31 ottobre 2013

M.FOUCAULT SULLA SCRITTURA




Tra l’estate e l’autunno del 1968 Michel Foucault e il critico letterario Claude Bonnefoy registrarono una serie d’incontri con l’idea di pubblicare, presso le edizioni Belfond, un volume di conversazioni in cui Foucault avrebbe parlato del proprio rapporto con la scrittura. Il progetto fu poi abbandonato. La trascrizione di questi colloqui è stata resa pubblica nel 2004 e Cronopio ne ha da poco pubblicato la versione italiana: Il bel rischio. Conversazione con Claude Bonnefoy, a cura di Antonella Moscati. Presentiamo alcuni brani del libro. I titoli dei paragrafi sono redazionali.



MICHEL FOUCAULT - La scrittura è la morte degli altri

 http://www.leparoleelecose.it/

La scrittura e gli altri
Ciò che è chiaro, ciò che ho subito sentito, quando verso i miei trent’anni ho cominciato a provare il piacere di scrivere, è che questo piacere comunica sempre con la morte degli altri, con la morte in generale. Di questo rapporto fra la scrittura e la morte oso a stento parlare, perché so bene che uno come Blanchot ha detto a questo proposito cose molto più essenziali, generali, profonde, decisive di quanto possa dire io adesso. Parlo qui sul piano di quelle impressioni che sono come il “rovescio del ricamo”[1], e che cerco di seguire in questo momento, e mi sembra che l’altro lato del ricamo sia altrettanto logico e in fondo altrettanto ben disegnato, o comunque non peggio disegnato, del lato che mostro agli altri.
Con lei vorrei fermarmi un momento su questo “rovescio del ricamo”. E direi che per me la scrittura è legata alla morte, forse essenzialmente alla morte degli altri, ma questo non significa che scrivere sia come assassinare gli altri e compiere contro di loro, contro la loro esistenza, un gesto definitivamente assassino che li caccia dalla presenza aprendo davanti a me uno spazio sovrano e libero. Tutt’altro. Per me scrivere è sì avere a che fare con la morte degli altri, ma è essenzialmente avere a che fare con gli altri in quanto sono già morti. In un certo senso parlo sul cadavere degli altri. Lo confesso, postulo in qualche modo la loro morte. Parlando di loro, sono nella posizione dell’anatomista che fa un’autopsia. Con la mia scrittura percorro il corpo degli altri, lo incido, tolgo i tegumenti e la pelle, cerco di scoprire gli organi e, rendendo visibili gli organi, cerco di far apparire finalmente quel focolaio della lesione, del male, quel qualcosa che ha caratterizzato la loro vita, il loro pensiero e che, nella sua negatività, ha organizzato in fin dei conti tutto quello che sono stati. Quel cuore velenoso delle cose e degli esseri umani, ecco quello che ho sempre cercato di mettere in luce. Capisco, allora, perché la mia scrittura venga percepita dagli altri come un’aggressione. Si sente che in essa c’è qualcosa che li condanna a morte. In effetti io sono molto più ingenuo di così. Non li condanno a morte. Ipotizzo semplicemente che siano già morti. È per questo motivo che sono sorpreso quando li sento gridare. Rimango stupito come un anatomista che sentisse improvvisamente svegliarsi sotto il suo bisturi l’individuo sul quale voleva fare una dimostrazione. Improvvisamente gli occhi si aprono, la bocca si mette a urlare, il corpo si contorce e l’anatomista si stupisce: “Ah, quindi non era morto!”. È, credo, quel che mi accade con coloro che mi criticano e inveiscono contro di me dopo avermi letto. Mi è sempre difficile rispondere altrimenti che scusandomi, cosa che può forse essere presa come un’affermazione ironica, ma che invece è veramente l’espressione del mio stupore: “Ah, quindi non erano morti!”. [...]
 Non ho la pretesa di uccidere gli altri con la mia scrittura. Scrivo solo sul presupposto della morte già avvenuta degli altri. È perché sono già morti che posso scrivere come se la loro vita, finché c’erano, sorridevano, parlavano, mi avesse in qualche modo impedito di scrivere. E l’unico omaggio che la mia scrittura può rendere loro è scoprire contemporaneamente la verità della loro vita e della loro morte, il segreto morboso che spiega il passaggio dalla loro vita alla loro morte. Questo punto di vista sugli altri, in cui la loro vita è precipitata nella morte, è per me il luogo della possibilità della scrittura. [...].
 La scrittura e il presente
 Partendo da qui è possibile spiegare un certo numero di cose. Innanzitutto il fatto che per me è sempre difficile parlare del presente. Mi sembra che potrei parlare delle cose che ci sono tuttavia molto vicine, ma a condizione che tra quelle cose molto vicine e il momento in cui scrivo ci sia quell’infimo intervallo, quella sottile pellicola attraverso la quale si è instaurata la morte. Comunque il tema che s’incontra così di frequente in tutte le giustificazioni della scrittura, scrivere per far rivivere, scrivere per ritrovare il segreto della vita, scrivere per attualizzare quella parola viva che è insieme la parola degli uomini e – probabilmente – quella di Dio, mi è profondamente estraneo. Per me la parola comincia dopo la morte, e una volta che c’è stata quella rottura. La scrittura è per me la deriva del dopo-morte e non il percorso verso la sorgente di vita. Forse è in questo che la mia forma di linguaggio è profondamente anticristiana, e lo è probabilmente più dei temi che continuo a sollevare.
 In un certo senso, probabilmente m’interesso al passato per questo motivo. Non m’interesso al passato per cercare di farlo rivivere, ma perché è morto. In questo non c’è nessuna teleologia di resurrezione, ma piuttosto la constatazione che quel passato è morto. È a partire da quella morte che del passato si possono dire cose assolutamente serene, completamente analitiche e anatomiche, mai dirette a una possibile ripetizione o resurrezione. Anche per questa ragione, niente è più lontano da me del desiderio di ritrovare nel passato il segreto dell’origine [...].
La scrittura contro la parola
 Scrivere è molto diverso dal parlare. Si scrive anche per non avere più volto, per nascondersi dietro la propria scrittura. Si scrive perché la vita che abbiamo intorno, accanto, fuori, lontano dal foglio di carta, questa vita che non è divertente ma noiosa e piena di preoccupazioni, che è esposta agli altri, si riduca in quel piccolo rettangolo di carta che abbiamo sotto gli occhi e di cui siamo padroni. Scrivere, in fondo, è tentare di far defluire, attraverso i canali misteriosi della penna e della scrittura, tutta la sostanza, non soltanto dell’esistenza ma anche del corpo, in quelle tracce minuscole che si depongono sulla carta. Non essere altro, in fatto di vita, che quegli scarabocchi, morti e ciarlieri a un tempo, che si depongono sulla carta: è questo che si sogna quando si scrive. Ma a questa riduzione della vita brulicante nel brulichio immobile delle lettere non si arriva mai. Sempre la vita riprende al di fuori del foglio di carta, sempre prolifera, continua, mai riesce a fissarsi in quel piccolo rettangolo, mai il volume pesante del corpo riesce a dispiegarsi sulla superficie della carta, mai si passa a quell’universo a due dimensioni, a quella linea pura del discorso, mai si riesce a diventare abbastanza fini, sottili per non essere altro che la linearità di un testo, e tuttavia è proprio a questo che vorremmo arrivare. Allora non si smette di tentare, di correggersi, sottrarsi, insinuarsi nell’imbuto della penna e della scrittura, compito infinito, compito cui ci si consacra. Ci sentiremmo perfettamente giustificati se non esistessimo più che in quel minuscolo fremito, in quell’infimo raschiare che si fissa e che, tra la punta del pennino e la superficie bianca del foglio, è il punto, il luogo fragile, il momento immediatamente scomparso in cui s’inscrive un segno finalmente fissato, definitivamente stabilito, leggibile soltanto per gli altri e che ha perso ogni possibilità di avere coscienza di se stesso. Questa specie di eliminazione, di mortificazione di sé nel passaggio ai segni, è anche questo, credo, che conferisce alla scrittura il suo carattere di obbligo. Obbligo privo di piacere, come vede, ma, in fin dei conti, se sfuggire a un obbligo consegna all’angoscia, se infrangere la legge lascia nella più grande inquietudine, nel più grande sgomento, obbedire a quella legge non è forse la maggiore forma di piacere? Obbedire a quell’obbligo che non si sa né da dove venga né come ci sia stato imposto, obbedire a quella legge, certamente narcisistica, che pesa e incombe da ogni parte, è questo, credo, il piacere di scrivere.

[1] Traduciamo così l’espressione idiomatica francese l’envers de la tapisserie (letteralmente il rovescio dell’arazzo), che indica ciò che si nasconde dietro le apparenze, il lato invisibile di qualcosa [N.d.T.].

LE ROSE DI BORGES

Flor Garduño - Vestido Eterno, Mexico 1999

Questa mattina rubo a Patrizia Barbera un bellissimo post che ha pubblicato sulla sua bacheca di FB.

BORGES - LA ROSA DI PARACELSO

Nel suo laboratorio, che comprendeva le due stanze dello scantinato, Paracelso chiese al suo Dio, al suo indeterminato Dio, a qualunque Dio, di inviargli un discepolo.

Imbruniva. Il magro fuoco del camino proiettava ombre irregolari. Alzarsi per accendere la lanterna di ferro avrebbe richiesto uno sforzo eccessivo. Paracelso, distratto dalla fatica, dimenticò la sua preghiera. La notte aveva can
cellato l’athanor e i polverosi alambicchi quando bussarono alla porta. Insonnolito, l’uomo si alzò, salí faticosamente la breve scala a chiocciola e socchiuse un battente. Uno sconosciuto entrò. Anch’egli era molto stanco. Paracelso gli indicò una panca; l’altro sedette e attese. Per un certo tempo non scambiarono tra loro nemmeno una parola.

Il maestro fu il primo a parlare.

“Ricordo volti d’Occidente e volti d’Oriente”, disse, non senza una certa enfasi. “Non ricordo il tuo. Chi sei tu e che vuoi da me?”

“Il mio nome non ha importanza”, replicò l’altro.

“Ho camminato tre giorni e tre notti per entrare in casa tua. Voglio diventare tuo discepolo. Ti ho portato tutti i miei beni.”

Tirò fuori una borsa e la rovesciò sulla tavola. Le monete erano molte, e d’oro. Lo fece con la mano destra.

Paracelso, per accendere la lanterna, aveva dovuto voltargli le spalle. Quando tornò, notò nella sua mano sinistra una rosa. La rosa lo inquietò.

Si chinò, giunse le estrem
tà delle dita, e disse: “Tu mi credi capace di elaborare la pietra che trasmuta gli elementi in oro e mi offri oro. Non è l’oro ciò che cerco, e se è l’oro che ti interessa, tu non sarai mai mio discepolo.”

“L’oro non mi interessa”, rispose l’altro.

“Queste monete non sono altro che una prova del mio desiderio di apprendere. Voglio che tu mi insegni l’Arte. Voglio percorrere al tuo fianco la via che conduce alla Pietra.”

Paracelso disse lentamente:

“La via è la Pietra. Il punto di partenza è la Pietra. Se non comprendi queste parole, non hai ancora cominciato a comprendere. Ogni passo che farai è la meta.”

L’altro lo guardò con aria diffidente. Disse, con voce chiara:

“Ma, esiste una meta?”

Paracelso si mise a ridere.

“I miei detrattori, che non sono meno numerosi che stupidi, sostengono il contrario, e mi accusano di essere un impostore. Non do loro ragione, ma non è impossibile che io sia un illuso. So che esiste una via.”

Vi fu una pausa, e l’altro disse:

“Sono pronto a percorrerla con te, anche se dovessimo viaggiare per molti anni. Lasciami attraversare il deserto. Lasciami intravedere almeno da lontano la terra promessa, anche se gli astri me ne vieteranno l’accesso. Ma prima di intraprendere il viaggio, io voglio una prova.”

“Quando?” disse paracelso, con inquietudine.

“Subito”, rispose il discepolo con brusca determinazione.

Avevano iniziato la conversazione in latino, ora parlavano in tedesco.

Il giovane levò in alto la rosa.

“Affermano”, disse, “che tu puoi bruciare una rosa e farla rinascere dalle ceneri, per opera della tua arte. Lascia che io sia testimone di questo prodigio. Ecco ciò che ti chiedo; poi la mia vita sarà tua.”

“Sei molto credulo”, disse il maestro. “Non so che farmene della credulità; esigo la fede.”

L’altro insistette.

“È proprio perché non sono credulo che voglio vedere coi miei occhi l’annientamento e la resurrezione della rosa.”

Paracelso l’aveva presa in mano, e parlando giocherellava con essa.

“Sei credulo”, disse. “Tu dici che io sono capace di distruggerla?”

“Nessuno è incapace di distruggerla”, rispose il discepolo.

“Ti sbagli. Credi forse che qualcosa possa esser reso al nulla? Credi che il primo Adamo nel Paradiso abbia potuto distruggere un solo fiore, un solo filo d’erba?”

“Non siamo nel Paradiso”, disse ostinato il giovane; “qui, sotto la luna, tutto è mortale.”

Paracelso si era alzato in piedi.

“E in quale altro luogo siamo? Credi che la divinità possa creare un luogo che non sia il Paradiso? Credi che la caduta sia altro dall’ignorare che siamo nel Paradiso?”

“Una rosa può bruciare”, disse il discepolo in tono di sfida.

“V’è ancora del fuoco nel camino”, rispose Paracelso. Se tu gettassi questa rosa fra le braci, crederesti che le fiamme l’abbiano consumata, e che sia la cenere a essere reale. Io ti dico che la rosa è eterna e che solo la sua apparenza può cambiare. Mi basterebbe una parola perché tu la potessi vedere di nuovo.”

“Una parola?” disse stupefatto il discepolo. “L’athanor è spento, gli alambicchi sono coperti di polvere. Che farai per farla rinascere?”

Paracelso lo guardò con tristezza.

“L’athanor è spento”, ripeté, “e gli alambicchi sono coperti di polvere. In questo tratto della mia lunga giornata uso altri strumenti.”

“Non oso domandare quali”, disse l’altro con malizia o con umiltà.

“Parlo di quello che usò la divinità per creare il cielo e la terra e l’invisibile Paradiso in cui ci troviamo e che ci è nascosto dal peccato originale. Parlo della Parola che ci insegna la scienza della Cabala.”

Il discepolo disse freddamente:

“Ti chiedo la grazia di mostrarmi la scomparsa e la ricomparsa della rosa. Poco m’importa che tu operi per mezzo del Verbo o degli alambicchi.”

Paracelso rifletté. Infine disse:

“Se lo facessi, tu diresti che si tratta di un’apparenza imposta ai tuoi occhi dalla magia. Il prodigio non ti donerà la fede che cerchi. Dunque lascia stare la rosa.”

Sempre diffidente, il giovane lo guardò. Il maestro alzò la voce e gli disse:

“E inoltre, chi sei tu per introdurti nella dimora di un maestro ed esigere da lui un prodigio? Che hai fatto per meritare simile dono?”

L’altro replicò, tremando:

“So bene che non ho fatto nulla. Ti chiedo, in nome dei molti anni in cui studierò alla tua ombra, di lasciarmi vedere la cenere e poi la rosa. Non ti chiederò altro. Crederò alla testimonianza dei miei occhi.”

Bruscamente, afferrò la rosa rossa che Paracelso aveva lasciato sul leggìo e la gettò tra le fiamme. Il colore si perse e rimase solo un po’ di cenere. Per un istante infinito egli attese le parole e il miracolo.

Paracelso era rimasto impassibile. Disse con strana semplicità:

“Tutti i medici e tutti gli speziali di Basilea affermano che io sono un mistificatore. Forse essi sono nel vero. Qui riposa la cenere che fu rosa e che non lo sarà.”

Il giovane si sentì pieno di vergogna. Paracelso era un ciarlatano o un semplice visionario, e lui, un intruso, aveva varcato la sua porta e ora lo costringeva a confessare che le sue famose arti magiche erano vane.

Si inginocchiò, e disse:

“Ho agito imperdonabilmente. Mi è mancata la fede che il Signore esigeva dai credenti. Lasciami ancora guardare la cenere. Tornerò quando sarò più forte e sarò tuo discepolo e in fondo al cammino vedrò la rosa.”

Parlava con passione autentica, ma quella passione era la pietà che gli ispirava il vecchio maestro, tanto venerato, tanto attaccato, tanto insigne e perciò tanto vuoto. Chi era lui, Johannes Grisebach, per scoprire con mano sacrilega che dietro la maschera non c’era nessuno?

Lasciare le monete d’oro sarebbe stata un’elemosina. Le riprese uscendo.

Paracelso l’accompagnò ai piedi della scala e gli disse che sarebbe sempre stato il benvenuto.

Entrambi sapevano che non si sarebbero rivisti mai più.

Paracelso rimase solo. Prima di spegnere la lanterna e di sedersi nella poltrona consunta, raccolse nell’incavo della mano il piccolo pugno di cenere e disse una parola a bassa voce. La rosa risorse.

Jorge Luis Borges- La rosa di Paracelso


FELLINI: IL CINEMA CHE CI MANCA


Sono passati vent’anni dalla morte di Federico Fellini. Pubblichiamo un pezzo di Oscar Iarussi su La Gazzetta del Mezzogiorno

 Oscar Iarussi - 2O ANNI SENZA FEDERICO FELLINI

Vent’anni senza Federico Fellini. Il nostro regista più amato nel mondo e vincitore di cinque premi Oscar, scomparve il 31 ottobre 1993 all’età di 73 anni. Coincidono con il «ventennio berlusconiano» del quale nelle scorse settimane il presidente del Consiglio Enrico Letta ha decretato la fine, un po’ incautamente. In questo arco di tempo, oltretutto segnato dalla frequente alternanza al governo tra centro-destra e centro-sinistra, con le propaggini dei «tecnici» e delle attuali «larghe intese», non si è stemperato il carattere di fondo del Paese. È un tratto «antropologico» che si rivelò prima della «discesa in campo» di Silvio Berlusconi (gennaio 1994) e che, con ogni probabilità, sopravviverà alla sua espulsione dal Parlamento. Parliamo della prevalenza del grottesco, dell’abnorme, del beffardo, del bizzarro, di un onirismo/onanismo di massa, che discende dal «virus dannunziano» diagnosticato da Alberto Savinio ed equivale a una malformazione «felliniana». O, meglio, al tradimento dell’eredità del maestro. L’ultimo Fellini infatti esplicitò un profetico e salubre horror pleni al culmine nell’invocazione di Roberto Benigni in La voce della luna,  film testamentario del 1990: «Eppure io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire…».
Tale primato del grottesco scandisce il progressivo – anzi, regressivo – declino di una società  impecorita, rassegnata e stanca, forse paga del ricordo senile o della pallida imitazione, spesso parodistica, della sua fioritura leggendaria nelle stagioni del boom anni Sessanta, ovvero della Dolce vita. Quando nell’autunno 2010 viene svelato l’ennesimo via vai di fanciulle prezzolate e di solerti prosseneti nelle residenze del premier Berlusconi, questi si difende con una frase illuminante: «Io amo la Dolce Vita». D’altronde, già nel 1976 Fellini realizza il suo Casanova scegliendo quale protagonista il canadese Donald Sutherland, «un candelone spermatico». Il film scatena discussioni a non finire sulla lesa maestà del gentiluomo veneziano per i presunti caratteri «fascisti» attribuitigli dal regista: una finzione assoluta e una virilità «meccanica» iscrivono l’esistenza del Casanova. Si radicalizza allora la vena funerea di Fellini, più manifesta in Prova d’orchestra (1979), concepito all’indomani dell’omicidio di Aldo Moro per mano delle Brigate rosse, in cui il Nostro tesse l’apologo dell’innocenza perduta di un Paese che non riesce più ad accordare i suoni e i toni, se non dopo l’irruzione di una gigantesca palla d’acciaio fra gli orchestrali rissosi, mentre il maestro impartisce i suoi ordini in tedesco. È la prima elegia di un «lungo addio» in immagini.
E la nave va del 1983 racconta il lugubre viaggio di una transatlantico con un putrido rinoceronte nella stiva. Ginger e Fred dell’85 è un polemico pamphlet sulla società  dominata dalla Tv che coincide con un reality show, nel quale la finzione e la vita quotidiana tendono a confondersi (è lo scenario odierno restituito in Reality di Matteo Garrone e, per altri versi, in La grande bellezza di Paolo Sorrentino). In La voce della Luna  Fellini torna con i semplici e i pazzi nelle campagne dell’infanzia, gli stessi borghi di 8 ½  e Amarcord, ormai irrimediabilmente trasfigurati. Un amaro finale di partita, scandito dal bisogno di quiete dopo la grande abbuffata di cibi e di sensi durante la scena della «gnoccata».
Come si fa non vedere che Fellini aveva indovinato tutto, inclusa, guarda caso, la malora impropriamente detta «felliniana»? La gnocca della vecchia Romagna appare la parola-chiave, la password dell’Italia entrata nel terzo millennio come se fosse il terzo secolo avanti Cristo: all’insegna del fescennino. Impazza un Satyricon da quattro soldi (il film di Fellini da Petronio è del 1969). L’assenza di pudore paga. Temere lo scandalo? Macché, visto che serve a pascere il culto della personalità e a tonificare i sondaggi.
Un gigantesco passatempo da Bar Sport fonda la «lingua del tempo presente» (Zagrebelsky). È un elemento di post-modernità che Berlusconi ha interpretato per primo, con l’irruenza mercantile e la libido che sappiamo: sotto sotto, il Cavaliere incarna l’ambigua nostalgia per la gioventù di un’Italia vecchia. Ma riguarda anche la sinistra: «Noi non siamo innocenti se è nato il populismo», scrive l’ex comunista Reichlin nel 2010. Persino la prudenza «democristiana» di Enrico Letta scema nell’orizzonte avido di brividi «forti» e vacui:  sostenere che «il ventennio è finito» significa in verità dimostrare il contrario. La deriva continua.

Nel ventennale della morte di Fellini, l’«attenzione è sporadica», come disse il produttore Peppino Amato alla conferenza stampa di La dolce vita nel 1960. Impareggiabile gaffe in quel caso, poiché Amato intendeva dire «spasmodica»; amara verità stavolta. Né i rari omaggi, al pari dell’intestazione di pizzerie e hotel alla «Gradisca» o ai Vitelloni nella natia Rimini russificata dal turismo figlio di Putin, sono sempre congrui allo spirito del maestro. Il quale confidava, sardonico e rassegnato: «Mio babbo voleva che facessi l’avvocato e mia mamma sperava che facessi il dottore, ma io ho fatto un aggettivo: il felliniano». Eppure Fellini non fu mai felliniano, a dispetto del talento da neologista: «amarcord», «dolce vita» e «paparazzo» pescato dallo sceneggiatore Ennio Flaiano in un libro di inizi ‘900, Sulla riva dello Jonio: appunti di un viaggio nell’Italia meridionale del britannico George Gissing. Paparazzo era il cognome di un albergatore di Catanzaro.
Federico tentò di sottrarsi allo stereotipo di situazioni e personaggi grotteschi, caricaturali, eccessivi o carnascialeschi. Caso mai satireggiava  le macchiette erotomani e le signore prosperose da Anitona a Saraghina alla Gradisca, sebbene con tenera complicità. La stessa compassione circense che promana dal genio musicale di Nino Rota nelle colonne sonore dei film felliniani. Per dirne un’altra, il «nostalgico» Fellini, mai del tutto accetto né ai cattolici né ai comunisti, fu il primo a fiutare l’incipiente strapotere della Tv commerciale e a battersi affinché i film sul piccolo schermo non fossero farciti degli spot. Capì che lì si produceva la vera rivoluzione/involuzione, che a metà anni Ottanta s’iniziava un altro ventennio o trentennio, a dir poco.
Perciò il suo è un destino ingrato e paradossale: poco dopo la morte, e in crescendo fino a oggi, quanto di smodato o di strambo è affibbiato alla sua cifra stilistica si è imposto nella società. Già in La dolce vita (1960) lo sguardo disincantato e straniante del regista sugli anni del miracolo economico riserva più di un’intuizione del tragicomico futuro italiano. Pur senza la struggente invettiva di Pasolini contro il Palazzo, Fellini resta un lungimirante antropologo sul campo. Ma i suoi film, studiati in mezzo mondo, non vengono trasmessi dalla Rai e non un vero convegno o un importante omaggio è stato concepito per il ventennale. Per fortuna, in queste settimane, i suoi titoli in dvd si trovano nelle edicole allegati a un settimanale. In Italia vige una «dimenticanza postuma» dell’italiano che riserva il maggior numero di occorrenze in internet: Fellini è citato in oltre 14 milioni di pagine on line!
Disse una volta con la sua vocina: «Il visionario è l’unico vero realista». Nella nostra realtà mosaicata, eterogenea, contraddittoria, vige la disperata ricerca di un insieme, di una speranza, di un appiglio contro la solitudine. Siamo ancora sull’ultima spiaggia nel finale di La dolce vita con Mastroianni che, al cospetto del mostro marino arenato (come la «Costa Concordia»), non riesce a cogliere le parole della ragazzina nel vento e le replica con un sorriso impotente.

30 ottobre 2013

BATAILLE E MANET

Manet


Georges Bataille incontra Manet e scopre una "tempesta" degli sguardi che mette a nudo l'inconscio di una società fondata sulla repressione, dove l'erotismo diviene disvelamento e sovversione.

Cesare De Seta

Quando Bataille scoprì l'erotismo grazie a Manet


Georges Bataille pubblicò nel 1955 Lascaux, ou La naissance de l'art e Manet: due temi di storia dell'arte che solo apparentemente non hanno nulla in comune, ma se letti contestualmente ci svelano uno dei tratti più eversivi di questo scrittore e filosofo francese: i saggi sono raccolti nel nono volume (1979) dell'opera completa edita da Gallimard nella Pléiade. Viene riproposta da Abscondita nella traduzione di Guido Alberti, la monografia del pittore che è pendant tempestiva alla grande mostra Manet a Venezia a Palazzo Ducale (aperta fino al primo settembre). Il talento conturbante di Bataille affonda le sue radici non solo nelle filosofie di Nietzsche e di Benjamin, ma anche nell'antropologia di Marcel Mauss, e trovano una saldatura in questo dittico geniale. Il suo discorso si colloca tra storia dell'arte ed estetica e la pittura di Manet, nella sua enigmatica espressività, è la più flagrante porta aperta sulla modernità: così come ribadiranno sulla sua scia, e con accenti diversi, Michel Foucault e Michel Fried più di dieci anni dopo.

L'autore nel costruire la monografia di Édouard adotta una narrazione "classica": ricostruisce la vita e l'opera, discute le opinioni dei suoi contemporanei, massime Baudelaire e Zola, indugia nel citare autori più prossimi a lui e resuscita belle pagine di Malraux che erano e sono state dimenticate. L'excursus è piuttosto tradizionale per un autore che ha alle spalle testi dissacranti come La parte maudit, dove il concetto di eccedenza ( dépense) assume il valore di una teoria generale: ma le sue stilettate, e veri fendenti, bisogna cercarli tra le righe del libro su Manet. Quando afferma chei soggetti dei suoi quadri sono "insignificanti", si riducono a "pretesto" della sua arte, con una distanza siderale dalla grande tradizione che ha alle spalle - dai veneziani a Goya - perché i modelli, di cui pure si serve per costruire le sue composizioni, sono disposti come «sarebbero degli attori, a sipario calato, nel disordine di un intervallo».

Le "belle" opere delle Belle Arti dissimulano «quella parte di errore divenuta sensibile» che oppone il presente al passato. Baudelaire mette in scena questo stravolgimento in letteratura, ma l'amico Manet lo conduce alle estreme conseguenze che è propria della radicalità moderna.

L'intarsio interpretativo di Bataille precorre la critica formalista e fa di lui un pioniere che batte strade nuove, a volte labirintiche e dalle uscite molteplici. Non esita a insistere sul rapporto con Goya, uno stereotipo storiografico, ma è meno sensibile al rapporto con l'arte italiana che proprio la mostra veneziana ha messo finalmente a fuoco per il ruolo fondante che esso ebbe: dal Déjeuner sur l'herbe all' Olympia.


Con questa donna nuda, figlia degenere della Venere di Urbino di Tiziano, Manet «pervenne alla durezza, all'opacità della violenza: questa figura chiara che compone con il lenzuolo bianco il suo aspro splendore non è addolcita da nulla». Essa è la negazione dell'Olimpo, del monumento mitologico e della maestà dell'Antico, di un'arte cioè che rispondeva ai sentimenti di una società i cui valori si erano disfatti. Di qui la tensione antropologica di Bataille che mette alla berlina tutta la tradizione estetica intrinseca alle Beauxs-Arts. È Olympia il «rovesciamento del passato, la nascita di un ordine nuovo».

Così come il Déjeuner è la negazione del Concerto campestre di Tiziano. Lo scandalo dell' Olympia, che coinvolse anche raffinati critici come Edmond About e Théophile Guatier, è nel duro realismo e la sua nudità, che si accorda a quella del suo corpo, «incarna il silenzio che sprigiona, simile al silenzio di una nave arenata, di una nave vuota».

È una metafora assai felice, e sembra preludere a L'érotisme che Bataille pubblicherà nel 1957, tema chiave della sua ricerca sulla trasgressione, sull'esperienza-limite che si consuma nell'antinomia tra ciò che non si può dire e che tuttavia non può esser taciuta. La "tempesta" degli sguardi che non si incontrano nel Balcone sono il segno di un profondo malessere dissimulato negli occhi di Berthe Morisot.

Per Bataille Elstir nelle Jeunes filles en fleur è un'incarnazione di Manet, che Proust non conobbe avendo solo dodici anni quando il pittore prematuramente si spense.
(Da: La Repubblica del 19 agosto 2013)

M. KUNDERA: LA FESTA DELL'INSIGNIFICANZA



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Dopo 4 anni ritorna la voce del grande scrittore ceco: «La festa dell’insignificanza» celebra la fragilità di ogni sentimento, compresi il lutto, la gioia e la bellezza
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Alessandro Piperno - L’ultima parabola del santo libertino.
Niente ha mai un vero perché
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Insomma, capita questo: mi siedo sul divano per dare un’occhiata alle bozze del nuovo romanzo di Milan Kundera. Accendo la tv, abbasso il volume con la destrezza del videodipendente. Leggiucchio mentre il pollice scorre macchinalmente i canali. Quando sollevo la testa in tv c’è Roberto Calasso, l’editore italiano di Kundera. Su un canale Sky, parla del cinquantesimo compleanno di Adelphi, la sua casa editrice. Abbandono per un attimo Kundera, alzo il volume, per occuparmi del suo editore. So che Kundera non me ne vorrebbe. Dopotutto, si tratta di uno di quei casi fortuiti che tanto gli piacciono («Soltanto il caso può apparirci come un messaggio» L’insostenibile leggerezza dell’essere). È allora che il caso mi serve una gustosa epifania: Calasso, interrogato sulla sua amicizia con Kundera, risponde sornione e lapidario: «È uno dei pochi grandi scrittori viventi. E quando dico pochi, vuol dire che per contarli basta una mano sola».
Una verità inoppugnabile che mi spinge a guardarmi la mano e a chiedermi perché Milan Kundera sia uno dei pochissimi grandi scrittori viventi, e subito dopo a rispondermi: perché per lui tra filosofia e letteratura non c’è differenza. Proprio come per Rabelais e Montaigne, come per Sterne e Diderot, per Kierkegaard e Nietzsche, per Musil e Broch… Narrativa? Saggistica? Letteratura? Filosofia? Perché perdere tempo a distinguerle visto che in fondo si occupano appassionatamente della stessa cosa? «Saggio ironico, narrativa romanzesca, frammento autobiografico, fatto storico, volo di fantasia: la forza sintetica del romanzo è in grado di combinare ogni cosa in un tutto organico, come le voci di una musica polifonica». È ciò che anni fa Kundera diceva in un colloquio con Philip Roth (un altro dito della mano!). E non lo diceva mica per dire. Sfido qualsiasi lettore (anche il più scaltro), aprendo un libro di Kundera che non conosce, a capire in pochi secondi se si tratta di un romanzo o di un saggio. Ma non perché lui scrive romanzi con la precisione del saggista o perché scrive saggi con la furbizia del romanziere. Ma semplicemente perché per lui certe distinzioni non contano. Perché evidentemente quando si mette alla scrivania (ammesso che ne abbia una) non sta lì a pensare: «È ora di scrivere un saggio» o «È ora di scrivere un romanzo». Probabilmente pensa: «È ora di scrivere».
La fedeltà a se stesso nel corso degli anni è stata encomiabile, sopportando persino il trauma del passaggio da una lingua all’altra (da tempo Kundera ha abbandonato la madrelingua per il francese). Kundera è rimasto Kundera: lo stile sobriamente paratattico, il tono dimesso, l’andamento svagato e rapsodico. Quasi tutti i libri di Kundera (soprattutto gli ultimi) sono formati da capitoletti: apologhi solo in apparenza scollegati dal resto. Ma al di là della sfavillante facciata, la cosa più ragguardevole e caratteristica è la voce.
In Kundera la voce di chi narra e la voce di chi riflette sono la stessa voce. Una voce che ha il terrore di pronunciare luoghi comuni, e per questo la prende sempre alla larga, o almeno di sguincio. La voce allusiva, spiritosa, irriverente del libertino settecentesco. I pensieri di Kundera sono sexy e sconcertanti come le eroine dei suoi romanzi. E la sensualità risiede nel fatto che Kundera difficilmente si innamora di un’opinione. Tratta le opinioni con disinvoltura erotica. Non sorprende la sua venerazione per Diderot (anni fa gli dedicò anche una pièce teatrale). Diderot ha insegnato a Kundera che pensare è un’attività postribolare e narrare un delizioso pretesto.
Tutto questo rende Kundera uno scrittore di sorprendente inattualità. Oggi tutti hanno un’opinione su tutto: sulla cultura, sulla politica, sull’economia, sulla gastronomia, sugli uomini, sulle donne, sull’onesta, sulla disonestà, sul bene, sul male… E usano qualsiasi mezzo (anche il più epigrammatico) per comunicartela. Kundera tratta le opinioni forti con cautela. Immagino che questo dipenda da una deformazione biografica: la sua vecchia battaglia contro il totalitarismo. Una vera ossessione che condiziona tutto quello che scrive.
Non sono uno storico delle idee, e quindi chiedo scusa per l’ingenuità, ma cos’è una società totalitaria se non un posto in cui le opinioni forti hanno assunto una tale autorevolezza istituzionale da diventare ottuse e minacciose? E, in alcuni casi, addirittura omicide. Kundera reagisce alla forza bellicosa delle opinioni forti con la spregiudicatezza intellettuale. La sua devozione al romanzo sembra scaturire proprio dall’idea che il romanzo sia un luogo in cui il giudizio è stato abolito: «Sospendere il giudizio morale» scrive ne I testamenti traditi «non costituisce l’immoralità del romanzo bensì la sua morale. Una morale che si contrappone alla inveterata pratica umana che consiste nel giudicare subito e di continuo tutto e tutti, nel giudicare prima di e senza aver capito. Dal punto di vista della sapienza del romanzo, questa fervida disponibilità a giudicare è la più esecrabile sciocchezza, il peggiore di tutti i mali». Per non correre il rischio di trasformarsi, a sua volta, in un borioso ideologo, Kundera si para dietro allo scherzo, all’ironia, allo sberleffo: «Tra romanziere e lettore i patti devono essere chiari fin dall’inizio: le cose qui narrate, per quanto terribili possano essere, non sono serie».
Se dovessi dare una definizione di un grande scrittore, direi che si tratta di un tale il cui compendio dei libri scritti nel corso d’una carriera intera va a comporre un unico libro, lungo (e talvolta persino noioso) quanto una vita umana.
È evidente, fin dalle prime battute, che La festa dell’insignificanza, il romanzo in uscita oggi, è una nota a piè di pagina del grande «libro kunderiano». Inizia con un certo Alain che cammina per Parigi, guarda le ragazze, riflette sui loro ombelichi, su come essi abbiano influenzato l’immaginario erotico contemporaneo. Un pensiero bizzarro e inutile che sarebbe piaciuto a Fielding.
Che cos’è La festa dell’insignificanza?
Un divertissement surrealista, una parabola felliniana, in cui si alternano personaggi alle prese con elucubrazioni stravaganti. Ciarlieri, peripatetici, brilli, un po’ vanesi, talvolta fin troppo astratti ma chi se ne importa. Ogni tanto alludono a un loro inventore che immagino sia Kundera stesso. E, in effetti, Kundera li tratta come marionette. Li sfotte e li comprende. Ad essi affida i suoi classici motivi: dall’involontaria comicità dei dittatori comunisti alla futilità di ogni esperienza umana.
A un certo punto, Alain, camminando, va a sbattere contro una ragazza. Costernato le chiede scusa, mentre lei inveisce contro di lui. Pochi secondi dopo riflette sulla follia di ciò che gli è appena capitato. Perché la ragazza lo ha insultato? E perché lui le ha chiesto scusa? In fondo erano entrambi allo stesso tempo colpevoli e incolpevoli di quel piccolo incidente. Così Alain comprende che gli esseri umani si dividono in due grandi categorie: chi chiede sempre scusa e chi non fa altro che accusare gli altri: «Sentirsi o non sentirsi colpevole. Secondo me, il punto è proprio questo. La vita è una lotta di tutti contro tutti. È risaputo. Ma in una società più o meno civile come si svolge questa lotta? Non possiamo scagliarci gli uni contro gli altri non appena ci vediamo. In compenso, cerchiamo di buttare addosso agli altri l’ignominia del senso di colpa. Vincerà chi riuscirà a fare dell’altro un colpevole».
Certo, il tema è oltremodo dostoevskijano (Memorie del sotto­suolo), ma declinato con la leggiadria di Kundera: per così dire, senza astio. Del resto, tutto il libro è senza astio. Anche quando mette in scena il suo vero protagonista — l’insignificanza — lo fa evitando toni oracolari e apocalittici. «L’insignificanza è l’essenza della vita» dice un personaggio. «È con noi ovunque e sempre. È presente anche dove nessuno la vuole vedere: negli orrori, nelle battaglie cruente, nelle peggiori sciagure. Occorre spesso avere coraggio per riconoscerla in condizione tanto drammatiche e per chiamarla con il suo nome. Ma non basta riconoscerla, bisogna amarla, l’insignificanza, bisogna imparare ad amarla».
Già, tendiamo a conferire un’importanza nodale alle nostre tragedie, sebbene non ne abbiano alcuna. Ci piace trasfigurare le nostre gioie malgrado esse contino solo per noi. Niente ha uno scopo, niente ha un perché, anche il lutto più terribile non ha senso: non verrà alleviato, né conoscerà riscatti celesti. Persino la bellezza, tutta questa bellezza — la luce di ottobre a Roma è incantevole — non allude ad alcun significato superiore, non promette nient’altro se non un rapido disfacimento. Ma chi lo dice che non sia questo il bello della vita?

Dal Corriere della Sera 30 ottobre 2013



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Il volume Adelphi
Esce oggi in libreria per l’editrice Adelphi il nuovo romanzo di Milan Kundera, «La festa dell’insignificanza» nella traduzione di Massimo Rizzante («Fabula», pp. 136, 16). Il titolo più recente del celebre autore ceco, anch’esso pubblicato dalla Adelphi, è «Un incontro», del 2009. “La festa dell’insignificanza”, che contiene elementi sia narrativi che saggistici, può essere considerato una sintesi di tutta la sua opera precedente
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La vita
♦  Milan Kundera è nato a Brno, nell’allora Cecoslovacchia, nel 1929
♦ Oltre che autore di romanzi, è anche saggista, poeta e drammaturgo
♦ Iscritto da studente nel 1948 al partito comunista, ne venne espulso due anni dopo e in seguito si schierò a favore della Primavera di Praga
♦ Nel 1975 emigrò in Francia, ove ha insegnato alle università di Parigi e di Rennes e dove oggi vive con la moglie Vera
♦ Nel 1979, a seguito della pubblicazione de «Il libro del riso e dell’oblio», gli fu tolta la cittadinanza cecoslovacca, mentre nel 1981 gli fu conferita quella francese. Dopo la Primavera di Praga, e fino alla caduta del regime comunista, le sue opere sono state proibite in Cecoslovacchia; i suoi romanzi più recenti li ha scritti in lingua francese e non ha concesso i diritti di traduzione in lingua ceca
♦ È del 1984 il suo più clamoroso successo, «L’insostenibile leggerezza dell’essere»: fu necessario attendere ill 2006 perché desse il permesso di pubblicarlo anche nella Repubblica Ceca
♦ Tra le altre opere famose: «Lo scherzo», «Il valzer degli addii», «La vita è altrove», «L’immortalità» e «Amori ridicoli». Con il saggio «L’arte del romanzo» ha esposto la sua poetica letteraria
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vedi anche:
la Repubblica 30 ottobre 2013
Antonio Gnoli Milan Kundera. La leggerezza dell’essere diventa una vertigine senza fine. Dopo anni di silenzio il grande scrittore ceco torna nelle librerie con “La festa dell’insignificanza



REALTA' E POSSIBILITA' IN R. MUSIL

Chagall


Dal sito http://criticaimpura.wordpress.com/

riprendo questo bel saggio: 

 

Aldo Riccadonna - Musil e la dialettica irrisolta di realtà e possibilità. Una lettura di “Il compimento dell’amore”


Perché noi dovremmo dare il nostro assenso ed elargire l’ortodossia alle cose che si sono realizzate e non alle cose che sono rimaste solo nell’ambito del possibile? È un tema centrale in Musil, per il quale: “Le attuazioni mi attraggono sempre molto meno che le cose inattuate, e con ciò non intendo soltanto quelle del futuro ma altresì quelle passate, mancate” [1].
Nel racconto di Robert Musil Il compimento dell’amore si tocca infatti l’apice della dicotomia fra realtà e possibilità. Claudine e suo marito vivono in un’ unione perfetta, come in un tutto autosufficiente, ma sentono talvolta qualcosa che li divide. Per andare a trovare la figlia Lilli, nata da un precedente matrimonio e che ora per motivi di studio vive in un collegio, Claudine parte in treno. Durante il viaggio in treno e poi in slitta, lei si rammenta della sua vita precedente e ne viene incatenata con sgomento. L’allontanamento dal marito determina una cesura nella sua vita. Si sente estranea alla vita precedente e la persona che era, fino a poco prima, le appare come una sconosciuta: scopre così il passato, cioè uno spazio mentale morto. Ma cosa è mutato, si chiede?: “Eppure la risposta era semplice: era cambiata lei stessa; ma Claudine sentiva una strana ripugnanza ad ammettere quella possibilità […] Mentre ella ora non capiva l’agevolezza con cui si sentiva straniera a un passato che una volta le era stato vicino quanto il suo corpo stesso, e ora le sembrava inconcepibile che qualcosa fosse stato diverso da adesso. […] Oppure basta ricordare: ieri ho fatto questo o quest’altro: qualsiasi istante è sempre come un abisso e sull’orlo rimane un essere malato, che non si conosce e che a poco a poco impallidisce alla vista; solo che non ci si pensa. E di colpo come in una illuminazione improvvisa ella vide tutta la sua vita dominata da quell’incomprensibile, continuo tradimento che si commette ad ogni istante strappandosi via da se stessi senza sapere perché” [2].
Il passato si crea quando la nostra vita passata ci rimane sconosciuta ed estranea. Ora Claudine sente che quel passato non le appartiene, eppure quel passato era lei stessa, ma una lei stessa ormai morta e che ora non si riconosce. “Qualsiasi istante è sempre come un abisso”: in qualsiasi istante del presente noi viviamo in pieno, perché è l’unico istante che abbiamo, ma quell’istante è come un abisso perché subito rimpiazzato da un altro diverso, in quanto noi siamo sempre sul punto di mutare. Per cui all’orlo di quell’istante, una volta che sia trascorso, rimane il nostro Io malato o il nostro scheletro: quello che siamo stati è morto, sorpassato, effimero, impallidito. Abbiamo vissuto per un istante solo e subito dopo siamo morti. E ad ogni istante si ripete questa nascita-morte in un Io differente. Anche l’unione col marito viene dichiarata da Claudine effimera ed inconsistente, priva di alcuna necessità. Infatti pur essendo felice col marito “era assalita talora dalla consapevolezza di una nuda realtà, quasi di una casualità; a volte pensava che doveva esserle riservato un altro, lontano modo di vivere”[3]. Comincia così a definirsi il senso della causalità della realtà. Claudine sente che solo per un caso ha vissuto con quel marito, un altro caso l’avrebbe immessa in un’altra vita: nessuna necessità ha decretato la sua vita (come quella di qualsiasi altro), ed un lontano modo di vivere, lontano da quello realizzato, lei sente che le sarebbe stato concesso, se non fosse incappata nell’attuale marito.
In questa nuova sensazione la sua unione col marito le appare inconsistente, anzi, tutto le appare come fluido, casuale, effimero, irreale, sospeso, senza alcuna necessità e vede realizzato negli oggetti quello che lei sente: le cose sono staccate da lei, cioè non appartengono più a un ambito definito, ma sono giustapposte senza alcun motivo. Vede cioè all’esterno lo specchio di ciò che avviene al suo interno. Sempre succede così: noi ammantiamo quello che sta fuori di noi col sentimento che sta in noi. “Ella provava una malinconia che non poteva essere quella del solito bisogno d’amore, ma quasi un desiderio di abbandonare quel grande amore che possedeva, come se intravvedesse vagamente la via di un’ultima concatenazione che non la conducesse più all’amato ma via da lui, inerme, indifesa verso il molle e arido avvizzimento di una dolorosa lontananza” [4]. Claudine intravede un’altra concatenazione di eventi, altri fili che la potrebbero condurre altrove. Ogni concatenazione è casuale, e quindi perché preferire l’una all’altra? Sono intercambiabili, non vi è alcuna necessità dell’una a scapito delle altre.
Dal treno, scorge dal finestrino alberi e case e prati che scivolano via veloci: questa visione la immerge nella sensazione di essere prigioniera del suo proprio essere, legata sempre a un dato posto, anno per anno. Si sente prigioniera della realtà casuale che l’ha costretta in quel luogo, con quel marito ecc. La sua felicità col marito era anch’essa quindi una realtà casuale, non necessaria e quindi poteva diventare cenere! Una cosa necessaria non può infatti annullarsi, ma una cosa proveniente dal caso può essere retrocessa al vuoto da cui è scaturita. “Il suo passato le sembrò a un tratto l’espressione imperfetta di qualcosa che doveva ancora accadere” [5]. Il passato è stato solo una delle infinite possibilità. Nella sua mente Claudine si rivolge al marito in questi termini: “Perché tu, laggiù, non possa mai più credere saldamente e semplicemente in me. Perché io diventi un riflesso inafferrabile che si dilegua appena tu mi lasci andare, solo un miraggio, cioè tu sappia che io sono soltanto qualcosa dentro di te e grazie a te, solo finché tu mi tieni stretta… e qualcosa di diverso se tu mi lasci andare, o mio amato e a me così stranamente unito” [6].
Claudine vuole staccarsi dalla realtà che attorno a lei le ha creato il marito: solo dentro la realtà creatale da lui, lei è reale, cioè staccata dalla possibilità. Lui l’ha creata e lei è tale solo nella mente di lui, ma questa è un’illusione di quell’uomo! Se lui lascia la presa, se lui la lascia andare altrove, se la lascia pensare a un mondo diverso da quello che le ha elargito, la sua creazione diventa fumo che svanisce. “La sua vita si scindeva in mille possibilità, si svolgeva come gli scenari arrotolati di molte vite diverse” [7]. Perduto il riferimento alla realtà, quella realtà che la chiudeva in una delle infinite possibilità, Claudine si affaccia sperduta e bramosa all’abisso vuoto di un’altra vita fluttuante.
Il regno della possibilità dà la vertigine di un vuoto, dove l’individualità si è dileguata. L’Io di Claudine, sedotto dalla possibilità, si rende opaco ed evanescente, e proietta il suo fantasma sugli altri viaggiatori del treno, che ora appaiono anch’essi senza contorni, lenti ed irreali. Si sente ormai lanciata fuori dal suo ambiente, dalle sue abitudini, dalla sua realtà di individuo dove tutto era predeterminato. È lanciata nel vuoto senza sponde, ed infatti solo l’individuo può avere sponde, mentre un ente senza contorni fluttua come fumo. La stessa sensazione la assale nella sala da pranzo dell’albergo: gli oggetti della stanza le sembrano come privi del loro posto; l’ordine delle cose, prima legato a una catena coordinata di impressioni, ora le sembra un incessante frastuono. La discordia fra lei e gli oggetti comincia a prendere possesso della scena mentale di Claudine, che perde il contatto con la realtà, con quegli oggetti che prima le sarebbero apparsi come immessi nella sua realtà di individuo che vive una vita determinata: “A poco a poco qualcosa nasceva in lei, come quando si cammina in riva al mare: la sensazione di non potersi opporre a quell’infuriare di onde che strappa via ogni azione e ogni pensiero non lasciando altro che il momento presente, e poi un’incertezza, una lenta impressione di oltrepassare i propri limiti, di smarrire la propria identità, di perdersi […] V’era una forza travolgente e devastatrice in quel senso di perdizione, in cui ogni attimo era come una solitudine selvaggia, irresponsabile, tagliata fuori da ogni cosa, che fissava il mondo con smemorato stupore” [8].
 L’attimo presente è solitudine, in quanto non esiste più il concatenamento della realtà, ma domina l’infuriare di onde, cioè il regno della possibilità, che strappa le azioni dal loro rassicurante concatenamento e lascia solo l’attimo. Si smarrisce l’identità-individualità, si oltrepassano i limiti e ci si perde in una atmosfera rarefatta. Ogni attimo rimane quindi solitario, irresponsabile, in quanto non più correlato agli altri attimi, mentre la responsabilità si predica solo se c’è uno svolgimento fra i vari attimi, solo se esiste un ente conchiuso che agisce, cioè un Io. Quell’attimo fissa il mondo, fatto ormai solo di fantasmi irreali, con stupore, cioè non vi comprende più un ordine, un fine, uno scopo. “Ella pensò: si traccia una linea, una sola linea coerente, per trovare un appoggio fra le cose che torreggiano mute; questa è la nostra vita; qualcosa come parlare senza mai smettere e illudersi che ogni parola derivi dalla precedente e susciti la seguente, perché si ha paura, se il filo si strappa, di vacillare e di essere inghiottiti dal silenzio; ma è solo debolezza, solo terrore della tremenda, spalancata casualità di tutto quel che facciamo” [9].
Mentre le cose sono mute, siamo noi a creare tale linea coerente per paura del vuoto nulla-possibilità, che se ne sta silenzioso e indifferente. Ma è solo per terrore che si crea la linea, terrore del nulla.  Claudine si sorprende a vagare sola nelle strade della cittadina, sospinta dallo sgomento e dalla brama di affrontare titanicamente l’ignoto che lei stessa rinserra, osservando una vita che le appare stravolta “e dappertutto, come in largo fiume che accoglieva placidamente ogni cosa, c’erano piccoli vortici turbinanti attorno a un centro, un risucchio verso l’interno che improvvisamente era cieco e senza finestre, al limite dell’indifferenza; e dappertutto c’era quella sensazione di essere trattenuti dalla propria eco in uno spazio ristretto che afferra ogni parola e la prolunga fino alla successiva, perché non si senta ciò che sarebbe insopportabile: l’intervallo, l’abisso fra gli urti di due azioni, nel quale ci si allontana dal senso della propria identità, e si precipita nel silenzio fra due parole, che potrebbe il silenzio fra due parole di qualcun altro” [10].
I piccoli vortici, gli spazi ristretti, sono la realtà cieca, impregnata di se stessa senza aperture esterne: così è la realtà, un piccolo vortice che si ritaglia il suo piccolo regno nel mare della possibilità. E tale vortice sta al limite dell’indifferenza, cioè tutto è indifferenza attorno ad esso, dove si spalanca l’immenso vuoto. Lo spazio ristretto-realtà è creato dalla concatenazione degli eventi o delle parole. Ma fra ogni evento-parola e l’altro sta un intervallo terrificante, un abisso che li separa e che solo postulando arbitrariamente un ponte fra essi viene colmato. In questi intervalli sta la perdita dell’individualità, si precipita nell’inespresso della possibilità, nel silenzio nell’immobilità, nell’indifferenza: “E allora l’assalì il segreto pensiero: in qualche luogo fra costoro vive un uomo, un altro [uno qualsiasi], uno che non è adatto a me ma al quale tuttavia mi potrei adattare e in tal caso non saprei mai nulla di quella che io sono oggi. Giacché i sentimenti esistono solo in una lunga catena di altri sentimenti, reggendosi l’un l’altro; e quel che importa è che un punto della vita si attacca all’altro senza soluzione di continuità, e ciò può accadere in mille modi. Per la prima volta da quando amava le balenò l’idea che si trattava di un caso; per un caso qualcosa diventa realtà, e allora lo si tiene stretto. […] E fu allora come se dovesse lasciarsi andare di nuovo alla deriva, fra le cose non avverate, nella terra di nessuno” [11].
 Se Claudine avesse incontrato un altro uomo, uno qualsiasi dei milioni che esistono, e se con lui avesse formato una unità, ora non saprebbe nulla della vita che oggi ha con suo marito. Anche i sentimenti, anche l’amore, sono come tessere concatenate e si reggono l’un l’altro come storpi che non potrebbero avanzare da soli ma solo in quanto puntellati da un altro storpio. Ma tale protesi può avvenire in infiniti modi, solo per caso si concretizza quella catena e non un’altra. Le “cose non avverate, nella terra di nessuno”, stanno lì con le loro fauci immense a ricordare il senso effimero di ogni nostro istante.
Mentre Claudine sta parlando coi professori della figlia, viene assalita dal pensiero che lei è separata dagli altri solo in quanto individuo che si è creato la sua concatenazione di vita, concatenazione diversa da quella degli altri, ognuno dei quali appare nella realtà come un ente conchiuso, con le sue determinazioni, i suoi scopi, le sue giustificazioni. Le sopraggiunge il pensiero che, se l’atmosfera di uno qualunque di quegli uomini si chiudesse attorno a lei, se uno di essi divenisse il suo amante, ciò produrrebbe una realtà cristallizzata, staccandosi dalla possibilità. Però Claudine è ben conscia di dare a questo sogno il valore evanescente di un segno tracciato nell’acqua, come se tale realtà fosse senza significato, effimera, in quanto casualmente emersa dal vuoto-possibilità, mentre invece il suo Io naviga in realtà non nate, nella possibilità, che è al di fuori del mondo perché il mondo si basa sulle realtà nate. “La sua sicurezza, il suo aggrapparsi con angoscia amorosa all’amato [marito], le sembrò in quel momento qualcosa di arbitrario, d’irrilevante e puramente superficiale in confronto con la sensazione – che la ragione non riusciva quasi più ad afferrare – della fusione assoluta di due esseri in un’intimità suprema e senza eventi” [12].
Il duetto amoroso col marito appartiene alla realtà effimera, che ora lei dalla visuale vertiginosa del vuoto può dichiarare un mero surrogato della verità. La vera fusione non ha eventi, non ha concatenazioni, non emerge, non ha scopi né giustificazioni: la vera fusione avviene nel nulla? In treno e poi in slitta, Claudine aveva fatto conoscenza con un uomo che rimane sempre come ignoto, indefinito; non rappresenta per lei un ente determinato, ma le appare effimero, impalpabile, casuale. Egli è una possibilità, non una realtà. È un altro tassello del viaggio interiore di Claudine, la cui individualità si sta sfaldando compromettendo contemporaneamente ogni altrui individualità. E Claudine sentiva tutto ciò con un piacere indefinito, rincorso con sgomento e brama. L’uomo, nel tentativo di sedurla, le dice: “Mi creda, non si tratta che d’abitudine. Se lei a diciassette o diciotto anni – non so – avesse conosciuto e sposato un altro uomo, oggi lo sforzo d’immaginarsi moglie del suo attuale marito non le riuscirebbe meno difficile” [13]. Tradotto suona così: “Se lei fosse sposata con un altro, e non avesse mai conosciuto suo marito – oggi sarebbe per lei ben difficile o assurdo pensare al suo attuale marito, perché non lo avrebbe mai conosciuto; così avviene anche in questa presente occasione: lei ora ha di fronte me, un altro uomo, e la vicenda con suo marito le appare lontanissima ed assurda”. È solo per abitudine che abbiamo cristallizzato la nostra realtà. Abitudine è un sinonimo di concatenazione di eventi: la realtà si basa sull’abitudine, sulla concatenazione arbitraria di eventi, ma ogni abitudine è casuale, come aver sposato un uomo invece che un altro. È casuale perché l’incontro fra le persone è casuale e non vi è in esso alcuna necessità. L’uomo vuole farle intendere che la realtà è effimera e insignificante. Ovviamente lui lo dice per sfruttare l’occasione per fare un’avventura sessuale, e non certo in quanto filosofo! Infatti Claudine disprezza quell’uomo che ritiene una nullità, ma ciò non inficia la sua brama di prorompere nel regno della possibilità, in questo caso di fare con lui un’avventura sessuale – anzi, il disprezzo che essa nutre per lui, è un punto a favore di quella brama: il regno della possibilità non permette alcun attaccamento a un ente, ma è immersione, perdita del proprio Io, e quindi le persone con cui ci accompagniamo devono essere amorfe, prive di qualsiasi qualità che ce le facciano preferire, altrimenti ricadiamo nella realtà: devono cioè essere enti intercambiabili, rappresentazioni o rappresentanti del vuoto amorfo ed indifferente: “E a poco a poco le parve che quello che l’uomo desiderava da lei, quell’atto in apparenza così grande e importante, fosse assolutamente impersonale; si riduceva a quell’essere contemplata così, con uno sguardo stupido e ottuso, come nell’aria si guardano l’un l’altro, estranei, i punti incomprensibilmente riuniti a formare un disegno casuale. Rabbrividì, oppressa dal pensiero di non essere lei stessa che uno di quei punti. Quell’idea le dava una strana sensazione di sé, non aveva più niente da fare con la spiritualità e la libera scelta dell’esser suo, eppure ogni cosa restava sempre la stessa. Di colpo ella perse la coscienza che l’uomo davanti a lei era di mentalità goffa e comune. E le sembrò di essere fuori all’aperto, e intorno a lei i suoni nell’aria e le nuvole in cielo stavano fermi, affondati nello spazio e nell’attimo, ed ella stessa non era diversa da loro, era un vapore, un’eco… credeva di capire l’amore degli animali… delle nuvole e dei suoni” [14].
Il tradimento, che lei si appresta a commettere, le appare impersonale, cioè non viene fatto da lei in quanto Claudine-realtà, ma viene fatto da Claudine-possibilità: quell’uomo che le chiede attenzione può essere uno qualsiasi, perché lei ha smesso i panni della realtà, è divenuta un ente impersonale, un ente che scruta le connessioni che fanno di un ponte la realtà, come a effimeri fumi che si disperdono senza lasciare traccia. Claudine, in quanto individuo della realtà, si è eclissata, e rimane un “disegno casuale” a connettere punti che si guardano estranei. Di lei si impossessa una nuova strana sensazione, quella della scomparsa di lei stessa come individuo e della sua coscienza individuale. Quando ci si immerge nella possibilità non c’è più un Io personale, ma qui l’Io è infinite possibilità, cioè nessuna possibilità reale, in quanto se quell’Io si cristallizza in una di esse e diventa reale, esso emerge dalla possibilità, cioè tradisce la possibilità. Insomma: il regno della possibilità (cioè di tutti i casi della realtà) non può essere che immobile e non può esprimere alcuna delle sue infinite possibilità.
Claudine sperimenta che questa vertigine è il proprio sgretolamento nel tutto immobile e fuori del tempo, dove lei non è diversa dalle nuvole, dall’aria e dagli animali. All’uomo, che la interroga in proposito, dice la bugia che lei non ama suo marito. Lo dice per aprire le porte alla possibilità. Claudine si sdoppia, la sua immersione nel regno della possibilità è un travaglio drammatico, che non abbandona il suo io reale, o meglio essa vive come scissa in due regni incommensurabili, e non decide per l’uno o per l’altro, ma nemmeno potrebbe fare questa scelta: ogni io è tale solo se è reale e la via verso il vuoto è solo una aspirazione, finché non si approda al misticismo; ma Claudine non è ancora approdata in questo lido. Da un parte, lei ama il marito (“la sorreggeva una certezza di essere ancora l’uno per l’altro la cosa suprema, di appartenersi senza parole, increduli”) [15] – dall’altra brama la possibilità, mentre sta aspettando l’uomo nella stanza dell’albergo. In questa stanza, abitata precedentemente da altre molte persone, sente la loro presenza e vi si identifica, cioè si identifica in queste persone che come lei hanno casualmente là soggiornato. Anche loro appartengono alla casualità e Claudine, ormai essere totalmente casuale, si scopre col pensiero a gettarsi sul tappeto ed annusare come un cane gli odori dei loro piedi e a baciarne le impronte eccitandosi.
Dopo che è avvenuto il tradimento, Claudine dice all’uomo: “sembra di scivolare attraverso un passaggio angusto: bestie, uomini, fiori, tutto è cambiato; noi stessi siamo diversi. Ci si chiede: se io fossi sempre vissuta qui, che cosa penserei di questo, come sentirei quello? È strano, non c’è che un solco, un solco da varcare. Vorrei lasciarla, e poi tornare al di qua del solco a guardare; e di nuovo tornare da Lei. E ogni volta che passo il confine lo dovrei sentire più intensamente. Diventerei sempre più pallida. La gente morirebbe, no, diventerebbe secca, rattrappita; e così gli alberi e gli animali. E alla fine non ci sarebbe più che un fumo sottile sottile… e poi ancora una melodia… fluttuante nell’aria… al di sopra di un vuoto…” [16]. Claudine intende quel solco come una cesura fra ciò che lei è e ciò potrebbe essere, se fosse sempre vissuta qui con lui. Lei vuole sentire in due maniere, si sdoppia e vuole assaporare le due diverse sensazioni: esse sono intercambiabili perché nessuna delle due è quella vera, essendo entrambe casuali. E lo farebbe molte volte per vedere le cose dalle rispettive prospettive, le quali determinano diverse vite. Ma ad ogni passaggio qualcosa si perderebbe e si diventerebbe sempre più pallidi, rattrappiti: ci si dileguerebbe in un fumo sottile, in una melodia, nel vuoto: si perderebbe la propria individualità, perché essa consiste solamente quando la prospettiva è una sola, quella della realtà. “E poi Claudine sentì con orrore che, nonostante tutto, il suo corpo si colmava di voluttà. E tuttavia in fondo alla sua memoria pensava a qualcosa che aveva sentito una volta in un giorno di primavera: come potersi dare a tutti, eppure appartenere a uno solo” [17].
Si chiude col dilemma irrisolto della dialettica tra realtà e possibilità. Claudine non può scegliere fra le due, le vive entrambe. Quando è nella dimensione della possibilità, si dà a tutti; quando è nella dimensione della realtà è di suo marito. Il suo darsi a quell’uomo non è dunque un tradimento perché le due dimensioni sono incommensurabili. Il marito appartiene alla realtà di Claudine, mentre l’altro uomo (che non è un uomo determinato, ma solo un simbolo di tutti gli altri uomini) appartiene alla possibilità. Claudine avrebbe tradito il marito se si fosse concessa a un altro uomo reale, a una nuova realtà. Musil proietta la dicotomia fra realtà e possibilità sullo sfondo di una vicenda sentimentale: il tradimento con uno sconosciuto, lontano da casa e dalla realtà, nel regno della possibilità: essere lontana da casa, nell’ignoto è infatti la metafora della possibilità. Claudine ha una morbosa attrazione verso il tradimento, metafora della possibilità, ma ne ha anche terrore, la realtà infatti fa valere il suo potere rassicurante. Claudine si sente sicura e protetta fra le braccia del marito, cioè nella realtà in cui l’individuo assume se stesso come scopo – eppure vi si ribella e lo tradisce, cioè assapora la dimensione delle possibilità, al di là della sua forma-Io effimera e casuale.   
Talvolta Musil introduce Dio: “Il possibile però non comprende soltanto i sogni delle persone nervose, ma anche le non ancor deste intenzioni di Dio”; “Dio fa il mondo e intanto pensa che potrebbe benissimo farlo diverso” [18]. Dio è in questa ottica il simbolo del regno della possibilità. Musil ha decretato l’illusorietà della realtà, la sua casualità e miseria; ha sondato la vertigine di una visione che frantumava ogni realtà al cospetto di una misteriosa e travolgente ondata di vuoto. Siamo lontani dalla lucente dialettica hegeliana: qui invece il connubio tra realtà e possibilità apre allo sgomento. La realtà, allorché si ritiene casuale, è già entrata nella possibilità: la realtà costituisce una delle infinite possibilità, senza alcuna necessità. Tale pensiero porta nell’alveo delle infinite possibilità, in quanto la realtà si prospetta le altre infinite alternative a se stessa.
La possibilità irretisce nell’immobilità, perché da quell’ambito non è più possibile scegliere una delle sue realtà, altrimenti si ricade nella realtà stessa. La possibilità rimane un regno oscuro di sgomento e di perdizione, in quanto predica l’avvio di infinite realtà, sembra stia eternamente per dare l’impulso al suo prorompente bagaglio – ma questo multiforme magma rimane eternamente immobile, come un otre pieno d’aria che non riesce mai a trovare lo spiraglio per uscire.
L’approdo di Musil concerne la messa a tacere sia della realtà che della possibilità. Egli dice che “sembra che l’intera storia dell’umanità sia percorsa dalla divisione in due stati dello spirito. Essi, certo, si sono influenzati in vario modo, hanno anche accettato dei compromessi, ma in realtà non si sono mai veramente mescolati”.[19] Il primo stato pertiene all’attività umana per dominare il mondo con misure e calcoli, con cause e scopi; è l’uomo manipolatore che intende imporsi alla natura, che lotta per la vita sfoderando tutte le sue qualità più violente e sopraffattrici. Di fronte a questo stato dello spirito, ne esiste un altro, chiamato in vari popoli “stato dell’amore, della bontà, del distacco dal mondo, della contemplazione, della visione, dell’avvicinamento a Dio, dell’estasi, dell’assenza di volontà, della meditazione” [20].
Il punto di arrivo di Musil è dunque il misticismo: realtà e possibilità sono i regni dell’individuo, ovvero del principium individuationis. L’altro stato è quello dell’annientamento dell’individuo. Ecco che allora scompare la sgomentante dialettica fra realtà e possibilità, laddove non esistono né realtà né possibilità, le quali hanno nell’individuo il loro ambito. Nella possibilità si è ancora individui, anche se immobilizzati nel regno infinito di infinite alternative. La possibilità si paralizza nell’immobilità, ma è una immobilità che sgomenta perché è ancora l’individuo a sentirsi immobilizzato. Mentre nella realtà l’individuo è formato a tutto tondo, nella possibilità egli è come sfuocato, sfumato, autorepresso ma non è in procinto di dileguarsi, anzi, soffre per non potersi esprimere. Nello sgomento di realtà e possibilità regna l’individuo casuale e infinito.
Talvolta per Musil l’inabissarsi nel tutto è l’altra faccia dell’amore ma non è l’amore degli individui, in quanto quest’ultimo soggiace alle qualità solipsistiche dell’attivismo, del potere, del calcolo. Ulrich, riferendosi ai mistici, dice: “Essi parlano di un chiarore che inonda. Di una vastità infinita, di un’infinita ricchezza di luce. Di una ‘unità’ fluttuante di tutte le cose e di tutte le forze dell’anima. Di un meraviglioso e indescrivibile slancio del cuore. Di rivelazioni così fulminee, che tutto è allo stesso tempo, e simili a gocce di fuoco che cadono sul mondo. E d’altra parte parlano di un dimenticare e di un non più capire e perfino di un tramontare delle cose. Parlano di una pace immensa, inaccessibile alle passioni. Di un ammutolire, di uno scomparire dei pensieri e delle intenzioni. Di una cecità in cui vedono chiaro, di uno splendore in cui essi sono morti e sovrumanamente vivi [morti in quanto individui, vivi come sovrumani, cioè non come individui]. Lo chiamano ‘annientarsi’ eppure sostengono di vivere più pienamente di prima” [21]
Qui si prospetta di dimenticare la propria individualità, di non più capire, perché la ragione si dilegua, essendo essa patrimonio dell’individuo; di un tramontare delle cose, cioè della loro individualità; di una pace inaccessibile alle passioni, cioè all’individuo; dello scomparire dei pensieri e delle azioni. Cioè si prospetta l’annientamento dell’individuo; le cose non esistono in questo stato mistico, e non si può quindi nemmeno parlare di un loro connubio o contatto simpatetico: semplicemente non può più esistere tale contatto perché l’individuo è scomparso.    
Musil si inserisce nella visione di Eckhart, secondo il quale nel tutto, che è silenzio ed abisso, non c’erano individui ma si era nel tutto: là io volevo il tutto e lo ero. Là nemmeno Dio c’era perché anche lui è un ente individuale. Là invece tutto era uguale, che fosse angelo mosca o anima, ma nemmeno c’erano angeli mosche e anime perché tutto era uguale e silenzio immobile. “Esso è lontananza e deserto, senza nome piuttosto di avere un nome, sconosciuto piuttosto che conosciuto” [22]. Là tu non sei separato dalle cose, e quindi tu sei Dio e tutte le cose, perché non esiste un Dio separato da te. “[Dio] è un puro, limpido, chiaro Uno, separato da ogni dualità. E in questo Uno dobbiamo eternamente sprofondare dal qualcosa al nulla” [23]. Privo del proprio essere individuale, come lo era prima di nascere, l’uomo-tutto è qui lontano da tutto quel che è molteplicità e numero.
Anche un filone della filosofia indiana prospetta la negazione dell’esperienza umana, nel superamento della condizione umana. Secondo l’induismo di Śankara (788-820 d.C.), la mente deve essere abolita, perché essa evoca un oggetto esterno come fosse reale. Ma se si abbandona il mondo duale, nulla viene evocato come cosa da desiderare o da evitare. Si sta immobili senza mente. “Quando, per mancanza di predisposizioni, la mente non pensa mai, allora sorge lo stato non mentale, che dà la quiete suprema” [24].  “Egli rimane là dove non vi è non-essere né nulla che sia, né io né non-io, isolatamente, estinto il pensiero, libero da dualità e da unità” [25]. Qui non c’è né dualità né unità, né finito né infinito, né essere né non-essere, in quanto tutto ciò fa parte della dualità, del pensiero e del mondo, cioè dell’illusione. A differenza degli occidentali, sia nell’Induismo (nella visione di Śankara) che nel Buddhismo (nella visione di Nāgārjuna), l’ignoranza è causa del dolore e del mondo duale: solo per ignoranza noi non sappiamo di essere nel tutto dell’eternità immobile, mentre il divenire e il tempo appartengono all’illusione della vita individuale. Dunque sia ad Oriente che ad Occidente del mondo rimane però un mistero: come sia possibile che esista l’ignoranza di credersi individui e come al tempo stesso sia possibile che esista la creazione dell’individualità, se essa è un ente da annientare e da dimenticare, per entrare nel tutto da cui non ci siamo mai mossi o a cui dovremo tornare.


[1] R. Musil, L’uomo senza qualità (1931-33), CDE, Milano 1994, p. 265.
[2] R. Musil, Il compimento dell’amore (1911), in Tre donne, Einaudi, Torino 1960, p. 147.
[3] Ivi, p. 126.
[4] Ivi, p. 127.
[5] Ivi, p. 130.
[6] Ivi, p. 149.
[7] Ivi, p. 148.
[8] Ivi, pp. 154-155.
[9] Ivi, p. 156.
[10] Ivi, pp. 159-160.
[11] Ivi, p. 160.
[12] Ivi, p. 148.
[13] Ivi, p. 151.
[14] Ivi, pp. 152-153.
[15] Ivi, p. 157.
[16] Ivi, p. 168.
[17] Ivi, pp. 168-169.
[18] R. Musil, L’uomo senza qualità, cit., pp. 12 e 14-15. 
[19] R. Musil, Spunti per una nuova estetica. Osservazioni su una drammaturgia del film (1925), in Saggi e lettere, Einaudi, Torino 1995, p. 96.
[20] Ivi, p. 97. 
[21] R. Musil, L’uomo senza qualità, cit., p. 729.
[22] Meister Eckhart, Sermoni tedeschi, Adelphi, Milano 2001, p. 93.
[23] Ivi, p. 258.
[24] Vidyāranya, Jīvanmuktiviveka. La liberazione in vita, Adelphi, Milano 1995, p. 213. Vidyāranya è un seguace di Śamkara, vissuto nel XIV sec.
[25] Ivi, p. 274.