31 gennaio 2014

LE CENERI DI LUIGI PIRANDELLO


  UNA STORIA  PIRANDELLIANA  RACCONTATA   da  ONOFRIO PIRROTTA


Quando il 10 dicembre del 1936 morì, i figli trovarono mezzo foglietto di carta spiegazzato in cui Luigi Pirandello aveva scritto : 

 « I. Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiera non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzi né partecipazioni. II. Morto, non mi si vesta. Mi s'avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. III. Carro d'infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m'accompagni, né parenti, né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. IV. Bruciatemi. E il mio corpo appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l'urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui ».

L'ingresso del Verano
                                                                    L'ingresso del Verano
I punti uno, due e tre furono eseguiti a puntino, con grande scorno del regime- si dice dello stesso Mussolini- che avrebbe voluto fare un gran funerale fascista in pompa magna. Prima di rispettare le volontà espresse nel quarto punto, invece, trascorsero decenni e peripezie, e avventure e traversie degne proprio della penna di Pirandello. Ma procediamo con ordine.

IL PRIMO FUNERALE- Due giorni dopo la sua morte un carro d’infima classe  portò una cassa d’infima classe al forno crematorio . Ma nessuno se la sentì di assecondare il suo desiderio di spargere al vento le ceneri, pratica a quei tempi inaudita prima ancora che illegale e avversata dalla Chiesa. Le ceneri furono allora raccolte in un’urna e portate al cimitero romano del Verano, dove rimasero per undici anni
 Un vaso greco del V secolo a.c.
                              Un vaso greco del V secolo a.c.
IL SECONDO FUNERALE- A guerra finita, nel 1947, il sindaco DC di Girgenti, nel frattempo divenuta Agrigento, Lauricella, rivendicò per la sua città l’onore di dare sepoltura ed esequie cristiane e solenni alle ceneri dell’illustre concittadino. Si rivolse niente di meno che al democristiano presidente del consiglio dell’epoca , Alcide De Gasperi, che – malgrado le notevoli difficoltà in cui versavano ancora i trasporti - procurò un aereo militare americano per il trasferimento da Roma ad Agrigento. Ad accompagnare i resti del grande drammaturgo fu incaricato il prof. Gaspare Ambrosini, noto pirandelliano e pirandellologo e futuro presidente della prima Corte Costituzionale. Sistemate le ceneri in un prezioso vaso greco del V secolo avanti Cristo e imballatolo ben  bene, a prova d’urti, in una cassa di legno, l’aereo era pronto a partire quando una decina di persone- tutti siciliani- si avvicinarono all’aereo poco prima del decollo chiedendo di poter usufruire di un passaggio. Il professore, conscio dei gravi problemi di spostamento di quei tempi parlamentò coi piloti dell’ Air Force e ne ottenne il consenso. 

Mentre si sistemavano , qualcuno chiese ad Ambrosini cosa contenesse quella  cassa così ben imbracata, e avutane la spiegazione disse: “Pirandello, quello che aveva chiesto che le sue ceneri  fossero disperse al vento? Non è che il destino ha stabilito di accontentarlo proprio oggi…..” Calò un silenzio spettrale, mentre i  passeggeri si guardavano l’un con l’altro,e sotto i sedili alzavano l’indice e il mignolo di una mano. Poi , appena le eliche cominciarono a girare, uno di loro chiese di scendere. Ambrosini parlò con i piloti, questi sospesero la procedura di decollo e il passeggero scese. Inutile dire che uno dietro l’altro lo seguirono anche gli altri nove. A questo punto i piloti si insospettirono e chiesero al professore spiegazioni. Questi le diede, ripetendo più volte la parola superstitions, che i due piloti ripetevano come una eco, scambiandosi occhiate d’intesa. Fu così che i due,  di cui si sospetta avessero antenati siciliani , o napoletani, accampando varie scuse, si rifiutarono di partire. 
 Un aereo da trasporto USAF della II guerra mondiale
                                 Un aereo da trasporto USAF della II guerra mondiale

Al prof Ambrosini, accompagnato dalla sua inseparabile cassa, non restò che salire su un  treno: lo aspettava un giorno intero di viaggio. Tutto sarebbe filato liscio se , svegliatosi da un breve sonno, non si fosse accorto che la cassa era sparita. La cercò vagone per vagone e finalmente la trovò in mezzo a quattro individui che l’avevano utilizzato come tavolo per giocare a carte. Ignari, ovviamente, di fare una partita “col morto”, e che morto:  un premio Nobel. Comunqe sia la recuperò. Arrivata finalmente ad Agrigento, l’Odissea della cassa non era ancora finita. Il vescovo della città Giovan Battista Peruzzo si rifiutava di dare la benedizione ad un vaso greco. Niente benedizione , niente funerali solenni: tutto l’organizzazione politico-propagandistica DC messa in piedi dal sindaco se ne andava in fumo. All’ultimo momento, quando la rinuncia ai funerali sembrava inevitabile, il vescovo si convinse a promettere la benedizione se la cassa con le ceneri fosse stata ospitata in una bara cristiana. Tuttavia i cassamortari di Agrigento non avevano bare pronte; ci si dovette accontentare di una piccola bara bianca , di quelle per bambini.  Ma lì la cassa non entrava. Allora fu necessario estrarre il vaso e assicurarlo ben bene dentro la piccola bara. E fu così che finalmente Luigi Pirandello ebbe il suo secondo funerale. In pompa magna, come non avrebbe mai voluto.

 Una caricatura di Pericoli
          Una caricatura di Pericoli

IL TERZO FUNERALE. Il vaso greco e le sue ceneri vennero conservati nella casa natale di Pirandello, in attesa che il progettato monumento funebre a lui dedicato fosse realizzato in località Caos, proprio sotto il famoso pino al quale il drammaturgo era tanto affezionato  Ma si sa come vanno le cose in Italia, l’opera fu pronta solo quindici anni dopo, nel 1962. E fu così che le ceneri di Pirandello ebbero la loro definitiva sistemazione e il loro terzo e ultimo funerale. Presenti autorità civili e religiose, e personalità della cultura del calibro di Salvatore Quasimodo e Leonardo Sciascia, un cilindro d’alluminio dove erano state travasate le ceneri fu prima benedetto e poi murato dentro il monumento .
 Il monumento funebre di Pirandello
                                                    Il monumento funebre di Pirandello

EPILOGO.
 Ma non è finita. Si racconta che l’incaricato del travaso, un impiegato del comune conosciuto come il dott Zirretta, dovette sudare le sette camice per portare a termine l’operazione. Dopo tanti anni, ventisei per l’esattezza, le ceneri si erano calcificate all’interno del vaso antico. Armatosi di scalpello, Zirretta, aiutato da un paio di assistenti, le ridusse nuovamente in polvere e le versò nel contenitore di metallo. Ma il contenitore era troppo piccolo. Ne avanzava un discreta quantità. Che fare? Deve essersi accesa una lampadina nella mente dell’impiegato del comune agrigentino. Una lampadina luminosa, brillante. Prese le ceneri rimaste, le versò in un giornale e  si diresse verso un dirupo, lì vicino, che dava sul mare. Ma non fece in tempo ad arrivarci: una folata di vento si portò via le ceneri. E fu così che le ultime volontà di Pirandello -  il mio corpo appena arso, sia lasciato disperdere-furono (almeno in parte) rispettate.
 Il museo archeologico S. Nicola di Agrigento
                                         Il museo archeologico S. Nicola di Agrigento

Tutto è bene quel che finisce bene, direte voi. E invece non è ancora finita. Perché nel 1994 si scoprì che il famoso vaso greco del V secolo, conservato nel museo  S.Nicola di Agrigento, conteneva ancora un po’ di ceneri di Pirandello. Evidentemente lo scalpello del dott Zirretta non aveva funzionato sino in fondo. Si decise allora di sottoporre i resti dei resti di don Luigi all’esame del DNA. E , sorpresa, si scoprì che solo una piccola parte di quelle ceneri appartenevano al Maestro. Il rimanente, la maggior parte cioè,  ad altri corpi, non identificabili, che evidentemente erano state cremati nel lontano 1936 insieme a lui 
Confortati dalla scienza possiamo oggi  dire, pirandellianamente, che quelle ceneri sono e non sono di Pirandello. E che nell’urna di metallo interrata al Caos, insieme a Pirandello ci sono tante altre persone sconosciute, dei signori nessuno. Come dire Uno, nessuno e centomila .

 Onofrio Pirrotta  26 febbraio 2011

ALTRI FEMMINISMI



Femminismi. In due libri, un'analisi sulla creatività femminile degli anni Settanta, sfatando il luogo comune che una prospettiva di genere, nelle arti visive, non sia mai esistita in Italia.

Giovanna Zapperi

Il linguaggio oltre il rimosso



Se le Guer­rilla Girls – col­let­tivo di arti­ste tra­ve­stite da gorilla – si aggi­ras­sero per le strade Roma in que­ste set­ti­mane avreb­bero sicu­ra­mente qual­cosa da ridire sulla mostra del Palazzo delle Espo­si­zioni sull'arte a Roma negli anni set­tanta, dove le arti­ste si con­tano sulle dita di una mano, e il ruolo del fem­mi­ni­smo è rele­gato a una nota a piè di pagina. Eppure Roma negli anni set­tanta è stato il cuore pul­sante di un movi­mento che ha avuto un impatto tal­mente pro­fondo e rami­fi­cato da coin­vol­gere gli aspetti più diversi della vita sociale e della cultura.

L'arte non è di certo rima­sta illesa, come for­tu­na­ta­mente ci ricor­dano due pre­ziosi volumi pub­bli­cati recen­te­mente, tra i primi ten­ta­tivi di rileg­gere l'arte ita­liana degli anni set­tanta a par­tire da una pro­spet­tiva fem­mi­nile e fem­mi­ni­sta. La que­stione del genere appare sem­pre più chia­ra­mente come il grande rimosso della sto­ria dell'arte ita­liana del secondo dopo­guerra, dove le intense discus­sioni svi­lup­pa­tesi nel mondo anglo­sas­sone sul ses­si­smo della disci­plina hanno avuto scar­sis­sima eco.


Tra mito e istituzione

I libri di Raf­faella Perna (Arte fem­mi­ni­smo e foto­gra­fia in Ita­lia, Post­me­dia­books 2013, 112 pagine, 79 illu­stra­zioni, euro 16,90) e di Marta Sera­valli (Arte e fem­mi­ni­smo a Roma negli anni set­tanta, Biblink 2013, 250 pagine, 12 illu­stra­zioni, euro 26) affron­tano la com­ples­sità del nesso tra arte e fem­mi­ni­smo in Ita­lia por­tando alla luce una serie di sto­rie som­merse che chia­mano indi­ret­ta­mente in causa le nar­ra­zioni arti­sti­che «cano­ni­che» (leggi: maschi­li­ste) ancora for­te­mente in auge. Il primo dato che emerge con forza dalla let­tura di que­sti due libri è, infatti, la con­sta­ta­zione di un pro­cesso di rimo­zione attiva delle pre­senze fem­mi­nili nell'arte in Ita­lia. Sono almeno due i miti che risul­tano imme­dia­ta­mente sfa­tati da que­ste nuove ricer­che: quello della scarsa pre­senza fem­mi­nile e quello dell'incontro man­cato tra arte e fem­mi­ni­smo in Italia.

Con­tra­ria­mente a quanto si può desu­mere dalla mag­gior parte delle espo­si­zioni e pub­bli­ca­zioni dedi­cate all'arte di que­gli anni, le autrici attive negli anni set­tanta erano nume­ro­sis­sime, e molte di loro erano anche diret­ta­mente coin­volte nel movi­mento fem­mi­ni­sta attra­verso col­let­tivi e ini­zia­tive che pone­vano con forza i temi del fal­lo­cen­tri­smo delle isti­tu­zioni arti­sti­che e della crea­ti­vità fem­mi­nile all'interno di una rifles­sione più ampia sui rap­porti tra i sessi. Emerge, in modo chiaro, come ogni ten­ta­tivo di costruire una nar­ra­zione omo­ge­nea del bino­mio «arte e fem­mi­ni­smo» sia desti­nato al fal­li­mento, vista la mol­te­pli­cità dei modi, diretti o indi­retti, in cui i temi fem­mi­ni­sti hanno agito nelle ela­bo­ra­zioni arti­sti­che di que­gli anni.

Il secondo dato su cui vale la pena insi­stere — e che acco­muna i due volumi — è la con­sta­ta­zione della sor­pren­dente tem­pe­sti­vità delle espe­rienze ita­liane nel con­te­sto inter­na­zio­nale. Si tende troppo spesso a dimen­ti­care che l'emergere di una coscienza fem­mi­ni­sta nel mondo dell'arte è stata ovun­que un fatto mino­ri­ta­rio e mar­gi­na­liz­zato per­ché entrava in con­flitto con tutto quell'apparato mitico-istituzionale che met­teva al cen­tro la figura dell'artista maschile, la sua ori­gi­na­lità e viri­lità. Que­sto è vero per­sino per un paese come gli Stati Uniti, spesso evo­cato come ter­mine di para­gone, dove le espe­rienze arti­sti­che fem­mi­ni­ste acqui­sta­rono visi­bi­lità e rile­vanza ben mag­giori che in Europa.



Nel breve volume dedi­cato all'uso fem­mi­ni­sta della foto­gra­fia, Raf­faella Perna riper­corre a grandi linee il lavoro di alcune arti­ste che si sono foca­liz­zate sui temi dello ste­reo­tipo, la costru­zione del fem­mi­nile tra imma­gine e lin­guag­gio, la rap­pre­sen­ta­zione del corpo e della ses­sua­lità della donna, la vio­lenza di genere. Come sot­to­li­nea l'autrice, la foto­gra­fia ha gio­cato un ruolo impor­tante nell'articolare que­sti temi sia per­ché sto­ri­ca­mente ha costi­tuito un'arena pri­vi­le­giata per la spe­ri­men­ta­zione iden­ti­ta­ria, sia per­ché l'uso di que­sto medium per­met­teva una più grande libertà rispetto ad altri sup­porti con una tra­di­zione più con­so­li­data alle spalle. Attra­verso la foto­gra­fia si dispiega quel tea­tro dell'identità che costi­tui­sce uno dei tratti distin­tivi delle spe­ri­men­ta­zioni di que­sti anni su scala inter­na­zio­nale: nei tableaux foto­gra­fici di Verita Mon­sel­les o nelle auto­rap­pre­sen­ta­zioni col­let­tive di Mar­cella Cam­pa­gnano si deli­nea una rifles­sione sui ruoli di genere che prende le mosse dall'analisi dei mec­ca­ni­smi della rei­fi­ca­zione dell'identità fem­mi­nile, messi in atto da pub­bli­cità e cul­tura di massa.

Il rap­porto tra imma­gine e lin­guag­gio è, invece, uno dei temi che acco­mu­nano alcuni dei lavori di Cloti Ric­ciardi, Ketty La Rocca o Ste­pha­nie Our­sler. Come rileva Perna, la con­te­sta­zione del lin­guag­gio attra­verso il ricorso a gesti e imma­gini è un tema cen­trale per que­ste arti­ste che con­si­de­rano la parola scritta come uno stru­mento del domi­nio patriar­cale. È inte­res­sante que­sta cri­tica del lin­guag­gio soprat­tutto se letta in rife­ri­mento alla cen­tra­lità della parola scritta nella sto­ria del fem­mi­ni­smo ita­liano, spesso rac­con­tato come un movi­mento foca­liz­zato essen­zial­mente sulla parola, lasciando nell'ombra la sua dimen­sione visuale.

La que­stione delle teo­riz­za­zioni fem­mi­ni­ste in ambito arti­stico è invece uno degli aspetti ana­liz­zati dal libro di Marta Sera­valli, che tenta una rico­stru­zione sto­rica dei rap­porti tra arte e fem­mi­ni­smo a Roma negli anni set­tanta, a par­tire da Carla Lonzi e dalla nascita di Rivolta fem­mi­nile nel 1970. Come è noto, la vicenda di Carla Lonzi, che abban­dona la cri­tica d'arte per il fem­mi­ni­smo, ci pone di fronte ad un'alternativa dra­stica: l'arte o il fem­mi­ni­smo. Il libro prende le mosse dalla con­sta­ta­zione che Rivolta fem­mi­nile nasce dall'iniziativa di una cri­tica d'arte e di un'artista, Carla Accardi, e prende in esame, attra­verso un'accurata docu­men­ta­zione, diverse moda­lità di iden­ti­fi­ca­zione fem­mi­ni­sta nel mondo dell'arte romano.

Nei suoi primi anni di vita, furono nume­rose le autrici che tran­si­ta­rono per Rivolta (tra loro Suzanne San­toro, Ste­pha­nie Our­sler, Simona Wel­ler, Eli­sa­betta Gut, Elisa Mon­tes­sori...), fino all'esplodere di un con­flitto che cul­minò con la loro fuo­riu­scita e la nascita della coo­pe­ra­tiva del Beato Ange­lico nel 1976, una delle più signi­fi­ca­tive espe­rienze di col­let­tivi in ambito arti­stico. La «presenza/assenza» delle arti­ste nel fem­mi­ni­smo ita­liano si deli­nea come un aspetto dop­pia­mente rimosso, sia nella sto­ria dell'arte che in quella del fem­mi­ni­smo stesso.

Quello che col­pi­sce in par­ti­co­lare nella let­tura del libro di Sera­valli è la resti­tu­zione di un arti­co­lato dibat­tito fem­mi­ni­sta sui temi dell'immagine e dell'arte, che si svi­luppa in par­ti­co­lare attra­verso le pagine di alcune rivi­ste fem­mi­ni­ste, e in misura minore, nei maga­zi­nes d'arte. Attra­verso la let­tura dei testi di arti­ste come Cloti Ric­ciardi e Simona Wel­ler, o di cri­ti­che come Lea Ver­gine e soprat­tutto Anne-Marie Suzeau Boetti, è pos­si­bile ritrac­ciare le pre­messe di una cri­tica fem­mi­ni­sta dell'arte che verrà poi accan­to­nata e dimen­ti­cata nel corso degli anni ottanta. In que­sto qua­dro, riman­gono però sullo sfondo gli scritti di Carla Lonzi che rap­pre­sen­tano forse la cri­tica più arti­co­lata al fal­lo­cen­tri­smo dell'arte, por­tata avanti in modo fram­men­ta­rio e discon­ti­nuo da una posi­zione esterna al mondo artistico.



Con­flitti, non ghetti

Que­sto aspetto pro­duce un forte impatto soprat­tutto alla luce del fatto che le tema­ti­che fem­mi­ni­ste, nella sto­ria dell'arte, sono con­si­de­rate in Ita­lia per­lo­più come merce d'importazione (anglo-sassone), come se non fosse mai esi­stita una rifles­sione «locale» su que­sti temi. Tut­ta­via – que­sto è forse uno dei limiti di entrambi i testi qui ana­liz­zati – le due autrici fati­cano ad arti­co­lare la vita­lità di quei primi ten­ta­tivi di cri­tica con l'attuale dibat­tito inter­na­zio­nale. Il risul­tato, o piut­to­sto il rischio in cui si imbat­tono, sia Sera­valli che Perna, è quello di rivol­gersi alle espe­rienze ana­liz­zate, senza met­tere dav­vero in discus­sione un qua­dro epi­ste­mo­lo­gico che quelle espe­rienze ave­vano con­te­stato in modo così radi­cale. Il fem­mi­ni­smo è, infatti, preso in esame come una fase sto­rica e molto meno come una chiave di let­tura del mondo e dei rap­porti sociali, e dun­que anche della sto­ria dell'arte e dei suoi metodi.

Se è vero che negli anni set­tanta, per la prima volta nella sua sto­ria, il fem­mi­ni­smo ha incon­trato l'arte, que­sto non signi­fica che possa essere con­si­de­rato come un enne­simo «ismo» da aggiun­gere a una sto­ria già con­fe­zio­nata delle ten­denze arti­sti­che del Nove­cento. In que­sto senso, la neces­sità di ripor­tare alla luce il rimosso del nesso tra arte e fem­mi­ni­smo negli anni set­tanta — di cui si fanno carico que­sti volumi — rischia di tra­dursi in un dispo­si­tivo che rin­chiude il con­flitto tra i sessi in un momento sto­rico deli­mi­tato. Come ci inse­gnano le arti­ste e le cri­ti­che d'arte al cen­tro di que­sti libri, la pro­spet­tiva fem­mi­ni­sta ci obbliga a ricon­si­de­rare in una pro­spet­tiva di genere quell'insieme di pra­ti­che, isti­tu­zioni e sog­get­ti­vità che defi­ni­scono l'arte. Nelle nar­ra­zioni fem­mi­ni­ste dell'arte che si stanno affac­ciando nel dibat­tito ita­liano, il dif­fi­cile equi­li­bro tra sto­ri­ciz­za­zione e attua­liz­za­zione for­nirà senza dub­bio ulte­riore mate­ria di discussione.


il manifesto | 31 Gennaio 2014 

L'IRONIA POETICA DI J. E. PACHECO





Dopo Juan Gelman se ne è andato anche Josè Emilio Pacheco, un altro “grande vecchio” della poesia latinoamericana. Poco conosciuto in Italia, ha svolto per mezzo secolo un ruolo centrale nel panorama letterario messicano. Lo ricordiamo con un bell'articolo apparso sul Manifesto e con quattro sue poesie ripescate in rete.

Francesca Lazzarato

L'ironico incedere poetico di José Emilio Pacheco
Il quat­tor­dici gen­naio se n'è andato il suo amico e vicino di casa Juan Gel­man (entrambi vive­vano nella Colo­nia Con­desa, a Città del Mes­sico), del quale si defi­niva «let­tore intimo», e a lui, alla sua ven­ten­nale pre­senza nella capi­tale mes­si­cana, José Emi­lio Pacheco aveva dedi­cato la sua ultima rubrica sulla rivi­sta Pro­ceso, una colonna set­ti­ma­nale inti­to­lata Inven­ta­rio che per anni è stata una sorta di bus­sola non solo let­te­ra­ria, ma anche etica e civile per i suoi nume­ro­sis­simi e fedeli let­tori. Ter­mi­nato nel pome­rig­gio di venerdì scorso , l'articolo era desti­nato a uscire il gio­vedì suc­ces­sivo, come sem­pre: e invece lo si può leg­gere già ora sul sito della rivi­sta, in memo­ria non solo del grande poeta argen­tino, ma dello stesso Pacheco che , rico­ve­rato sabato dopo un banale inci­dente dome­stico, è morto dome­nica «tran­quillo, in pace e sulla brec­cia come ha sem­pre desi­de­rato», secondo le parole di sua figlia Laura Emi­lia, lasciando al Mes­sico e al mondo una straor­di­na­ria opera poe­tica che ne fa uno degli autori di lin­gua spa­gnola più impor­tanti del Novecento.

«Sono nato a metà di un anno orri­bile, il 1939, e tut­ta­via non ho affron­tato i disa­stri della guerra. Non ho patito i bom­bar­da­menti, le bat­ta­glie, le per­se­cu­zioni, i campi di ster­mi­nio. Ho spe­ri­men­tato tutto ciò a distanza e non per que­sto ha ces­sato d'imprimersi in quello che ho scritto.

Ora la vio­lenza e la cru­deltà estreme sono il mio pane quo­ti­diano e vivo nel cuore di un con­flitto bel­lico senza spe­ranza di vit­to­ria. A que­sto si somma la vista esa­cer­bata della fame e della mise­ria nel Mes­sico e nel mondo. A tutto ciò, cui non smetto mai di pen­sare, aggiungo l'angoscia di quanti restano senza lavoro e dei gio­vani che non tro­vano il posto per il quale sono stati pre­pa­rati. (...) E a volte mi sento affine a Pal­lada, il poeta di Ales­san­dria che vide crol­lare il suo mondo e con­tem­plò il trionfo del cri­stia­ne­simo su quanto era stato per molto tempo greco e romano».

Così aveva detto nel discorso di accet­ta­zione del Pre­mio Cer­van­tes rice­vuto nel 2009, aggiun­gendo che la lin­gua in cui era nato era sem­pre stata la sua unica ric­chezza. Una ric­chezza messa a frutto nel migliore dei modi, «inve­stita» com'è in sedici rac­colte di versi (tra esse l'antologia del 2009 che riu­ni­sce quasi per intero la sua opera, Tarde o tem­prano; in ita­liano si può leg­gere Gli occhi dei pesci, una scelta di poe­sie curata e tra­dotta da Ste­fano Ber­nar­di­nelli per Medusa nel 2006), due romanzi (il più famoso, Le bat­ta­glie nel deserto, vera pie­tra miliare della let­te­ra­tura mes­si­cana, è uscito nel 2012 presso La Nuova Fron­tiera) e sei volumi di splen­didi rac­conti, uno dei quali, Il prin­ci­pio del pia­cere, uscirà a breve per le edi­zioni Sur.

A tutto que­sto vanno aggiunti saggi, magi­strali tra­du­zioni di autori come Eliot, Sch­wob, Bec­kett, e migliaia di arti­coli com­po­sti nel corso di una lunga atti­vità gior­na­li­stica che non riguar­dava solo la let­te­ra­tura e che pro­ce­deva in paral­lelo a una car­riera uni­ver­si­ta­ria di grande impe­gno e pre­sti­gio, che dal Mes­sico lo ha por­tato negli Stati Uniti e in Inghilterra.



Insieme ad altri nomi impor­tanti della cul­tura mes­si­cana, Pacheco faceva parte della cosid­detta Gene­ra­ción de los 50 , una gene­ra­zione di rot­tura che ha vis­suto la tra­sfor­ma­zione di un Mes­sico arcaico, ancora segnato dalle ferite della guerra cri­stera scop­piata alla fine degli anni Venti, in una nazione indu­stra­liz­zata a tappe for­zate e cata­pul­tata in una moder­nità «libe­ri­sta» che dilata e radi­ca­lizza ulte­rior­mente le dise­gua­glianze sociali, la cor­ru­zione, l'intreccio pro­fondo tra poli­tica e cri­mi­na­lità. È una nazione comun­que ribol­lente di cam­bia­menti e novità, in cui la classe media si acco­sta timi­da­mente per la prima volta all'allettante pos­si­bi­lità di nuovi con­sumi, e si vedono nascere le opere di un gruppo di scrit­tori ecce­zio­nali, aperti a un rin­no­va­mento lin­gui­stico e tema­tico, come Juan Gar­cía Ponce, Jorge Ibar­güen­goi­tia, Car­los Fuen­tes, Juan José Arreola, Rosa­rio Castel­la­nos, Jose­fina Vicens, Ser­gio Pitol, Car­los Mon­si­váis, l'appartato e gran­dis­simo Juan Rulfo e molti altri, ormai in buona parte assurti al rango di clas­sici moderni.

Tra loro, José Emiio Pacheco spicca per la sua capa­cità di inter­pre­tare e rac­con­tare il cam­bia­mento: pochi romanzi, infatti, sono capaci come Le bat­ta­glie nel deserto di offrire il ritratto di una nazione e di una società in rapido e tumul­tuoso muta­zione, e di farlo attra­verso un uso iro­nico, affet­tuoso e spe­ri­co­lato della lin­gua e della cul­tura popo­lare, fil­trando il tutto attra­verso lo sguardo di un dodi­cenne che si inna­mora per­du­ta­mente di una donna adulta.

L'adolescenza e l'infanzia, intese come sta­gioni di pas­sag­gio e a loro modo dolo­rose, sono del resto uno degli argo­menti pre­fe­riti del Pacheco cuen­ti­sta, autore di rac­conti che imman­ca­bil­mente sfio­rano la per­fe­zione e che non sono certo infe­riori all'opera del Pacheco poeta, osses­sio­nato dallo scor­rere del tempo, dalla deva­sta­zione che l'uomo infligge alla terra, dalla soli­tu­dine e dalla morte, e tut­ta­via capace, sem­pre, di un con­ti­nuo e sot­tile eser­ci­zio di iro­nia che passa anche attra­verso l'uso di una lin­gua «par­lata» , essen­ziale, asciutta.

Di lui, oggi, la cul­tura mes­si­cana e soprat­tutto i let­tori che lo ado­ra­vano (una leg­genda urbana dice che non potesse cam­mi­nare per la strada senza essere con­ti­nua­mente fer­mato da per­sone che vole­vano dir­gli quanto i suoi libri fos­sero stati impor­tanti per loro) ricor­dano non solo la sta­tura let­te­ra­ria ma anche la gene­ro­sità, l'umorismo, la sem­pli­cità, l'interesse per la nuova e sor­pren­dente gene­ra­zione di scrit­tori che va cre­scendo in Mes­sico, la fer­mezza nello spen­dersi per le cause che rite­neva giu­ste, l'ansia per la ter­ri­bile con­di­zione attuale del suo paese. «Prima Gel­man e poi lui: siamo rima­sti orfani di poeti», si legge in uno dei tanti ricordi com­parsi sulla stampa mes­si­cana, dove la noti­zia della morte dello scrit­tore occupa le prime pagine. Ma, para­fra­sando pro­prio quanto ha scritto Pacheco alla scom­parsa del poeta argen­tino, si potrebbe dire che l'autore di Le bat­ta­glie nel deserto non tor­nerà, eppure non se ne andrà mai.

il manifesto | 28 Gennaio 2014



ALTO TRADIMENTO

Non amo la mia patria.
Il suo fulgore astratto
è inafferrabile.
Ma (benché suoni male)
darei la vita
per dieci dei suoi luoghi,
certa gente,
porti, boschi, deserti, fortezze,
una città disfatta, grigia, mostruosa,
vari personaggi della sua storia
montagne
- e tre o quattro fiumi.

NOTTE E NEVE

Mi affacciai alla finestra e, al posto del giardino, trovai la notte
costellata di neve.
La neve rende tangibile il silenzio.
È il crollo della luce e si spegne.
La neve non vuole dire nulla:
è solo una domanda che lascia cadere milioni di segni
interrogativi sopra il mondo.

IN FIN DEI CONTI

Dov'è finito ciò che accadde
e che fine ha fatto tanta gente?
Via via che passa il tempo
ci facciamo più sconosciuti.
Degli amori non è rimasto
nemmeno un segno tra gli alberi.
E gli amici se ne vanno sempre.
Sono viaggiatori sui binari.
Anche se uno esiste per gli altri
(senza di loro è inesistente),
conta soltanto la solitudine
per dirle tutto e fare i conti.


ASILO NIDO, 20

O siamo ciottoli espulsi dal mare e cadiamo
sulla spiaggia che non scegliemmo, tra sargassi
e grumi letali di petrolio. Qui c'è
la siccità che chiamano il deserto. Occorre
attraversarlo dall'alba al tramonto. Arriveremo
all'altro mare per farci ricoprire dalla morte. Intanto
il cammino è la meta e nessuno avanza da solo
e l'acqua si condivide o crepi. Non c'è
minuto che non scorra. Avanti.


OPPOSIZIONE DEBOLE



Norma Rangeri

Un’opposizione senza sbocco



Chi ha chie­sto il voto ai cit­ta­dini ita­liani per farsi eleg­gere in par­la­mento e in quel con­te­sto rap­pre­sen­tare l’opposizione deve sì rispet­tare il man­dato che ha rice­vuto, ma deve poi assu­mersi la respon­sa­bi­lità di osser­vare le regole di quella sede isti­tu­zio­nale e con­durre la pro­pria bat­ta­glia nelle forme con­sen­tite dalla demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva (com­preso natu­ral­mente un duro ostru­zio­ni­smo). Tanto più che pro­prio il gril­li­smo obbe­di­sce a una mania­cale atten­zione ai riti e alle forme (inter­net­tiane) con cui sce­gliere gli obiet­tivi dell’azione par­la­men­tare. Ma a che scopo se poi anzi­ché usare la forza dei numeri e la qua­lità degli argo­menti per creare alleanze e farsi motore di un’opposizione vin­cente, tutto si riduce (e si svi­li­sce) nella messa in scena di un po’ di gazzarra?

For­zare il gioco fino a tra­sfor­mare le aule par­la­men­tari in un sur­ro­gato della piazza signi­fica impic­carsi alle pro­prie dif­fi­coltà, rive­lando tutta l’ambiguità e le con­trad­di­zioni di un Movi­mento che poi, alla resa dei conti, obbe­di­sce alla linea pro­cla­mata da Grillo nei comizi: l’unica via è pren­dere la mag­gio­ranza asso­luta dei voti e poi gover­nare da soli. Niente di diverso dal ritor­nello che abbiamo sen­tito ripe­tere in tutti que­sti anni da Ber­lu­sconi: datemi i voti e lascia­temi fare. L’eterna pul­sione dell’uomo solo al comando. La stessa logica che oggi assume le sem­bianze del sin­daco di Firenze, osan­nato da gior­nali e tele­vi­sioni per il ras­si­cu­rante piglio decisionista.

Sal­tare sui ban­chi del governo, costrin­gere la pre­si­dente della camera a chiu­dere i pro­pri uffici per evi­tarne l’occupazione, lan­ciare insulti ses­si­sti con­tro le depu­tate del Pd, fino a usare l’arma estrema dell’impeachment verso il Pre­si­dente della Repub­blica, come si trat­tasse di scri­vere un volan­tino, tutto que­sto serve solo a con­qui­stare i cin­que minuti di cele­brità, offu­scando però la sostanza, il merito delle que­stioni poli­ti­che sol­le­vate. Che pure il M5Stelle ha por­tato nelle aule par­la­men­tari in molte occa­sioni. Per esem­pio sul caso Sha­la­bayeva, sull’acquisto degli F35, sulla truffa delle slot-machine, sul salva-Roma, sui casi Can­cel­lieri e De Giro­lamo, sull’articolo 138 della Costi­tu­zione.

Inten­dia­moci, nes­sun sacra­rio è stato vio­lato e chi parla di squa­dri­smo fasci­stoide gioca allo stesso gioco dei gril­lini. Senza nem­meno avere tutte le carte in regola per dare lezioni di demo­cra­zia, visto che solo l’uscita dal governo delle lar­ghe intese dei fal­chi ber­lu­sco­niani ha tolto di mezzo la pro­gram­mata mano­mis­sione della Costituzione.

Così quel che alla fine il ricco spet­ta­colo media­tico mette in evi­denza è la dif­fi­cile agi­bi­lità di una bat­ta­glia di oppo­si­zione sia nelle isti­tu­zioni rap­pre­sen­ta­tive che nella società. Anche per­ché nelle aule del par­la­mento dei nomi­nati, i par­titi, sem­pre più comi­tati elet­to­rali, non rap­pre­sen­tano più da molti anni la voce del paese. Non vanno nelle scuole, nei luo­ghi di lavoro, nei quar­tieri. E le lotte gene­rose delle asso­cia­zioni, che invece ani­mano la demo­cra­zia di base, incon­trano solo il grande muro di gomma delle nomen­cla­ture che respin­gono il con­flitto o trat­tan­dolo dura­mente come un affare di ordine pub­blico, o facen­dolo gal­leg­giare in un perenne sur­place, in un eterno moto inerziale.

E que­sta sorda cam­pana suona per tutti, gril­lini compresi.


Il Manifesto – 31 gennaio 2014

30 gennaio 2014

IPAZIA FOR EVER




ipazia_linciaggio

Il mio intervento non mira affatto a fornire una disamina esaustiva e rigorosa del pensiero filosofico di Ipazia e neppure ad esaminare nel dettaglio i caratteri specifici di quella che si suole definire “corrente neoplatonica”.
 Vorrei piuttosto focalizzare la mia attenzione sulla frequente definizione di Ipazia come “martire della libertà di pensiero” nonché sull’interpretazione veicolatane dal pensiero di genere, nei suoi evidenti limiti teorici.
Tutta la vita di Ipazia, fu votata al pensiero in senso lato e in senso specifico, settoriale: ciononostante, Ipazia non condusse una puntuale disamina critica delle opere di Platone e Plotino, non ne fu cioè un’esegeta, sebbene ereditò una sorta di “purezza” dal e del platonismo, specificandone perfetto connubio tra scienza e filosofia teorizzato da questa corrente di pensiero.
Di seguito, fornirò solo alcune delle più rilevanti testimonianze tratteggiate su di lei: in un epigramma, Pallade scrive di lei: «[q]uando ti vedo mi prostro, davanti a te e alle tue parole, infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto»1.
Questo passo sottolinea da un lato la sua estrema tensione verso la filosofia, quale trascendenza e aspirazione al “cielo” e dall’altro il suo agire concreto, la pratica. Ipazia si dedicò, infatti, allo studio della filosofia come a quello delle arti pratiche, dell’astronomia e delle matematiche.
Damascio scrive di lei «gettandosi addosso il mantello e uscendo in mezzo alla città, spiegava pubblicamente a chiunque volesse ascoltarla Platone o Aristotele o le opere di qualsiasi altro filosofo»2. Socrate Scolastico rilevava: «la città a buon diritto la amava e la ossequiava, e i capi prima di prendersi carico di questioni pubbliche, erano soliti andare da lei»3.
Damascio precisa peraltro che oltre che nell’arte d’insegnare questa si distinse altresì nella virtù pratica: era, dunque, non solo maestra di chiara fama, ma anche insigne esponente nella vita politica di Alessandria.

Ciò che caratterizza la figura di Ipazia, nel racconto della sua vita, risiede proprio nella sua inclinazione al pensiero libero e inarrestabile: ogni aspetto della sua biografia appare agevolmente riconducibile ai suoi studi, al suo amore per la filosofia, intesa a sua volta come problematizzazione e interrogazione del circostante. Seguace di un sistema eclettico, Ipazia può essere considerata come una gnostica che cercò di difendere la rinascita del platonismo contro il cristianesimo. I neoplatonici, che si diffusero dal III al V sec., professavano infatti la fusione di tutte le chiese in un unico organismo, a sfondo più filosofico che teologico, più intellettuale che ecclesiale: la tendenza erudita, che aveva gradualmente conquistato le scuole, era divenuta infatti preponderante, ponendo in secondo piano la speculazione prettamente metafisica.
Formalmente, le possibilità d’intesa col cristianesimo sembravano essere maggiori che altrove, ma proprio la sensazione che questa forma di neoplatonismo potesse costituire un’alternativa valida al cristianesimo, ne faceva dei cristiani i nemici più accesi, poiché quest’ultimi mal digerivano l’accentuato interesse del neoplatonismo per le questioni di carattere scientifico.
Dopo aver introdotto il ruolo storico e contestuale di Ipazia, vorrei accennare alle ragioni per cui il femminismo ed il pensiero di genere si impadronirono della sua figura, più per il suo dichiarato valore simbolico che per quello squisitamente teorico, impiegandone appunto la summenzionata definizione di martire del pensiero in una chiave del tutto “personale”, ovvero quella connessa alle rivendicazioni dell’identità di genere. La figura di Ipazia è stata assunta dal pensiero di genere sia come capro espiatorio della violenza patriarcale, perpetuatasi a più riprese nel corso della storia, sia come esempio per quelle donne che intendano promuovere o condividere iniziative scientifiche e più ampiamente culturali. Ipazia diviene così, nell’immaginario di molte, baluardo della libertà di pensiero specificamente femminile, sfidando l’autorità maschile.
Occorre a tal proposito tener conto del fatto che spesso il pensiero di genere si “impossessa” – nel vero senso della parola – di storiche figure femminili, al precipuo scopo, più o meno dichiarato, di accreditare e avallare le proprie tesi, assegnando così un’ulteriore riferimento storico alle proprie rivendicazioni. D’altra parte, la libertà del pensiero costituisce una delle tematiche più care alle femministe, che, a partire dagli Women’s studies, hanno cercato di ripercorrere la costituzione del pensiero delle donne nella storia, cercando di “riesumare” figure di pensatrici spesso superficialmente cancellate e oscurate dall’onnipresenza del pensiero maschile. Ancora oggi, numerose teoriche del pensiero di genere discutono della presenza e dell’accesso delle donne agli spazi pubblici, che, arendtianamente, si interpretano come luoghi dell’agire, in cui ciascuno manifesti il proprio “chi”, “luoghi”, appunto, come la politica, la ricerca, la scienza.
Per tentare di comprendere ciò che induce le teoriche del pensiero di genere a “sfruttare” il pensiero e la biografia di alcune “grandi del passato”, fra cui, appunto la stessa Ipazia, tornerò ad analizzarne ulteriormente, seppur stringatamente, alcuni racconti sulla sua vita, interpretandoli tuttavia alla luce delle categorie specifiche del pensiero di genere.
Socrate Scolastico, come si è visto, ne elogiava la parrhesia, intesa come libertà interiore che, tuttavia, si manifesta costantemente nell’atto, ovvero nella “parola pubblica”. La sua libertà di parola e azione è “sacra”, sia perché corrisponde alla sua determinazione “a parlare secondo verità”, sia perché in tal senso la parola diventa ulteriore e differente autorità, trasgredendo l’ordine imposto dal genere maschile, di tradizione secolare, e che in quegli anni fungeva da modello di riferimento per la costituzione della Chiesa.
Gli impedimenti all’accesso della donna nello spazio pubblico, scaturivano, in quell’epoca, soprattutto dalla definizione elaboratane dall’ordine patriarcale: lo spazio pubblico coinciderebbe infatti, secondo questa prospettiva, con lo spazio riservato esclusivamente agli uomini. L’ostacolo che impedisce l’azione delle donne nello spazio pubblico acquisisce pertanto un carattere marcatamente simbolico e necessita, di conseguenza, di un’opportuna presa di coscienza. Il gesto libero mira a far vacillare la costruzione maschile: come afferma ancora Socrate scolastico, per Ipazia «non era motivo di vergogna [...] lo stare in mezzo agli uomini»4 e dunque il suo agire le permette di ridisegnare uno spazio specifico nel quale la donna può muoversi.
La libertà di Ipazia diventa così, per tutta la tradizione di studi sulle donne, un evento espressamente politico e di genere: una sorta di variabile impazzita che esplode in seno all’ordine sociale e simbolico di stampo patriarcale, attraverso la sua autoaffermazione, o come dichiara la Arendt, attraverso il proprio gioco nel mondo. Ipazia diventa cosi un esempio di come, per dirla con Carla Lonzi, il destino imprevisto del mondo corrisponde ad un ricominciamento del cammino, per percorrerlo nella prospettiva della donna, intesa come soggetto agente. A sua volta, la Zamboni puntualizza che Ipazia rappresenta quella forza femminile capace di rinominare il mondo attraverso i propri sogni e le proprie azioni, cioè, heideggerianamente, riprendendone possesso attraverso la parola.


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Ci sono altri episodi della sua vita che sono stati utilizzati per sottolineare l’identità di genere di Ipazia: si narra che, di fronte ad un allievo che si era invaghito di lei, Ipazia lanciò la sua pezza sporca di sangue mestruale e gli disse: «questo, dunque, ami, o giovane, niente di bello»5.
Le femministe, a loro volta, intravedono, in questo gesto, quello della donna capace di “liberarsi” del suo corteggiatore, con creatività, intelligenza e coraggio. Personalmente, sono piuttosto dell’avviso che il gesto in oggetto possa essere interpretato in chiave platonica e comunque squisitamente filosofica: Ipazia intende mostrare la vera natura della bellezza, inducendo il suo allievo a ritrovare il giusto rapporto con la sua maestra e trasformando la sua passione per lei in amore per la verità. Al contrario, il pensiero femminista vi intravede esclusivamente la rivendicazione della propria identità di genere. Mostrare il proprio sangue diviene una sorta di presa di coscienza di ciò che un donna è, di ciò che si da di una donna insieme al suo sesso: né bello né brutto, è un tratto del suo corpo indipendentemente dalla sua volontà. L’essere donna è un dono che, per sua definizione, non si può rifiutare, un dato di fatto che stimola e deve stimolare la conoscenza di sé e del proprio corpo. Quel gesto, che probabilmente fu fatto per mostrare come un filosofo che aspiri alla purezza non possa desiderare l’amor carnale, diventa dunque simbolo della rivendicazione femminista del proprio corpo.
Il sangue mestruale, che nella cultura greca, cristiana ed ebraica, rappresenta la materia che deve essere occultata, perché vile, sporca, fonte di male e dolore, diviene, peraltro, per i cristiani la giustificazione dell’esclusione delle donne dal sacerdozio e da qualsiasi forma di ministero. Di contro, le vergini, per la cultura cristiana, sono donne pure, che impedivano alla lingua qualsiasi parola discordante, agli occhi qualsiasi sguardo sfrontato, alle orecchie suoni sconvenienti, indossando abiti modesti e non lasciando trasparire il riso dal volto, perché create esclusivamente per essere d’aiuto all’uomo6. Per le femministe, Ipazia, con il suo gesto, frantuma quest’ordine, entrando nello spazio pubblico, storicamente maschile, attraverso l’affermazione della razionalità e attraverso la parola, scontrasi con l’ideale femminile del tempo. 
Per quanto riguarda la sua morte, le femministe sono tentate dall’intravedere, nella sua uccisione, l’ennesima espressione del crimine perpetuatosi, nel corso della storia, per mano della mentalità patriarcale.

In quest’ottica, il fatto che Ipazia fosse donna costituisce un dato imprescindibile sia per comprendere le modalità concrete della sua morte, sia per spiegare la sua importanza simbolica come martire del pensiero.
In prima istanza, occorre chiarire che, nell’ottica di genere, la definizione di “natura della donna” si radica nel rapporto di dominio e subordinazione fra uomo e donna, che peraltro si traduce in un preciso intento. È dunque per motivi strettamente politici che i Padri della Chiesa avrebbero legittimato un’ideologia oppressiva nei riguardi delle donne, seppur in nome di Dio. Sebbene non ne furono gl’inventori, quest’ultimi assegnarono al patriarcato una dimensione cosmica: la donna che osasse fuorviare dal ruolo assegnatole, per affermare la propria identità, sarebbe stata immediatamente colpita e punita della società patriarcale.
Per il pensiero di genere, il vero potere della donna risiede piuttosto in quello di conoscere il mondo, saper agire in esso, nella piena consapevolezza della propria identità. Così Ipazia, esercitando proprio questo potere e parlandone agli altri, avrebbe confermato ostinatamente il suo ruolo di donna nella società. Questo atteggiamento avrebbe a sua volta atterrito la Chiesa, intendo, soprattutto il fatto che la si ascoltasse e la si amasse.
Ipazia sarebbe dunque stata eliminata perché reputata un elemento di palese disturbo, derivante dalla sua conclamata indipendenza, dall’antagonismo fra poteri – quello imperiale e quello ecclesiastico – che peraltro s’incarnavano nell’esercizio di due uomini, Oreste e Cirillo, impedendo così che i due poteri e i due uomini arrivassero a trovare un compromesso per una conveniente alleanza. A ciò si aggiunga un ulteriore senso di rivalità provato dall’allora capo della Chiesa alessandrina nei confronti di quella donna che, stando alla testimonianza di Sinesio, esercitava l’autorità di una sacerdotessa. La filosofa e il vescovo erano entrambi sprovvisti del potere della forza; l’efficacia della loro azione dipendeva dall’autorità della loro parola e dal credito di cui godevano presso i detentori del potere politico.

Sempre per le femministe, Ipazia ripresenterebbe il ruolo che la donna rivestiva millenni addietro: la sacerdotessa della Madre Terra, che con gli strumenti del Sapere e della Logica riesce a trasmettere ai suoi simili le Verità dell’Universo. In questo senso Ipazia era facilmente assimilabile ad una strega, come definita nel Malleus maleficarum, sebbene, in realtà, non fosse null’altro che una donna colta, consapevole e desiderosa di aiutare l’altro con le sue arti.
Fu Cirillo, vescovo e patriarca di Alessandria, ad ordirne il martirio; Socrate scolastico e Filostorgio raccontano che la sua elevatissima cultura sorgeva, in primo luogo, dalla sua rinomata libertà di pensiero e azione. Fu dunque questa la causa della sua uccisione, la ragione per cui Cirillo la credette un ostacolo al suo potere.
La sua morte fu brutale, si cercò di annullare il suo corpo smembrandolo, come a voler cancellare per sempre la sua figura, il suo pensiero. La mutilazione del suo corpo è per le femministe sinonimo di accanimento contro questa filosofa proprio in quanto donna.
Anche questo è un esempio della tentazione femminista di impossessarsi della figura di Ipazia, come martire non del pensiero in quanto tale, ma del pensiero di genere.
A questa tentazione, una storica italiana della tarda antichità, Silvia Ronchey, ha risposto con un’analisi storica che spiega il crimine in esame nei termini di un’effettiva rivalità tra la figura del vescovo e quella del filosofo in senso lato. La Ronchey nomina Ipazia al maschile.

Interpretare Ipazia sulla scorta delle categorie femministe diventa così, secondo la Ronchey, un’ulteriore conferma della fissità dei ruoli, in quanto, così facendo, si rischierebbe di privilegiare esclusivamente il suo martirio piuttosto che il suo pensiero, come se, cioè, Ipazia fosse importante solo perché “donna martire” e non martire del pensiero tout court, al di là della sua caratterizzazione e differenza di genere.
In questa sede, ho cercato di fornirvi, un esempio di come, spesso l’ideologia femminista utilizzi le proprie categorie per interpretare figure storicamente rilevanti per le proprie scoperte, per il proprio pensiero, per il proprio ruolo nella società, per il loro rapporto tra Chiesa e potere, introducendovi, seppur per grandi linee, la biografia di Ipazia e il suo ruolo nel pensiero di genere.
Al contempo, da quanto sinora tratteggiato, sorgerebbe a mio avviso un’ulteriore questione: occorre ricordare Ipazia esclusivamente in quanto donna, come vorrebbero le femministe, oppure soprattutto in quanto intellettuale, pensatrice, astronoma, prescindendo cioè dalla sua identità di genere?
Mi domando peraltro come mai, tenuto conto dell’indubbia rilevanza della ricerca della verità e dell’agire nel mondo condotti da Ipazia, sinora, o perlomeno prima dell’uscita di Agorà in Italia, la sua figura sia stata ricordata solo dal pensiero di genere. Mi chiedo, cioè, perché non siano stati i filosofi di professione, posto che ne esistano, “in genere” e non “di genere”, a interrogarsi sulla sua figura, sulla sua carica simbolica.
D’altra parte, la libertà di pensiero non può essere ridotta esclusivamente ad una rivendicazione legata al genere, all’identità sessuale, per quanto quest’ultima occorra pure ad assegnare certe significative differenze: sono pertanto dell’avviso che Ipazia dovrebbe essere ricordata non in quanto “donna martire”, ma in quanto filosofa tout court, ovvero per il suo pensiero piuttosto che esclusivamente per il suo genere. In tal modo peraltro si accredita una certa vulgata non certo trascurabile secondo cui “la libertà della donna la si fa esclusivamente in funzione dell’uomo”, ovvero rientra nelle retoriche, più o meno manifeste, di una certa fallocrazia imperante.


Pubblicato il · da  Carmilla  on line

BIBLIOGRAFIA
A. Agabiti, Ipazia.La prima martire della libertà di pensiero, Ragusa, Ed. La fiaccola, 1998.
H. Arendt, Vita activa, a cura di S. Finzi, Bompiani, Milano, 2008 .
H. Arendt, Verità e politica, Bollati Boringhieri, 2004.
H. Arendt, La vita della mente, a cura di A. Dal Lago, Bologna, Il mulino, 1987 .
H. Arendt, Che cos’è la politica?, Milano, Edizioni di Comunità, 1995.
H. Arendt, Das Frauenprolblem der gegenwart, in “Die Gesellschaft”, 2, Berlin, 1933, pp. 177-179.
G. Beretta, Ipazia d’Alessandria, Roma, Editori Riunti, 1993.
B. Honig, Feminist interpretation of Hannah Arendt, The Pennsylvania State University Press, 1995.
C. Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1974.
C. Lonzi, È già politica. Testi di Marta Lonzi, Anna Jaquinta, Carla Lonzi, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1977.
A. Petta, A. Colavito, Ipazia, scienziata alessandrina, 8 marzo 415 d.C., Milano, Lampi di Stampa, 2004.
S. Ronchey, Filosofa e martire: Ipazia tra storia della chiesa e femminismo, in R. Raffaelli (a.c. di) Vicende e figure femminile in Grecia e a Roma: atti del Convegno Pesaro 28–30 aprile 1994, Ancona, Commissione per le pari opportunita tra uomo e donna della Regione Marche, 1995.
S. Ronchey, Ipazia l’intellettuale, in Roma al femminile, a.c. di A. Fraschetti, Bari, Editori Laterza, 1994.
C. Zamboni, Pensare in presenza, Conversazioni, luoghi, improvvisazioni, Liguori, Napoli 2009.
C. Zamboni, Parole non consumate. Donne e uomini nel linguaggio, Liguori, Napoli, 2001.
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  1. Pallad. Anth. Pal. IX 400. 
  2. Dam. Vita Isidori, 77, 5-7. 
  3. Ibid., 79, 14-15. 
  4. Socr. Hist. Eccl., VII 15. 
  5. Dam. Vita Isidori, 102, p.77, 1-17. 
  6. Vedi Gemma Beretta, Ipazia d’Alessandria, Roma, Editori Riunti, 1993. 

RANIERO LA VALLE CONTRO LA LEGGE TRUFFA


 
RANIERO LA VALLE

LA ROTTAMAZIONE DELLA DEMOCRAZIA



Ha fatto presto Berlusconi a innalzare il suo trofeo: queste – ha detto – non sono le riforme di Renzi, sono le mie riforme, che io perseguo da vent’anni, fin dalla mia discesa in campo. E Renzi si è vantato di aver fatto in un mese ciò che gli altri non erano riusciti a fare per vent’anni; gli altri, cioè, appunto, Berlusconi.
Sicché non a torto i costituzionalisti, criticando la legge elettorale presentata dai due, e giudicandola peggiore del “Porcellum”, hanno scritto che “l’abilità del segretario del PD è consistita nell’essere riuscito a far accettare alla destra più o meno la vecchia legge elettorale da essa varata nel 2005 e oggi dichiarata incostituzionale”.
Nel trofeo innalzato dall’uno e dall’altro non c’è però solo la legge elettorale, c’è anche l’abolizione del Senato e la modifica dell’ordinamento costituzionale delle Regioni. Che poi davvero queste tre riforme vadano in porto è tutto da vedere: gli emendamenti piovono copiosi, l’accordo PD-Forza Italia è presentato come un prendere o lasciare, e con questi metodi prepotenti così lontani dalla mediazione politica, diventa molto probabile che si sfasci tutto, a cominciare dal governo.
In ogni caso, fatta la legge, c’è chi vorrebbe subito usarla per andare a votare; ma questa legge non lo permette, a meno di sprofondare nel caos. Ancora nessuno lo ha detto, ma finché c’è il Senato, che ha un elettorato diverso per età da quello della Camera, c’è il rischio di due risultati difformi nei due rami del Parlamento: o che il premio di maggioranza nella Camera dei deputati vada a una coalizione diversa ed opposta rispetto a quella del Senato, o che scatti al primo turno per una Camera e solo col ballottaggio per l’altra: altro che sapere la sera stessa delle elezioni chi ha vinto e governa!
A noi interessa però guardare un po’ più lontano nel futuro, e intanto cercare di capire perché Berlusconi, Renzi e il Partito Democratico abbiano concordato e fatto proprie queste tre riforme.
Per quanto riguarda Berlusconi è chiaro. Il “Porcellum” è un diritto illegittimo, perché in contrasto con la Costituzione; ma solo con un diritto illegittimo, che trasforma una minoranza nell’unica forza dominante in Parlamento, a fronte di un’opposizione ridotta di numero e resa impotente, si può realizzare il progetto di un capo populista della destra che diventa padrone di tutto lo Stato. Il cosiddetto “Italicum”, ad onta della sentenza della Corte costituzionale, riproduce, aggravato, questo modello di diritto illegittimo.
Anche nella forma esso non si presenta come una nuova legge elettorale, ma come la vecchia legge corretta per via di emendamenti; come tale lascia intatta la logica del “Porcellum”, e in particolare lascia in vigore l’art. 14 bis che tendeva a ridurre la costellazione politica, sia pure bipolare, a due  soli partiti. Infatti esso pretende che i partiti che confluiscono in una coalizione perdano qualsiasi identità ed autonomia: essi devono avere lo stesso programma del partito maggiore, lo stesso capo (anche se interdetto?) e se non superano una certa soglia di voti non hanno diritto ad entrare con propri rappresentanti in Parlamento. Insomma Alfano deve avere per capo Berlusconi e Vendola Renzi.
Salvo modifiche che possano essere portate all’ultima ora (ma dai suoi proponenti il testo è stato presentato come blindato) il progetto Renzi-Berlusconi innalza la soglia di sbarramento per i partiti coalizzati dal 2 al 5 per cento[1], e quella per i partiti non coalizzati al livello proibitivo dell’8 per cento dei voti (impossibile da raggiungere anche per la Lega). Le coalizioni, poi, per essere ammesse alla ripartizione dei seggi, dovrebbero avere almeno il 12 per cento dei suffragi, che altrimenti diventano inutili.
A questa prima distorsione del risultato si aggiunge il premio di maggioranza che sarebbe dato, al primo turno o al ballottaggio, al partito o alla coalizione che abbia raggiunto il 35 per cento dei voti (che Berlusconi non vuole alzare perché conta di vincere al primo turno[2]) e che otterrebbe tra il 53 e il 55 per cento dei seggi. Ciò renderebbe del tutto sproporzionato, contro la sentenza della Corte, il rapporto tra voti conseguiti e seggi assegnati, alterando irrimediabilmente la rappresentanza. Di più, nel nuovo “Porcellum” c’è la conferma delle liste bloccate, anche se più corte, senza alcuna possibilità di scelta da parte dei cittadini.
Così configurata, la nuova legge elettorale distrugge il pluralismo politico, e cioè lo specifico della democrazia; non solo toglie i cespugli, cioè – come dice Renzi – libera i partiti maggiori dal “ricatto dei piccoli partiti”, ma toglie tutti gli alberi del bosco lasciandone solo uno a dominare il deserto e un altro, mutilato e umiliato, a riceverne l’ombra come parte di un unico sistema. In tal modo le elezioni invece che essere una scelta tra diverse opzioni politiche per il governo del Paese, si trasformano in una successione ereditaria per la quale il potere già esistente perpetua se stesso aggiornando di volta in volta per cooptazione le nomenclature al comando nei due partiti. Dopo tante invettive contro la casta una legge più castale di così non si poteva immaginare.
Quanto  al Senato è evidente l’interesse di Berlusconi ad abolirlo: dal suo punto di vista non solo la Camera Alta, ma tutto il Parlamento è una spesa inutile; per la Camera aveva già detto che basterebbe che si riunissero i capigruppo per decidere ogni cosa, e quanto al rapporto di fiducia col governo non c’è nessun bisogno del Parlamento, basta la fiducia dei cittadini. Riguardo poi al titolo V della Costituzione se il Senato e i partiti sono enti inutili, figurarsi se ci si può far scrupolo delle Regioni, che di tutto il sistema sono le peggio riuscite.
Ma se per Berlusconi le ragioni di queste scelte sono chiare, non lo sono affatto per Renzi. La sua dovrebbe essere un’altra cultura; certo potrebbero influire l’inesperienza dell’età, la presunzione del narcisismo, la malagrazia nei rapporti personali, soprattutto con i dissenzienti, l’azzardo del gioco politico, ma un segretario del PD che d’accordo con Berlusconi crei le condizioni per l’instaurazione del regime berlusconiano non è spiegabile. Finora ciò è stato impedito dalla resistenza della Costituzione, dal controllo di legittimità della magistratura, dalle scelte, anche referendarie, dell’elettorato, dall’opposizione delle forze democratiche e dello stesso PD; ed ecco che ora al regime interdetto viene di nuovo spalancata la porta del potere: “con questa legge – ha detto Brunetta – stravinciamo”.
Probabilmente ciò di cui è vittima Renzi è la sindrome del Truman-show, del reality,  per cui crede che quello che appare in televisione c’è nella realtà; e in televisione c’è il mito Renzi, il vincitore, e crede che questo mito non possa avere smentite.
Resta da chiedersi perché il Partito Democratico è entrato in questa fase di rottamazione. Non è vero che la sua classe dirigente anelasse da anni a queste riforme per restare sola al comando. C’era anzi l’idea di essere eredi di un’investitura nobiliare da salvatori della democrazia. Però si è aperto un vuoto. C’è stata una rottura più forte di quella provocata dalla “vocazione maggioritaria” di Veltroni, c’è stata la perdita delle sue culture. Il Partito Democratico ne aveva raccolte due: della cultura comunista aveva buttato l’acqua sporca insieme al bambino, restando privo di economia politica; della cultura cattolica aveva intercettato solo i residui della versione democristiana, restando irraggiungibile dalle novità della Chiesa conciliare e tanto più, ora dalla critica di sistema di papa Francesco.
Se queste sono le ragioni del disastro, le ragioni della rinascita possono essere solo nell’avvento di nuove culture politiche e di nuovi partiti. Senza cultura e senza partiti la democrazia non si fa. Ma essi devono essere all’altezza di una vocazione europea e mondiale e pari alla sfida della incalzante controrivoluzione postnovecentesca.

NOTE
[1] Un ulteriore accordo tra Renzi e Berlusconi ha previsto un piccolo sconto in questo sbarramento, dal 5 al 4,5 per cento.
[2] Nel nuovo accordo con Renzi Berlusconi ha concesso di portare la soglia per il premio di maggioranza dal 35 al 37 per cento.

Raniero La Valle
(30 gennaio 2014)

PROFONDITA' E LEGGEREZZA IN L. SCIASCIA



«Si è così profondi, ormai, che non si vede più niente. A forza di andare in profondità, si è sprofondati. Soltanto l'intelligenza, l'intelligenza che è anche «leggerezza», che sa essere «leggera», può sperare di risalire alla superficialità, alla banalità».

Leonardo Sciascia, "Nero su nero"

L'arte perduta del Cuntu in piazza




Busacca a Mezzojuso nel dicembre 1984 - Foto di Pino Di Miceli




    Mi piace recuperare dall'archivio del giornale La Repubblica un bel pezzo di Tano Gullo che, prendendo spunto da un libro di Mimmo Cuticchio, descrive un'arte perduta:


Tano Gullo

L'arte perduta del Cuntu in piazza
 


C´era una volta il contastorie, quello che d´estate nei giardini pubblici delle città e d´inverno attorno a un braciere, incantava con le sue storie fantastiche di re e regine, di paladini e saraceni, di cuori d´oro e maramaldi, di amori e tradimenti. Le sue narrazioni cominciavano sempre con il rituale «c´era una volta» e mai avrebbe potuto immaginare che il racconto della propria esistenza sarebbe cominciato con la stessa formula classica utilizzata da un paio di secoli per rappresentare vicende remote o fantastiche. I contastorie - che come i loro personaggi, vagano in massa ormai nel regno della memoria e della fantasia - sono stati spazzati via dalla televisione e dai devastanti cambiamenti sociali che hanno rivoluzionato l´universo relazionale. Nei paesi siciliani da almeno un trentennio nessuno inventa più storie, né parole. Nessuno sa più come si intreccia un canestro o come si innesta un pero in un prugno selvatico, nessuno conosce più gli uccelli che svolazzano, le verdure che spuntano selvatiche e i nomi delle contrade a vista d´occhio. Quell´afasia della parola già denunciata da Pasolini trent´anni fa ha inceppato la trasmissione dei saperi.

Nessuno ha più voglia di insegnare, e nessuno d´altra parte ha più voglia di imparare. Con la scomparsa delle lucciole assistiamo anche al dissolvimento di una civiltà millenaria. Tra le macerie del terremoto antropologico che ha investito paesi e città c´è un sopravvissuto (tra i pochi): Mimmo Cuticchio, cuntista e puparu, testimone e protagonista di un mondo svanito. Cuticchio non solo conserva memoria della tradizione epico-cavalleresca e dell´arte del cuntu, ma ha avuto la genialità di innestare nella contemporaneità queste ancestrali tecniche espressive, modernizzandole. Grazie a lui un pezzo significativo della nostra storia culturale si è salvato. E ha messo radici nel terzo millennio. Un pezzo della nostra vita che ora rivive nelle pagine del libro "Il teatro di Mimmo Cuticchio" della veneta Chiara Andrich (edizioni dell´Associazione Figli d´arte Cuticchio, 222 pagine riccamente illustrate). Lo studio, nato come una tesi di laurea sull´ultimo esponente della popolare dinastia di pupari, si è poi allargato ai tanti aspetti culturali che egli interpreta.





L´autrice per prima cosa sgombera il campo da un equivoco: il contastorie è cosa assai diversa del cantastorie, il quale canta - ormai sporadicamente - le sue ballate sui fattacci di cronaca, su eroi e briganti, accompagnandosi con la chitarra mentre indica sui tabelloni i disegni che istoriano la vicenda. Il contastorie non "tiene" musica, né disegni sgargianti; ha due soli strumenti drammaturgici: il corpo e la voce. Con i quali riesce a ipnotizzare l´uditorio, creando un campo magnetico che annulla tempo e spazio, in cui mette a coltura il pathos narrativo. «La tecnica performativa è basata sostanzialmente su due livelli - scrive la Andrich - uno colloquiale con intonazione monotona in cui il cuntista, generalmente seduto, dà spazio a descrizioni e dialoghi di raccordo con andamento narrativo; un altro più dinamico e ritmato dove il cuntista racconta i momenti delle battaglie, gesticolando intensamente». «Il secondo momento - continua - si basa sull´alterazione del respiro, sulla scomposizione ritmica della narrazione. L´impressione è quello di un´affabulazione concitata».

Mimmo Cuticchio (ormai noto a livello internazionale con i suoi spettacoli di cuntu, opera dei pupi e prosa) è il massimo esponente di questa tecnica, che ha acquisito attraverso una lunga gavetta e che poi ha elevato ad arte nobile introducendola nel cinema e nel teatro.

Gli eroi dei cuntisti sono gli stessi cavalieri carolingi dell´opera dei pupi, ma non solo. Questi artisti da strada spesso inventavano dalla farina del loro sacco guerrieri impavidi, uomini astuti che aggiravano come niente i classici sette ostacoli che li tenevano lontani dalla donna amata o dal regnante carogna, streghe che preparavano incantesimi e intrugli e popoli sofferenti da aiutare nella controffensiva di riscatto. Attraverso questi personaggi, così come accade nel ciclo dell´opera dei pupi, il cuntista metteva in scena con i protagonisti delle gesta eroiche il suo patrimonio di valori. Arroganze e cattiverie da mortificare, generosità e umiltà da esaltare. E poi, il senso dell´onore, della lealtà, il valore della parola data, il rispetto per la donna-madonna e su tutto un´impostazione bambinocentrica in cui i più piccoli erano quasi creature divine.

Mimmo Cuticchio ha fatto un´altra cosa importante. trascrivere su carta quello che finora era stato tramandato per via orale attraverso un percorso faticosissimo. Oggi l´arte di Mimmo è patrimonio collettivo, sull´arca della salvezza.

A questo punto apriamo il libro sulle pagine che raccontano l´avventurosa vita del cuntista, figlio d´arte, ma anche ribelle d´arte, una ribellione contro il tradizionalista padre che ha però salvato opera dei pupi e cuntu. Ha fatto diventare cultura viva quello che era ormai negli anni Settanta solo patacca per turisti. Ha evitato che al suo teatrino accadesse quello che è accaduto nelle tonnare dove i tonnaroti ormai recitano la parte di se stessi per mattanze organizzate solo per turisti in cerca di emozioni.

Mimmo Cuticchio è figlio di Giacomo, puparo itinerante che pianta il suo teatrino in lungo e largo per la Sicilia. Tant´è che i suoi figli nascono ognuno in un posto diverso, Gela, San Cipirello, Terrasini.

I pupi per Mimmo sono fratelli, sorelle, zii, amici, nemici. Soprattutto compagni di giochi e di fantasie, esseri vivi con cui impara la vita. «In questo ambiente si forma, imparando un mestiere e viaggiando attraverso le avventure meravigliose dei pupi - scrive la Andrich - I pupi rappresentano per Mimmo Cuticchio un universo, grazie a loro si può viaggiare e sognare, percorrendo mondi sconosciuti e terre lontane». Piccolissimo comincia a districarsi in quella ragnatela che è l´albero genealogico della cavalleria. Ragazzino curioso comincia a guardarsi intorno, si fa raccontare le vicende dei cuntisti storici di Palermo, Salvatore Ferreri, Antonino Manzella, Salvatore Palermo, Nino Brucoli e i fratelli Nino e Paolo Camarda, mastru Ramunnu, Tano Lo Verde, Roberto Genovese, Totò Spataro, personaggi ormai scomparsi dall´immaginario collettivo. Pitrè nell´Ottocento aveva censito diciotto cuntisti a Palermo, quelli cioè che con il cuntu ci campavano. Sicuramente erano molti di più, considerato quelli che lo praticavano solo per diletto. Nei paesi ce n´erano a centinaia. Erano il cinema e la televisione del tempo. Allietavano le sere dopo le fatiche dei campi o le ore dedicate a lavori di compagnia, come la mondatura del grano, delle olive, delle mandorle. E poi c´erano le botteghe, barbieri e ciabattini su tutti, che diventavano palcoscenico di queste narrazioni.

Mastru Ramunnu aveva imparato il cuntu in carcere e cominciò a praticarlo per i colleghi dell´Ente Porto prima di specializzarsi in un repertorio per famiglie. Tano Lo Verde nei primi anni del dopoguerra elegge Villa Bonanno come luogo d´esercizio per un pubblico di pensionati e sfaccendati. Alla sua morte gli succede Roberto Genovese, anch´egli formatosi nella scuola dell´opera dei pupi, come suonatore di pianino a cilindro, senza un vero apprendistato. E se Totò Spataro, come riporta la Andrich, incarnava uno stile molto sanguigno, Peppino Celano è un maestro d´armi «molto abile nell´uso del coltello», tanto da essere ribattezzato ´u mafiusu.

Mimmo con il padre vive l´esperienza del Festival di Spoleto e poi lavora a Parigi. Infine la lacerazione con il genitore. Mastro Giacomo è un tradizionalista a tutto tondo che non ammette la minima trasgressione sul percorso indicato dai padri. Il figlio smania, vuole innovare. È la rottura dolorosa. Ma il giovane capisce subito che senza un maestro non ha dove andare. Cerca che cerca lo trova in Peppino Celano, puparo e cuntista, uno degli ultimi, e grande istrione teatrale (poi incontrerà un altro maestro, Salvo Licata, che lo guida in una lettura culturale nel mondo dei pupi). Ci vogliono due anni di corteggiamento per farsi accettare come allievo nel laboratorio di via Scippateste di Celano. Il maestro lo tiene fuori dalla porta mesi prima di consentirgli di guardarlo mentre costruisce i suoi pupi. E qui affiora il rapporto particolare e oggi incomprensibile che un tempo si instaurava tra maestro e allievo, basato con la caratteristica del "furto del mestiere". «Celano si lascia guardare, si lascia rubare l´arte, ma al tempo stesso verifica la vocazione dell´allievo, la sua tenacia e la sua autenticità». Di soldi, ovviamente, nemmeno a parlarne.

Mimmo supera tutte le prove, ruba l´arte a Celano, quella di costruire pupi, di raccontare fatti e di inscenare emozioni. Quando è il momento il maestro, a tradimento, lo lancia nella mischia. E fu così che l´allievo superò il maestro. E vissero tutti felici e contenti. E noi, tanto per proseguire nella rituale formuletta, siamo rimasti con la lingua in mezzo ai denti.

(LA REPUBBLICA, Palermo 20 febbraio 2008)