno, fa la sua scelta e (sempre con l’aiuto delle due guardiane o «poliziotte» che per tutto il racconto dirigeranno le sue mosse) s’incontra da solo con la favorita. Ma in questo e negli incontri seguenti succede sempre qualcosa al momento culminante per cui l’amplesso va a monte: o crolla il pavimento della stanza, o un gatto per acchiappare un uccellino piomba sui due amanti abbracciati, o un topo rode il gambo d’una zucca su una pergola e il tonfo della zucca che cade fa perdere al giovanotto l’ispirazione amorosa. Così via fino alla conclusione edificante: il giovane comprende che prima deve sposare la ragazza perché Allah non vuole che lui commetta peccato.
Questo dell’amplesso ripetutamente interrotto è un motivo diffuso anche nel racconto popolare occidentale, ma sempre in chiave grottesca: in un cunto del Basile gli imprevisti che si susseguono somigliano molto a quelli di Nezami, ma ne vien fuori un quadro infernale di miseria umana, sessuofobia e scatologia. Quello di Nezami invece è un mondo visionario di tensione e trepidazione erotica insieme sublimato e ricco di chiaroscuri psicologici, dove il sogno poligamico d’un paradiso d'uri s’alterna alla realtà intima d’una coppia, e la licenziosità scatenata del linguaggio figurato introduce ai turbamenti dell’inesperienza giovanile.

“la Repubblica”, ritaglio senza data, probabilmente 1982

30 gennaio 2017

ECCO IL TEMPO CHE MANCA OGGI!






"Tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero giuoco delle energie vitali fisiche e mentali, perfino il tempo festivo domenicale e sia pure nella terra dei sabbatari —: fronzoli puri e semplici! Ma il capitale, nel suo smisurato e cieco impulso, nella sua voracità da lupo mannaro di pluslavoro, scavalca non soltanto i limiti massimi morali della giornata lavorativa, ma anche quelli puramente fisici. Usurpa il tempo necessario per la crescita, lo sviluppo e la sana conservazione del corpo. Ruba il tempo che è indispensabile per consumare aria libera e luce solare»

 ( K. Marx Il capitale, libro I)

UNA LETTERA DI G. SPAGNOLETTI A S. PENNA



Giacinto Spagnoletti









     Giacinto Spagnoletti è stato uno dei più acuti critici letterari del 900. Ho avuto la fortuna di conoscerlo direttamente nel 1976, al Centro Studi e Iniziative di Trappeto, nei mesi in cui preparava il libro su Danilo Dolci che pubblicò l'anno successivo. 
      Mi piace pubblicare oggi una sua lettera inviata al grande poeta Sandro Penna (1906-1977), poco prima che quest'ultimo, dopo una vita travagliata, chiudesse definitivamente gli occhi. (fv)


26 dicembre 1976

Caro Penna,
leggo il tuo ultimo straordinario libro di poesie Stranezze (edito da Garzanti), “stranezze” che mi paiono assolutamente omogenee all’universo in cui vivi, e perciò del tutto normali, e dopo aver esultato all'idea che nessuno meglio e più di te ha mantenuto per tanti anni la medesima grazia e limpidezza di voce, vado a scorrere quasi distrattamente il risvolto di copertina dove qualcuno ha creduto di “raccontare” la tua vita. Come mai si commettono ancora di queste imprudenze? E a vantaggio di chi, mi chiedo. Singolare è il modo - e più di un tuo amico rimarrà costernato - in cui vengono descritte le tue tribolazioni di uomo, dall’adolescenza in poi: “Di famiglia borghese (il padre commerciante sfortunato; la madre un po' nobile, un po' plebea), non sente fino alla maturità le ristrettezze economiche che poi si faranno abbastanza vive, più per una sua completa incapacità di adattamento sociale (addirittura psicologico) che per reali disavventure. Oggi che il suo carattere sarebbe divenuto più limpido, per conservare una sua libertà (ormai obbligatoria) è ugualmente costretto a molte e strane occupazioni”. Tutto il pezzullo risale a tre anni fa, quando uscì presso il medesimo editore la tua raccolta di racconti, Un po’ di febbre, ma allora la cosa passò inosservata. Io stesso recensii questo libro e non me ne accorsi.
Facciamo finta dunque che l’idea sia nata appena ieri e che si possa (ma si può?) dar sulla voce a chi ha pensato di edulcorare in quelle poche righe la magia e il dolore della tua esistenza. Quante cose rivela l’analisi del linguaggio! In primo luogo l’anonimo estensore del risvolto ha ritenuto di farti un piacere distribuendo fra borghesia, nobiltà e pezzenteria la “condizione” tua e dei tuoi genitori. Come dire che, per essere così “diverso” il contenuto della tua prosa (e dei tuoi versi), meglio non far risaltare in modo netto le origini. La cui chiarezza potrebbe eccitare a chissà quali discorsi malintenzionati un critico marxista, proponendo insane equazioni. Ad esempio, un poeta che osa dichiarare (da sempre) l’amore per i fanciulli correrebbe un serio rischio, se fosse “un po’ plebeo” come sua madre. Freud e Marx appena da qualche anno timidamente nel nostro paese si tendono la mano, forse solo da quando Fromm è intervenuto sul problema, vulgatim, e in economia. Resta il fatto che lasciare a un poeta come te tutto intatto il sangue borghese con un cucchiaino di aristocratico liquore ben sciolto risponde meglio al canone tradizionale che si perde nella notte dei secoli, sino ad Anacreonte e oltre. Da questi borghesi, che hanno una madre “un po’ nobile”, c’è da aspettarsi di tutto. Difatti, lo ricordavamo oggi Bassani ed io, di fronte a una società qual è la nostra, il povero Pasolini si è vergognato sempre delle sue propensioni sessuali; e la televisione italiana lo remunera da morto, mostrando alle famiglie insonnolite delle ore ventitré poetiche immagini del Friuli, interrogando quanti lo conobbero da ragazzo, politici e non politici (chi ricordava però che fu cacciato dal P.C. e dal suo paese?), e soprattutto leggendo lettere inedite, in cui il poeta parla di ragazze, di feste campagnole, di stupendi balli al tramonto, eccetera eccetera.
Veniamo ora alla parte sostanziale del pezzullo. C’è scritto che tu non hai sentito sino alla maturità (parola vaga che non vuol indicare un’età precisa, se Rimbaud a sedici anni era perfettamente maturo) “le ristrettezze economiche che poi si faranno abbastanza vive”. Benedetto Iddio, adesso cominciamo a ragionare, sono in ballo le ristrettezze; e chi ti conosce sa di che si tratta; ma un po’ di dolce in bocca a chi compra il libro (ignaro) occorre pur lasciarlo, ed ecco quell’“abbastanza”, capolavoro di finezza editoriale, perché anche i più scalcinati linguisti non ignorano che “abbastanza” preposto a “vive” toglie invece di aggiungere. Tutto sommato, insinua il nostro bravo estensore, è naturale che un poeta, giacché ha avuto in sorte un padre “commerciante sfortunato”, debba soffrire sino alla maturità (?) di qualche ristrettezza. Anche a Svevo, anche al Belli capitò quella sorte, e a chissà quanti altri... Però, attenzione, qui si desidera andare più a fondo: un po’ di colpa possiamo darla alla famiglia, ma la cosa non sarebbe stata così grave se il poeta non si fosse dimostrato così disadattato. Adesso bisogna rivelare di quale disadattamento soffrisse. Ci risiamo con Marx e Freud. Disadattamento sociale o psicologico? Il nostro editorialista ha qualche esitazione, infine, che male c’è, si risolve per tutti e due. Solo che aggiunge un “addirittura”, che francamente, tu mi intendi, caro Penna, è inspiegabile. Perché “addirittura”? Se fossi in te, vorrei avere ragione di questo sopruso. Un linguista lo giudicherebbe un lapsus semantico, un sottile, esilissimo insulto di chi è incapace di offendere. Un giudice forse deciderebbe per un’escussione di testi, come usa. E di teste in teste, risalirebbe alla fonte dei tuoi guai, che la poesia svela ma che la giustizia non capirà mai.
Alla fine, l’affanno dell’estensore sembra sciogliersi. Tant’è dir le cose come stanno: Penna vere e proprie disavventure non ne ha mai avute. Quelle “ristrettezze” sono passate come acqua sulla sua pelle. Di che cosa lamentarsi nelle sue interviste? (cfr. “Tempo”, 28 novembre ’76). E c’è di più: “Oggi che il suo carattere sarebbe divenuto più limpido (altre sfumature, altre ambiguità editoriali..., badate a quel condizionale, chi lo sa, forse i critici pensano il contrario, e difatti Garboli, eccezionale critico di Penna, è proprio su questa linea), per conservare una sua libertà...”. Occorre interrompersi un momento, ora siamo di fronte al vero ostacolo: dunque, per conservare una sua libertà... l’estensore della nota ha dei dubbi, deve pur uscirne, di quale libertà si tratta?, politica, morale, religiosa, sessuale, ah troppo troppo difficile scavare nell’animo di un poeta, e allora... altro casus ahimè gravissimo, richiudo in parentesi e ci metto “ormai obbligatoria’’, tanto chi andrà a investigare fra libertà e libertà, basterà che sia... obbligatoria, e siamo già alla follia, lo riconosco, ma ormai è fatta, bisogna dire altro. Soprattutto bisogna aggiungere che il poeta è “ugualmente costretto a molte strane occupazioni”.
Carissimo Penna, poeta fra i rarissimi da stimare oggi sul nostro pianeta, hai davvero ragione di lamentarti: ma non tanto di ciò che affermi nelle tue interviste, bensì di quello che ti fanno a tua insaputa. Sono convinto che pochi resisterebbero a certe insinuazioni. Che cosa ti tiene tanto stranamente occupato, notte e giorno? I mali di cui soffri, l’ingratitudine umana, la poesia, il ricordo del passato, il nero vuoto spirituale che ci avviluppa, i quadri che vorresti vendere, le telefonate a cui non sai rinunciare, la notte che è più brutta del giorno, il giorno che è più orrendo della notte? Questi interrogativi si riferiscono a qualcosa, ma non sono “strane” occupazioni: appartengono a te, al tuo dolcissimo selvaggio amor della vita. “Il mondo mi pareva un chiaro sogno, / la vita d’ogni giorno una leggenda”. Appunto. Scusami questa tiritera, e ricevi un affettuoso saluto dal tuo
Giacinto Spagnoletti


Da “Poesia”, Anno XIII n.138, Aprile 2000