31 maggio 2013

MAFIA IERI E OGGI








L’amico Casarrubea nell’articolo che segue ci ricorda un po’ di storia. Certamente non è detto che la mafia non torni ad usare il tritolo. Oggi, comunque, pare che preferisca usare le banche e i soldi della comunità europea.

G. CASARRUBEA – QUANDO LA MAFIA TRATTAVA COL TRITOLO

Finalmente siamo arrivati al dunque con l’inizio del processo nell’aula bunker dei Pagliarelli di Palermo. Una parola, “trattativa”,  che segna la conclusione di una lunga fase durata oltre vent’anni e l’inizio di almeno un fatto concreto: la presenza, in questa battuta di avvio, di testimoni eccellenti e di mafiosi in parte inutilizzabili e in altra parte latitanti.
Come Matteo Messina Denaro, il capo della Cosa Nostra nell’epoca della globalizzazione, del riciclaggio, degli investimenti criminali, dei grandi profitti derivanti dal traffico di stupefacenti e d’armi.
Tra testimoni e sospettati la vicenda parte con il piede storto, con poche certezze, con una carica di coraggio sufficiente da parte della magistratura di Palermo, ma anche con una qualche sicumera di quelle autorità, soprattutto politiche e militari, che in modo non certamente sparso, ma direi gerarchicamente preordinato, hanno costituito la struttura di potere dell’Italia degli anni della fin de siècle, e di quelli successivi, del XXI secolo. Fino ai nostri giorni.
Anni terribili che l’ex presidente della Repubblica Ciampi visse direttamente, come del resto Oscar Luigi Scalfaro e parecchie altre personalità istituzionali, sulla loro pelle. E della mafia sentirono gli effetti violenti e, persino, il fragore delle bombe. Da Palermo a Roma, da Firenze a Milano.
La parola più in uso che definisce quella temperie, che ebbe il suo acme nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio, è ‘trattativa’. Un termine che anch’io ho talvolta usato, ma che, a pensarci bene, rischia di essere depistante se serve a dare l’idea di due soggetti, sostanzialmente estranei, che, ad un certo punto, entrano in una sorta di patteggiamento utile a definire rivendicazioni e forme di accondiscendenza valide a spiegare  uno scambio, a concordare i punti di una vertenza, l’accettazione di un ‘papello’. Questa impostazione è errata perché, nella storia della mafia la sua organicità con lo Stato è segnata da una lunga sequenza di atti più o meno ufficiali. Atti che sono serviti a legittimarla nel sistema di potere del nostro Paese e a riservarle degli spazi che sono stati necessari alle due parti, lo Stato e l’organizzazione criminale di cui parliamo, a trarre da tale organicità reciproci benefici. Il concetto di trattativa è perciò depistante in quanto ammette la reciproca estraneità dei due interlocutori, quando al contrario ci troviamo di fronte a una interazione funzionale, a un do ut des. A documentare tale connivenza bastino i seguenti esempi.
La funzione svolta dai cugini Salvo di Salemi nella gestione delle esattorie siciliane; il rapporto che con loro aveva un pluridesignato capo di governo come Giulio Andreotti; la funzione assolta dal sindaco di Palermo Vito Ciancimino, e a livello più generale da Salvo Lima; il ruolo assolto nel tempo dai capi dell’Arma dei carabinieri per assicurare il blocco antipopolare; la legittimazione al potere operata dalle autorità dell’Amgot (Amministrazione militare alleata al tempo dello sbarco del 1943) a favore dei capicosca, con il ricorso diretto di Charles Poletti a un boss di spicco come Vito Genovese.
Dopo un’analisi della situazione il capitano inglese W.E. Scotten, in un documento del 1943, fa il suo resoconto al Resident Minister ad Algeri, Harold Macmillan, poi primo ministro di Sua Maestà britannica,  e propone “una tregua negoziata con i capimafia”– che i governi di Londra, Washington e Roma finiranno per attuare. E’ un punto che lo stesso Scotten illustra nel dettaglio al paragrafo 15 del suo Memorandum. Leggiamo che la buona riuscita dell’operazione dipende “dalla personalità del negoziatore e dalla sua abilità nel conquistare la fiducia dei capimafia”. Temi, questi, che acquistano una loro grande attualità nel quadro delle nuove ricerche, come, ad esempio quella che uscirà il 19 giugno nelle librerie, su “Operazione Husky, guerra psicologica e intelligence nei documenti segreti inglesi e americani sullo sbarco in Sicilia” di cui sono autori chi scrive e Mario J Cereghino (Editore Castelvecchi).
Grazie alle carte top secret, sappiamo chi è questa figura.  Nelle stesse settimane Vito Genovese – ex Big Boss della mafia siciliana a New York, in losche attività in Italia dal 1936 con vari gerarchi fascisti – incontri a Napoli il capo del GMA Charles Poletti e ne divenga subito l’“interprete” ufficiale. Sarà don Vitone il “negoziatore” con la mafia siciliana, fino alla data del suo arresto (agosto 1944).  E’ in questo frangente che l’Intelligence Usa promuove la nascita del Fronte democratico per l’ordine siciliano (Fdos), uno strano e potente partito  presieduto da don Calò Vizzini, capomafia di Villalba. Ma il gangster che lo sostituirà, nell’aprile ’46, sarà un capo molto più spregiudicato e con una visione del futuro lungimirante: Salvatore Lucania, in arte Lucky Luciano.
Possiamo dire che il peccato originale dei livelli di comando affidati alla Mafia è la funzione attribuita dall’intelligence angloamericana alla struttura familistica ed estesa socialmente delle varie cosche che avevano costituito in Sicilia, come anche negli States, vere e proprie società di mutuo soccorso. Queste nulla avevano a che fare con le organizzazioni solidaristiche delle società operaie e contadine o artigiane che avevano caratterizzato la Sicilia della fine dell’Ottocento e del primo Novecento. Un esempio classico dei tempi nuovi preannunciato dalla politica di Vittorio Emanuele Orlando, dal suo controllo sulle organizzazioni del lavoro, e dal sistema clientelare-mafioso che doveva poi perfezionarsi negli studi di Danilo Dolci e di Anton Blok sulla Sicilia ancora arcaica e feudale.
In termini di analisi storica due errori appaiono, dunque, evidenti: il primo è che non può parlarsi affatto di ‘trattativa’ tra Stato e Mafia, avendo avuto la negoziazione iniziale un valore del tutto fondativo della reciproca coesistenza organica. E ciò perché, proprio in coincidenza con le politiche di guerra non ortodossa, lo Stato che doveva nascere, nacque con la connotazione dell’assunzione della Mafia come forza sociale egemonica, delegando ad essa alcune funzioni sue proprie, come il monopolio della violenza sul territorio e la legittimazione della sua rappresentanza in sede governativa e parlamentare, oltre che negli apparati burocratici. Il secondo errore è che la distorsione concettuale della “trattativa” impedisce di dare un valore causale e temporale al processo che è servito a strutturare tale organicità fino al punto che la lotta alla mafia dentro le istituzioni porta a squilibrare il sistema politico nazionale facendolo piombare in qualcosa di pericoloso per l’ordine costituito.
In definitiva occorre cambiare lo Stato per sconfiggere la Mafia. Se questo non accade, a perdere saranno sempre tutti i cittadini onesti e, soprattutto, quei magistrati che, lottando contro singoli personaggi e aspetti del problema, finiscono alla lunga con l’essere schiacciati dal peso di fatti che sono, ad un certo punto, molto più grandi di loro.
Giuseppe Casarrubea  30 maggio 2013







PUBBLICO DIBATTITO SULLA CRISI DEI PARTITI


L'ARTE DELL' ASCOLTO





E' davvero una fortuna poter ascoltare i ragazzi. Riempie la vita e da senso alla professione di insegnante.


Marco Lodoli  - Amori, amicizie, crisi esistenziali confidati in classe a un professore


Sull’adolescente, scriveva Vincenzo Cardarelli nella sua poesia più bella, “sta come un’ombra sacra”: nuovo abitante del mondo, partecipe delle sue miserie e delle sue speranze, l’adolescente conserva ancora un legame con un sentimento dell’assoluto. Una vaga e dolorosa percezione della propria unicità gli agita le cellule, l’anima, i pensieri. Solo pochi mesi prima era un bambino, non doveva fare nulla, non gli era chiesto altro che di vivere ed essere felice.

Poi qualcosa cambia, tutto cambia. Deve apprendere a ritagliarsi uno spazio nella confusione, deve irrobustire l’ego, distinguersi, imporsi. Capisce che la vita pretende da lui uno sforzo nuovo, l’indistinzione deve trasformarsi in personalità: inizia la dura lotta per la sopravvivenza e l’affermazione. Appare il desiderio di amare, la brama che spinge e che punge, la paura di non valere nulla ed essere sopraffatto. Questa tensione fisiologica si mescola alle grande domande sul senso della vita: chi sono, che cosa significa tutto questo, perché si vive e perché alla fine si muore? L’ombra sacra avvolge la smania adolescenziale, un cielo lontano e misterioso grava su una natura febbricitante.

Quante volte mi è capitato di ritrovarmi davanti alla cattedra un ragazzo o una ragazza che, mentre gli altri sciamano in cortile per la ricreazione, e si urtano e gridano, avidamente mangiano e si corteggiano, mi raccontava a mezze frasi la sua crisi, la sua pena. Mi ricordo di Valerio, gli occhiali sempre un po’ storti, le unghie smozzicate: si era quasi identificato in Giacomo Leopardi, anche lui si sentiva passero solitario, inadatto alla vita e alla socialità, si sentiva pastore errante della periferia romana, divorato da domande assolute e da risposte infelici. Voleva altri libri da leggere, altre poesie su cui meditare la sera, e io avrei dovuto essere contento di uno studente così attento alla letteratura, e invece no, in quei momenti avrei voluto vederlo spensierato e indifferente come gli altri, calato nel corpo sordo dell’esistenza. Ma l’ortica dell’assoluto la notte lo tormentava.

Il punto in cui a sedici anni il poco e il tutto si fondono per la prima volta è sicuramente l’amore. In un’altra epoca è stata la politica, ma ora sembra un sole tramontato che non scalda l’immaginazione, una faccenda che riguarda solo gli adulti, cioè gli estranei. Il professore non è proprio un adulto, ormai è una sorta di fratello maggiore, un ragazzo con i capelli grigi al quale si possono ancora confidare i tumulti del cuore sperando in un ascolto, forse addirittura in un consiglio.

Ho raccolto tante storie d’amore in tre decenni di insegnamento, storie dolenti, ovviamente, perché quelle felici vanno avanti senza bisogno di niente e di nessuno. L’investimento amoroso nell’adolescenza è totale, non prevede tentennamenti o esitazioni, dunque è spesso drammatico. Ricordo una ragazza che era stata tradita e poi abbandonata, non mangiava più, non dormiva più, si feriva con il coltellino, stava nella disperazione come le eroine dei romanzi ottocenteschi: e poi l’amore era tornato, e con l’amore un senso di gratitudine infinita verso la vita. Ricordo bene i primi racconti omosessuali, in nulla diversi dagli altri: due ragazze che si prendevano e si perdevano, né con te né senza di te, un trasporto spirituale assoluto e il mondo che si metteva di traverso.

Ma anche l’amicizia a questa età è un bene che non prevede compromessi e mezze misure, è un sentimento che afferra l’anima. Storie intensissime che sembrano misurarsi solo con l’eternità. E purtroppo accade anche che un adolescente muoia in un incidente stradale, e allora per chi resta non c’è pace. La scoperta della morte diventa un sigillo scuro sulla vita. Quella ragazza aveva perso il fratello nel modo più assurdo: «Rideva con gli amici, rideva rideva e d’improvviso gli si è fermato il cuore: professore, ma si può morire ridendo?». E io, adulto e cittadino della mediocrità del mondo, provo a consolare, ad arginare quelle frane amorose, a dare una giustificazione a ciò che sembra non averne alcuna.

È una fortuna poter ascoltare i ragazzi, accogliere quelle parole sempre accese e sbigottite. Loro stanno interamente nell’assurdità tremenda eppure meravigliosa dell’esistenza, non smorzano, non attutiscono, ancora non hanno appreso i piccoli trucchi per mantenersi in equilibrio sul filo. Gli adolescenti corrono, cadono, si rialzano. Hanno bisogno di qualcuno che dia loro una mano per restare in piedi e continuare, e noi abbiamo bisogno della loro fede nell’assoluto, per non ritrovarci seduti, pacati, serenamente sconfitti.



(Da: La Repubblica del 30 maggio 2013)

LA TALPA DELLA STORIA...





Questa mattina proponiamo la lettura di un pezzo che,  anche se non condividiamo per intero, ci sembra che offra numerosi spunti di riflessione per capire il tempo presente:

Sandro Moiso -  Ben scavato vecchia talpa!

Più volte qui [...] si è insistito sul fatto che esistono già, di fatto, due società contrapposte i cui interessi sono totalmente contrastanti e inconciliabili. Di fatto un doppio potere in cui uno dei due attori (quello che è stato definito per comodità il 99%), però, non è ancora cosciente della propria forza. Nell’apparente assenza di lotte sociali generalizzate e in mancanza di un chiaro indirizzo politico (partito formale) tale affermazione potrebbe apparire priva di fondamento. Eppure, eppure…
Eppure l’1% ha paura. E hanno paura i suoi servi. Tutti: ministri, politici, giornalisti, responsabili del disordine pubblico e magistrati asserviti. Fino ai gradi più bassi: pennivendoli, agenti delle forze del disordine, presidi e burocrati vari. Gli invisibili radar che ricoprono i loro corpi sono in allarme. Come fiere braccate avvertono il pericolo e reagiscono sfoderando armi, minacce e denti. A tutti i livelli e per qualsiasi motivo.
I rilevatori sismici nei palazzi del potere oscillano in continuazione, senza riuscire ad individuare chiaramente l’origine esatta del sisma in arrivo. A quale profondità stiano avvenendo i movimenti della tettonica sociale destinati, più che probabilmente, a sfociare in scosse politiche in confronto alle quali le lotte degli anni sessanta e settanta non potranno sembrare altro che allegre passeggiate e divertenti scampagnate. Un venticello primaverile in confronto ai tornado attuali sull’Oklahoma.
Infatti, non sarebbe possibile spiegare altrimenti l’accanimento con cui negli ultimi mesi, sempre più spesso, la repressione collettiva ed individuale abbia assunto un parossismo che,  se non fosse per i drammi individuali di chi è stato colpito dalla vendetta preventiva dell’apparato statale, potrebbe apparire addirittura farsesco. Così come sempre più farsesca appare la lotta di tutti contro tutti che agita, al di là delle apparenze, i vertici dello Stato, del Governo fantoccio e dell’Economia.
Stanno in piedi per miracolo e sono attaccati ai seggi parlamentari e ministeriali, letteralmente, con lo sputo e lo sanno. Tutti i passi sbagliati li hanno fatti e continueranno a farli, incapaci ed impossibilitati, allo stesso tempo, a correggere la propria traiettoria. Come la nave porta-container in avaria nel porto di Genova: destinata a schiantarsi su una torre di controllo molto mal costruita e insicura. Chiamatela Governo Letta se volete.
Accusano di terrorismo chiunque si ponga al di fuori della semplice e supina accettazione di ciò che è “già stato deciso”: da Caselli e Il Fatto Quotidiano che si avventano su Davide Grasso (reo dell’occupazione di un ufficio di una ditta coinvolta nella realizzazione del TAV in Val di Susa) all’esponente del PD piemontese Stefano Esposito che denuncia un giornalista e blogger No TAV (Fabrizio Salmoni, titolare del blog anti-TAV Maverick) come pericoloso eversore per aver definito i lavoratori che pur di lavorare accettano qualsiasi compromesso, in barba agli interessi sociali e di classe, “crumiri”.
Il neo-eletto segretario del PD accusa di tradimento chi non si allinea all’alleanza con Berlusconi, mentre il mummificato migliorista Emanuele Macaluso ricorda che Berlinguer e Togliatti non partecipavano ai cortei operai (dimenticando, però, di dire che all’epoca, stalinianamente, la CGIL-Fiom era considerata la cinghia di trasmissione delle posizioni del Partito all’interno della classe operaia). Urlano all’omicidio per l’annerimento di un escavatore e approvano i peggiori massacri sull’altra sponda del Mediterraneo.
Preparano leggi autenticamente fasciste per bloccare l’ascesa dei movimenti al Parlamento, ma si inchinano alle proposte del Pdl e alle leggi ad personam. Si preoccupano dell’Imu, sperando che il loro elettorato sia ancora composta da una classe media sempiterna e non si accorgono dell’impoverimento che ha colpito anche quella loro, unica classe di riferimento elettorale. Mentre il Presidente della Repubblica, tra un allarmato e sentito proclama e l’altro, recalcitra di fronte ai giudici di Palermo. Straparlano, si insultano sulle piazze e in Tv ma predispongono una legge per incarcerare chiunque oserà ancora contestare i comizi e qualsiasi altra manifestazione del carrozzone politico e mediatico.
Hanno svuotato le casse dello Stato e le tasche dei cittadini ed ora pietiscono miseria e misericordia davanti ai cerberi dalla Bundesbank e della UE. Promettono lavoro per i giovani, ma intanto preparano leggi per  abbassare ulteriormente il costo del lavoro e le pensioni pagate a chi ha versato i contributi per quarant’anni e più. Hanno svuotato le casse dell’INPS per pagare miliardi di ore di Cig, quando la FIAT lo riteneva necessario, e le pensioni e le liquidazioni d’oro di dirigenti abili solo a tagliare le teste dei dipendenti ed ora faticano a coprire le spese minime per gli esodati.
Hanno usufruito di ogni margine, legale ed illegale, per evadere le tasse ed avvalersi di benefit statali (cassa integrazione in deroga, finanziamenti, favori e commesse basate sulle peggiori corruttele), senza mai investire in ricerca e sviluppo ed oggi piangono sulla perdita di competitività, la cui causa è fatta ricadere, tra l’altro, interamente sulla classe operaia e i suoi diritti, conquistati a costo di dure e sanguinose lotte.
Si sono lanciati nelle più spericolate operazioni finanziarie, spesso sulla pelle di milioni di cittadini dei paesi meno sviluppati e dipendenti economicamente dall’Occidente, per ritrovarsi poi con un pugno di mosche in mano e come unica possibilità di salvezza, per le banche e i manager, quella di affamare i propri cittadini attraverso l’acquisto continuo di titoli di stato garantiti. Incrementando così sempre più il debito pubblico e la necessità di tagliare ciò che resta ancora dei servizi sociali, della sanità e dell’istruzione.
Hanno tagliato i fondi alla scuola pubblica ed oggi, mentre il candidato Presidente “di sinistra” Prodi esalta l’attribuzione dei finanziamenti pubblici alle scuole private cattoliche, i dirigenti scolastici perseguitano studenti e professori che si sono opposti alle ridicole ed inutili prove Invalsi. Così, mentre il bastone diventa sempre più grosso e minaccioso, si cerca di distrarre ancora il pubblico con l’offerta di una carota sempre più striminzita e marcia.
E’ stato detto, su queste pagine, tante volte: i margini di aggiustamento tra gli interessi della maggioranza dei cittadini e quella di chi governa la politica, le banche e l’economia non ci sono più o sono talmente ridotti da far sì che anche un compianto ed un recupero tardivo delle politiche keynesiane possa essere inutile e, tutto sommato, soltanto di facciata. Senza contare che anche quelle originali non avrebbero portato da nessuna parte se di mezzo non ci fosse stato il secondo conflitto mondiale.
Ma oggi non esiste nemmeno un governo forte di parte, la dittatura del capitale si affida ormai a rituali sciamanici che non funzionano più nemmeno televisivamente. Hanno sbagliato tutto, da anni e lo sanno. Prima con Berlusconi, la cui colpa maggiore non risiede, agli occhi del Capitale, nelle orge da puttaniere e nei probabili legami mafiosi, ma piuttosto nell’aver disvelato agli occhi dei cittadini, per primo e in maniera inequivocabile, i legami tra interessi privati degli imprenditori e politica.
Poi con Monti, che ha rivelato la profonda dipendenza dell’azione politica ed economica statale dagli interessi e soprusi della finanza internazionale, e con la ministra Fornero, che ha rivelato l’assoluta imbecillità dei provvedimenti presi dagli esperti e dai tecnici bocconiani. Ed in fine, come si era pronosticato su queste pagine, con la definitiva perdita di ogni tipo di maschera sociale e politica di sinistra da parte del PD-DS-PDS-PCI, dopo un risultato elettorale disastroso e il rinnovo di un patto di alleanza per il potere con un nemico tutt’altro che mortale.
Stop! Ce n’è davvero abbastanza per far dire: siete finiti su un binario morto, senza prospettive e senza futuro. Per voi e per la società che vi deve ancora sopportare. E non è certo Grillo a spaventare gli gnomi al governo. No, dopo le prove di conformismo ed imbecillità date dai parlamentari grillini e visto anche il programma elettorale sbandierato ultimamente dal comico genovese(taglio dell’Imu, referendum sul jus soli, referendum per l’uscita dall’euro, etc.), tutto sommato poco distante da quello delle destre, senza contare il recentissimo flop elettorale in occasione delle amministrative.
E non sono nemmeno le iniziative di tipo offensivo messe in atto sui territori occupati militarmente o altrove. Quelle al massimo sono pretesti, come i colpi di pistola e le reazioni viscerali e suicide di qualche disperato. No, fa più paura una classe operaia che va in piazza e spinge, anche confusamente, la Fiom a prendere sempre più le distanza, magari ancora solo strumentalmente, dal PD e dai vertici della CGIL. Fa paura il  non voto di milioni di cittadini e il loro progressivo e smagato distacco nei confronti delle sirene politiche e parlamentari. Fa paura l’organizzazione e la discussione che viene dal basso. Fanno paura l’incontro tra studenti ed operai in piazza Verdi a Bologna e lo sciopero interrazziale e spontaneo dei facchini. Fanno paura Anonymous e l’azione degli hacker, spesso giovanissimi, che infrangono i portali degli apparati di stato e dei loro segreti.
Fanno paura gli otto milioni e mezzo di cittadini che versano, secondo le ultime stime dell’Istat, in gravissime condizioni economiche (raddoppiati nel corso degli ultimi due anni), i 15 milioni di individui che versano in condizione di deprivazione e disagio economico, i due milioni e mezzo di giovani (tra i 15 e i 29 anni) che non studiano e non lavorano e i circa sei milioni di disoccupati cronici. Il capitale, insomma, ha paura di se stesso e delle conseguenze delle sue politiche.
Così il premier Enrico Letta è costretto a scrivere, in una lettera, al presidente del Consiglio della Ue, Herman Van Rompuy:  ”Avere finanze pubbliche sane serve. Ma se l’Ue non è capace di intervenire per risolvere la disoccupazione, finirà per alimentare sentimenti di frustrazione e risentimento facendo crescere movimenti populisti ed antieuropei“.
Il potere accusa, condanna, denuncia, costringe alla latitanza decine di cittadini. Lo stesso potere che fa i salti mortali per nascondere verità sempre più evidenti, come quella che, forse, negli attentati a Falcone e Borsellino sono più coinvolti i servizi, tutt’altro che deviati, dello Stato che la mafia stessa. Lo stesso potere che si guarda intorno spaventato e vede pericoli ovunque. Tutto questo ha un nome: controrivoluzione preventiva. Ma, per nostra fortuna, Marx ci ha già spiegato  che là dove c’è necessità di un’azione controrivoluzionaria, sicuramente la Rivoluzione (sì, quella con la R maiuscola) è già all’opera. Anche al di là del sentire della classe direttamente interessata.
Così oggi occorre saper incassare, subordinare qualsiasi giovanile esuberanza ed intemperanza alla necessità di sviluppare organizzazione politica, sociale e sindacale sul territorio; dando la priorità alla  necessità di andare avanti nell’approfondimento del dibattito sulle prospettive di un movimento che non potrà essere altro che radicalmente anti-capitalista, ma senza rinunciare alla denuncia dei soprusi e delle ingiustizie e senza arretrare sul piano della decisa ed intransigente difesa delle idee, dei diritti sindacali e degli spazi di iniziativa politica e sociale .
Negli anni ottanta del XIX secolo Engels, che pur di barricate ed organizzazione militare se ne intendeva, esortava gli operai tedeschi a far fronte con determinazione alle leggi anti-socialiste di Bismarck e a preparare l’organizzazione politica e sociale per rovesciare la prassi dell’esistente modo di produzione,  senza cadere nella trappola dello scontro per lo scontro, sul  terreno scelto dalla borghesia. Tale indicazione vale, forse più, anche oggi.
La scossa sismica in arrivo non farà solo oscillare i rilevatori, ma ne frantumerà scale, vetri e lancette. Ma, forse, per giungere a ciò non saranno più necessari gesti romantici  come un’altra presa del Palazzo d’Inverno o qualche clamorosa, e facilmente sconfiggibile sul piano militare,  iniziativa insurrezionale: il destino di questo morente modo di produzione sarà quello di afflosciarsi ed accartocciarsi sulle proprie contraddizioni ed errori e non varrà nemmeno uno scoppio di petardo. Sarà solo allora che  il 99% potrà cogliere il frutto della sua azione di contrasto e procedere oltre.
Ma la rivoluzione va fino al fondo delle cose. Sta ancora attraversando il purgatorio. Lavora con metodo. Fino [ad ora] non ha condotto a termine che la prima metà della sua preparazione; ora sta compiendo l’altra metà. [...]      essa spinge alla perfezione il potere esecutivo, lo riduce alla sua espressione più pura, lo isola, se lo pone di fronte come l’unico ostacolo, per concentrare contro di esso tutte le sue forze di distruzione. E quando la rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del suo lavoro preparatorio, l’Europa balzerà dal suo seggio e griderà: Ben scavato, vecchia talpa!” (K: Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, dicembre 1851 – marzo 1852)


30 maggio 2013

ILLUSIONI PERDUTE







Un libro che critica l'idea di una sana società civile contrapposta a una corrotta partitocrazia. Nel mettere a fuoco l'involuzione politica e sociale degli ultimi venti anni, Guido Crainz non sempre però riesce a fare i conti con un periodo storico ancora non concluso. Riproponiamo di seguito una recensione del libro:

GIAMPASQUALE SANTOMASSIMO  - LE ILLUSIONI PERDUTE

Stracci d'Italia, verdi bianchi e rossi, che pendono lungo un muro: l'opera di Pistoletto figura molto bene quale copertina del libro di Guido Crainz Il paese reale. Dall'assassinio di Moro all'Italia di oggi (Donzelli, pp. 403, euro 29). È la conclusione della trilogia partita nel 1996 con la Storia del miracolo economico e proseguita nel 2003 con Il paese mancato, che nell'insieme costituisce il profilo più ampio della storia repubblicana dagli anni Cinquanta ad oggi.

Il senso del passaggio è chiaro: alla fine delle illusioni e delle ambizioni di cambiamento, mancato ogni progetto di governare lo sviluppo con regole nuove e condivise, il paese - appunto - reale emerge con le connotazioni assunte nella fase tumultuosa della sua grande trasformazione, che sono molto diverse da quelle immaginate o sperate. Qui si ritorna leggermente indietro rispetto al volume precedente, alla fine degli anni Settanta, e si procede fino alla fine (in realtà apparente) del berlusconismo e alla nascita del governo Monti. Il nucleo fondamentale è costituito comunque dagli anni Ottanta, snodo decisivo della nostra storia (e di quella dell'Occidente), con un rapido excursus finale sugli anni della Seconda Repubblica.

In tutta sincerità, va detto che il risultato complessivo è inferiore a quello dei volumi precedenti, per molte ragioni: non tanto perché l'argomento è troppo vicino a noi, quanto perché, malgrado le apparenze, non siamo interamente fuori da clima e cultura di quegli anni, non abbiamo fatto i conti fino in fondo con quel lascito, e come i personaggi di un memorabile film di Luis Buñuel, L'angelo sterminatore, non riusciamo ancora a varcare la soglia di uscita, per motivi che razionalmente ci sfuggono e che dobbiamo ancora chiarire fino in fondo a noi stessi.

Inoltre, Crainz estremizza in questo libro caratteristiche già presenti nei volumi precedenti. Già c'era pochissima politica estera, ma ora scompare quasi del tutto, anche in una fase in cui il collegamento all'Europa diviene condizionante e stringente. C'è solo un breve cenno di plauso alla guerra contro la Serbia nel discorrere del governo D'Alema e delle convulsioni interne al fronte ulivista in crisi: avvenimento che pure fu traumatico per una parte rilevante se pure minoritaria della sinistra e che, con gli entusiasmi suscitati nell'intellettualità italiana ed europea, segnò un mutamento di cultura ragguardevole su un versante molto delicato.

La scommessa riformatrice

Nel lungo flashback iniziale Crainz ripropone una visione d'insieme già risalente ai volumi precedenti (e riproposta nel più recente Autobiografia di una Repubblica. Le radici dell'Italia attuale, Donzelli, qui recensito il 9/12/2009). L'illusione riformatrice sfuma già agli albori del primo centrosinistra, le occasioni perdute si sommano fino a dar luogo al fallimento della costruzione di un paese nuovo. Gli anni seguiti al Sessantotto, già giudicati severamente nel volume precedente, qui vengono rubricati sbrigativamente come «decennio mancato». Eppure sono gli anni in cui si realizzano le riforme di portata più vasta nella nostra storia, dallo Statuto dei lavoratori all'ordinamento regionale, alla legge Basaglia, all'obiezione di coscienza, divorzio e aborto, voto ai diciottenni, sistema sanitario nazionale, liberalizzazione degli accessi all'università. Queste riforme non sfuggono all'autore, ma vengono sempre presentate con attenuazioni che imprimono un'ombra negativa, per lo più collegata alla presenza dei partiti e della politica. Quello che è vero è che siamo fuori da un autentico disegno riformatore, che non sopravvive all'affievolirsi delle illusioni programmatrici del primo centrosinistra: ma il meccanismo particolare del riformismo concreto e non libresco in Italia sarà sempre affidato all'azione congiunta di pressione dal basso e libera determinazione parlamentare, quel modello di democrazia repubblicana che il decisionismo e il culto del maggioritario degli anni successivi tenteranno, con successo, di sopprimere alla radice.

Il rilievo critico più fondato e originale rispetto alla memoria diffusa di quegli anni è però un altro, già anticipato in precedenza e qui ribadito e rafforzato, e che investe natura e qualità della modernizzazione italiana e di quel particolare processo di «secolarizzazione» della società italiana, più ricco di sfumature e ambiguità di quanto intendessero al tempo i cantori acritici del progresso. Già prima degli anni Ottanta e del trionfo conclamato dell'individualismo, la modernità italiana - ma non solo nel nostro paese, in realtà - si connota di una torsione particolare.
Irrompe la questione morale

Nel clima di socialità diffusa e quasi urlata si faceva strada sottotraccia un modello acquisitivo individuale che poi emergerà in piena luce. Come aveva notato per primo Piero Scoppola, sarà significativo nel 1981 il risultato parallelo di due referendum, quello sull'aborto e quello sull'ergastolo, che vedono entrambi con ampie maggioranze la conferma delle leggi esistenti: l'affermazione di libertà individuale non si coniuga con sentimenti di umanità e di pietas. E già nel 1978 il Censis aveva segnalato «una specie di dislocazione selvaggia, particolaristica, furbastra e conflittuale dei poteri e delle decisioni, in una sorta di filosofia dell'"ognuno per sé e Dio per tutti" in cui tutto c'è tranne che moralità collettiva, coscienza civile, senso delle istituzioni, rispetto delle regole del gioco statuale».

Negli anni Ottanta la rivoluzione individualista diverrà irreversibile, dato acquisito sull'onda di un benessere facile e illusorio. I bollettini trionfali delle borse scandiscono quasi tutto il decennio, e nel 1986 assumerà valore simbolico che perfino l'Unità e il Corriere dello sport decidano di pubblicare i listini giornalieri.

Sono gli anni del «pentapartito», basato su una sostanziale complicità tra governanti e governati, sullo spreco e sull'indebitamento, su colossali condoni fiscali ed edilizi che entrano a far parte della norma anziché dell'eccezionalità. In tanto discorrere di «assenza di regole», forse non si tien conto che la somma di regole non scritte viene a rafforzare una «Costituzione materiale» già in corso d'opera ma ora potenziata e inasprita, che si fonda sul doppio registro fiscale tra lavoro dipendente e autonomo, sulla tolleranza dell'evasione ma ancor più dell'elusione fiscale.

È anche il decennio in cui matura l'idea che il maggiore ostacolo allo sviluppo di una «democrazia a tutti gli effetti» sia la presenza di una «partitocrazia» (il termine prima quasi clandestino, riservato al qualunquismo diffuso,viene ormai sdoganato) «decadente, inefficiente e corrotta», in una pratica di «occupazione del potere» operata dai partiti che grava come una cappa sul libero dispiegamento di una società civile onesta e operosa. I partiti politici sono diventati «macchine di potere e di clientela... non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss"... I partiti hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai tv, alcuni grandi giornali... Il risultato è drammatico». La denuncia è quella, durissima, contenuta nell'intervista rilasciata da Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari nel luglio del 1981. Molto più che un grido d'allarme, conteneva una diagnosi impietosa ma rischiava di affidare la terapia all'indignazione sulla «questione morale» sganciata da una proposta politica realistica, e che in effetti verrà sostituita da scorciatoie che a distanza soppesiamo in tutta la loro fragile consistenza e nelle implicazioni che contenevano.

Crainz ha il merito di registrare l'insostenibilità di quel mito della società civile sede di ogni virtù contrapposta alla politica corrotta su cui si è fondata gran parte dell'ideologia diffusa degli ultimi trent'anni. Una «generosa illusione» (o forse un autoinganno collettivo), durata troppo a lungo e di fatto non tramontata, anzi in qualche modo estremizzata e incrudelita.Da vent'anni stiamo sostituendo i sempre più mediocri professionisti della politica con industrialotti brianzoli e veneti, tecnocrati, agopuntori, igieniste dentali, soubrettes televisive, professionisti della società civile e dell'Antimafia. I risultati non sono stati granché. La politica diviene il capro espiatorio durevole, che serve anche a coprire la pochezza di tutta la classe dirigente italiana (la Banca d'Italia e il sindacato saranno le uniche istituzioni solide cui si attingerà nei momenti di emergenza).

L'ingegneria istituzionale diviene la chiave di volta di tutto il dibattito politico, e nei primi anni Novanta postcomunisti e Confindustria, grande e piccola stampa appoggeranno fervidamente l'ubriacatura referendaria che porterà all'abbandono della rappresentanza proporzionale su cui si era fondata la Repubblica. Si apre un periodo di regressione politica e sociale, in contrasto stridente con le aspettative palingenetiche con cui l'avvio del maggioritario era stato salutato, e che non sfugge certamente all'autore. Si salva solo il primo governo Prodi, che ha assunto ormai nella memoria ulivista lo stesso alone mitico che ebbe il governo Parri nella memoria azionista. E che accanto ai suoi meriti - sul terreno pressoché esclusivo dei conti pubblici - andrebbe anche ripensato, di là del mito, per ciò che introdusse in termini di precarietà del lavoro, svendite e privatizzazioni in perdita, avvio della distruzione dell'Università.

Un altro mito di cui bisogna costatare la caduta è quello della fine del cosiddetto «eccezionalismo italiano». All'avvio del ciclo, moltissimi opinionisti (e anche qualche storico) avevano salutato l'ingresso a pieno titolo nell'Occidente dell'alternanza, lasciati alle spalle «bipartitismo imperfetto» e consociativismo. Vent'anni dopo, l'«anomalia italiana» è rafforzata, conclamata e quasi data per scontata da tutti gli osservatori internazionali.

Il partito «novecentesco», sulla fine del quale molti esultano anche a sinistra, resiste rinnovandosi in Europa, dove i socialisti possono vincere o perdere ma se perdono comunque cadono in piedi, hanno identità, insediamento sociale e una struttura più radicata di un semplice comitato elettorale. C'è da chiedersi perché la politica in Italia abbia finito per somigliare molto di più alle demokrature dell'Europa orientale, con partiti personali e aggregazioni populiste anziché alla vicenda dei partiti dell'Europa centro-occidentale, dove i cittadini non hanno votato per Forza Germania o strani nomi di animali e di frutti, ma per formazioni politiche riconducibili alle grandi famiglie della politica europea.
La casta degli opinionisti

La politica «incapace di riformarsi e di cogliere i mutamenti della società»: è una frase che comincia a venire ripetuta, e con molte ragioni, negli anni Ottanta, ma che potrebbe essere estratta anche dagli editoriali di oggi. Di fronte a tanta fissità interpretativa, viene da chiedersi se al contrario qualche forza politica si sia riformata anche troppo e troppo spesso, a strappi, sull'onda mutevole dei sondaggi, in maniera inconsulta e obbedendo agli umori mutevoli degli editorialisti della grande stampa (in particolare Corriere e Repubblica, laddove forse leggere il Giornale sarebbe più utile agli storici del futuro per capire gli umori profondi del paese). E a ben vedere proprio le «grandi firme» sono i veri protagonisti occulti del libro, che si basa in larga misura sulla consultazione paziente delle fonti giornalistiche. Quella degli opinionisti appare l'unica casta veramente inamovibile, più duratura dei politici e degli industriali, composta da interpreti a volte molto acuti nella denuncia dei mali italiani ma disastrosi nell'indicare terapie e soluzioni.

«Quando il Governo Berlusconi prima o poi cadrà, sul paese non sorgerà un'alba radiosa. Vi stagneranno invece i fumi tossici, i miasmi del degrado politico». È una frase indubbiamente veritiera, ma Sandro Viola la scrisse su Repubblica il 6 dicembre 1994. Qui siamo davvero di fronte a un «ventennio mancato», di stagnazione e regressione insieme, nel quale non solo la politica, ma tutta la società italiana ha girato a vuoto, senza trovare vie d'uscita che non fossero una gretta chiusura particolaristica attraversata infine da pulsioni anarco-capitaliste.

Il paese irreale, ancor più immaginario, è l'eredità che viene consegnata a una società impoverita e incattivita, frantumata e senza forma riconoscibile, senza passato e senza un futuro immaginabile. E che però ogni vent'anni improvvisamente si resetta e torna ad essere un popolo bambino che accetta caramelle dagli sconosciuti.

DA  Il manifesto, 28 maggio 2013