31 ottobre 2011

CONVEGNO SU PASOLINI

Pubblichiamo con piacere il comunicato stampa trasmessoci dal Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa:

L’opera pasoliniana percorsa dall’”interrogazione del sacro” sarà il cuore tematico del Convegno di Studi che il Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia, con il sostegno di Regione, Provincia di Pordenone e Comune, nonché con il patrocinio morale della Pro Civitate Christiana di Assisi e dell’Università degli Studi di Udine-Cirf, promuove e organizza nel Ridotto del Teatro Pasolini per il prossimo mese di novembre, in una due-giorni fitta di relazioni e tavoli di discussione articolate tra il pomeriggio di venerdì 18 e la mattinata di sabato 19.

Un tema fondativo e trasversale nella letteratura e nel cinema di Pasolini, che una nutrita schiera di autorevoli studiosi provvederà ad argomentare secondo un intreccio aperto a più approcci disciplinari: da angolature strettamente antropologiche, con Francesco Faeta, Laura Faranda, e Gian Paolo Gri; da visuali di eco umanistico-letteraria, con Filippo La Porta e Nicola De Cilia; da punti di vista teatrologici, con Paolo Puppa; da ottiche cinematografiche e figurative, con padre Virgilio Fantuzzi, Tomaso Subini e Carla Sanguineti; da scavi di spessore storico-religioso, con Remo Cacitti, Natale Spineto, Nicola Gasbarro e Pietro Lazagna.

Per tutti sarà l’occasione dell’indagine in una dimensione che in Pasolini – scrive Gian Paolo Gri, curatore scientifico coadiuvato dal coordinamento di Angela Felice-, “ben prima delle distinzioni tra fede e scienza, credenti e non credenti, è domanda, non corredo di risposte; è attesa e scarto”. E’ un sacro che innerva una “scandalosa” e implacabile ricerca proiettata su un doppio impegno: da un lato, con la tensione dello sguardo sulla misteriosa realtà incarnata delle “cose divine”, annidate nell’innocenza originaria del linguaggio e del corpo; dall’altro, con lo sforzo disperato di preservarne il “senso” attraverso la dissacrazione appassionata e perentoria delle icone e degli idoli che, nel tragico tempo della storia, novecentescamente neo-capitalistica, surrogano il sacro con i falsi miti del danaro, del consumismo, della tecnica.

Alla deriva inarrestabile del “genocidio” culturale dell’Occidente, e italiano in particolare, Pasolini contrappose la verità della parola-suono, phonè di poesia aderente al bios , e delle facce dei poveri, apparizioni corporee da paese contadino, da borgata e poi nelle sacche sempre più residuali del Terzo Mondo. Facce da primo piano, come quella del poverocristo Stracci che muore in croce nel film La ricotta, capolavoro filmico del 1963 che sarà proiettato alla ore 20.45 di venerdì 18, con introduzione di Tomaso Subini.

Che l’incontro con questo Pasolini “estremo” avvenga a Casarsa – conclude Gian Paolo Gri- aggiunge un elemento di interesse in più, perché qui siamo nel luogo della scoperta e della memoria. Qui, la rivelazione al primo Pasolini del rapporto aurorale fra le dimensioni del sacro, del linguaggio e del corpo; qui, l’incontro con la matrice mitica di un universo contadino arrivato alla soglia del disincanto”. E anzi l’emozione sarà ancora più palpabile dalla presenza di Nico Naldini, che sigillerà la chiusura dei lavori con un intervento dal titolo da sé folgorante per evocazione poetica, Un filare di viti all'infinito. Nel pomeriggio di sabato 19, poi, a convegno ormai archiviato, il padre gesuita Virgilio Fantuzzi dismetterà i panni dell’amico di Pasolini e dello studioso e si rivestirà di quelli del sacerdote, per celebrare insieme alla Corale casarsese una messa nel “Glisiùt” di Santa Croce, in ricordo di Pier Paolo, della madre Susanna e dei loro familiari.

Info, Centro Studi Pier Paolo Pasolini, via G. Pasolini 4, 33072 Casarsa della Delizia (pn), tel. 0434 870593, info@centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it, www. centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it.

29 ottobre 2011

POESIA, ANTIDOTO ALLA CHIACCHIERA


 

 Oggi vogliamo ricordare Andrea Zanzotto, uno dei più grandi poeti e saggisti del 900, scomparso la settimana scorsa, a partire da una sua poesia lunare, molto leopardiana, intitolata Nautica celeste:
 
Vorrei renderti visita
nei tuoi regni longinqui
o tu che sempre
fida ritorni alla mia stanza
dai cieli, luna,
e, siccom'io, sai splendere
unicamente dell'altrui speranza.

Gianluigi Beccaria su Zanzotto e sulla poesia in generale, su La Stampa di oggi, ha scritto parole che dureranno nel tempo. Lo studioso di linguistica ci ha ricordato che non esiste nulla al di fuori del linguaggio e ciò che non è più nominato, anche per questo,  smette di vivere. Così ogni lingua è un’eredità, ogni lingua che scompare è un pezzo di umanità che si dilegua, così come ogni saggio che scompare è come una biblioteca che va a fuoco. 
Il mondo non è più lo stesso ora che non c’è più Andrea Zanzotto. Ora che è venuto meno sarà più difficile vedere in noi stessi. Con lui se ne sono andate anche le parole che avrebbe ancora potuto dirci.
Eppure, incalza Beccaria, c’è chi è del tutto indifferente alla poesia. Basti ricordare la provocazione dello scrittore polacco W. Gombrowics, Contro i poeti: 

“Il mondo della poesia è un mondo fittizio e falso, la poesia non mi piace per la stessa ragione per cui non mi piace lo zucchero puro. Lo zucchero è gradevole se preso insieme al caffè (…). E’ l’eccesso ciò che stanca della poesia, eccesso di parole, eccesso di metafore, eccesso di nobiltà(…)”.

A prima vista le parole di Gombrowics sembrano vere: la poesia talora eccede, enfatizza cose che il linguaggio comune riduce al minimo e quello scientifico annulla. La lingua della poesia sembra (in superficie) qualcosa di abnorme, di non reale. La poesia spesso appare un fantasma sonoro e ritmico, una contraddizione in termini. 
Nel “consumo spaventoso e terrificante di parole e di immagini che si fa oggi” nel contesto di un bla bla universale, in questa “ colluvie di chiacchiere inutili”, come scriveva Zanzotto, dove la parola è esposta come puro rumore, la poesia col suo suono incantatorio e col suo buio aiuta, come la notte, a lavare la mente e portare una luce.

F.V.

28 ottobre 2011

MANGIARE E BERE SANO

Riprendiamo la rubrica tesa a promuovere una nuova educazione alimentare, pubblicando parte dell'articolo di Piero Careddu pubblicato sul Manifesto Sardo del 16 ottobre scorso:


Ci sono persone amiche che storcendo il naso mi chiedono come faccio a scrivere di eccellenze enogastronomiche con la povertà diffusa che non risparmia ormai nessuna latitudine. E’ vero che quel poco di biologico che si riesce a rimediare con fatica costa di più della massa di cibo avvelenato che acquistiamo e con la quale, per pigrizia, fretta e ignoranza, siamo costretti a nutrirci quotidianamente. E’ anche vero che una bottiglia di vino prodotto senza aiuti chimici e da una vigna viva e non trattata ha un costo mediamente superiore a quello di uno convenzionale. Ed è una realtà, ultima ma non meno importante, che anche quella del biologico si sta da tempo trasformando in una tendenza, con un’offerta piuttosto aggressiva e soprattutto poco controllata.
Oggi avere una certificazione bio non è un’impresa titanica e gli organismi preposti ai controlli sono pochi e non riescono a coprire tutto il territorio nazionale, pertanto avere la certezza che un prodotto sia realmente naturale, aldilà di quello che dichiara l’etichetta , non è facile. Tant’è che molti produttori che hanno avuto la certificazione, e che lavorano seriamente, spesso rinunciano a dichiararla per non confondersi con la massa emergente di quei “convertiti dell’ultim’ora” al biologico che ne hanno subodorato il businnes.
CHE FARE?
Come fare allora a raccontare all’operaio e a sua moglie, che con un reddito di 1000 euro e due figli devono fare alchimie per arrivare alla fine del mese, che mangiare conservato e chimico fa male al corpo e alla mente? Come fare a spiegargli che è giusto che il pomodoro sano del contadino, il vino pulito del produttore biodinamico, la bistecca dell’allevatore rispettoso dell’ambiente e degli animali, non possono costare quanto carne, vino, frutta avvelenati che compriamo della grande distribuzione?
E c’è da dire che le risposte sono di una semplicità disarmante: chi fa la scelta coraggiosa di produrre cibo rispettando l’ambiente e la salute di chi glielo acquisterà si espone, non essendo i suoi prodotti “protetti” da fitofarmaci, a rischi enormi e a percentuali di scarto importanti e ha bisogno di un apporto maggiore in termini di manodopera: tutto questo aumenta inevitabilmente i costi e, unito a una rete di distribuzione schizofrenica, non può non riflettersi sul prezzo finale. Eppure in qualche modo dobbiamo uscire da questo circolo vizioso perché, come ho avuto modo di affermare in un articolo precedente, la catena subdola che si è formata all’interno di questo sistema liberista malato è profitto=superproduzione=chimica=sottosuolo e acqua avvelenati=emissioni=cibi malati.
L’unica via d’uscita è di una difficoltà spaventosa ma da tentare senza perdere un minuto di più: provare a cambiare lentamente stile di vita. Siccome non è da questi rozzi governanti che possiamo aspettarci dei segnali di inversione di tendenza, credo che tocchi a noi che abbiamo una visione della società e della vita stessa proiettate in altro modo, lavorare intanto per cambiare le nostre pessime abitudini e poi per fare un diffuso e paziente lavoro di educazione alimentare e ambientalista.
Quella che una volta chiamavamo fase di transizione passa anche attraverso il bere meno vino e solo di qualità, ingurgitare meno cibo e solo sano, muoversi meno in automobile e riprendere l’abitudine ad andare a cercarci le cose buone da mangiare, fuori porta. Solo applicando queste poche prime regole possiamo abbattere i costi della vita quotidiana, migliorandone radicalmente la qualità a noi e ai nostri figli.
Non è riempiendoci le buste di porcherie nei supermercati low-cost che risolviamo i problemi della sopravvivenza: eliminando le bibite gasate, i dolciumi carichi di grassi idrogenati, le carni gonfie di antibiotici scopriremo con stupore che riprendere a farsi da mangiare semplice e sano a casa è possibile.
E spenderemo meno in medicinali…
Non dimentichiamo che l’ obesità infantile, con tutte le gravi patologie che porta con sé, ha una percentuale di diffusione nettamente superiore fra le fasce di popolazione più disagiate. Si tratta di capire che praticare la cucina “vera” di casa, farsi le torte per la colazione, tirare una sfoglia per fare un po’ di pasta fresca è un gesto d’amore verso noi stessi e le persone che ci circondano. Riscoprire la ritualità dello stare a tavola, ricostruendo rapporti, ritrovando il piacere della conversazione. Il tutto possibilmente con la televisione spenta. Non è un utopia.

Piero Careddu

PASOLINI PIU’ VIVO CHE MAI

E’ in corso di stampa il n. 16/2011 della rivista Quaderns d’Italià dell’Universitat Autònoma de Barcelona in cui è compreso il saggio Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini dello scrivente. Mi piace anticiparne la conclusione, alleggerita dalle note, in questo spazio:


Rileggendo gli scritti di Pasolini si rimane colpiti dalla loro intatta forza espressiva e comunicativa, dalla loro resistenza al tempo. Il fatto stesso che alcune sue parole-chiavi (Palazzo, omologazione, mutazione antropologica, sviluppo senza progresso) siano diventate senso comune mi sembra un’ulteriore prova dell’attualità dell’analisi pasoliniana. Particolarmente centrata la sua critica al consumismo, percepito e vissuto come “un vero e proprio cataclisma antropologico (Scritti corsari, pag. 135). Basti pensare a quello che è avvenuto ieri a Roma per l’acquisto dell’ultimo modello di televisore al plasma!

E’ vero che in essa si ritrovano motivi presenti già nella Scuola di Francoforte, ma è sicuramente nuovo il linguaggio usato, la sua estrema chiarezza ed immediatezza che l’hanno reso comprensibile a tutti. Pasolini, con il suo acuto sguardo antropologico, è stato tra i primi a capire la centralità che ha la televisione nella società contemporanea.

Fin dagli anni ’60 - sviluppando la geniale intuizione gramsciana rilevante il nesso stretto esistente tra lingua, società e potere - aveva colto nelle prime manifestazioni del linguaggio tecnocratico l’emergere di una nuova classe sociale tendenzialmente egemone. Ma, a differenza di tanti intellettuali odierni, non ebbe paura di andare contro corrente, di mettersi in gioco in prima persona, rompendo schemi e logiche di schieramento precostituito.

Più volte, dopo la sua morte, si è cercato di metterci una pietra sopra. I più cinici hanno perfino usato la sua orribile fine per farlo. Soltanto Leonardo Sciascia, a modo suo, ha tentato di mantenere viva la sua lezione. E non è un caso che sia stato proprio un discepolo di quest’ultimo, Vincenzo Consolo insieme a pochi altri, in un manifesto del giugno 2000, ad utilizzare il lessico pasoliniano per tentare di aggiornarne l’analisi:

Caduto il regime democristiano per corruzione interna, per mafia, per crimini, è subentrato ad esso un partito di destra il cui leader (Silvio Berlusconi) è proprietario (caso unico in Europa) di tre reti televisive, oltre che di giornali e case editrici. Queste reti televisive, che poggiano la loro esistenza e la loro potenza sui messaggi pubblicitari, hanno negli anni inciso enormemente sulla cultura e sulla lingua italiana. La televisione statale, per ragione di concorrenza o di volontaria omologazione, si è conformata alla cifra culturale e stilistica di quella privata. Sempre più piccolo borghese, consumistico, fascista, il paese, telestupefatto, ha perso ogni memoria di sé, della sua storia, della sua identità. L’italiano è diventato un’orrenda lingua, un balbettio invaso dai linguaggi mediatici che non esprime altro che merce e consumo.

E, in un momento in cui l’Italia sembra davvero andare alla deriva, è bello vedere un giovane scrittore come Roberto Saviano, che con il suo Gomorra ha riscosso un meritato successo internazionale, indicare tra i suoi maestri il poeta di Casarsa.

Francesco Virga