28 febbraio 2015

DEMOCRAZIA IN COMA



LA DEMOCRAZIA CHE ODIA I CITTADINI Alfio Mastropaolo

Nel suo ultimo edi­to­riale Euge­nio Scal­fari ha sol­le­vato un tema d’importanza cru­ciale: il declino della demo­cra­zia par­te­ci­pata. Rav­vi­san­done la ragione nell’indifferenza dei cit­ta­dini. Che la demo­cra­zia sia in dif­fi­coltà è fuor di dub­bio. Ma forse l’indifferenza non è causa, bensì effetto delle tra­sfor­ma­zioni cui la democrazia è sot­to­po­sta e che hanno deru­bri­cato da demo­cra­zia partecipante a demo­cra­zia respin­gente. L’Italia non è un caso unico. Le demo­cra­zia respin­genti ci sono ovun­que e in Ita­lia la si è comin­ciata a fab­bri­care da un quarto di secolo fa.
Renzi sta solo met­tendo il tetto all’edificio di una demo­cra­zia che odia i cit­ta­dini. L’odio per i cit­ta­dini si mani­fe­sta anzi­tutto sul ter­reno delle poli­ti­che. L’austerità è comin­ciata tre anni fa. Ma le decur­ta­zioni allo Stato sociale sono in atto da tempo, come da parec­chio si è aggra­vata a dismi­sura la pres­sione fiscale sui red­diti medi e bassi. E sono enor­me­mente peg­gio­rate le condizioni dell’occupazione. Non solo di lavoro ce n’è meno, ma la sua qua­lità sta decli­nando da un pezzo, nel pub­blico e nel pri­vato. In com­penso chi comanda non pensa a dismet­tere lussi inutili e dan­nosi, come la Tav e gli F35, né tan­to­meno si mostra dispo­sto a ridurre gli inde­centi pri­vi­legi di cui godono i poli­tici e butta solo fumo negli occhi.
La seconda mani­fe­sta­zione di odio per i cit­ta­dini sta nel respin­gerli come tali. Votare non è un gesto natu­rale. Per molti, spe­cie i gio­vani, è un atto che va inco­rag­giato. Sia tra­mite le performances della poli­tica, che al momento non aprono nean­che più alla spe­ranza, sia sottolineandone l’importanza. Sia mediante un’azione costante di col­ti­va­zione del civi­smo un tempo svolta dalla scuola e dai par­titi.
L’istruzione ha pure la fun­zione di socia­liz­zare i gio­vani alla vita col­let­tiva e alla par­te­ci­pa­zione poli­tica. Ben cono­sciamo le con­di­zioni lamen­te­voli in cui la scuola è ridotta e lo spre­gio con cui sono trat­tati gli inse­gnanti. Quanto ai par­titi, il loro sof­fo­ca­mento è stato deli­be­rato. In nome di una demo­cra­zia che decide, li si è disat­ti­vati, pro­met­tendo che a col­ti­vare il civismo avrebbe prov­ve­duto la società civile. Solo che la società civile, peral­tro ambi­gua, non com­pensa l’attività di edu­ca­zione e inci­ta­mento che i par­titi di massa svol­ge­vano su vasta scala. Sono rima­sti i par­titi impro­pria­mente detti per­so­nali, che sono cir­co­scritte cosche affa­ri­sti­che, riser­vate ai super­pro­fes­sio­ni­sti della poli­tica, che non sanno nem­meno com’è fatto il mondo e che nutrono uni­ca­mente ambi­zioni di potere.
I cit­ta­dini non sono scioc­chi e osser­vano tutto que­sto. Pos­sono magari illu­dersi, non tutti, ma per un attimo e in realtà sono indi­gnati e arrab­biati. Di quali mezzi tut­ta­via dispon­gono per mani­fe­stare la loro sofferenza?
Ci hanno per­fino pro­vato. Per citare l’esperimento più recente: una quota non irri­le­vante di elet­tori ha pro­vato a ribel­larsi votando per Beppe Grillo. Ma per sco­prire ben pre­sto che il suo incon­te­ni­bile nar­ci­si­smo media­tico è solo ser­vito a ste­ri­liz­zare la loro indi­gna­zione, spia­nando la strada alle bru­ta­lità del ren­zi­smo. Quando non c’è nar­ci­si­smo, com’è suc­cesso in Gre­cia, pare stia andando anche peg­gio. Un popolo intero sta san­gui­no­sa­mente pagando le dis­si­pa­zioni di una ristretta casta di poli­ti­canti e di potenti. Ma tutta l’Europa con­giura affin­ché la sua ribel­lione elet­to­rale, che ha cac­ciato i respon­sa­bili, non pro­duca alcun aggiu­sta­mento. Die­tro la grande nar­ra­zione – let­te­ra­ria, cine­ma­to­gra­fica, media­tica, gior­na­li­stica e spesso anche acca­de­mica – del disin­canto e dell’indifferenza, cova insomma una ribel­lione silen­ziosa, che rischia di avere esiti disastrosi.
Un po’ più di atten­zione andrebbe pre­stata ai dati sull’astensione. Il nostro gar­bato capo del governo si fa forte del 40% di con­sensi otte­nuti alle euro­pee. Che è però solo il 40% del 60% che ha votato. Ovvero: su 10 elet­tori hanno votato in 6, tra cui 2 e mezzo hanno dato al Pd il loro con­senso. Non è poco per riven­di­care un grande con­senso popo­lare? E non c’è per caso il rischio che se un paio di elet­tori arrab­biati smet­tesse di aste­nersi e cedesse alle lusin­ghe di uno dei tanti lea­der popu­li­sti che ci sono in giro ne sca­tu­ri­sca un esito elet­to­rale che chiuda per­sino la depri­mente bot­tega della demo­cra­zia respingente?

IL MANIFESTO, 1 marzo 2015

IL PAPA CONTRO LE FALSE COOPERATIVE





Una volta erano i leaders della Sinistra a denunciare il potere corruttore del denaro; ma con la scomparsa  della sinistra dal panorama politico italiano è rimasto solo Papa Francesco a dire qualcosa di sinistra. L'ha fatto, per l'ennesima volta,  oggi incontrando  i rappresentanti  della Confederazione cooperative italiane. E nel suo discorso Francesco ha attaccato chi "assume una facciata onorata e persegue invece finalità disonorevoli e immorali, rivolte allo sfruttamento del lavoro oppure alle manipolazioni di mercato e persino a scandalosi traffici di corruzione"

PAPA FRANCESCO CONTRO LE "FALSE COOPERATIVE"
Francesco Antonio Grana



“Diceva Basilio di Cesarea, padre della Chiesa del IV secolo, ripreso poi da san Francesco d’Assisi, che ‘il denaro è lo sterco del diavolo’. Lo ripete ora anche il Papa: ‘il denaro è lo sterco del diavolo!’”. È il passaggio più forte del lungo discorso che Bergoglio ha rivolto ai 7mila membri della Confederazione cooperative italiane ricevuti nell’aula Paolo VI in Vaticano. Il Pontefice ha sottolineato che “quando il denaro diventa un idolo, comanda le scelte dell’uomo. E allora rovina l’uomo e lo condanna. Lo rende un servo. Il denaro a servizio della vita può essere gestito nel modo giusto dalla cooperativa, se però è una cooperativa autentica, vera, dove non comanda il capitale sugli uomini ma gli uomini sul capitale”.
L’invito di Francesco è “a contrastare e combattere le false cooperative, quelle che prostituiscono il proprio nome di cooperativa, cioè di una realtà assai buona, per ingannare la gente con scopi di lucro contrari a quelli della vera e autentica cooperazione. Fate bene, vi dico, perché, nel campo in cui operate, assumere una facciata onorata e perseguire invece finalità disonorevoli e immorali, spesso rivolte allo sfruttamento del lavoro, oppure alle manipolazioni di mercato, e persino a scandalosi traffici di corruzione, è una vergognosa e gravissima menzogna che non si può assolutamente accettare. L’economia cooperativa, se è autentica, se vuole svolgere una funzione sociale forte, se vuole essere protagonista del futuro di una nazione e di ciascuna comunità locale, deve perseguire finalità trasparenti e limpide. Deve promuovere l’economia dell’onestà!”.
Appello alle coop perché realizzino “nuove soluzioni di welfare, in particolare nel campo della sanità, in cui tanta gente povera non trova risposte”
Ma Bergoglio ha sottolineato che “per fare tutte queste cose ci vuole denaro”. “Il Papa vi dice: dovete investire, e dovete investire bene! In Italia certamente, ma non solo, è difficile ottenere denaro pubblico per colmare la scarsità delle risorse. La soluzione che vi propongo è questa: mettete insieme con determinazione i mezzi buoni per realizzare opere buone. Collaborate di più tra cooperative bancarie e imprese, organizzate le risorse per far vivere con dignità e serenità le famiglie; pagate giusti salari ai lavoratori, investendo soprattutto per le iniziative che siano veramente necessarie”. Per Francesco, infatti, “i beni comuni non devono essere solo la proprietà di pochi e non devono perseguire scopi speculativi”.
Il Papa, però, ha voluto dare anche alcuni incoraggiamenti concreti. Primo tra tutti quello di “continuare a essere il motore che solleva e sviluppa la parte più debole delle nostre comunità locali e della società civile. Per questo occorre mettere al primo posto la fondazione di nuove imprese cooperative, insieme allo sviluppo ulteriore di quelle esistenti, in modo da creare soprattutto nuove possibilità di lavoro che oggi non ci sono. Il pensiero corre innanzitutto ai giovani, perché sappiamo che la disoccupazione giovanile, drammaticamente elevata, distrugge in loro la speranza. Ma pensiamo anche alle tante donne che hanno bisogno e volontà di inserirsi nel mondo del lavoro”. Altro incoraggiamento è quello a divenire “protagonisti per realizzare nuove soluzioni di welfare, in particolare nel campo della sanità, un campo delicato dove tanta gente povera non trova più risposte adeguate ai propri bisogni”. Per Bergoglio, infatti, “non basta crescere nel reddito, occorre che l’impresa gestita dalla cooperativa cresca davvero in modo cooperativo, cioè coinvolgendo tutti”.

IL FATTO QUOTIDIANO, 28 febbraio 2015

27 febbraio 2015

SUONI DEL SILENZIO



Francesco Erbani

Il suono del silenzio che si ascolta nei libri
«Taci , a meno che il tuo parlare sia meglio del silenzio»: è la traduzione non proprio letterale di « Aut tace, aut loquere meliora silentio » , l'iscrizione che Salvator Rosa regge con una mano nell'autoritratto che il pittore realizzò a metà del Seicento e che ora è alla National Gallery di Londra. Il silenzio compete con la parola. Non è solo il niente, non è il contrario del rumore né il grado zero della comunicazione. È mancanza e rinuncia, ma anche il "non detto" ha la propria capacità comunicativa.

E la letteratura ha elaborato nei secoli una esauriente gamma di significati che al silenzio si possono attribuire e che riscattano un'immagine apparentemente priva di senso, bensì ricchissima di sfumature, di implicazioni culturali ed emotive. Bice Mortara Garavelli, linguista, studiosa di grammatica (l'ha insegnata per tanti anni all'Università di Torino) ha composto una galleria di silenzi traendoli da un repertorio che va dai tragici greci fino a Carlo Levi, da Dante, Ariosto e Manzoni a Elsa Morante, a Primo Levi, a Lalla Romano.

Mortara Garavelli si è occupata di retorica e si è spinta a ricostruire una storia della punteggiatura, seguita da un prontuario dedicato al punto, alla virgola, al punto e virgola e ai due punti: a dispetto di una presunta aridità della questione, l'ultima edizione disponibile, quella del 2012, avvisa che con essa si è giunti alla quindicesima ristampa.
L'antologia sul silenzio potrebbe allungarsi a volontà, ma intanto dà la misura della frequenza del cimento di autori di diverso carattere con una funzione del linguaggio e della comunicazione che non è solo assenza. O che all'assenza fornisce un valore. Partendo dalle ultime prove ecco che cosa dice Mario Brunello, grande violoncellista, in un libro che intitola proprio al Silenzio (il Mulino), degli esperimenti di un altro grande musicista, John Cage, il quale volle che una volta terminata l'esecuzione della sua opera 4,33, il pianista restasse in silenzio esattamente per quattro minuti e trentatré secondi: «L'intento di Cage era ridefinire il concetto tra suono e silenzio e ricondurre i due elementi a una parità di fronte all'arte musicale».
La parità, o quasi, fra il suono e il silenzio nel linguaggio musicale ha ampia cittadinanza, come ce l'ha in architettura quella fra il pieno e il vuoto. In musica o in architettura il silenzio e il vuoto hanno un'evidenza. In letteratura per definire il silenzio occorre ricorrere al suo contrario, la parola. L'Innominato dei Promessi sposi vede il silenzio accompagnarsi alle tenebre e in coppia, il silenzio e le tenebre, aprono il varco a una morte spaventosa. Il silenzio e la notte sono affiancati nella Gerusalemme liberata . Nel V dell'Inferno Dante esprime il buio in quanto «d'ogne luce muto», perseguendo la trasposizione da una sensazione della vista a una dell'udito già presente nel I dell'Inferno: la selva oscura è un luogo «dove ‘l sol tace».
Fu il teologo e vescovo Gregorio Nazianzeno (III secolo) a elevare il silenzio al rango della parola ingiungendo a chi parla di esser sicuro che quel che sta dicendo è certamente meglio del silenzio stesso. Quasi che il silenzio fosse la condizione naturale alla quale si può derogare solo se ci sono cose molto importanti per interromperlo. Per Ariosto, racconta Mortara Garavelli, il silenzio diventa persona.
Nel quattordicesimo canto dell' Orlando furioso l'arcangelo Michele è inviato sulla terra alla ricerca del silenzio, «quel nimico di parole». Il primo luogo verso il quale si dirige è un convento «dove sono i parlari in modo esclusi, / che ‘l Silenzio, ove cantano i salteri, /ove dormeno, ove hanno la pietanza, / e finalmente è scritto in ogni stanza ». Ma ormai nei conventi, per somma delusione dell'arcangelo, il silenzio «non v'abita più, fuor che in iscritto». Dalla ricerca si appura che dove c'è discordia non c'è silenzio, e che il silenzio, un tempo fiancheggiatore di filosofi e di santi, ora «fece alle sceleragini tragitto».

L'esperienza quotidiana, alla quale può attingere la letteratura, mostra che in silenzio si comunicano tante cose, spesso più efficacemente che parlando. Lo attesta Giovanni Boccaccio nella novella del Decameron in cui nar- ra l'amore straziato di Ellisabetta, alla quale i fratelli uccidono l'amante. È stato Cesare Segre, rileva Mortara Garavelli, a mettere in evidenza come i prolungati silenzi della donna, cadenzati dal pianto, esprimano dolore con «repressa eloquenza». Di contro, i silenzi dei fratelli sono opprimenti, non vogliono convincere, ma reprimere.

Un balzo di secoli e d'atmosfera porta Mortara Garavelli all' Esame di coscienza di un letterato di Renato Serra, nelle cui pagine il silenzio, insieme alla ristrettezza di orizzonti, pare dominare l'intera generazione che va in guerra (in quella stessa guerra dove Renato Serra trova la morte nel 1915). Da Serra al mondo contadino di Carlo Levi, il quale racconta le «terre zitte e solennemente silenziose» di Lucania. O, ancora, alla Napoli di Anna Maria Ortese, dove «il rumore fitto di chiacchierii, di richiami, di risate, o solo di suoni meccanici» non riesce a coprire il fatto che «latente e orribile vi si avvertiva il silenzio».

La galleria di Silenzi d'autore è ancora molto estesa. Ma è sull'indicibile per definizione che può chiudersi questa breve rassegna. Ad Auschwitz, scrive Primo Levi in Se questo è un uomo , «per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo».

La Repubblica – 7 febbraio 2015

26 febbraio 2015

MERAVIGLIOSO BOCCACCIO. Intervista ai fratelli Taviani




Arriva al cinema Meraviglioso Boccaccio di Paolo e Vittorio Taviani. Paola Zanuttini li ha incontrati e raccontati sul Venerdì di Repubblica

 Meraviglioso Boccaccio, meravigliosi Taviani
 di  Paola Zanuttini
 
Roma. Nel Maraviglioso Boccaccio, il Decameron dei fratelli Taviani, c’è un grande attore: un falcone che pianta in macchina uno sguardo da Anna Magnani. Stupito, deluso, tristissimo. Sentimenti comprensibili, perché il suo adorato padrone Federico degli Alberighi, già dissipatore di patrimoni in feste e giostre per amore dell’inespugnabile Monna Giovanna, ha deciso di arrostirlo. Anche Federico va capito. La Giovanna delle sue brame gli è capitata a casa all’improvviso e si è pure invitata a pranzo, ma in dispensa non c’è niente per farle onore: così le sacrifica l’ultimo bene, il compagno di cacce solitarie che, fra l’altro, gli aveva procurato chissà quanti arrosti prima di finire allo spiedo.
Nella lunghissima carriera di Paolo e Vittorio Taviani questo è il cast più numeroso, quindi pare brutto chiedere solo del falcone, ma loro condividono l’entusiamo: «È il più bravo di tutti: quando ha fatto quello sguardo ci siamo emozionati, sembrava dicesse ma che mi faaai?». Mentre scrivevano la sceneggiatura, i due erano preoccupati di come rendere il rapporto d’amicizia fra l’uomo e il falco, ma confidavano nella tecnologia «che è molto più avanti di quel che ne sappiamo noi» e chiedevano alla produttrice di «rivolgersi agli americani». Invece, l’eccentrica produttrice Donatella Palermo (capelli grigi un po’ a cespuglio, stivali di gomma, calzettoni e cagnolina – meticcia – al seguito) nicchiava: «Ad Anguillara, vicino a casa mia, ho un amico che alleva falconi». Loro diffidavano e insistevano con gli americani, poi hanno ceduto. Ora professano eterna gratitudine all’amico di Anguillara.
Paolo ha 83 anni e Vittorio 85. Paolo ha ancora tutti i capelli, «perché lui è bello» commenta acidino Vittorio, che da tempi immemorabili copre la residua chioma (l’avrebbe voluta folta e ribelle, da musicista romantico) con un cappello da nostromo «di chachemire!» diventato un marchio di fabbrica, ma ormai difficile da rinnovare in seguito alla chiusura della premiata ditta Viganò, che ha creato sconquassi fra le teste brulle della scena romana. Nel 2012 i Taviani hanno vinto l’Orso d’oro a Berlino con Cesare deve morire, docudrama di un Giulio Cesare allestito a Rebibbia che, girato quasi per caso in 20 giorni, è stato venduto in 96 Paesi. Quest’anno, Maraviglioso Boccaccio ha mancato Berlino perché i fratelli non erano pronti, cincischiavano in post produzione sul loro mirabile affresco. Così affollato di protagonisti che, per citarli evitando l’effetto elenco telefonico, conviene riportare solo i cognomi, rischiando però il contreffetto formazione di calcio: Arena, Cortellesi, Crescentini, Parenti, Puccini, Riondino, Rossi Stuart, Scamarcio, Smutniak, Trinca, Vagni. Più dieci giovani narratori che introducono le cinque novelle scelte fra le cento della raccolta.
Nel Decameron pasoliniano del 1971 di novelle ce n’erano dieci e una in comune con il film dei Taviani: quella della badessa e delle braghe del prete. Storia boccaccesca, appunto, in cui una badessa è svegliata dalle suore che hanno sorpreso una consorella in peccato naturale con un giovanotto. La superiora, interrotta anche lei nei suoi peccatucci notturni col prete, vestendosi in fretta si ficca in testa le mutande dell’amante invece del velo; poi fa una pubblica sfuriata alla monachella, che però nota, e le fa notare, quello strano copricapo. Smascherata, la badessa cambia predica: ai piaceri della carne non si può resistere, neppure in convento, provvedano quindi le pie donne spione a procacciarseli anche loro. Ecco, questo è l’unico punto di contatto con il film di Pasolini perché, per il resto, i due Decameron non potrebbero essere più lontani. E soprattutto per una ragione: il Boccaccio dei Taviani oltre che maraviglioso, armonioso, luminoso, toscanissimo e per nulla napoletano, è estremamente casto.
L’aggettivo non gli piace: «Non sono casto né lo è mai stato il nostro cinema» protesta Paolo. «Penso che nel film ci sia una sensualità sotterranea. Suggerita senza esibirla più di tanto, è più coinvolgente. In tempi di battaglie per la liberazione sessuale, Pasolini ha costruito il suo bellissimo Decameron sulla rappresentazione del sesso, sul racconto dei corpi. Alla presentazione alla Sala Palatino, eravamo i soliti sette o otto e alla fine della proiezione ci fu un silenzio pieno di rispetto. Perché, nonostante le scene che facevano o dovevano far ridere, si sentiva la sofferenza. E Pasolini, reduce del Festival di Berlino, ci disse: “Sentite, è vero che anche in questo film c’è il mio dolore, ma a Berlino ridevano tutti”. Poi, infatti, il pubblico ha riso ed è stato un successo, però in quell’anteprima il senso per noi era un altro, la rappresentazione del corpo violentemente aggressivo contro la repressione sessuale. Pasolini faceva questa battaglia, lui era una battaglia».
Sì, va bene, ma i Taviani insistono molto più del Boccaccio sulla castità che si autoimpone l’onesta brigata dei giovani novellatori (sette donne e tre uomini) transumati in una villa di campagna per sfuggire la peste che decima Firenze e intrattenersi, in dieci giorni che rifondano la convivenza, con banchetti, danze, canti e novelle, appunto. Piene di eros felice e infelice, beffe e arguzie. Per esempio: nel film, due innamorati che sfruttano l’eccezionale libertà del momento per imbandire un furente pomicio vengono subito interrotti. Spiega il fratel giovane: «Boccaccio introduce questa regola con la formula del non voler dar materia agl’invidiosi». Citazione per citazione, a un certo punto le fanciulle fanno il bagno nude nel fiume e i loro corpi candidi sono nascosti dall’acqua come una vermiglia rosa un sottil vetro, cioè per niente: e allora perché i registi le fanno immergere con la sottoveste? «Era un’immagine bella, con le ragazze nude avrebbe avuto un altro significato». E il maggiore: «Non è alterigia, ma a un certo punto ce ne freghiamo di quel che c’è sul Decameron: ci importa all’inizio, poi si cambia strada. Dicono che i nostri film sono pieni di riferimenti letterari, ma non è vero. Noi siamo fatti di cinema, cinema, cinema». (A volte, i fratelli chiedono agli intervistatori di farli parlare in prima persona plurale, ma non è giusto perché sono molto diversi e per  garantire la loro identità osservano una rigida disciplina. Si sa che girano un’inquadratura a testa e che chi è di turno è padrone assoluto del set. Ma chi  gira la prima inquadratura? «Dipende da chi l’ha girata nel film precedente: è tutto scritto!» (Vittorio).
Comunque al Decameron ci hanno sempre pensato. Da quando il loro babbo antifascista indicava Certaldo, il paese di Boccaccio, dal terrazzo della casa di famiglia a San Miniato. Ma c’è una motivazione più profonda dietro questo film girato solo adesso: la peste. Che a Firenze disgregava il tessuto sociale, i buoni costumi, gli affetti, e che ora si ripresenta con una faccia nuova ma terribile, quella di un disagio diffuso capace di togliere senso alla vita e al futuro. «La sofferenza dei giovani di oggi è davvero grande, abbiamo intorno figli, nipoti, amici dei figli che ci incolpano per il mondo che gli consegnamo. Con loro parliamo di questa sofferenza, ma anche della disperata volontà di non arrendersi, del bisogno di sogno, fantasia e speranza». L’ottimismo dei Taviani: Pasolini disse che era più tragico del suo pessimismo.
Questo ottimismo cosmico ha prodotto un’amicizia forte quanto inaspettata per due vecchi comunisti (critici però col Pci dai fatti d’Ungheria): con papa Francesco. «A un gesuita siciliano che gli chiedeva se conosceva la sua isola il Papa ha risposto che la conosceva “Grazie a Kaos, un bellissimo film dei fratelli Taviani”. È nato un certo rapporto ed è arrivato l’invito a parlare alla Festa della famiglia a piazza San Pietro, davanti a 200 mila persone. Che c’entriamo noi? abbiamo chiesto. Ci hanno risposto che in Padre padrone e La notte di San Lorenzo ci sono le famiglie. Così siamo andati e abbiamo citato Dostoevskij, sapendo che a Francesco piace molto, infilando nel discorso il dolore delle famiglie povere, senza cibo, e una frase presa da L’idiota che suona più o meno così: se non sai risolvere un problema, chiedi a un bambino e lui ti saprà dare la risposta. Non è detto che sia vero, ma non lo scriva. Comunque questo è un grande Papa, un maestro, e siamo contenti di essere campati tanto per averne uno così. Speriamo che faccia da maestro anche a Mattarella, tanto cattolico pure lui».
I tempi cambiano: molti anni fa, in certe zone della Spagna, la filastrocca di San Michele aveva un gallo era il canto di riconoscimento degli antifranchisti cinefili, oggi i fratelli che non volevano morire democristiani cercano di riconoscere in questo centrosinistra pieno di ex Dc il compimento del compromesso storico.
Che altro? L’oroscopo. Sì, i sobri Taviani sono in fissa con le stelle. Celiano, dicono di non crederci, ma in fase di sceneggiatura attribuiscono un segno zodiacale a ogni personaggio, per dargli un carattere. La buttano sul colto tirando fuori un epistolario Schiller-Goethe in cui il primo scriveva di essersi bloccato con il suo Wallenstein. Goethe gli suggerì di fare come lui, che distribuiva arieti, scorpioni e tori alle sue creature letterarie.
All’inizio delle riprese di un film, Paolo ha curiosato nei documenti della troupe per vedere le date di nascita, poi, a cena, ha finto di indovinare il segno zodiacale dei commensali sparando consigli: «Dopo cinque minuti erano tutti in ginocchio davanti all’oracolo».

Testo ripreso da   http://www.minimaetmoralia.it/

RENZI E LA SCUOLA




Renzi chiarisce che non ci sono soldi per la scuola. Altro che istruzione come priorità nazionale! Mentre non c'è problema a trovare fondi per gli F35 e per una nuova spedizione militare (Libia), per quanto riguarda la scuola tutto è lasciato alle scelte individuali dei cittadini. Come diceva Totò: arrangiatevi!

Nadia Urbinati
Per la scuola non basta uno slogan

Il Presidente del Consiglio lancia l’ambizioso progetto “la buona scuola”. Lo fa alla fine di una consultazione con i diretti interessati (alunni, docenti e famiglie) che egli stesso ha giudicato un evento unico, non solo nel nostro Paese. In una recente puntata di Piazzapulita si è avuto modo di capire che le cose non stanno proprio in questi termini: l’ascolto è stato pilotato e molti temi concreti che le scuole statali hanno urgente bisogno di discutere e risolvere non hanno avuto centralità, anche perché poco attraenti.

In effetti, parlare della mancanza cronica di carta igienica nelle scuole statali di ogni ordine e grado, sapere che i genitori si autotassano ormai abitualmente per coprire le spese ordinarie degli istituti frequentati dai loro figli che lo Stato non copre: tutta questa concretezza non consente di fare spot attraenti sulla buona scuola del futuro. Tuttavia questi sono i problemi. Che non svaniscono con gli slogan: “Sì, serve la carta igienica, ma fateci sognare”. Semmai, si potrebbe dire al presidente Renzi che i sogni li dovrebbero poter fare le scuole, non il governo. E vi è di che dubitare che questi provvedimenti ben propagandati vi riescano.

Prima di tutto perché lo Stato ha dichiarato di non potere coprire le spese delle sue scuole. È come se dicesse: non possiamo garantire i diritti civili perché non abbiamo soldi a sufficienza per sostenere i tribunali. Non ci sono fondi a sufficienza. Ma se lo Stato (e i suoi organi amministrativi) finanziasse solo le sue scuole, come la Costituzione gli comanda, i soldi non sarebbero un problema così emergenziale.

A fine gennaio l’Espresso ha dedicato al depauperamento della scuola statale un’inchiesta ben fatta. Eccone il senso: “Settecento milioni l’anno di denaro pubblico vanno ad aiutare gli istituti paritari, mentre lo Stato non ha soldi neppure per rendere sicure le aule. Un flusso che parte dal ministero dell’Istruzione, dalle Regioni e dai Comuni e finisce senza controlli ad enti privati di scarsa qualità o dove i professori ricevono stipendi da fame”. Governatori e sindaci, continua l’Espresso, alimentano un fiume carsico di denaro pubblico per le private, un federalismo scolastico che si somma alla sovvenzione ministeriale.

L’articolo 33 della Costituzione è raggirato, e non da oggi, con l’escamotage degli aiuti alle famiglie. La Costituzione sembra non avere forza, sembra parlare la lingua dei sogni, ma non di quelli che piacciono a chi la dovrebbe attuare.

E il progetto detto “buona scuola” non cambia questo trend privatistico, ma lo legittima, lo regolamenta e lo stabilizza. Lo ha confermato proprio il presidente del Consiglio in conferenza stampa: «In futuro chiederemo autonomia anche dal punto di vista economico, così che una parte della dichiarazione dei redditi possa andare a una singola scuola». Ovvero, chi non ha figli si sentirà libero di non dare alcun contributo alla scuola pubblica, trattata come la religione o i partiti politici: oggetto di libera scelta individuale.

Benché la scuola sia un bene pubblico, non privato che si può scegliere o non scegliere. La logica che guida questo progetto è opinabile: prima di tutto perché associa la tassazione per beni pubblici al consenso individuale — questo è esattamente quanto dagli anni Settanta sono andati predicando i teorici liberisti; questa è stata la filosofia che ha guidato i governi Reagan. E il reaganomics è la direzione di marcia del nostro governo sulla scuola statale.

Lo Stato si impegna a istituire e sostenere scuole di ogni ordine e grado: lo Stato, non i singoli secondo la loro personale preferenza e decisione. È evidente che il governo cerca di vendere il prodotto appellandosi all’autonomia scolastica. Ma legare il destino della scuola statale alle preferenze individuali non è una condizione di autonomia ma di assoluta dipendenza dal privato.

È stupefacente come non si crei un dibattito serio e ragionato su temi così rilevanti, come le rivendicazioni della minoranza nel Pd non sappiano tradursi in contro-proposte che incalzino la maggioranza con argomenti efficaci. La dialettica sarebbe di aiuto al governo che potrebbe voler accettare la sfida della discussione e migliorare la sua proposta.

In questo momento, i cittadini restano fuori del palazzo, inascoltati e fortemente critici. Organizzano convegni, lanciano petizioni, firmano documenti, ma la loro voce non ha risonanza. Non hanno rappresentanti nei partiti e non hanno nel Parlamento un interlocutore. Politica costituita e opinione dei cittadini marciano su binari paralleli.


La Repubblica – 25 febbraio 2015

MARINEO FRANA





Il torrente S. Antonio


All’ingresso di Marineo (PA) si è aperta una voragine sull'asfalto che ha inghiottito due auto posteggiate. In questa zona scorre interrato il torrente Sant’Antonio, che attraversa il centro abitato. Il corso d'acqua si è notevolmente ingrossato in questi ultimi giorni di incessante pioggia. Nelle immediate vicinanze ci sono diverse case, mentre la vicina strada statale con il ponte che collega Palermo a Corleone è l'unico punto d’accesso per mezzi pesanti e pullman. 
Avevamo dato l'allarme,  inascoltati, tre mesi fa. Invitiamo gli smemorati a rileggere  quanto avevamo scritto allora: http://cesim-marineo.blogspot.it/2014/11/bombe-dacqua-e-saccheggio-del.html






25 febbraio 2015

LA POLITICA AI TEMPI DI RENZI





Gustavo Zagrebelsky

La politica al tempo dell’esecutivo


VIVIAMO un tempo esecutivo. “L’esecutivo” vorrebbe tutto. “Il legislativo” e “il giudiziario” dovrebbero essere nulla. Se vogliono contare qualcosa, sono d’impiccio. Il loro dovere è di adeguarsi, di allinearsi, di mettersi in riga. L’esecutivo deve “tirare diritto” alla meta, cioè deve “fare”, deve “lavorare” (e più non domandare). Il legislativo e il giudiziario, se non “si adeguano”, costringono a rallentamenti, deviazioni, ripensamenti, fermate: cose che sarebbero normali e necessarie, nel tempo degli equilibri costituzionali; che sono invece anomalie dannose, nel tempo esecutivo.

Il tempo esecutivo è anche, e innanzitutto, un tempo in cui la politica è messa in disparte. Chi parla di politica è sospettato d’ideologia. La politica è innanzitutto discussione e scelta dei fini in comune. Il tempo esecutivo annulla il discorso sui fini e si concentra sui soli mezzi. Concentrarsi sui soli mezzi significa assumere come dato indiscutibile ciò che c’è, l’esistente, il presente. Il fine unico del momento esecutivo è la necessità che obbliga.

Le parole seduttive e di per sé vuote come “innovazione”, “riforme”, “modernizzazione”, “crescita” sono parole non di libertà, ma di necessità, necessità che non lascia spazio alla scelta del perché, ma solo del percome. Gli esecutivi del tempo attuale dove dominano gli interessi finanziari, nelle posizioni-chiave sono occupati da uomini d’affari e di finanza perché essi, con tutti i mezzi, anche con i più amari per i cittadini e per le loro condizioni di vita, devono essere garanti di assetti ed equilibri che s’impongono perentoriamente come se fossero fatalità. Sono anch’essi, a modo loro, vittime della necessità.

Il tempo esecutivo e nonpolitico è anche tempo della tecnica che soppianta la democrazia.  Gli esecutivi “tecnici” che, in forma più o meno esplicita, hanno preso piede negli ultimi decenni non sono anomalie, ma conseguenze funzionali a questo stato di cose che è il mantenimento dello status quo o, come anche è stato detto, la dittatura del presente che si autoriproduce e aspira a crescere sempre di più su se stessa.
La tecnica è in sé, per sua natura, conservatrice. Quando si richiede l’intervento di un tecnico su un manufatto, ciò è per ripararlo in caso di guasto o per potenziarne le possibilità, non certo per cambiarlo. La stessa cosa è per la tecnica che prende il posto della politica.
Se si pongono questioni di giustizia, non è in vista di riforme sociali, come quelle programmaticamente indicate dalla Costituzione, ma è solo per dare sfogo alla pressione delle ingiustizie quando diventano pericolose per la stabilità degli equilibri che devono essere preservati. Si può facilmente constatare la connessione che naturalmente si crea tra i governi tecnici e l’occultamento della politica. C’è una coerenza, ma una coerenza inquietante.

Lo schiacciamento sulla perpetuazione del presente coincide con l’assenza di discorsi sui fini, condannati a priori come irresponsabili o, nella migliore delle ipotesi, come vaneggiamenti impossibili. Una delle espressioni più in uso e più violentatrici della politica è “non ci sono alternative”. Non ci si accorge che chi soggiace alla forza intimidatrice di quest’espressione si fa sostenitore di nichilismo politico, la forma più perfetta di anti-politica conservatrice. Del nichilismo politico, il corollario è la tecnocrazia: i tecnocrati rifuggono da ogni discorso sui fini che bollano come “ideologia”, come se il loro realismo cinico non sia esso stesso un’ (altra) ideologia.
Il nichilismo è il regno del nulla. Poiché la vita pubblica si alimenta con la “comunicazione”, si comunica il nulla. O, meglio: si comunicano le misure tecniche, e con molta enfasi. Ma le idee politiche svaniscono entro un linguaggio allusivo che non ha nulla di politico. Così, in assenza di discorsi effettivamente politici, i contrasti vengono ridotti alla contrapposizione tra il voler fare e il volere impedire di fare. Il tempo tecnico è il tempo delle banalità politiche e, parallelamente, dei “politici” banali.

La politica, per gli Antichi, era l’arte del buon governo: il buon politico era colui che conosceva le regole pratiche della sua azione. La politica, per i Moderni, è un’altra cosa: è innanzitutto confronto e competizione tra visioni diverse della società, cui segue — segue per conseguenza — l’azione tecnico-esecutiva.

Solo questa concezione della politica è compatibile con la visione costituzionale della democrazia, cioè con il pluralismo delle idee e il libero dibattito tra chi se ne fa portatore, l’organizzazione delle opinioni in partiti e movimenti politici, il rispetto dei diritti di tutti e specialmente delle minoranze, le libere elezioni, il confronto tra maggioranza e opposizione, la possibilità riconosciuta all’opposizione di diventare maggioranza secondo regole elettorali imparziali. Questi elementi minimi, costitutivi della democrazia, si svuotano di significato, quando il governo delle società è conservazione attraverso misure tecniche.
Le forme della democrazia possono anche non essere eliminate ma, allora, la sostanza si restringe e rinsecchisce, come un guscio svuotato. Le idee generali e i progetti si inaridiscono; i partiti si cristallizzano attorno alle loro oligarchie; il conformismo politico alimenta il cosiddetto pensiero unico e il pensiero unico alimenta a sua volta il conformismo politico. La competizione tra i partiti solo illusoriamente ha una posta politica. In realtà si trasforma in lotta per ottenere posti.

Quando si denuncia il deficit di democrazia si vuole riassumere il rattrappimento della vita pubblica sull’esistente, presentato come unica possibilità, cioè — per usare uno slogan — come “dittatura del presente”. Per usare un terribile linguaggio filosofico, l’ ente viene presentato e imposto come se fosse l’ essere, e l’essere è ciò che necessariamente è. Tutto il resto, tutto ciò che non vi rientra, nel caso migliore è bollato come futilità e, in quello peggiore, impedimento o sabotaggio.
Il tempo esecutivo è incompatibile con il dissenso operante. Per questo, nel governo esecutivo i diversi soggetti della vita pubblica devono progressivamente livellarsi e sincronizzarsi. In una parola: devono egualizzarsi e mettersi in linea, la “linea nazionale”. Sentiamo parlare di “partito della Nazione”, c’è la tentazione di voler essere il premier (non di un governo, d’una maggioranza, ma) della Nazione al di là di destra e sinistra, abbiamo la Tv della Nazione, avremo presto, forse, l’Editore nazionale, eccetera.

Ma, il luogo istituzionale in cui consenso e dissenso politico e sociale dovrebbero esprimersi con compiutezza è un parlamento risultante da libere elezioni. Questo dovrebbe essere il punto di riferimento della democrazia, la sede che al massimo livello rappresenta — come dicevano i costituzionalisti d’un tempo — la coscienza civile della Nazione tutta intera, non però come un intero, ma come componenti di un “intero confronto” tra loro. Un tale parlamento sarebbe precisamente il primo ostacolo che incontra il governo esecutivo. Questa spiega perché lo si umili spesso con procedure del tipo “prendere o lasciare” e perché coloro — deputati e senatori — che collaborano al progetto del governo esecutivo si umilino essi stessi accettando senza lamentarsi, o con deboli lamenti, la minaccia dello scioglimento che viene ventilata, come se fosse prerogativa del presidente del Consiglio e non del presidente della Repubblica. Sotto quest’aspetto dovrebbero principalmente valutarsi le riforme istituzionali: aumentano o diminuiscono la capacità rappresentativa del Parlamento?

Le espressioni verbali che usiamo sono spesso rivelatrici. Della legge elettorale si dice ch’essa deve consentire ai cittadini di conoscere il vincitore “la sera stessa”. Ma la politica democratica non conosce vincitori e vinti. Dalle elezioni risulterà il partito che è più forte degli altri numericamente, ma non certo il partito che, per i successivi cinque anni della legislatura, “ha sempre ragione”. Non ci si rende conto di che cosa trascina con sé questa espressione, tanto disinvoltamente usata nel dibattito politico: implica disprezzo per i partiti minori che formano le opposizioni e l’insofferenza verso i poteri di controllo, la magistratura in primo luogo.

Nella democrazia costituzionale — l’opposto della tirannia della maggioranza — non c’è posto per strappi e “aventini”. Ma il partito che ha ottenuto il maggior successo nelle elezioni, proprio per questa ragione, ha un onere particolare: governare senza provocare fratture e strappi, onde chi risulta soccombente non abbia motivo di ritenersi vinto, annientato, e non debba considerare la sua presenza nelle istituzioni ormai superflua.

Quando si guardano i cambiamenti istituzionali in corso d’approvazione nel loro complesso — non questa o quest’altra disposizione presa a sé stante — è difficile non vedere, a meno di non voler vedere, il quadro: un sistema elettorale che, tramite il premio di maggioranza e, ancor di più, con il ballottaggio, comprime la rappresentanza e schiaccia le minoranze, nella logica vincitore-vinti; una sola camera con poteri politici pieni e con procedimenti dominati dall’esecutivo; un’attività legislativa in cui la deliberazione rischia in ogni momento di ridursi a interinazione veloce delle proposte governative; controllo maggioritario, rafforzato dal premio di maggioranza, delle nomine di garanzia (presidente della Repubblica, giudici costituzionali, membri del Csm, presidente della Camera, e successive decisioni a questi attribuite); minaccia di scioglimento della Camera in caso di dissenso dal Governo: tutte questioni in ballo nel processi di riforma in corso, che restano in piedi anche nelle nuove versioni dei testi in discussione, pur emendati rispetto agli originari.

Soprattutto, influisce sul giudizio della situazione il silenzio totale su due punti cruciali: la democrazia nei partiti e la vitalità dell’informazione. Qui sta la materia prima della democrazia e se la materia è corrotta, quale che sia il manufatto (cioè l’impalcatura istituzionale) il risultato non potrà non portare i segni della corruzione. Il guscio sarà svuotato della sostanza. Anzi, servirà a mascherare lo svuotamento.

Non si tratta di difendere un’astratta intoccabilità della Costituzione, la quale prevede la possibilità e le procedure per la propria stessa riforma. La Costituzione non è un totem. Nemmeno è “la costituzione più bella del mondo”. Semplicemente essa delinea una forma politica che si basa sulla democrazia di partecipazione, dove le decisioni collettive procedono attraverso contributi dal basso, cioè dai bisogni sociali, dalle convinzioni della giustizia e della libertà che si formano nella società, si organizzano in forme associative e si esprimono negli organi rappresentativi e si sintetizzano e si traducono in pratica attraverso l’opera del governo.


L’articolo,  pubblicato oggi su LA REPUBBLICA, è una sintesi del testo che Gustavo Zagrebelsky presenterà per la discussione a Firenze venerdì e sabato all’associazione Libertà e Giustizia.

F. CARDINI, Storia di Firenze




Riprendo dal sito http://www.lankelot.eu/ la recensione di Luca Menichetti della Breve storia di Firenze di Franco Cardini







Nella quarta di copertina di alcune “Brevi storie” della Pacini editore è presente un testo che evidenzia “lo scopo di cogliere in pochi, forti tratti lo spirito della città, di rivisitare il passato alla luce del presente per comprenderne i caratteri originali”. Non sappiamo ancora se questi intenti siano stati raggiunti per la “Storia di Massa” oppure per quella di Pienza od ancora per quella Santa Croce sull’Arno. Possiamo però affermare che Franco Cardini, con la sua “Breve storia di Firenze”, qualche obiettivo l’ha raggiunto: pur nell’economia di appena centocinquanta pagine il celebre storico fiorentino, risparmiandoci l’enfasi accademica e con linguaggio immediato, ha saputo proporci un viaggio nei secoli tutt’altro che banale: dalle origini romane della città ai tempi oscuri dell’Alto medioevo, dal periodo comunale ai fasti del Principato mediceo e asburgo-lorenese, per poi giungere alle inquietudini di fine novecento. E’ la storia di una città perennemente funestata da scontri tra fazioni e che viene raccontata in rapporto alla regione circostante, agli altri borghi rivali, al mondo conosciuto (si veda il ricordo di Pippo Spano) ed in parte in rapporto al mondo ancora da conoscere; ma che soprattutto guarda con spirito critico ai fiorentini in quanto tali e quindi non si limita a rilevare mutamenti territoriali e le vicende relative alla sola classe dirigente. Oltretutto Cardini, fedele alla sua fama di studioso “eretico”, ha approfittato dell’occasione per rimarcare le distanze da quelli che ritiene dei veri e propri luoghi comuni sia sulla città, sia su noti personaggi del passato, probabilmente idealizzati oltre misura. Un esempio su tutti: “Per lungo tempo si mantenuta la leggenda – cara al Risorgimento e alla sua pseudostoria romantica – secondo la quale la parte ghibellina avrebbe raccolto i nobili fedeli all’impero e reazionariamente ostili alle libertà comunali nel nome di un nostalgico disegno di restaurazione feudale, mentre alla fazione guelfa si sarebbero accostati – con l’intelligente appoggio della curia papale – tutti i buoni, onesti e concreti imprenditori borghesi, stanchi di privilegi nobiliari. Questa leggenda sopravvive purtroppo in molte pubblicazioni a carattere scolastico o divulgativo. Nulla di più falso. Guelfi e Ghibellini erano nati come partiti dell’aristocrazia militare […] Il “Popolo”, vale a dire l’insieme dei produttori e degli imprenditori riuniti nelle Arti […] non partecipava direttamente alla contesa fra guelfi e ghibellini” (pag. 46). Altre verità storiche anche riguardo il periodo repubblicano: “La storiografia romantica […] ha veramente ritenuto che il duello tra la città del Giglio e il “Conte di Virtù” fosse uno scontro della libertà contro la tirannia. Nella realtà delle cose abbiamo visto come la libertas fiorentina fosse anzitutto l’indipendenza della città da enti istituzionalmente superiori (come l’impero), ma non includesse alcun elemento di libertà o tanto meno d’uguaglianza personale: essa era anzitutto la libertà, cioè il potere, degli oligarchi cittadini” (pag. 79). Anzi, “nell’Italia padana la tirannia viscontea si era dimostrata nel complesso meno dura, meno fiscale, meno rapace, più rispettosa della autonomie locali e delle rispettive tradizioni di quanto non fosse stata in Toscana la libertà fiorentina” (pag. 80). Anche Lorenzo il Magnifico è raccontato con spirito critico: “fu davvero grande come statista e soprattutto come diplomatico”, ma “non fu un buon amministratore” e “sotto molti aspetti inferiore al suo grande avo [ndr: Cosimo]” (pag. 95- 96).
Una storia della città che – ripetiamolo – non è semplicemente un susseguirsi di date, tra l’altro poco presenti nella sintesi di Cardini, ma anche racconto di come nei secoli si sia forgiato un certo carattere fiorentino e di come possa reagire di fronte agli scempi della modernità. Leggiamo difatti dei quartieri popolari della Firenze contemporanea “dove al fatiscente e al malsano di ieri vanno aggiungendosi o sostituendosi rapidamente il falso antico e il postmoderno imposti dal mercimonio nel cui nome qualcuno vende la città all’industria turistica e alla speculazione edilizia” (pag. 16). Parole tutt’altro che casuali, soprattutto alla luce di quanto stanno combinando le ultime amministrazioni, ormai decise a fare della città una pacchiana mescolanza di Disneyland medievale, bucherellata di tunnel, e di piccola – grande capitale con cementificazioni degne di una grande metropoli: l’idea perversa di trattare l’arte e la bellezza come “petrolio” e così speculare malamente su una di Firenze da cartolina ad uso e consumo di un turismo di bassa lega, con i residenti invece sempre più esclusi dal centro storico e dai quartieri oltrarno.
Cardini, intellettuale che si definisce volentieri cattolico tradizionalista e uomo d’ordine (pare non gradisca invece venire considerato “di destra” od almeno vicino all’attuale destra liberista), ha ricordato proprio nelle ultime pagine della sua storia la lezione di La Pira: “ricordò a tutti noi che la grandezza di Firenze non sta solo nelle sue opere d’arte e nei suoi monumenti, ma soprattutto nell’aver insegnato al mondo, con la sua alta lezione umanistica che la dignità umana non consiste nel padroneggiare le cose, bensì nell’orientarle verso la libertà, la giustizia e la bellezza” (pag. 151). Un’aspirazione che fa a pugni con quanto letto riguardo la Firenze del XXI secolo, assaltata dalle speculazioni e disonorata da una classe politica spregiudicata. Guasti che temiamo abbiano toccato nel profondo molti fiorentini, al punto che qualche lettore potrà considerare ancora attuale e profetico quanto scriveva Montanelli nel lontano 1963: “In nessuna regione come questa [ndr: la Toscana] il benessere assume forme altrettanto sguaiate, pacchiane e aggressive. Sotto i suoi fragori e luccichii si riconosce male il volto delle più eleganti città del mondo, quali una volta erano quella toscane”.
Luca Menichetti

EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE:

Franco Cardini, (Firenze, 1940) è uno storico e scrittore italiano, specializzato nello studio del Medioevo. Attualmente è professore ordinario presso l'Istituto Italiano di Scienze Umane (Sum). E’ anche Directeur d'Études nell'EHESS di Parigi e Fellow della Harvard University. Dirige il Centro di Studi sulle Arti e le Culture dell'Oriente dell'Università Internazionale dell'Arte di Firenze e collabora con Luciano Canfora alla direzione della Scuola Superiore di Studi Storici dell'Università di San Marino. Tra le sue numerosissime opere ricordiamo: “Le crociate tra il mito e la storia” (1971), “Europa anno Mille. Le radici dell'Occidente” (2000), “Atlante storico del cristianesimo” (2003), “Il signore della paura” (2007), “La tradizione templare. Miti Segreti Misteri” (2007), “Cristiani perseguitati e persecutori” (2012), “Gerusalemme” (2012).

Franco Cardini, “Breve storia di Firenze”, Pacini Editore (collana Piccola biblioteca Pacini), Pisa 2012, pag. 152.