31 maggio 2012

LA GRANDE CREPA NEL CUORE D'ITALIA




Sull’Emilia terremotata  propongo oggi  tre  pezzi che mi hanno particolarmente colpito: 

 
Contadini del sacro di Franco Arminio

Non hanno detto o non ho sentito neppure un nome dei morti, conta solo il numero. E tutte le parole che dicono alla fine tengono lontano il dolore, il dolore del padre che aveva rimproverato il figlio perché non studia o perché si ritira tardi, il dolore di vedere un corpo tumefatto, dentro la tasca il telefonino intatto, la camicia bianca piena di polvere, il pantalone grigio con una macchia di sangue che pare un bicchiere, il dolore del funerale, il corpo dentro il legno, basta un corpo, uno solo che non parla più, mentre un diluvio di parole cade da ogni parte. Dopo il terremoto ci vuole un poco di silenzio o, se si vuole parlare, allora bisogna parlare dei morti. Forse vedere un corpo appena è tirato via da un capannone sarebbe uno squarcio alla retorica che nebulizza ormai ogni evento, ne fa un altro cartone da imballaggio per intrattenere i consumatori della notizia. Se non si vuole far vedere un piede, un occhio, se non si vuol far vedere una mano rotta, la macchina che aveva quel tizio, la borsetta dell’operaia, il quadro alla parete, i profumi dentro il bagno, se non si vuol far vedere la vita allora è meglio oscurare il video, togliere l’audio, mandare in onda solo una scritta con le notizie, solo la parola nuda, se davvero si vuole essere la prossima volta un poco più pronti.
Invece il terremoto è uno spettacolo, perfetto per la pista facile delle polemiche, per dare la parola agli esperti, per mischiare scienza e paure spicciole e poi dire degli aiuti e dei provvedimenti del governo. Le parole, le scene sono sempre quelle. Si dice di un paese distrutto, non si da alcuna notizie dei gatti morti, per esempio. Nelle case che cadono spesso abitano anche i gatti. Andiamo a raccogliere un libro tra le macerie, andiamo a salutare qualcuno con un sorriso molto sincero, molto affettuoso. Pensiamoci veramente al vedovo, alla vedova, alla madre che ha perso il figlio, al figlio che ha perso la madre. Consideriamoci quel che siamo, animali che possono farsi gentilezze. Dobbiamo essere contadini del sacro, piuttosto che spacciatori di disincanto. E dobbiamo mettere i pali di una democrazia profonda, chiudere nei cassonetti la scartoffie dei banchieri, gli intrallazzi dei calciatori, le compassate viltà dei cardinali. C’è da pensare intensamente a quei capannoni crollati, pensare che il capitalismo ha sempre più un cuore macabro e mangiare alle sue mense può sfamare ma non rende felici. Una democrazia degli scontenti non serve a niente, non serve a niente crescere, uscire dalla crisi, se non ci prendiamo veramente cura di chi soffre, se non sentiamo il dovere di onorare veramente i morti.
Sarebbe stato bello se il Presidente della Repubblica avesse ordinato di fermare la sfilata del due giugno o di annullare l’acquisto di bombardieri. Il Presidente auspica, i partiti studiano come conservare i privilegi senza darlo troppo a vedere. Non accade altro nei palazzi della politica. Il bello e il brutto sono giù nel mondo.

 dal «manifesto»  del 31.05.2012




I terremoti italiani, di Pierluigi Sullo

Nel bellissimo romanzo di Maria Rosa Cutrufelli, “I bambini della Ginestra”, i protagonisti, coinvolti da bambini appunto nella strage di Portella della Ginestra, vivono i loro terremoti interiori intrecciandoli al sisma che colpì il Belice, e Palermo, nel 1968. Era un anno di svolta, annunciato da una catastrofe, l’alluvione di Firenze, quando migliaia di ragazzi accorsero a salvare le biblioteche, e si compì con quel terremoto e con le pallottole della polizia che ad Avola uccisero i braccianti.
Le faglie che scuotono la terra non sono mai solo fisiche, anzi compiono e annunciano periodi di storia, mettono alla prova – cambiandoli bruscamente – le società e i loro governanti. Nella storia italiana – e non solo naturalmente – è sempre andata così. Il terremoto dell’Irpinia e di Napoli, nel 1980, completò la parabola del prolungato movimento giovanile e operaio nato negli anni sessanta, e un’ondata di volontari, interi sindacati e consigli di fabbrica nonché organizzazioni giovanili, organizzò i soli soccorsi che i terremotati ebbero, nei primi mesi, e allo stesso tempo governanti ed amministratori esibirono tutta la loro inefficienza e cialtroneria: lì si fermò l’epoca della modernizzazione e si inaugurò quella dello sperpero e della corruzione, ossia l’inizio della fine, durata poi un decennio, della cosiddetta “prima repubblica”.
E quale migliore metafora del berlusconismo se non la gestione del terremoto dell’Aquila? La città autentica, storica, la cui concretezza testimoniava storia e legami della comunità, venne abbandonata a se stessa (lo è tuttora), per costruire una Aquila 2 (una Milano 2) di plastica, buona da esibire in televisione nell’istante in cui il Capo consegnava paternamente le chiavi di casa alla grata famiglia, e preda perfetta per le bande di predatori che si aggiravano attorno a quel pozzo di interessi da cui ora vengono sputati fuori gli effetti collaterali, come le “paghette” al Trota figlio di Bossi. La raffica di inchieste giudiziarie che seguì agli imbrogli dell’Aquila – e a quelli paralleli della Maddalena – hanno contribuito a incrinare un potere che si basava sulla festa cafona in cui a tutti si promettevano ricchi premi.
Anche i capannoni che vengono giù come carta velina, in Emilia, uccidendo gli operai che ci lavorano, sono una metafora: quella dell’industria produci-e-getta, in cui tutto è provvisorio – si deve poter delocalizzare in ogni momento – tranne l’offesa al territorio. Ma poi: che terremoto sarà, quello dell’epoca del governo dei “tecnici” e della Grande Crisi? Nel 1976, altro punto di svolta, la società friulana reagì a un terremoto crudele con tenacia, riuscendo a “raccontare” nelle pietre ricostruite la propria vicenda e coesione. Questa è la prova cui sarà chiamata la gente dell’Emilia, una volta curate le ferite più urgenti. Ma un governo tanto “assoluto” quanto d’emergenza, inaugurato da un discorso di Monti in cui la parola ambiente ricorreva zero volte, e ispirato da una persona come Mario Draghi, che per citare le sofferenze dei giovani senza lavoro parla di “decadimento del capitale umano”,  linguaggio da business plan, come affronterà una situazione che non richiede numeri e “spread” ma senso della storia e del legame sociale?
Da il manifesto del 31 maggio 2012


 La mia terra ferita, di Roberto Roversi

C´è una crepa nel cuore dell´Italia. Una crepa nella terra che abbiamo dimenticato e una crepa nella storia che spesso ci pesa ricordare. Sono abbastanza vecchio da aver vissuto il terremoto del 1929: l´Emilia doveva essere infrangibile e invece dormimmo all´aperto per giorni, qualcuno nelle poche macchine che c´erano, tanti nelle tende, e poi fummo ‘sfollati´ a San Marino di Bentivoglio, un piccolo paese in campagna, vicino a Bologna. Costruimmo casette in legno – ricordo ancora l´odore di colla – per provare a difenderci e ricominciare.
Anche allora nessuno ricordava le scosse della storia, quando nei secoli passati persino la Torre degli Asinelli era stata danneggiata. L´Emilia pensa spesso di essere indenne: viene colpita, soffre e dimentica.
Quel che sta succedendo adesso purtroppo riguarda tutti: abbiamo cementificato i fiumi, trapanato campi e colline. Dalla terra abbiamo risucchiato l´anima rispettabile, senza pietà. E quando arriva un terremoto, la catastrofe ci ricorda la forza imprevedibile e ci trascina nello sgomento.
Conosco bene quelle zone, la Bassa tra Modena e Ferrara, ricordo i campi e l´agricoltura. Poi è arrivato lo sfruttamento, qui come altrove. Ci sono posti con nomi bellissimi, Concordia, Mirandola, San Felice. Sono paesi della pianura, zone che circondano Bologna, paesi a un pugno dalle nostre finestre. Che hanno tremato con loro.
Ma oggi non credo che serva poesia né demagogia, perché la nostra terra l´abbiamo abbandonata. Servirebbe speranza, quella sì. Ma per la speranza occorre una passione che può nascere solo da una visione più grande che non schiaccia i deboli, gli umili, gli indifesi.
Parliamo spesso del senso di comunità che qui, in queste zone, è forte e saldo. Eppure credo, senza essere apocalittico, che anche quello possa andare smarrito. Nelle disgrazie ritroviamo la reciproca pietà: vengono fuori sentimenti austeri, di collaborazione. Ma sono sentimenti. Quello che serve è una visione, larga, del futuro. Che riconosca il passato e quel che è successo. Che ce lo faccia leggere, finalmente, e che lo voglia cambiare.
Come fecero gli illuministi dopo il terremoto di Lisbona: lo racconta Kant, lo spiega Voltaire. Un progetto per una città nuova. E – senza più bisogno di citare i grandi filosofi – come successe in Friuli. Quella ricostruzione è stata una vera ricostruzione: non c´è esempio uguale.
Oggi viviamo in un tempo arretrato, anche qui, in Emilia. E abbiamo sotto gli occhi le transenne che ancora imprigionano L´Aquila. Serve una tensione operativa, qualcosa che non sia solo percepito come elemosina di Stato ma diventi volontà di Governo per dare un segnale vero.
Per questo vorrei sfuggire alla retorica della comunità ferita che si rialza: può essere pericolosa perché ogni individuo deve contare su se stesso sapendo di poter contare sullo Stato. Su un´idea di progresso, di futuro. Abbiamo massacrato la terra, l´abbiamo manovrata e vilipesa, abbiamo deviato le acque e consumato natura: anche qui. Impietosamente. E ci siamo dimenticati della crepa, delle tante crepe che si possono aprire.
L´unica vera “vittoria” sulla tragedia del terremoto sarebbe quella che riconsegnasse alla gente la convinzione culturale, morale e istituzionale del mondo in cui si vuole vivere, lasciando da parte utopie liberistiche, falsamente democratiche. Dobbiamo ritrovare il coraggio di difenderci dal vortice della mortificazione del presente, “alzando da terra il sole”.
(testo raccolto)

Da La Repubblica 31.05.12



30 maggio 2012

L’ OPERA DEI PUPI A MARINEO...1 e 2



La Sicilia è stata terra di pupi e pupari.
Marineo ha conosciuto sia i primi che i secondi.
Ma, mentre venti o trent’anni fa era chiaro chi fossero i pupi e chi il puparo, oggi è diventato tutto più confuso. Qualche volta sembra addirittura che le parti si siano invertite.

 
P. S. : L’opera dei pupi continua...
Il Guglielmo dovrebbe farsi spiegare dai suoi amici la metafora. D’altra parte a Marineo sanno tutti chi erano,  trent’anni fa, i pupi e i pupari. Noi non abbiamo altri chiarimenti da offrire.
E non faccia la parte dell’offeso. Chi da anni offende ed insulta il prossimo non ha diritto di offendersi per così poco.


SUI TERREMOTI



Sul tema dell’imprevedibilità dei terremoti ripropongo un pezzo di Antonio Sparzani, pubblicato ieri su http://www.nazioneindiana.com/ .
Ma sul terremoto che sta distruggendo la bella e ricca Emilia Romagna - nel ripensare ai precedenti che hanno distrutto la nostra povera valle del Belice ed il Friuli – può rivelarsi utile riflettere un momento su queste parole:

Al me Friûl no lu à disrumât al taramot
ma al dismenteâ dai ons.

Celso Macor, Impiâ peraulis, 1976

Il mio Friuli non l’ha distrutto il terremoto
ma l'oblio degli uomini.
 

   da http://buchi-nella-sabbia.blogspot.it/

                                                                  
                                                                    ======

                                        …non è prevedibile… di  Antonio Sparzani

«Prevedibile, non è prevedibile mai», così il Sismologo di Fama, il Direttore dell’Istituto deputato ad occuparsi di terremoti e dei movimenti interni del nostro pianeta in generale. Così sì che si sintetizza bene la scienza della sismologia, quella che si vorrebbe invece sentir dire «questa zona è sicura», «quest’altra meno».
Dei terremoti sappiamo molto, della storia, delle modalità, delle frequenze, perché abbiamo, da una certa epoca in poi, molte registrazioni, che peraltro cominciano a diventare un po’ precise soltanto dal secolo scorso.

Lo statunitense Charles Richter dà il nome alla scala dei terremoti, scala basata sull’energia da essi sprigionata, per quel che si riesce a stimare; naturalmente all’origine dell’invenzione della nuova scala, che è andata sostituendo un po’ alla volta la scala Mercalli, c’è il sismologo tedesco Beno Gutenberg, costretto a emigrare negli USA dalle sue origini ebree, e mentore di Richter.
Ma quello che mi interessa sottolineare è che in queste situazioni si evidenzia, come forse in pochi altri casi, il ruolo della cosiddetta scienza nella vita pubblica. Il terremoto è un fenomeno studiato dalla scienza e pertanto la gente in generale, in perfetta buona fede, si rivolge alla scienza, per avere lumi, per avere suggerimenti sul come salvarsi da questi cataclismi naturali, per avere, come ci si aspetta dalla scienza, una parola di certezza, una dichiarazione di controllo del fenomeno, un’áncora cui affidarsi per non venire sballottati dalle onde sotterranee.
E questo perché siamo stati accuratamente allevati nell’idea che la scienza, affidata a pochi sapienti e imperscrutabili personaggi, che tanto hanno studiato e che quindi sanno le segrete cose che non si possono, no, decisamente non si possono spiegare a tutti ― troppo complicate sono ― i quali personaggi ogni tanto si abbassano a provare non certo a spiegare le segrete cose al volgo, ma alcune conseguenze delle segrete cose, la scienza, dicevo, controlli e preveda ogni cosa.

Il terremoto, ahimè, o anzi, per fortuna, smaschera quest’aura ideale che circonda la Scienza con la esse maiuscola, perché mette a nudo le caratteristiche di questa particolare scienza; la principale delle quali è: del futuro nulla possiamo dire con certezza; si dirà che possiamo esprimerci sulle probabilità; ora spero che tutti sappiate che una affermazione probabilistica è molto vicina al vuoto; tutti i giocatori di roulette, ancorché si illudano, in fondo al cuore lo sanno: se il rosso è uscito venti volte di fila, la probabilità che esca la ventunesima volta è ancora un bel 50%, non è diminuita perché è già uscito venti volte, la probabilità non ha memoria del passato.
Dentro la Terra nessuno ha guardato così bene da vedere le zolle che si muovono subdole ma inesorabili fino ad urtarsi e a tentare di accavallarsi, producendo sconquassi, non abbiamo il filmino dei movimenti delle zolle, non abbiamo modo di registrare il loro pur lentissimo procedere e soprattutto nulla sappiamo delle leggi del loro spostarsi. Non c’è verso, bisogna rassegnarsi: fino a quando non avremo, se mai sarà possibile, e si può ben dubitarne, una mappa completa di questo agitarsi sotto traccia, per così dire, non sarà possibile prevedere nulla, ma proprio nulla.
L’unico vero intervento che possiamo doverosamente fare è quello delle costruzioni antisismiche, e qui naturalmente si apre un capitolo che ha a che fare con l’economia, con la politica, con gli appalti, ecc. nel quale non entro, se non per ricordare, uno per tutti, che il disastro di Fukushima è avvenuto perché le condizioni antisismiche preventivate dalla Tepco non erano, per ragioni di risparmio economico, all’altezza neppure del maggiore terremoto avvenuto nel secolo scorso sulla Terra, ci si era mantenuti un po’ sotto, perché era “improbabile” che si desse un terremoto con conseguente maremoto, tsunami e quant’altro, di quell’intensità. Improbabile, capite? Improbabile.

Da http://www.nazioneindiana.com/


29 maggio 2012

LA PUPIATA DI ZUCCARU…








Ho assistito l’altra sera all’Agricantus di Palermo ad uno spettacolo straordinario: gli antichi pupi di zucchero, realizzati e venduti a Palermo per la festa dei morti, sono tornati a muoversi, a parlare e a cantare grazie all’eccezionale talento del cantastorie Salvo Piparo, della mezzosoprano Costanza Licata, del percussionista Michele Piccione, della pianista Rosemary Enea, guidati dal regista Luigi Maria Burruano che ha saputo ridare vita ad una antica tradizione popolare.  Ripropongo di seguito l’intervista ai protagonisti dello spettacolo fatta da   Silvia Buffa e pubblicata su  http://palermo24h.com lo scorso 28 aprile.


 
E’ la vita di Mangiaracina che vende “pupaccene” vestiti da paladini di Francia, immobili e sorridenti, che prendono vita attraverso la sua fantasia. Abbiamo intervistato i protagonisti.E' una storia di pupi, questa qui, anche se di pupi in scena non ce ne sono. Ci sono gli attori in carne ed ossa, con parole, canti e musica a parlare per loro, per quelle antiche marionette che forse Palermo non ricorda più. Lo spettacolo trae spunto dall'Orlando fuorioso di Ariosto, rivisto e rivoltato in mille sfaccettature volutamente diverse. Un'antica storia di amori, di guerre e di viaggi sulla luna, raccontata da un cuntista che è andato di vicolo in vicolo, a Palermo, raccogliendo il respiro delle strade, raccogliendo storie e aneddoti delle vite incrociatesi con la sua. E questo cunto ce lo hanno raccontato proprio gli interpreti dello spettacolo, oltre che il regista stesso.

La prima cosa che ci siamo chiesti è cosa significasse questo titolo, alla prima apparenza un po' strambo. Ci ha risposto Burruano:

Questo titolo innanzitutto allude a una storia di pupi, una storia fatta quindi di duelli e di sfide tra paladini; in questo caso non si tratta di veri e propri paladini però, poichè si vuole alludere allo zucchero scolpito e colorato, con le sembianze dei paladini di Francia, le cosiddette "pupaccene" insomma, tipiche durante la festa dei morti. E' un titolo, quindi, fortemente onomatopeico: "pupiata" è proprio come se fosse una battaglia, rende immediatamente l'idea.

Come mai è stata scelta come opera di spunto proprio l'Orlando fuorioso di Ariosto? E com'è essere registi di questa nuova storia, anzichè esserne un interprete?

Piparo parte da uno spunto, che è l'opera dei pupi e il teatro popolare - continua Burruano - , il tutto arricchito dai suoi ricordi personali di vita, ricordi soprattutto dei maestri che facevano l'opera dei pupi, che manovravano i fili e costruivano le marionette dei paladini. Anche io ho questi ricordi conservati nella mia memoria, di quando ero piccolo e con mio padre andavo a vedere queste opere dal maestro Argento oda Cuticchio.
La regia mi piace quanto lo stare sul palco a recitare. Anzi, forse mi piace anche di più! E l'ho imparata a poco a poco, con le mie mani. E poi non può che essere un piacere lavorare con una compagnia così preparata, soprattutto con Piparo: è molto facile collaborare con lui, accoglie consigli e suggerimenti e soprattutto è un attore di cuore, di sentimento.

Il cunto si basa soprattutto sui ricordi: ma fra venti o trent'anni, quando Internet avrà preso pienamente il controllo delle nostre vite, quali saranno i ricordi della società? Il cunto rischia l'estinzione?

Malgrado l'importanza e la supremazia di Internet, certi ricordi, per quanto preziosi e particolari, andranno sempre conservati, come se fossero scolpiti nella nostra memoria. Siamo andati sulla luna, eppure non puoi cancellare il momento in cui invece tiravi le pietre; è sempre memoria dell'uomo: ne cancelli i ricordi, allora ne cancelli una parte. Sarebbe come dimenticarsi della propria madre, si può? No, è uno dei cardini della vita, non potrebbe accadere mai. E allo stesso modo non può accadere al cunto che, secondo me, non rischia affatto l'estinzione - conclude deciso Burruano.

Come si sposano, invece, in quest'opera il canto e la musica con l'arte e la tradizione dei pupi? Ci ha risposto Costanza Licata.

Prima c'erano i pupi accompagnati dal cosiddetto "pianino" e tutto questo, con la nostra musica, noi lo riportiamo a quello che sono i nostri suoni e le nostre contaminazioni, sposandolo con la musica di oggma anche con la musica classica, da Mozart a Vivaldi, che io stessa canto sulla scena.

Cosa si prova a dare voce e ritmo a maschere e fili - seppur non presenti sul palco - e non, in realtà, a personaggi in carne ed ossa?

Io sono cresciuta con questi racconti di mio padre, quindi è una fortissima emozione: lui mi raccontava sempre che nella sua borgata c'era un piccolo teatrino di pupi, importantissimo per tutti, e che si sarebbe fatta qualsiasi cosa pur di assistere agli spettacoli messi in scena. Purtroppo, oggi, il pubblico è cambiato, non è più lo stesso. Paradossalmente noi palermitani questa tradizione la stiamo perdendo ogni giorno di più, mentre i turisti la ricercano e la apprezzano molto - ci racconta Costanza.

Ma come ci si avvicina all'arte del cunto? Per esempio Salvo Piparo come si è reso conto di avere questa particolarissima passione?

Si scopre per caso, come quando un bruco diviene farfalla - risponde Salvo - . All'inizio, quando ero solo un bambino, stavo ad ascoltare i racconti di mio nonno, di quando andava a sentirsi il cunto a piazza Bonanno. Cammin facendo, spicando come fa il granturco, ho incontrato delle persone che mi hanno segnato molto. Uno di queste è stato 'u zu Binirittu', un vecchietto che oggi avrà ottant'anni, che mi ha fatto sentire per la prima volta un pezzo di cunto, mettendoci tutto il sentimento di cui era capace e dicendomi 'Sarbuccio…stuppati a ricchi!' e io lo feci. Quando lo ascoltai la prima voltai pensai che fosse un pazzo. E il giorno dopo, però, ero pazzo anch'io. Ho preso subito le movenze ritmiche che avevo visto in lui, creando improvvisamente il mio cunto: e da allora racconto le mie storie, con il mio fiato, il mio ritmo, la mia pancia.

Secondo te, oggi, un giovane che volesse avvicinarsi a quest'arte tradizionale, cosa dovrebbe fare?

Deve sapere ascoltare. Questa è l'arte più antica del mondo, come camminare a piedi. Il pubblico che ci segue è ancora un pubblico di nicchia, ma noi stiamo cercando di fare anche un cunto a tratti comico, per poterlo fare arrivare a tutti. Con la televisione è morto il cunto. Prima di essa la gente si riuniva attorno a un uomo, un nonno che raccontava il suo cunto appunto. Ma i nonni di oggi fanno più fatica, sono alle prese con nipoti che scappano subito dinanzi a un computer e che passano ore e ore collegati su Facebook. Anche io sto su Facebook, ma mezz'ora al giorno, perchè poi voglio uscire, incontrare persone, parlare, ascoltare, stringere mani. E' da tutto questo che nasce un cunto: raccolgo storie e racconti, raccolgo i 'buongiorno' da tanti uomini, e ogni buongiorno me lo porto dietro, perchè racchiude una voce, una sensazione. La città ha una memoria che è una mollica mangiata dagli uccelli. Bisogna riuscire a riappropriarsi della propria identità, della storia di questa città e dei propri ricordi soprattutto - conclude emozionato Salvo Piparo.

Silvia Buffa






DON MILANI E’ ANCORA VIVO!




Abbiamo un debito con don Milani. Nel 1967 "Lettera a una professoressa" ci fece pensare alla scuola come a un luogo di riscatto sociale, una scuola di tutti e per tutti. Così diventammo dei cattivi maestri, convinti che la peggiore ingiustizia fosse fare parti uguali fra diseguali e che la scuola, nella fascia dell’obbligo, prima di tutto dovesse essere luogo di relazione e, tramite l’educazione civica e linguistica, luogo di scoperta di se stessi nell'incontro con gli altri. 
Oggi recupero un bellissimo articolo di Marco Rossi Doria, dedicato all’opera di Don Milani e ad alcuni suoi eredi, pubblicato su La Stampa. E trovo sorprendente, dopo tutto il fango gettato sulla Scuola di Barbiana, che l’attuale sottosegretario alla Pubblica Istruzione rivaluti la sua lezione.



Scuola malata, è ora di tornare a Barbiana

Marco Rossi Doria


Eravamo nel pieno del boom economico e tutto sembrava finalmente andare per il meglio. Quando, nel 1967, uscì Lettera a una professoressa e arrivò in ogni angolo d’Italia il monito, severo e profetico, di don Milani: «la scuola ha un solo problema: i ragazzi che perde».

In quel libro c’erano i dati che mostravano che la classe sociale dei genitori determinava il successo o l’insuccesso scolastico, in larghissima misura. Quel monito ci sta ancora addosso. Perché è ancora oggi così. Sono i figli dei poveri a fallire a scuola. E sono tanti: il 20% del totale. Che tende a diventare il 30% e più nel Sud come nelle periferie del Centro e del Nord. Lo dicono i dati del ministero dell’Istruzione, quelli Istat, la Banca d’Italia, la relazione della Commissione indagine sulla povertà. Lo mostra, pezzo per pezzo, il bellissimo Atlante dell’infanzia a rischio , curato da Save the children ricordandoci che mentre nella maggior parte d’Europa il figlio di un genitore di medio reddito e istruito ha 2 o 3 volte più probabilità di completare l’intero ciclo di studi, da noi ha 7,7 più probabilità! Il più grande scandalo d’Italia.

Così, è passato quasi mezzo secolo. Ma resta questo il principale problema non solo della scuola ma dell’intera società italiana. Dobbiamo riuscire a dare di più a chi parte con meno nella vita e la scuola va ancora ben sostenuta perché non vi è altro luogo che possa essere leva precoce di emancipazione e riequilibrio sociale.

Per questo l’Unione Europea dal 2000 - la famosa agenda di Lisbona ci chiede di scendere sotto il 10% di fallimento formativo. E la questione è che noi non ci siamo ancora riusciti. Benché siamo ben consapevoli che il non riuscirci, oltre a essere una minaccia alla coesione sociale, ci priva di enormi risorse umane capaci di azioni positive, un fatto che condiziona la stessa crescita economica. Perciò: l’agenda politica, le scelte nella revisione delle spese e degli investimenti pubblici deve tenere conto innanzitutto di questa questione.

Ma più che i dati, come spesso accade, le vie da imboccare per riparare alle ingiustizie generali le descrivono bene i libri che parlano di gesti, di giorni, di vicende umane.

Nelle bellissime pagine di Insegnare al principe di Danimarca (Sellerio) la molto compianta Carla Melazzini racconta del lungo nostro lavoro con i ragazzi che avevano abbandonato la scuola a S. Giovanni a Teduccio, Barra, Quartieri Spagnoli, Soccavo, Ponticelli. È una scrittura sorvegliata, severa - come Carla era - che mostra, con fatica e poesia, il lavoro della scuola che sa andare verso chi ne è stato escluso. Lavoro di grande complessità artigianale, fatto a Napoli eppure simile a quello svolto da altri insegnanti e educatori a Torino, a Verona, a Palermo, a Reggio Emilia, a Milano. Il creare un luogo salvo, una zona franca, una chance. Dove curare - nel bel mezzo delle devastazioni - le ferite sociali ed emotive. Per restituire la guida adulta, la via dell’apprendimento, della motivazione, della cura di sé. Per ridare «la capacità di aspirare», come viene definita in un importante saggio di Arjun Appadurai ( Le aspirazioni nutrono la democrazia , Et al. Edizioni).

Sono pagine difficili quelle di Carla Melazzini. Perché chiedono di ritornare a pensare alle persone che crescono. Perché chiamano l’intero sistema d’istruzione e formazione a rimettere insieme i pezzi, a coniugare meglio il sapere e il saper fare. E a misurarsi molto di più con l’essere quotidiano di ciascun ragazzo. Com’era a Barbiana, dove nell’aula di sopra c’erano i libri, le figure geometriche e le mappe, nell’aula di sotto gli arnesi per costruire e manutenere oggetti e il laboratorio di esplorazione scientifica e in ogni momento la possibilità di fermarsi e «parlare di noi», di quel che sta succedendo e di come va, senza mai dimenticare che si sta lì per imparare.

Quattro anni prima dell’uscita di Lettera a una professoressa, Adele Corradi salì a Barbiana. Ora finalmente lo racconta nel libro Non so se don Lorenzo (Feltrinelli). Era il 29 settembre 1963. Oggi
decide di lasciare indietro la sua riservatezza e ci riporta proprio lì. Con un avvertimento: «Non si racconta in questo libro la storia di don Milani…. Si parla di lui, ma non se ne racconta la storia. Chi la volesse conoscere dovrà rivolgersi altrove…. Qui sono messi a fuoco frammenti di vita, frammenti sparsi, affiorati alla memoria col disordine dei ricordi». Adele ricorda il giorno dell’inizio, domenica, S. Michele. Ma non ricorda che lezione avesse tenuto. Rammenta, però, che don Lorenzo, in modo per lui inconsueto, le disse: «Ritorni». E lei si è da allora sempre chiesta perché: «.. o gliel’ha suggerito lo Spirito Santo o io con la telepatia». Così, dopo qualche giorno ritornò. E partecipò alla prima vera lezione, un esercizio di scrittura collettiva. E di lì si va avanti nel racconto, scena dopo scena, con i gesti e il parlato riportati entro un interrogarsi profondo e semplice. Perché questo libro rimette ogni lettore nel ritmo e nella parola di quel luogo, nel suo senso quotidiano. E così Adele ci fa un regalo immenso: toglie il peso del mito a Barbiana. E finalmente restituisce quella scena alla magica imperfezione delle persone al lavoro, che tentano, che riparano, che si chiedono, che litigano, che non sanno e che comunque riescono.

Ritrovare l’occasione e il modo di fare bene scuola provando a capire il proprio tempo e il mondo è sempre possibile. E rimettersi in gioco è la chiave dell’educare. Come ci dice ancora Adele, oggi quasi novantenne: «Sono stata insegnante di lettere alle medie fino alla pensione a 67 anni. Devo confessare che ero un’insegnante identica alla destinataria di Lettera a una professoressa … L’incontro con la scuola di Barbiana ha scavato un solco nella mia vita. Mi sono vista come non mi ero mai vista. E non solo come insegnante, ma come persona».

Dunque, la vicenda di Barbiana e delle buone scuole delle nostre troppe periferie non è solo un’azione a sostegno dell’equità e a vantaggio di una società democratica. Ma permette trasformazioni. E ci dice la direzione da prendere per tutta la scuola. Perché l’azione pedagogica diretta a chi ha più bisogno spesso muta gli approcci profondi e sa indicare vie innovative. La necessità fa virtù. Perciò don Milani diceva: «Verrà un giorno in cui coloro che vogliono guarire le scuole malate dovranno salire a Barbiana».
È ora di ripartire da una scuola a tutto tondo, che integri studio, esperienza, riflessione ben organizzata sul mondo e sul sé. E che consenta di riportare anche tutta la meraviglia del sapere diffuso dai nuovi media entro l’azione composita e costante di un luogo accogliente e rigoroso. Un luogo salvo e innovato.

(Da: La Stampa del 3 maggio 2012)

P.S. E' interessante la testimonianza inedita del maestro Mario Lodi pubblicata da L'Avvenire qualche giorno fa:
 
Il maestro Lodi alla scuola di Barbiana

Era l’agosto del 1963. Mentre stavo in villeggiatura in Toscana, l’amico giornalista Giorgio Pecorini mi propose di andare a far visita a un prete, don Lorenzo Milani. Non lo conoscevo. Pecorini mi ha portato in macchina sull’Appennino. Arrivato a Barbiana, il mio primo contatto è stato con i ragazzi. Stavano sotto il pergolato, studiando, scrivendo, facendo cose varie. C’era anche un gruppo a sguazzare in una piscina. Seppi che l’avevano costruita loro. Io vedevo dei ragazzi che si divertivano, ma per don Milani il nuoto era un apprendimento utile, che poteva «servire per la vita». Poi ci fu l’incontro con il “Priore”. Provenivamo da due esperienze diverse. L’esperienza mia era collegata al Movimento di Cooperazione Educativa, nato quando l’Italia aveva “voltato pagina”. Era passata dalla dittatura alla guerra poi alla pace e alla nuova vita democratica. Si trattava, a nostro giudizio, di introdurre anche nella scuola i principi della democrazia, di realizzare a partire dalla scuola la società dei pari, degli uguali. La scuola era ancorata al vecchio modello, il modello verticistico, trasmissivo, “televisivo” in anticipo: io preparo i programmi, tu devi assorbirli e basta. Non devi pensare, non devi creare: questo era il messaggio complessivo. Noi volevamo cambiare quella scuola, per metterla al servizio della democrazia.

Don Lorenzo invece era stato formato dalla Chiesa. L’esperienza l’aveva fatta dentro la Chiesa, attraverso il suo apostolato, se così si può dire. Ma io lo trovai curiosissimo a riguardo della mia attività di maestro. Il motivo credo di averlo capito. Anche se i nostri percorsi erano stati diversi, tutti e due avevano lo stesso fine: creare un popolo libero, che sapesse ragionare, pensare, essere artefice del proprio futuro. Alla fine della giornata, don Milani volle che mi fermassi a dormire a Barbiana. Anche il secondo giorno fu pieno di domande. Don Lorenzo voleva sapere com’era la nostra scuola: quante ore lavoravamo, se facevamo scuola anche la domenica, se facevamo delle attività extra che non si facevano a Barbiana. Insomma, tantissime domande per sapere com’era l’Italia al di fuori dei confini di quella piccola parrocchia trasformata in  scuola. Spiegai tutte le cose che facevamo nel Movimento di Cooperazione Educativa, seguendo l’esempio di Célestin Freinet. È stato Freinet a introdurre nella scuola il testo libero, il calcolo vivente, la corrispondenza, le attività artistiche, eccetera.

Alla fine dei due giorni, don Milani disse che doveva decidere se collaborare con noi oppure no. Era tentato dalla corrispondenza. Avrebbe voluto fare con i suoi ragazzi una prova dell’arte dello scrivere, come diceva lui, preparando una lettera nella quale trovassero posto i pensieri di tutti, dal più grande al più piccolo. Salutandoci disse: «Siamo in agosto. Se decideremo di tenere una corrispondenza con voi, vi arriverà una lettera tra il Primo e il Quattro novembre». Non ho mai capito il perché di quel periodo preciso. Comunque, entro il tempo stabilito arrivò la lettera datata 2 novembre. Si trattava in realtà di due lettere, la sua, nella quale spiegava come aveva lavorato assieme ai bambini e la lettera dei ragazzi, che descrivevano la loro scuola e spiegavano perché la frequentavano. Questo modo di scrivere, di utilizzare i ragazzi con la freschezza del loro linguaggio infantile per dire cose importanti, era la prima provo di un metodo che avrebbe poi prodotto la Lettera a una professoressa.

Ricordo che nello stanzone usato da don Milani per fare scuola, erano esposti gli articoli della Costituzione: lo notai perché io avevo fatto lo stesso nella mia aula. A Barbiana gli articoli più in evidenza erano l’articolo 11 e il 21. L’undici perché dice che «l’Italia ripudia la guerra». Don Milani ebbe poi, proprio su questo, un duro scontro – e anche guai giudiziari – con alcuni cappellani militari in congedo. C’era anche l’articolo 21, il quale dice che tutti (tutti quindi, non tutti tranne i bambini) hanno diritto di esprimere il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo. Si capisce: ogni altro mezzo che la società tecnologica mette a disposizione. Perciò, stando a quell’articolo, avremmo anche il diritto di usare la televisione. Se solo ce lo concedessero. E invece questa televisione, a mio parere, ci vuole muti. Don Milani, al contrario, ha speso la sua vita per «dare la parola». Nel 1963 don Lorenzo era già malato. Non ho più avuto l’occasione di incontrarlo.

Mario Lodi, testimonianza raccolta da Sandro Lagomarsini il 18 aprile 2009
 

28 maggio 2012

PASOLINI INTERVISTA POUND


ELOGIO DELLA RADICALITA'







 


È stato Marx a dare alla parola 'radicale' il significato che ora si presenta a noi in tutta la sua potente attualità : «Essere radicale significa cogliere le cose dalla radice. Ma la radice per gli uomini è l'uomo stesso».
Piero Bevilacqua, nel suo ultimo libro Elogio della radicalità (Laterza, 2012), si riallaccia a questo grande filone di pensiero.
Riprendiamo di seguito la recensione che ne ha fatto Pierluigi Sullo:


 Un antidoto alle banalità moderate

La storia delle parole è una cosa seria. «Riforma», per esempio, è una parola che ha avuto un destino miserando, come quegli attori o calciatori un tempo ricchi e famosi e di cui poi si viene a sapere che sono morti in miseria, soli e malati. Una volta, «riforma» era l'alter ego della «rivoluzione», cioè un altro modo, progressivo e progressista, pacifico e per via elettorale, di cambiare la società nel senso della giustizia sociale. Poi se n'è impadronito il Fondo monetario internazionale ed è finita come sappiamo: anche la distruzione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è una «riforma». Non parliamo nemmeno di «comunismo», correntemente sinonimo di totalitarismo. Ad indagare le correnti di senso che hanno fatto slittare i significanti, i contenitori, verso un significato opposto, c'è da divertirsi. Specialmente se questi slittamenti sono occultati. Credo sia questo il rovello che ha spinto Piero Bevilacqua a scrivere Elogio della radicalità (Laterza, pp. 184, euro 16). Perché ne aveva le tasche piene di sentir lodare da ogni politico e da ogni televisione il «moderatismo» come virtù suprema della politica e dell'economia, quella cosa che spintona chiunque si affacci sulla scena politica verso il mitico «centro», quel luogo in cui è sufficiente non far nulla, cioè lasciare che le cose vadano per il loro verso (quello che la finanza vuole), per tirar su reti piene di voti guizzanti. Non so se Bevilacqua gradirà, ma il suo libro l'ho letto provando il gusto crescente della rivalsa, com'è tipico di quello che un tempo si chiamava un pamphlet - un'invettiva piuttosto che con la calma riflessiva che un saggio sa suggerire. Del resto, ricordo un articolo di un paio di anni fa o tre, di Bevilacqua, mi pare fosse il 2008 dell'inizio della crisi dei «subprime» negli Stati Uniti, in cui, con vigore polemico e abbondanza di argomenti, si chiedeva conto agli «economisti»degli esiti del loro intollerante dominio, tale per decenni da svuotare dall'interno e riempire di parole contraffatte e di razionalità economica demente le università e i centri di ricerca, la produzione culturale e i talk show : perché - chiedeva - non fate ammenda? Non fanno ammenda per niente. Se gettate un occhio a Ballarò, la trasmissione di Rai3, troverete che siede immancabilmente tra gli ospiti un o una economista, che con aria astratta, come di chi non debba mai dubitare di sé, esibiscono la loro moderazione ed enumerano i «fondamentali dell'economia». Moderazione? Perché - si chiede Bevilacqua - chiamare in questo modo l'estremismo, il fondamentalismo economico che ha ridotto il mondo nello stato in cui è? «La crisi attuale - scrive - ci spinge (...) a porci la domanda fondamentale: i due pilastri storici del consenso capitalista su gran parte della società sono ancora in piedi La liberazione dell'individuo e la prospettiva di un incremento illimitato e crescente della prosperità sono sempre gli elementi chiave di una narrazione capace ancora di persuadere e sedurre?». La risposta, parrebbe, è che no, questa narrazione non regge più se non camuffandosi da destino inevitabile, da realismo, da «moderazione», appunto: «Sotto il profilo culturale, il moderatismo oggi rappresentra la perpetuazione di un conformismo ideologico che è fra i più vasti e totalitari che l'umanità abbia mai conosciuto. Esso si fonda interamente, malgrado i vari scongiuri di rito, sul 'senso comune' neoliberista: un insieme di convinzioni dottrinarie fra le più estremiste». Alla semplice domanda se sia ragionevole credere che saccheggiando i redditi dei cittadini e allo stesso tempo saccheggiando il territorio si gettano le basi per la «crescita», nessun ministro «tecnico» è in grado di dare una risposta. Perché banalmente non è pensabile. Così che il senso comune delle persone normali diverge bruscamente dal senso comune dei «decisori» economici, ormai i soli abilitati a guidare l'autobus su cui tutti noi siamo seduti. Ed è in questo scarto che il panorama che Bevilacqua traccia nel libro inserisce la sua proposta: «Occorre capovolgere il significato delle parole. Un ideale di generale 'moderazione' (...) è diventato, nel giro di qualche decennio, la prospettiva di un progetto rivoluzionario. (...) Qual è infatti oggi la finalità suprema dei disegni più radicalmente eversivi dell'attuale assetto disordinato del mondo? A cosa ambiscono i molteplici soggetti e movimenti che mirano a sovvertire l'ordine capitalistico? È la prospettiva di una società sobra, che ponga fine al consumismo smisurato, alla bulimia distruttiva di territorio e risorse, all'affanno della crescita infinita (...)? A cosa aspirano i sostenitori della decrescita, del buen vivir , di Slow Food, del Take Back Your Time e del Downshifting amnericani, dei movimenti che rivendicano i beni comuni? Essi chiedono l'avvento di una società conviviale, come la profetizzava Ivan Illich». Beninteso, queste affermazioni sono confortate da Bevilacqua con analisi, ragionamenti, citazioni (di un Marx molto diverso da quello dei marxisti anchilosati), e in generale da una prosa che rende la lettura del libro piacevole almeno quanto quella dell'ennesimo giallo scandinavo di consumo. Già, qui si sta consumando un crimine molto efferato. Tutti noi possiamo diventare gli investigatori che mettono il colpevole in condizione di non nuocere più.

 Pierluigi Sullo, il manifesto 24 maggio 2012

27 maggio 2012

LA VIA DI EDGAR MORIN













Dal sito http://www.venezia2012.it  riprendo la recensione di Paolo Cacciari dell’ultimo libro di Edgar Morin.



 
Ci sono dei libri che dopo averli letti ti danno la sensazione che sia inutile aggiungere altre parole. Uno di questi è La via di Edgar Morin (Raffaello Cortina Editore, pp 297, Euro 26). Con questo ultimo lavoro Morin lancia un messaggio politico puntiglioso, opera una trasposizione del suo pensiero filosofico in un articolato programma di riforme. Il vantaggio del libro per il lettore è duplice: avere a disposizione un indice ragionato dell’enciclopedica opera del grande pensatore francese, lo “scopritore” del pensiero complesso e molteplice, (tra cui, ricordo: Il metodo, in sei volumi editi sempre da Raffaello Cortina) e una sintesi dei numerosi interventi politici di cui è indissolubilmente cosparsa la sua lunga attività scientifica (da ultimo: La mia sinistra. Rigenerare la speranza del XXI secolo, Centro Studi Erickson, Trento 2011).
Morin, che ha visto l’occupazione nazista della Francia e che è abbastanza vecchio da aver preso parte alla Resistenza, pensa di trovarsi di fronte per la seconda volta nella sua vita alla apocalisse della politica, ma non è affatto rassegnato. Salvare l’umanità dai più che prevedibili disastri che la minacciano è un’impresa “improbabile ma possibile”, afferma. Il bersaglio del suo pensiero è stato sempre il determinismo e il riduzionismo, storico e scientifico. Sia nelle visioni ideologiche del bene che in quelle ciniche e passivizzanti del male. L’oggetto del suo pensiero critico è stata la dicotomia manichea (l’opposizione bene/male), il binarismo (vero/falso) a favore invece di una visione dialogica, integrata, unitaria tra  Homo sapiens/demens, globale/locale, prosa/poesia… vita/morte.  Morin pensa che sia possibile – anzi, necessario – attingere il meglio da ogni tradizione e da ogni cultura, far emergere le alternative possibili e meticciarle.
Quindi, nonostante i pericoli inauditi che l’umanità s’è procurata con le proprie mani, Morin intravede che “una primavera aspira a nascere”. “Su tutti i continenti, in tutte le nazioni, esistono già fermenti creativi, una moltitudine di iniziative locali propizie a una rigenerazione economica o sociale o politica o cognitiva o educativa o etica o esistenziale. Ma tutto ciò che dovrebbe essere legato è disperso, separato, compartimentato” (p.20). Perché questo grande cambiamento avvenga  serve “cambiare via”, invertire la rotta. La parola chiave che viene usata mi pare sia “rigenerare”, superare il deterioramento, la sclerosi della relazionalità individuo/società/specie.
La diagnosi è lucida e spietata. L’“età della globalizzazione” nasce lontano, con la mondializzazione fra il Quattrocento e il Cinquecento, ma è dopo l’89 del secolo scorso che la “tecnoeconomia” dispiega tutta la sua potenza e il mondo occidentale realizza “l’illusione di possedere l’universale”. Il capitalismo straripa, omogeneizza, standardizza. Fino a raggiungere gli odierni “eccessi del capitalismo finanziario”. Ed entra in crisi. Una gigantesca “poli-multi-mega-crisi”, un insieme di “molteplici crisi aggrovigliate interdipendenti e interferenti” che sono destinate a provocare “catastrofi a catena”. Crisi economica, ecologica, demografica, alimentare, urbana, cognitiva (cioè politica), di civiltà. Una “crisi planetaria” dell’umanesimo universalista, dell’identità individuale, del calcolo razionale, del “grande mito provvidenziale dell’Occidente”, cioè del Progresso.
E qui vengono in mente affinità strette con il pensiero di Franco Cassano (L’umiltà del male, Laterza, 2011) quando descrive “il nucleo mitologico costitutivo della modernità contemporanea” nel dominio assoluto del denaro, nel primato del profitto, nell’espansione incessante della tecnica.
Il Progresso indica prosperità e benessere e ha come motore lo “sviluppo” e la “crescita”. Due termini usati come sinonimi, nel contempo, “fine e mezzo l’uno dell’altro”. Gli individui sono così finiti per essere dominati da una logica puramente economica, dall’“idea fissa della crescita”.
Ma la crisi planetaria in cui siamo entrati e la rimozione delle sue cause dal discorso politico ci dicono che:  “Lo sviluppo ignora che le società occidentali sono in crisi per il fatto stesso del loro sviluppo. Questo sviluppo ha secreto un sottosviluppo intellettuale, psichico e morale”.
Una analisi che sembra non lasciare scampo, ma Morin la affronta con la forza della sua teoria della speranza che si fonda sulle virtù creative profonde dell’umanità generatrici di creatività, aspiranti all’armonia, capaci di grandi trasformazioni, di una “riforma del pensiero e della mente”, di una “Metamorfosi” generale.
Quasi per fugare il sospetto di astrattezza e fuga nel filosofico,che queste parole possono suscitare nel lettore, Morin si impegna in una elencazione puntuale e motivata delle riforme necessarie e possibili da attuate in tutti i campi e a tutti i livelli dell’agire sociale: economici e del lavoro, demografici e delle città, ecologici e  della medicina, delle istituzioni democratiche e della giustizia, della famiglia, dei giovani e degli anziani, dell’alimentazione e del consumo. Tante “vie” che potrebbero convergere verso “la Via” del miglioramento delle relazioni tra individui , fra gruppi, fra popoli.
Un libro che dovrebbe essere tenuto ben in vista sulla scrivania di quanti credono e sperano che la politica possa avere ancora un senso. La politica – ha scritto Morin – “priva di pensiero si è messa al rimorchio dell’economia” e “basta poco perche si degradi in carneficina”.

 Paolo Cacciari