“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
La
domenica precedente il periodo dell'astinenza quaresimale, si svolge
a Roma una festa che ha lo scopo di preparare l 'anima a «ricevere
degnamente il corpo del Signore a Pasqua». Cavalieri e fanti
dell’esercito si recano al Testaccio (monte sul quale è tradizione
che sia stata fondata la città) e — in presenza del papa, perché
non avvengano disordini — uccidono diversi animali: l’orso
simbolo del diavolo tentatore della carne, i giovenchi simbolo della
superbia che si nasconde nei piaceri, e il gallo simbolo della
lussuria. C’è una prima testimonianza scritta di questa festa che,
almeno nel nome, aveva un rapporto col Carnevale («carnem levare»,
lasciare la carne): il «Ludus Carnelevarii» di Benedetto Canonico
del 1143. Si tratta in sostanza di un’austera cerimonia religiosa,
in cui la parola «ludus» viene medievalmente adoperata sia nel
senso di giochi competitivi, sia in quello di rappresentazioni sacre.
Con l’andare del tempo, naturalmente, e nel quadro delle vicende
del Comune di Roma, che rivendica la laicità della festa contro il
potere papale, il rituale carnevalesco si forma e gradualmente si
trasforma.
Studiare
questa storia su una folta serie di documenti, scritti e visivi,
lungo un arco di tempo che va dal dodicesimo secolo alla fíne del
sedicesimo, è stato l’impegno di Beatrice Premoli che, in un
volume da poco uscito, non solo ha pubblicato, tradotto e sistemato
in accurato ordine cronologico le testimonianze raccolte, ma le ha
anche corredate di preziose annotazioni, per spiegare il non facile
rapporto che passa tra l'eredità classica, le vicende politiche e i
nuovi simboli e significati dell’immaginario collettivo così come
essi si esprimono in un tipo di manifestazioni di cui Roma sembra
essere la sede più antica (Beatrice Premoli, Ludus
Carnelevarii, Guidotti).
Il
sorgere del Comune, la figura di Arnaldo da Brescia che si oppone al
potere temporale della Chiesa, l’insorgere della nobiltà, l’arrivo
di Ludovico il Bavaro che elegge un nuovo papa a lui favorevole, la
sottomissione del Comune al pontefice, il breve sogno di grandezza di
Cola di Rienzo, il cardinale Albornoz, l’esilio avignonese e il
consolidamento del dominio ecclesiastico al tempo di Bonifacio IX,
sono tra gli accadimenti che caratterizzano il primo periodo preso in
esame. Vi appartengono documenti che riguardano l’obbligo, da parte
della città di Toscanella, di mandare otto giocatori per i ludi
romani, il denaro che i giudei solevano dare in queste occasioni e la
descrizione del monte Testacium:
monte di cocci, formato dai vasi che contenevano i tributi dei popoli
sottomessi a Roma, dove «delectatio nostri corporis habeat
finem».
Tra
i giuochi, hanno la precedenza quelli con l’anello (una giostra
durante la quale i cavalieri dovevano infilare la lancia in un anello
sospeso); seguono i palii dei cavalli e delle giumente; infine si
fanno precipitare dalla collina le carrette in cui sono stati posti
due porci e due giovenchi.
Dopo
la metà del Quattrocento (altro documento), Paolo II decise un
ampliamento del Carnevale. Volle corse per giovani, vecchi, bambini,
ebrei, asini e bufali; inoltre fece allestire un trionfo. Anche le
corse dei «barberi», già a Testaccio, si svolsero nella via Lata,
che da allora si chiamò Corso. Nel 1499 si ha per la prima volta la
proibizione delle maschere (che esprimevano, da parte del popolo «la
beffarda negazione dell'ordine costituito»). Ai primi del
Cinquecento: giostra del Saracino in piazza San Pietro e albero della
Cuccagna; festeggiamenti per le nozze di Lucrezia Borgia con Alfonso
di Ferrara e, in Agone (piazza Navona), sfilata di carri che
rappresentano i trionfi di Cesare, Ercole, Scipione, Carlo Emilio:
«diversi temi encomiastici e propagandistici», osserva la Premoli a
proposito dei trionfi, «trovarono una prima realizzazione nella
cartapesta dei carri».
Dopo
il Sacco di Roma, compiuto dai lanzichenecchi di Carlo V nel 1527,
Roma piomba in condizioni drammatiche: tumulti, miseria, mendicanti,
vagabondi, gabelle, paura. Le feste carnevalesche riprenderanno nove
anni dopo, per riacquistare, nel 1545, un fasto particolarmente
grandioso.
Nel
suo libro la Premoli ha affrontato un tale intrico di avvenimenti
storici (e quindi riassuntivi, seppur in maniera molto complessa, di
un andirvieni di weltanschauung)
con un ben meditato ordine e ritmo di lettura: profilo storico,
documenti, traduzioni, annotazioni. Certamente difficile da seguire,
ma tale da far emergere alcuni punti precisi, quasi insospettati
momenti di illuminazione che lampeggiano in un secondo tempo.
Per
esempio: lo stesso stile latino del primo documento («in
dominica dimissionis carnium...»)
o di quell’antico italiano (prima dei giochi «omne caporione
faceva annare lo suo toro incoronato per lo rione»), o un altro modo
di chiamare — «festa carnisprivii»
— il Carnevale; e il carro di Eros inteso, platonicamente, come
divinità che adombra l’armonia cosmica; e una descrizione della
danza della Moresca (che, fin dal IX secolo, allegorizza un
combattimento tra mori e cristiani); infine le maschere («habentes
nasos longos et grossos in forma priaporum»),
i buffoni (il celebre Andrea vestito da donna che recita il Lamento
della cortigiana ferrarese e
viene preso a bastonate dalle cortigiane di Roma), gli zingari, le
commedie recitate di notte nelle stanze del papa, le ghiottonerie, le
fontane che gettano vino, e una vasca di maccheroni dove le maschere
«buttomo dentro molti contadini», il grigiore delle feste nei
periodi di magra, il rimpianto del Carnevale: «correre palii,
commedie, veglie, et puttane in volta a piè e a cavallo... del
mangiare non te ne parlo...».
Non
poi tanto lontano, questo lamento nostalgico, da quello che,
presumibilmente, provavano i nostri nonni («Carnevale, non te n
andare...») bambini a loro volta, ma non certo simili a quelli che
ancora si vedono sui marciapiedi di via Nazionale a lanciare
timidamente coriandoli, incipriati e intristiti dalle mamme che li
vestono da damine del Settecento.
Alle
molte immagini, pitture, miniature, incisioni, che illustrano il
libro e che sono esposte in due mostre — «Ludus Camelevarii» e
«La Moresca» — aperte al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni
popolari (piazza Marconi 8) fino al 31 marzo, si aggiungono le
incisioni e i disegni della stessa autrice. Con questi, Beatrice
Premoli, che ha buona mano e conoscenza tecnica, ha aiutato i
visitatori a superare certe difficoltà di interpretazione degli
originali.
“la
Repubblica”, ritaglio senza indicazione di data, ma 1981
Ieri su FB ho scoperto il testo seguente. Non sarà una grande poesia ma le cose che afferma penso che oggi siano condivise da tanti:
"Lamento per la democrazia"
Piango per te, mia amata, mia irrinunciabile democrazia.
Piango per un parlamento fantoccio, non di eletti ma di
designati, cooptati , inutili vassalli
piango per partiti snervati, labili come acque di scarico,
privi di verità e di ideali
piango per la giustizia calpestata, la povertà offesa,
i diritti e i doveri quotidianamente derisi.
Piango perché mancano all’ orizzonte
futuri che siano umani e condivisi.
Non più una testa un voto. Decidono per te come per uno scemo
i capi, gli affiliati a cosche e a cricche
vale il tuo voto come il due di picche
la croce tracciata sulla scheda oggi è un gesto blasfemo.
Piango per te, mia amata, mia irrinunciabile democrazia.
Piango per la tua sorte, di essere inquinata come il mare
da chiazze di petrolio
in un terzo dell’Italia da sotto-uomini malavitosi , esseri immondi
che ti disprezzano
che tesi ai loro guadagni rapidi e infecondi
spandono rifiuti e liquami e profanano
i cadaveri facendone carbonella.
Ma il mio pianto non è rassegnato, non è resa. Troppo bella
sei e troppo ti amo per vederti profanare e morire.
Io devo insorgere per farti risorgere.
Per te, democrazia.
Giuseppe Yusuf Conte
PS: Oggi lo stesso autore ha precisato: " Il testo che ho postato ieri notte "Lamento per la democrazia", testo scritto non
ricordo quando, che per ragioni di autocritica estetica non ho mai
inserito nei miei libri, perché mi sono accorto che sul mio sito www.giuseppeconte.eu
alla voce antologia era il testo più letto : più delle poesie d'amore e
sulla natura che sono nell'Oceano e il Ragazzo. La cosa ha stupito me e
qualche mio amico (non di fb) con un po' di disillusione. Siamo in
Italia...commentava il mio amico. Ma anche all'estero, un giorno ero a
Los Angeles e una ragazza mi si presenta con un foglio su cui aveva
"scaricato" proprio quel testo lì, con centinaia di migliori che ne ho
scritto. Tutto lì. Però i contenuti politici del testo , quelli non
cambio una virgola. Non sono simpatizzante di niente. Sedizioso,
sovversivo, quello che volete. Ma animato da un utopismo e da una
speranza che tutta la mia opera, anche quella non in versi, testimonia.
Ringrazio tutti quelli che hanno commentato, nel bene e nel male. Solo
due cose: non c'è coro a mio favore, per favore, sono lo scrittore più
sottovalutato d'Italia, e poi, insomma non impanchiamoci su giudizi
perentori e pseudo oggettivi, diciamo semplicemente:non mi piace, mi sta
sui coglioni, è molto più elegante." (Giuseppe Yusuf Conte)
Pietropaolo Morrone ha ricostruito, con un pò di fantasia ma con una sostanziale fedeltà alle fonti citate, il dibattito ancora in corso suscitato dagli ultimi scritti di Pierpaolo Pasolini:
Pasolini parla quarant’anni dopo
By Pietropaolo Morrone on 2 dicembre 2015 — 11 mins read
Ho “composto” questo dialogo tra Pier
Paolo Pasolini, Italo Calvino, Edoardo Sanguineti, Goffredo Parise e
Serge Latouche a partire da articoli, poesie, interviste, carteggi che
risalgono ai primi anni settanta del secolo scorso. Si può osservare
come Pasolini sia stato straordinariamente moderno nell’intuire alcuni
effetti negativi della globalizzazione e del consumismo. Il suo invito a
“tornare indietro” fu osteggiato e ridicolizzato dagli intellettuali
del tempo, ma è accolto, a quarant’anni di distanza, dal teorico della
“decrescita”, Serge Latouche. Sono state fatte solo delle piccole
modifiche ai testi originali . Le fonti sono riportate in calce.
PASOLINI: Io sono un uomo antico, che ha letto i
classici, che ha raccolto l’uva nella vigna, che ha contemplato il
sorgere e il calare del sole sui campi, tra i vecchi, fedeli nitriti,
tra i santi belati; che è poi vissuto in piccole città dalla stupenda
forma inespressa dalle età artigianali, in cui anche un casolare o un
muricciolo sono opere d’arte, e bastano un fiumicello o una collina per
dividere due stili e creare due mondi. (Non so quindi cosa farmene di un
mondo unificato dal neocapitalismo, ossia da un internazionalismo
creato, con la violenza, dalla necessità della produzione e del consumo)1.
Perché la nostra ansia, se è giusto che non sia più ansia di miseria,
sia ansia di beni necessari. Torniamo indietro, col pugno chiuso, e
ricominciamo daccapo. Non vi troverete più di fronte al fatto compiuto
di un potere borghese ormai destinato a essere eterno. Il vostro
problema non sarà più il problema di salvare il salvabile. Nessun
compromesso. Torniamo indietro. Viva la povertà. Viva la lotta comunista
per i beni necessari2.
Cinque anni di «sviluppo» hanno reso gli italiani un popolo di
nevrotici idioti, cinque anni di miseria possono ricondurli alla loro
sia pur misera umanità3.
CALVINO: Non condivido il tuo rimpianto per la tua
Italietta contadina […] Questa critica del presente che si volta
indietro non porta a niente […]. Quei valori dell’Italietta contadina e
paleocapitalistica comportavano aspetti detestabili per noi che la
vivevamo in condizioni in qualche modo privilegiate; figuriamoci
cos’erano per milioni di persone che erano contadini davvero e ne
portavano tutto il peso. È strano dire queste cose in polemica con te,
che le sai benissimo, ma hai […] finito per idealizzare un’immagine
della nostra società che, se possiamo rallegrarci di qualche cosa, è di
aver contribuito poco o tanto a farla scomparire4.
PASOLINI: Caro Calvino […] tutti dicono che
rimpiango qualcosa, facendo di questo rimpianto un valore negativo e
quindi un facile bersaglio […] Io rimpiangere l’«Italietta»? […] Gli
uomini di questo universo non vivevano un’età dell’oro, come non erano
coinvolti, se non formalmente con l’Italieta. Essi vivevano quella che
Chilanti ha chiamato l’età del pane. Erano cioè consumatori di beni
estremamente necessari. Ed era questo, forse, che rendeva estremamente
necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni
superflui rendono superflua la vita […] l’acculturazione del Centro
consumistico, ha distrutto le varie culture del Terzo Mondo (parlo
ancora su scala mondiale, e mi riferisco dunque appunto anche alle
culture del Terzo Mondo, cui le culture contadine italiane sono
profondamente analoghe): il modello culturale offerto agli italiani (e a
tutti gli uomini del globo, del resto) è unico. La conformazione a tale
modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell’esistenziale: e quindi
nel corpo e nel comportamento. E’ qui che si vivono i valori, non ancora
espressi, della nuova cultura della civiltà dei consumi, cioè del nuovo
e del più repressivo totalitarismo che si sia mai visto. Dal punto di
vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a
lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività. I
dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio5.
SANGUINETI: Com’era verde, però, la nostra valle! E
com’erano carini i sottoproletari di una volta! Io me li ricordo
benissimo, pittoreschi e straccioni, che con la selezione naturale
venivano su come tante querce. […] Ah, i nostri ragazzi di Vita, che
bella Vita violenta che si facevano. Brutti tempi, quando i
sottoproletari si infilano la cattiva strada che li può portare, un
giorno o l’altro, non so, a leggere Vico, a leggere Gramsci. Perduta la
splendida «rozzezza» di un tempo, si sono messi anche a fare gli
«studenti», i maleducati6 (…)
PASOLINI: Io sono una forza del Passato. Solo nella
tradizione è il mio amore. Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale
d’altare, dai borghi abbandonati sugli Appennini o le Prealpi dove sono
vissuti i fratelli7.
L’Italia è passata all’epoca del Consumismo e della Sottocultura,
perdendo così ogni realtà, la quale è sopravvissuta quasi unicamente nei
corpi e precisamente nei corpi delle classi povere. Protagonista dei
miei film, è stata così la corporalità popolare […]. Mi pento
dell’influenza liberalizzatrice che i miei film eventualmente possano
aver avuto nel costume sessuale della società italiana. Essi hanno
contribuito, in pratica, a una falsa liberalizzazione, voluta in realtà
dal nuovo potere riformatore permissivo, che è poi il potere più
fascista che la storia ricordi. Nessun potere ha avuto infatti tanta
possibilità e capacità di creare modelli umani e di imporli come questo
che non ha volto e nome8,
Abbiamo creduto che questo cambiamento/dovesse essere tutta la nuova
storia./Invece grazie a Dio si può tornare/indietro. Anzi, si deve
tornare/indietro. Anche se occorre un coraggio/che chi va avanti non
conosce9.
LATOUCHE: Il termine “decrescita” suona come una
sfida o una provocazione […] Significa abbandonare radicalmente
l’obiettivo della crescita, un obiettivo il cui motore non è altro che
la ricerca del profitto da parte dei detentori del capitale e le cui
conseguenze sono disastrose per l’ambiente … i limiti della crescita
sono definiti dalla quantità disponibile di risorse naturali […] Non è
possibile la crescita indefinita in un mondo finito […] La riproduzione
sostenibile ha regnato sulla Terra all’incirca fino al diciottesimo
secolo; è ancora possibile trovare esperti di riproduzione sostenibile
tra gli anziani dei paesi del sud del mondo. Gli artigiani e gli
agricoltori che hanno conservato gran parte dell’eredità dei modi
ancestrali di fare e pensare vivono generalmente in armonia con il loro
ambiente […] Caro Pier Paolo, mi mai pensare a quei contadini che
piantavano ulivi e fichi di cui non avrebbero mai visto i frutti
pensando alle generazioni successive, senza esservi costretti da alcun
regolamento ma semplicemente perché i loro genitori, i loro nonni e
tutti coloro che li avevano preceduti avevano fatto lo stesso10 (…)
PARISE:
Il nostro paese si è abituato a credere di essere (non ad essere)
troppo ricco. A tutti i livelli sociali, perché i consumi e gli sprechi
livellano e le distinzioni sociali scompaiono, e così il senso più
profondo e storico di “classe”. Noi non consumiamo soltanto, in modo
ossessivo: noi ci comportiamo come degli affamati nevrotici che si
gettano sul cibo (i consumi) in modo nauseante. Lo spettacolo dei
ristoranti di massa (specie in provincia) è insopportabile. La quantità
di cibo è enorme, altro che aumenti dei prezzi. La nostra “ideologia”
nazionale, specialmente nel Nord, è fatta di capannoni pieni di gente
che si getta sul cibo. E ora veniamo alla povertà. Povertà non è
miseria, come credono i miei obiettori di sinistra. Povertà è una
ideologia, politica ed economica. Povertà è godere di beni minimi e
necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il vestiario
necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà e necessità
nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la salute
delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è l’automobile, le
motociclette, le famose e cretinissime “barche”. Povertà vuol dire,
soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in senso economico) di
ciò che si compra, del rapporto tra la qualità e il prezzo: cioè saper
scegliere bene e minuziosamente ciò che si compra perché necessario,
conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti
necessari. Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, imbrogli,
roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla
sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere o
aumentare la produzione. Povertà è assaporare (non semplicemente
ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio,
il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese;
imparando a conoscere questi prodotti si impara anche a distinguere gli
imbrogli e a protestare, a rifiutare. Povertà significa, insomma,
educazione elementare delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli
alla vita. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal
nylon, il lino dal cotone, il vitello dal manzo, un cretino da un
intelligente, un simpatico da un antipatico perché la nostra sola
cultura è l’uniformità piatta e fantomatica dei volti e delle voci e del
linguaggio televisivi. Tutto il nostro paese, che fu agricolo e
artigiano (cioè colto), non sa più distinguere nulla, non ha educazione
elementare delle cose perché non ha più povertà. Il nostro paese compra e
basta. Il denaro non è più uno strumento economico, necessario a
comprare o a vendere cose utili alla vita, uno strumento da usare con
parsimonia e avarizia. No, è qualcosa di astratto e di religioso al
tempo stesso, un fine, una investitura, come dire: ho denaro, per
comprare roba, come sono bravo, come è riuscita la mia vita, questo
denaro deve aumentare, deve cascare dal cielo o dalle banche che fino a
ieri lo prestavano in un vortice di mutui (un tempo chiamati debiti) che
danno l’illusione della ricchezza e invece sono schiavitù. Il nostro
paese è pieno di gente tutta contenta di contrarre debiti perché la lira
si svaluta e dunque i debiti costeranno meno col passare degli anni. Il
nostro paese è un’enorme bottega di stracci non necessari (perché sono
stracci che vanno di moda), costosissimi e obbligatori. Si mettano bene
in testa gli obiettori di sinistra e di destra, gli “etichettati” che
etichettano, e che mi scrivono in termini linguistici assolutamente
identici, che lo stesso vale per le ideologie. Mai si è avuto tanto
spreco di questa parola, ridotta per mancanza di azione ideologica non
soltanto a pura fonia, a flatus vocis ma, anche quella, a oggetto di
consumo superfluo. I giovani “comprano” ideologia al mercato degli
stracci ideologici così come comprano blue jeans al mercato degli
stracci sociologici (cioè per obbligo, per dittatura sociale). I ragazzi
non conoscono più niente, non conoscono la qualità delle cose
necessarie alla vita perché i loro padri l’hanno voluta disprezzare
nell’euforia del benessere. I ragazzi sanno che a una certa età (la
loro) esistono obblighi sociali e ideologici a cui, naturalmente, è
obbligo obbedire, non importa quale sia la loro “qualità”, la loro
necessità reale, importa la loro diffusione. Ha ragione Pasolini quando
parla di nuovo fascismo senza storia. Esiste, nel nauseante mercato del
superfluo, anche lo snobismo ideologico e politico (c’è di tutto, vedi
l’estremismo) che viene servito e pubblicizzato come l’élite, come la
differenza e differenziazione dal mercato ideologico di massa
rappresentato dai partiti tradizionali al governo e all’opposizione.
L’obbligo mondano impone la boutique ideologica e politica, i
gruppuscoli, queste cretinerie da Francia 1968, data di nascita
del grand marché aux puces ideologico e politico di questi anni. Oggi, i
più snob tra questi, sono dei criminali indifferenziati, poveri e
disperati figli del consumo. La povertà è il contrario di tutto questo: è
conoscere le cose per necessità. So di cadere in eresia per la massa
ovina dei consumatori di tutto dicendo che povertà è anche salute fisica
ed espressione di se stessi e libertà e, in una parola, piacere
estetico. Comprare un oggetto perché la qualità della sua materia, la
sua forma nello spazio, ci emoziona. Per le ideologie vale la stessa
regola. Scegliere una ideologia perché è più bella (oltre che più
“corretta”, come dice la linguistica del mercato degli stracci
linguistici). Anzi, bella perché giusta e giusta perché conosciuta nella
sua qualità reale. La povertà, infine, si cominci a impararlo, è un
segno distintivo infinitamente più ricco, oggi, della ricchezza. Ma non
mettiamola sul mercato anche quella, come i blue jeans con le pezze sul
sedere che costano un sacco di soldi. Teniamola come un bene personale,
una proprietà privata, appunto una ricchezza, un capitale: il solo
capitale nazionale che ormai, ne sono profondamente convinto, salverà il
nostro paese11. PASOLINI: Quarant’anni dopo io, feto adulto, mi aggiro, più moderno di ogni moderno a cercare fratelli che non sono più12
e posso liberarmi di me stesso, cioè di morire. Morire nella mia
creazione: morire come in effetti si muore, di parto: morire come in
effetti si muore, eiaculando nel ventre materno»13. Ciò che non esprimo muore. Non voglio che nulla muoia in me14.
Quasi un testamento, una serie di riflessioni rilasciate
dall’autore al giornalista inglese Peter Dragadze e pubblicate postume
(“Gente”, 17 novembre 1975) ↩︎
Sanguineti, Edoardo, La bisaccia del mendicante, «Paese Sera», 27 dicembre 1973 ↩︎
I versi di Poesie mondane vennero pubblicati
originariamente assieme alla sceneggiatura di Mamma Roma (Rizzoli,
Milano 1962) ed entrarono poi a far parte della raccolta Poesia in forma
di rosa (1964) ↩︎
Si tratta dell’intervento al convegno Erotismo, eversione, merce, organizzato a Bologna nel dicembre del 1973 ↩︎
Mai o quasi ho trovato disponibile e umano un
uomo investito di un qualche potere. Dice bene Seneca: prospera animos
efferunt, le prosperità insuperbiscono gli animi.
L'alterigia e la superbia derivanti dalle conquiste sociali, dalla pole
position dell'azienda-società dove il curriculum e il cursus honorum ti
permettono la premiazione a incarichi più alti...dimenticate che uomo è
homo, ed è quindi humus, terra, da cui deriva humilis, umile: un uomo
senza umiltà non è uomo. La disumanità sottende vuotezza. Sublime non è ciò che è alto, ma ciò che è sotto il limite umano.
Sul giornale AVVENIRE oggi è stato pubblicato questo bellissimo testo inedito di Tolstoj:
Il vecchio Tolstoj e la notte oscura
Non
potrei più rinviare e temporeggiare. Inutile esitare e riflettere più
a lungo su ciò che ho da dire. La vita non aspetta. La mia esistenza
è già sul declino e a ogni istante può spegnersi. Se posso ancora
rendere qualche servizio agli uomini, se posso farmi perdonare i miei
peccati, la mia vita oziosa e sensuale, è soltanto insegnando agli
uomini, miei fratelli, ciò che mi è stato dato di comprendere più
chiaramente di loro; ciò che da molti anni mi tormenta il cuore. Tutti
gli uomini sanno, come me, che la nostra vita non è quella che dovrebbe
essere, e che reciprocamente ci rendiamo infelici. Sappiamo che per
essere felici e per rendere felici gli altri bisogna amare il prossimo
come noi stessi e, se ci è impossibile fargli ciò che vorremmo ci
fosse fatto, almeno non gli facciamo ciò che non vogliamo sia fatto a
noi.
È quel che insegnano le religioni di tutti i popoli e la ragione e
la coscienza di ognuno di noi comandano. La morte dell’involucro
corporeo che ogni momento ci minaccia, ci richiama al carattere
effimero di tutti i nostri atti; così l’unica cosa che possiamo fare e
che può procurarci la felicità e la serenità, è obbedire ogni momento a
ciò che la nostra coscienza ci comanda, se non crediamo alla
rivelazione; a obbedire all’insegnamento di Cristo, se ci crediamo. In
altri termini, se non possiamo fare al prossimo ciò che vogliamo sia
fatto a noi, almeno non gli facciamo ciò che non desideriamo per noi.
Sebbene tutti conosciamo da molto tempo questa verità, invece
d’attuarla gli uomini uccidono, rubano, violentano.
Così, invece di vivere nella gioia, nella tranquillità e
nell’amore, essi soffrono, penano e non provano che odio o paura gli
uni per gli altri. Dappertutto, su tutta la terra, gli uomini cercano di
dissimularsi la loro vita insensata, di dimenticarsi, di soffocare la
loro sofferenza, senza potervi riuscire. Così, il numero di coloro che
smarriscono la ragione e si suicidano aumentano di anno in anno, poiché
è al disopra delle loro forze sopportare una vita contraria alla natura
umana.
Ma, si dirà, forse è necessario che la vita sia tale; necessaria
l’esistenza degli imprenditori, dei re, dei governi, dei parlamenti
che comandano milioni di soldati provvisti di fucili e di cannoni,
pronti a ogni istante a gettarsi gli uni su gli altri; necessarie le
fabbriche e le officine che producono oggetti inutili e nocivi, dove
milioni di uomini, di donne e di fanciulli sono trasformati in macchine,
faticando 10, 12 e 15 ore al giorno; necessari il crescente
spopolamento dei villaggi e l’affollamento progressivo della città coi
loro cabaret, i loro asili notturni, i loro rifugi per l’infanzia e i
loro ospedali; necessaria la carcerazione di centinaia di migliaia di
uomini.
Forse è necessario che i matrimoni diminuiscano sempre più, che la
prostituzione e gli aborti aumentino ogni giorno e che gli uomini si
abbandonino sempre più allo stravizio. Forse è necessario che la
dottrina di Cristo, che insegna la concordia, il perdono delle offese,
l’amore del prossimo, del nemico, sia inculcata agli uomini da preti di
sètte innumerevoli in continua lotta fra loro, e ciò sotto forma di
favole stupide e immorali sulla creazione del mondo e dell’uomo, sul suo
castigo e la sua redenzione da parte di Cristo, e su questo o quel
rito; questo o quel sacramento.
Forse, tale stato di cose è naturale all’uomo, come è proprio delle
formiche e delle api vivere nei loro formicai e nei loro alveari in
lotte continue e senz’altro ideale. Forse è la legge degli uomini,
mentre il richiamo della ragione e della coscienza a un’altra vita
amorosa e lieta non è che un sogno, e non si saprebbe immaginare una
vita diversa da quella di oggi. È infatti così che parlano certuni. Ma
il cuore umano non vuole crederci. Esso si è sempre rivoltato contro la
vita di menzogna e ha sempre invitato gli uomini a lasciarsi guidare
dalla ragione e dalla coscienza; ai giorni nostri, fa più che mai
urgente questo appello. Non esistevamo per secoli, per millenni, per
un’eternità; poi, eccoci sulla terra, viventi, pensanti, amanti, in
godimento della vita.
Ora, possiamo vivere fino a settant’anni – se pur arriviamo a
quest’età, giacché possiamo anche non vivere che qualche giorno, qualche
ora – nel cruccio e nell’odio o nella gioia e nell’amore; possiamo
vivere con la coscienza di far male, oppure di compiere, anche
imperfettamente, ciò che possiamo credere il nostro dovere.
«Ravvedetevi, ravvedetevi, ravvedetevi!... » gridava agli uomini
Giovanni Battista. «Ravvedetevi...», diceva Cristo. «Ravvedetevi»,
diceva la voce di Dio come la voce della coscienza e della ragione.
Anzitutto, fermiamoci ognuno in mezzo alle nostre occupazioni, ai nostri
piaceri, e domandiamoci: “Facciamo noi quel che dobbiamo, o invece
spendiamo inutilmente la nostra vita, questa vita che ci è dato
passare fra due eternità di nulla?”.
So molto bene che, sotto la spinta degli uomini, come un cavallo che
fa girare una ruota, ci è impossibile fermarci per riflettere un
istante. Gli uni ci dicono: «Non tante riflessioni, ma azioni». Altri
affermano: «Non bisogna pensare a sé, ai propri desideri, quando
l’opera al cui servizio ci troviamo è quella della nostra famiglia,
del-l’arte, della scienza, del commercio, della società; tutto per
l’interesse generale ». Altri assicurano: «Tutto è stato da tempo
pensato e provato, nessuno ha trovato di meglio; viviamo la nostra vita,
ecco tutto». Altri, infine, pretendono: «Riflettere o non riflettere è
tutt’uno; si vive, poi si muore; il meglio è dunque vivere per il
proprio piacere. Quando si vuol riflettere, ci si avvede che la vita è
peggiore della morte e si attenta ai propri giorni.
Dunque basta col riflettere: viviamo come possiamo». Non ascoltate
queste voci; a tutte le loro ragioni, rispondete semplicemente: «Dietro
di me vedo l’eternità durante la quale non esistevo; davanti a me
sento la stessa notte infinita dove la morte può ogni momento
inghiottirmi. Attualmente io vivo e posso – io so che posso – chiudendo
volontariamente gli occhi, cadere in un’esistenza piena di miserie; ma
so che aprendoli per guardare intorno a me, posso scegliere;
l’esistenza migliore e la più felice.
Così, checché dicano le voci, quali che siano le seduzioni che mi
attirano, per quanto io sia preso dall’opera che ho incominciata, e
trascinato dalla vita che mi circonda, mi fermo, esamino, rifletto».
Ecco ciò che tenevo a ricordare ai miei simili, prima di tornare
nell’infinito. ( Traduzione di Adriano Vettori)
Donne, cavalieri, armi, amori: una mostra sull’Orlando Furioso
di Licia Vignotto
Da quali suggestioni nasce la poesia? Cosa ricorda chi congegna
l’intreccio di una storia? Soprattutto: quali visioni si celano dietro
le palpebre chiuse di chi traduce il sogno in letteratura? Sono queste
le domande che hanno guidato negli ultimi tre anni il lavoro di Guido
Beltramini e Adolfo Tura, i curatori della mostra dedicata a Ludovico
Ariosto inaugurata sabato 24 settembre, a Palazzo Diamanti. Allestimento
stupefacente perché, con grandissima cura e ben piazzati colpi di
scena, materializza la curiosità che ogni lettore nutre nei confronti
del suo scrittore preferito e trasforma – finalmente! – l’Ariosto
nell’artista che tutti avremmo voluto conoscere.
L’appuntamento con l’autore non si poteva prescindere: nel 2016 infatti ricorrono i cinquecento anni dalla prima stesura dell’Orlandofurioso
e sia nel capoluogo estense, dove il testo venne concepito e scritto,
sia in tante altre città italiane già da mesi si susseguono omaggi e
conferenze. Approfondimenti necessari e doverosi, ma spesso poco
efficaci perché incapaci di invitare e accogliere una platea diversa da
quella stretta degli addetti ai lavori, di suscitare l’attenzione di un
pubblico più trasversale e diffuso. Le peripezie astrali di Astolfo, le
prodezze erotiche dell’affascinante Medoro, nonostante siano state per
secoli patrimonio conosciuto e condiviso, negli ultimi trent’anni sono
scivolate purtroppo nel dimenticatoio. «Un eclissi che merita vendetta»,
come ha sottolineato Melania Mazzucco sulle pagine del Venerdì, precisando che il ricordo collettivo è purtroppo filtrato unicamente dai banchi di scuola.
Riuscirà la mostra di Palazzo Diamanti a spazzare via gli sbadigli
delle ore trascorse tra una parafrasi e una schiacciatina sbriciolata
nello zaino, a risvegliare l’innamoramento e la meraviglia? Passeggiando
tra le sale qualche giorno prima dell’inaugurazione, mentre i
restauratori con infinita pazienza scartano dagli imballaggi le ultime
opere ancora da sistemare, si respira già l’aria del riscatto.
Merito dell’intuizione dei curatori: evitare la rappresentazione del
poema, scansare la documentazione iconografica della sua ricchissima
fortuna, focalizzare l’attenzione sull’autore, ricostruire l’universo in
cui viveva, le immagini di cui si circondava o che incrociava nella
quotidianità, le notizie che riceveva e gli stimoli che raccoglieva, tra
appuntamenti a corte e carteggi. In sintesi: fare un passo indietro
rispetto all’Orlando. Operazione semplice da descrivere ma
complicatissima da realizzare, che ha richiesto uno studio rigorosissimo
– guidato dalla docente Cristina Montagnani, tra i maggiori esperti a
livello nazionale – oltre che un grande impegno diplomatico ed
economico, sostenuto dalla Fondazione Ferrara Arte.
I gioielli raccolti per questa esposizione sono tanti. Direttamente dal Louvre arriva Minerva che scaccia i vizi dal giardino delle virtù,
l’unica opera d’arte citata esplicitamente da Ariosto, che dopo averla
ammirata nel camerino della duchessa Isabella d’Este, che visitò nel
1507, decise di utilizzare le stesse creature zoomorfe dipinte da
Mantegna per descrivere i mostri che Ruggiero incontra nel regno della
maga Ancina. Risale sempre al 1507 il “certificato di nascita” dell’Orlando furioso:
la lettera inviata da Isabella al fratello Ippolito, dove racconta di
aver parlato con il poeta del componimento a cui si stava dedicando. ll baccanale degli Andrii di Tiziano ritorna in Italia per
la prima volta dal 1598, anno in cui venne portato via dalla sua
originale collocazione: il camerino del duca Alfonso I d’Este.
Attualmente compreso nella collezione del Museo del Prado, l’eccezionale
prestito è stato possibile grazie alla mediazione del Comune di Ferrara
e dell’ambasciatore italiano a Madrid.
I capolavori di Giorgione, Pisanello, Dosso Dossi, Albrecht Dürer,
Raffaello, Paolo Uccello, Cosmè Tura, Bramante, Ercole de’Roberti e
Veronese – solo per citarne alcuni – dialogano con un prezioso apparato
di mappe, carteggi, incunaboli, arazzi e reperti. Accanto a Una battaglia fantastica con cavalli e elefanti,
disegno di Leonardo raffigurante uno scontro fantastico tra cavalieri e
giganti, concesso dalla Regina Elisabetta II, una teca custodisce l’olifante,
il corno di avorio che per oltre mille anni si è creduto fosse stato
usato da Orlando per colpire a morte l’ultimo saraceno, nella battaglia
di Roncisvalle. La Venere pudica di Botticelli, algida come
Angelica legata allo scoglio, a tal punto fredda e indifferente da
sembrare una statua, accompagna la prima stampa del Furioso, con i refusi corretti a mano dallo stesso Ariosto, oggi proprietà della British Library.
Tra gli imperdibili – assieme alla Carta del Cantino, la prima mappa
per la navigazione ad aver compreso il profilo della costa americana,
citata dal poeta – anche la missiva di Macchiavelli all’amico Alemanni,
datata 1517, prima attestazione scritta di apprezzamento, che mescola
complimenti e stizza: l’autore de Il Principe si lamentava
infatti di non essere stato citato, di essere stato lasciato fuori “come
un cazzo” (o “come un cane”, secondo l’interpretazione più recente).
«Questo allestimento è stata una sfida complessa – commenta il
curatore Beltramini –, soprattutto perché l’obiettivo che ci siamo posti
è stato quello di superare la diffidenza del pubblico nei confronti di
una narrazione che spesso conosce poco. Si potranno ammirare dei pezzi
eccezionali ma il rapporto che li avvicina non è scontato: per questo i
visitatori potranno usufruire gratuitamente dell’audio guida in mp3, che
permette di leggere e capire la stretta connessione tra realtà, arte e
letteratura. Sempre per questo è stata commissionata la grande
infografica dedicata all’intreccio, curata dai professionisti di Fludd,
soluzione innovativa e suggestiva che astrae e trasforma in decorazione
la trama labirintica in cui si muovono Orlando e i suoi compagni. Quello
che abbiamo cercato di realizzare è una mostra dedicata alla
creatività».
Testo ripreso da http://www.minimaetmoralia.it/wp/orlando-furioso/
Noi procediamo per assonanze e dissonanze, poca luce ci porta a distinguere; noi non siamo esseri solari ma profittatori di barlumi, commercianti di neve. Noi procediamo con una serpe in spalla.
G.G. Battaglia - Rocciàs 1986-87, ora in POESIE, Lithos Editrice, Roma 2015
Esiste un elemento di
continuità nel lungo, contraddittorio e turbolento percorso di de
Martino (nel 2015 ricorreva il cinquantenario della morte), a partire
almeno dallo studio incipitario Il mondo magico (1948) e
passando dalle risultanze sulle «spedizioni» compiute nei Sud
d’Italia a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta – Sud e magia
del 1959, di cui Donzelli pubblica una nuova edizione che recupera
anche materiali sparsi del «cantiere» lucano, e due anni dopo La
terra del rimorso sul fenomeno del tarantismo nel Salento –, per
approdare infine al postumo La fine del mondo (1977 e 2002),
che lo occupò negli ultimi anni di vita. Questa direttrice convoca e
implica una serie di problematiche interne alla storia sociale della
cultura nel secondo Novecento, con tangenze che riguardano non
soltanto lo specifico degli studi etno-antropologici in Italia, ma
più radicalmente lo statuto e le forme di legittimazione del sapere
scientifico e filosofico, i rapporti tra teoria e prassi, tra storia
delle religioni, impegno politico e psicoanalisi, cultura popolare e
pensiero gramsciano, esistenzialismo, fenomenologia e filosofia della
storia; ed è rappresentata, mi pare, dalle ricerche
pluri-prospettiche e «molecolari» che de Martino, rinnovando di
volta in volta strumenti metodologici e campi di studi, ha condotto
sin dalla genesi della sua storia intellettuale intorno allo
«scandalo» (σκάνδαλον, «ostacolo») del mito e
dell’arcaico, l’autentico rimosso nell’epoca del lungo tramonto
e della secolarizzazione dell’Occidente (secondo Leopardi l’epoca
della tentata «geometrizzazione» della vita).
Si tratta più
precisamente di un pensiero ibrido che vive all’incrocio tra
revisione dell’idealismo crociano e marxismo critico, sospeso tra
fascino dell’irrazionale e bisogno di militanza politica, ragione
illuminista e tensione libertaria o progressista, che insisteva
nell’indagare le latenze e la persistenza nel Moderno di un
sottofondo «altro», antico e «oscuro», irriducibile alle
categorie del pensiero tradizionale (normativo e «immunitario»): i
«residui» della cultura popolare e subalterna, la sopravvivenza e
il perpetuarsi di forme del passato arcaico così come si
ripresentano in contesti sociali concreti e nel fondo della coscienza
umana, nelle vesti di pratiche magico-rituali o simboliche attivate
per rispondere alla condizione di «miseria psicologica» e sociale,
alla perdita e alla «crisi della presenza». Dal magismo alle
fascinazioni lucane, dal lamento funebre al tarantismo pugliese fino
alle antiche e nuove forme di disagio e «apocalissi culturali» da
intendere, scriverà nella Terra del rimorso, come «relitti
folklorico-religiosi [che] diventano documenti di un’unica storia».
Se continuiamo ad
adoperare quest’ottica strabica e telescopica, per ragionare oggi
sull’eredità del suo pensiero, è evidente che la scoperta sul
campo del meridione italiano «escluso dalla storia» nei primi anni
Cinquanta, complici e mallevadori Carlo Levi e Rocco Scotellaro, si
configurava in Sud e magia come terreno d’incontro decisivo
di questi saperi eterogenei e di una pratica politica non ortodossa,
in linea con lo spirito anti-normativo (anti-accademico) e
«indisciplinato», non solo interdisciplinare, che informa il lavoro
di de Martino. In quello studio a tratti geniale, ma anche ricco di
contraddizioni interne e aporie metodologiche messe opportunamente in
rilievo da Fabio Dei e Antonio Fanelli nell’introduzione a questa
nuova edizione, confluivano un’eterodossa teoria e pratica
etnologica ad usum sui, maturata in un tormentato dialogo con lo
storicismo crociano e con gli studiosi delle religioni primitive come
Pettazzoni e Marchioro, e un impegno meridionalista a sua volta non
allineato e sostanzialmente isolato rispetto alle traiettorie
politiche e ideologiche del tempo, nonostante la militanza
«ufficiale» nelle fila del Partito Comunista. Ad esempio nei
confronti dell’uso e della ricezione di certe scritture di Gramsci
sui ceti subalterni (le «plebi rustiche del Mezzogiorno»), la
storia delle religioni all’interno dei discorsi su consenso ed
egemonia, i rapporti tra intellettuali, masse e cultura popolare –
un Gramsci riletto al di qua delle strategie riformiste e dei
posizionamenti politici del fronte socialista e comunista, ben oltre
lo «scientismo ecumenico» del PCI tra anni Cinquanta e Sessanta a
suo tempo stigmatizzato da Cesare Cases.
Provare a «storicizzare
l’intemporale», secondo la formula decisiva di Carlo Ginzburg –
la dimensione cioè socialmente situata, materiale e corporea dei
riti popolari del mezzogiorno, e insieme il sottofondo mitico e
metastorico che li attraversa –, voleva dire per de Martino
riprendere una tensione dialettica e dinamica di marca gramsciana:
tra alto e basso (struttura e sovrastruttura), sacro e quotidiano,
politico e trascendente, sentimento e conoscenza, teoria e prassi.
Significava intendere le forme arcaiche della cultura popolare, à la
Bourdieu, non in quanto patrimonio sepolto e intangibile, terreno
inerte o neutrale di sedimentazioni e «rottami» folclorici, ma come
campo instabile e conflittuale attraversato da precisi rapporti di
forza e di potere, e soprattutto come risultato di fratture,
sincretismi e interazioni, le più varie, tra le élites, i ceti
dominanti e quelli subalterni.
Lo dimostra la seconda
parte di Sud e magia, quella forse meno letta e considerata,
intitolata non per caso Magia, cattolicesimo e alta cultura,
nella quale de Martino conduce – nelle volute di uno storicismo
paradossale – un’analisi delle insorgenze di rituali
magico-protettivi come la jettatura non più nel contesto della
cultura popolare e arcaica, ma nel cuore del côté avanzato e
democratico dell’illuminismo napoletano di fine Settecento, a
partire da Vico, il quale «era per suo conto andato oltre la stessa
ragione illuminista e si era sollevato al concetto di una provvidenza
immanente nella storia umana» («Tanto più merita attenzione il
fatto che [...] sorse e si diffuse in circoli non indotti, e comunque
guadagnati al moto illuministico, una sorta di riscaldamento per
l’argomento della jettatura, col risultato di dare origine ad una
nuova formazione mentale e di costume»).
Resta da dire qualcosa
sulla natura conflittuale e irrisolta, e per questo vitale o vivente,
del pensiero complessivo e dell’impegno politico di de Martino,
soffermandoci prima di concludere sull’Epilogo di Sud e
magia, un finale ripreso anche nel documento che oggi chiude il
cantiere con scritti rari e dispersi allestito in appendice
all’edizione Donzelli, Miseria psicologica e magia in Lucania
(un saggio-resoconto sulla spedizione lucana pubblicato su rivista
nel 1958). A colpire sono i toni profetico-allusivi e in qualche modo
teleologici di un «segnalatore d’incendi» che, proprio come
Benjamin, aveva attraversato da giovane la crisi di civiltà, il
periodo dei totalitarismi e della «religione della morte»
professata dai fascismi nell’Europa degli anni Trenta e Quaranta, e
ora cercava di riguadagnare a una «possibile storia civile» il
portato di sofferenza e oppressione, «l’esistenza ingrata» dei
Sud del mondo: «Anche per le genti meridionali si tratta di
abbandonare lo sterile abbraccio con i cadaveri della loro storia, e
di dischiudersi a un destino eroico più alto e moderno di quello che
pur fu loro nel passato: un destino che non sia una fantastica città
del sole da fondare tra le montagne di Calabria, ma una civile città
terrena unicamente affidata all’ethos dell’opera umana, e
cospirante con le altre città terrene di cui è disseminata questa
vecchia Europa e il mondo intero che dell’Europa è figlio. Nella
misura in cui questo avverrà sarà ricacciato nei suoi confini il
regno delle tenebre e delle ombre».
Ma come per un estremo
paradosso che ci consegna questa esperienza intellettuale, l’approdo
finale o «tardo» delle ricerche di de Martino si situerà, come è
noto, proprio sul rovescio di quella «autentica luce della ragione»
con la quale terminava Sud e magia: ancora una volta insistendo a
esplorare con un altro cantiere in fieri, quello della Fine del
mondo, il lato oscuro e «notturno» del progresso, i rischi di ogni
metafisica identitaria, il carattere mortale dell’esperienza
individuale e collettiva, i sentimenti apocalittici e le forme
simboliche dell’angoscia esistenziale e del disagio sociale e
psichico che provengono dalla sparizione di antichi sistemi culturali
e dalle difficoltà di «appaesamento» al mondo, e che più o meno
segretamente intaccano e turbano, dagli anni Sessanta fino a oggi,
tra storia e micro-storie, il destino europeo e occidentale.
Era il paese della luce d’oro. La sera ogni persona, quasi in sogno abbandonarsi pareva. E mi pareva – la luce d’oro era finita – in sogno di te cadere, mio confuso amore. Sandro Penna
Cibo e letterarura. D'Arrigo, la fera alla ghiotta
Anna Malerba
Sulla estrema costa
tirrenica della Calabria, a pochi chilometri dalla mitica Scilla, si
possono incontrare ancora le ultime rappresentanti della antica e
fiera dinastia delle «bagnarote» che hanno molte e non superficiali
affinità con le «femminote» di Horcynus Orca, il ponderoso
romanzo di Stefano D’Arrigo, ristampato ora negli Oscar Mondadori.
La loro occupazione e fonte unica di guadagno è il contrabbando del
sale: comprano il sale franco in Sicilia, a Messina, e lo portano,
nascosto in tasche e sacchette cucite sotto le ampie sottane, fino in
Calabria facendo avanti e indietro fra Scilla e Cariddi.
’Ndria Cambria, il
giovane marinaio di Cariddi protagonista del romanzo, durante il suo
viaggio verso la Sicilia nell’ottobre 1943, arriva al paese delle
femminote proprio mentre nelle case le donne stanno cucinando «la
fera». Questa, infatti, è un’altra cosa per la quale vanno famose
le femminote «non solo per il saliare senza pagare dazio e il
sopraregnare sopra l’uomo, anche per il loro gusto appassionato di
cervella e di ventresca di fera».
«Fera» sono i pesci
selvaggi, abitualmente considerati non commestibili o poco
commestibili come il delfino e il verdone (tipo di squalo
voracissimo), e la famosa Orca, gigantesco e feroce cetaceo della
famiglia dei delfini, che raggiunge in qualche caso la lunghezza di 6
metri. La fera che le femminote usano cucinare «alla ghiotta»,
però, è certamente il delfino comune, cosmopolita frequentatore di
mari e oceani, comunissimo nel Mediterraneo. Il fatto grave e
imbarazzante è che mangiare il delfino è un po’ come mangiare il
cane: il delfino ha fama di animale simpatico e giocoso, intelligente
e amico dell’uomo. Si raccontano storie di bambini presi in groppa
e salvati dal delfino, di uomini che hanno mantenuto per anni
rapporti di amicizia con il delfino che veniva sulla spiaggia apposta
per incontrarsi con loro, e lo scrittore scienziato Leo Szilard
attribuisce a questi pesci doti profetiche e saggezza superiore agli
uomini.
E adesso chi se la sente
di mangiare la fera? Per incoraggiarvi posso dire che probabilmente
la forza e l’energia eccezionali delle bagnarote, e quindi delle
femminote, sono dovute al loro cibo «forte». Per questo lo servono
anche ai loro mariti, perché siano all’altezza delle loro pretese
erotiche. E pare proprio che tra le femminote e i loro uomini regni
un accordo perfetto. Infatti, dice D’Arrigo, «ai mariti, nemmeno a
loro gli schifava la fera. Del resto, non avrebbero altrimenti tenere
testa a quel terribilio di femmine, perché in mancanza di ostriche o
di aragoste, avevano uno stretto bisogno di quei bocconi forti e
pietrosi per addobbarsi la spina dorsale e addobbargli poi i fianchi
alle loro mogli».
La ricetta della fera
«alla ghiotta» descritta da D’Arrigo corrisponde esattamente al
modo in cui, in quella zona della Calabria, si cucina davvero il
delfino (il delfino, seccato al sole, si mangia anche in Liguria dove
curiosamente viene denominato «musciamme», come in
Calabria). Sebbene non venga da tutti apprezzato come dalle
femminote, questo pesce ha il vantaggio di essere fra tutti il più
economico e quindi abbastanza presente sulla tavola dei calabresi più
poveri.
Per fare perdere alla
fera l’odore e il «sapore di bestino», dopo averlo lavato sarà
bene lasciarlo per una intera nottata a bagno nell’aceto. Va quindi
tagliato a fette come fosse pesce spada o palombo, salato e messo sul
fuoco in un tegame di coccio con olio c un trito di cipolla e sedano
abbondante. Quando comincerà a rosolare, vanno aggiunti capperi
salati e olive nere, pomodori pelati e tagliati a pezzetti,
peperoncino piccante. Durante la cottura, se necessario, si può
aggiungere un po’ d’acqua.
A confronto con «questo
pasto feroce» delle femminote, appare tanto più frugale la merenda
offerta a ’Ndria Cambria dalle due «femminelle» sulla spiaggia
del Golfo di Santa Eufemia. D’altra parte le due femminelle, madre
e figlia, sono anch’esse molto diverse dalle femminote, come si può
facilmente desumere dalle rispettive denominazioni.
Le due donne offrono a
’Ndria Cambria pan biscotto, olive infornate e fichi secchi. Da
bere: acqua. Questa è una merenda semplice e rustica alla portata di
chiunque, che consiglierei tuttavia di accompagnare con vino bianco
secco al posto dell’acqua.
Per fare il pan biscotto
calabrese bisogna anzitutto fare il pane in casa nel modo
tradizionale, usando però farina integrale di grano duro. Si può
aggiungere una piccola quantità di farina di granturco. Una volta
che le forme saranno lievitate (da preferire il lievito naturale di
pasta acida al lievito di birra), si metteranno a cuocere in un forno
a legna. Quando il pane avrà raggiunto la classica doratura, si
dovrà estrarre dal forno e tagliare a fette che andranno quindi
rimesse nel forno e lasciate a seccare.
È un pane che non ha
certo un bell’aspetto, ma è di sapore molto gustoso e, per così
dire, primitivo. E naturalmente è durissimo. Dice D’Arrigo: «La
madre stentava coi suoi denti a sminuzzare il pane duro e allora la
figlia spezzettò coi denti davanti, raccogliendolo nel palmo della
mano, uno di quei pezzi di pane e così sbriciolato lo passò alla
madre». Non avendo a disposizione una figlia così servizievole si
consiglia questo pane solo a chi ha buoni denti.
Per semplificare la
preparazione del pan biscotto, si può anche comprare del pane
integrale di buona qualità, tagliarlo a fette e metterlo nel forno
della stufa, a fuoco molto basso finché non sia secco. Non sarà
proprio lo stesso, ma reggerà dignitosamente il confronto con quello
delle femminelle.
Le olive infornate sono
più semplici da preparare. Bisogna cogliere le olive molto mature,
cioè quando sono ben nere, quindi, dopo averle incise una ad una
come le caldarroste, si getteranno nell’acqua bollente. Si
ritireranno dopo una rapida sbollentata per metterle in un apposito
recipiente di coccio tutto forellato (si può trovare in un negozio
di artigianato calabrese, oppure si potrà usare un semplice
scolapasta), coperte di sale fino e condite con aglio, origano e
peperoncino piccante. Si lasceranno così a scolare l’amaro per
qualche giorno, rimestandole di tanto in tanto. Poi andrebbero
esposte al sole per una mattinata e finalmente infornate a calore
moderato fino a che saranno ben asciutte.
I suggerimenti
gastronomici che si possono trovare nelle fitte 1257 pagine del
romanzo di D'Arrigo non sono molto numerosi, ma la ricetta della
“fera alla ghiotta” ha certamente il pregio dell'originalità e
invano la si cercherebbe nei migliori libri di cucina.
«Tutto ciò che è immaginabile esisterà», amava
dire l’abate di Saint Pierre. Le utopie non sono spesso altro che verità
premature, spiegava Lamartine nel sottolineare la loro importanza nella
storia dell’uomo. Nessuno dei due aveva torto. Cinquecento anni fa, nel
1516, Tommaso Moro, pubblicando il suo romanzo filosofico Utopia, in
cui descriveva un luogo felice, un’isola che non c’è, creò non solo il
fortunato neologismo, ma anche la forma moderna di quel genere
letterario come viaggio immaginario dopo il tentativo di Platone di
descrivere nella Repubblica un progetto di legislazione ideale.
I convegni che stanno ovunque celebrando quell’anniversario dovranno
tuttavia d’ora in avanti fare i conti anche con la recente scomparsa di
Bronislaw Baczko, il massimo studioso del pensiero utopista nel secolo
dei Lumi. Grande amico di Franco Venturi, che nel 1969 diede a sua volta
un fondamentale contributo al tema con il celebre volumetto Utopia e
riforma nell’Illuminismo, lo storico polacco (era nato a Varsavia nel
1924, e lasciò il paese natale nel 1968 per stabilirsi in Francia e
quindi a Ginevra) ha infatti sempre privilegiato, nei suoi studi
sull’Illuminismo, l’approccio determinato dal primo termine del titolo.
In Lumières de l’utopie del 1979, egli definì l’età dei Lumi un periodo
“caldo” del pensiero utopista, alla pari del Rinascimento e della prima
metà del secolo XIX, ma del tutto peculiare e originale per la ricchezza
dei temi e delle forme del discorso. Accanto a utopie stataliste erano
fiorite allora utopie anarchiche, utopie agrarie e urbane, primitiviste e
rivolte al progresso delle scienze e delle tecniche, nonché viaggi
immaginari sulla luna, in isole oceaniche o nei deserti.
Se Rousseau ipotizzò il suo viaggio immaginario in Polonia cercando
di coniugare utopia e politica, Diderot creò il viaggio filosofico
inseguendo Bougainville nei mari australi per smascherare la natura
convenzionale del matrimonio e della proprietà, e Dom Deschamps raccontò
invece la sua metafisica utopia comunista e libertaria. Fu tuttavia
Louis-Sébastien Mercier nel 1771, con il suo fortunato romanzo L’An 2440,
a modificare radicalmente il paradigma tradizionale del discorso
utopista introducendo il viaggio immaginario nel tempo e non più in un
luogo che non c’è.
La clamorosa trasformazione della U-topia in U-cronia consentì a
Condorcet nel suo Esquisse d’un tableau historique des progrès de
l’esprit humain di coniugare storia e utopia, di descrivere l’avvento di
una decima e ultima età dell’umanità in cui finalmente una società
felice e cosmopolita di liberi ed uguali sarebbe vissuta in pace,
rispettando i diritti dell’uomo senza differenze di genere, di etnie, di
religione, di nazionalità: «Verrà dunque quel momento – scriveva il
philosophe pochi giorni prima di morire in prigione e di essere gettato
dai giacobini in una fossa comune - in cui il sole illuminerà sulla
terra ormai soltanto uomini liberi e che non riconosceranno altro
signore se non la propria ragione; in cui i tiranni e gli schiavi, i
preti e i loro strumenti stupidi e ipocriti esisteranno soltanto nella
storia». Lo scienziato Condorcet formulava la sua soluzione dell’enigma
della storia nei termini di una vera e propria previsione scientifica
sulla base dell’esperienza storica del passato creando in tal modo una
paradossale utopia antiutopica (L. Kolakowski), destinata ad affascinare
Guizot, Marx e i suoi epigoni.
Ma è stato sempre il secondo significato del termine utopia – quello
di luogo felice – ad appassionare Baczko. La storia dell’Illuminismo era
del resto inestricabilmente avviluppata con l’idea della ricerca della
felicità in terra. Una ricerca destinata a essere indicata da Jefferson
nella dichiarazione d’indipendenza delle colonie americane nel 1776 come
un diritto naturale, e poi perfino costituzionalizzata.
Job, mon ami. Promesse du bonheur et fatalitè du mal del 1997, il
libro capolavoro di Baczko, chiariva polemicamente contro arbitrarie
ricostruzioni storiografiche il carattere profondamente drammatico del
progetto utopico illuministico di coniugare ricerca della felicità e
presenza del male nella storia, di riflettere sulla condizione umana
prescindendo dal disegno divino della Provvidenza, rigettando sia il
rassicurante tout est bien di Leibniz sia il mito religioso del paradiso
terrestre, della caduta e del peccato originale come spiegazione ultima
del male. Con l’umanesimo illuministico e la sua secolarizzazione il
male, da assoluto che era nel paradigma agostiniano, diventava relativo:
prendeva corpo l’epocale passaggio dalla Teodicea alla Antropodicea.
L’essere umano veniva finalmente accettato realisticamente come parte
della natura: pensato empiricamente nella sua autonoma grandezza e
dignità di essere determinato a cercare la felicità in terra, ma allo
stesso tempo dolorosamente condizionato dalla natura stessa, dalla
contemporanea presenza nella storia del bene e del male. Un uomo
certamente limitato, ma anche capace di emanciparsi, libero di cercare
la sua felicità o il suo “surplus” di male prodotto dalla società e
quindi responsabile del proprio destino terreno; pronto in definitiva a
vivere con libertà e responsabilità la tragedia della vita. Al celebre
romanzo filosofico di Voltaire, Candide, variante illuministica del
biblico racconto di Giobbe, vessato dal male che Dio aveva permesso gli
capitasse per saggiare la sua fede, Baczko non a caso affidò le sue
conclusioni. Tra la vita serena nel mitico Eldorado e il ritorno nel
mondo reale, con le sue catastrofi come il terremoto di Lisbona del
1755, le sue guerre e le violenze di ogni tipo, Candide sceglieva di
tornare in quest’ultimo, grande e terribile, unicamente per ritrovare il
sorriso della sua amata Cunegonda e godere del suo attimo di felicità.
Nel 2011 a Baczko è stato assegnato il premio Balzan. Con quei fondi
egli ha diretto una monumentale ricerca dal titolo Dictionnaire critique
de l’utopie au temps des Lumières, ben 1500 pagine cui hanno
collaborato cinquanta studiosi di tutto il mondo. Un vero e proprio
testamento spirituale da cui emerge forte il messaggio che il bisogno di
utopia è inestinguibile per l’uomo e merita pertanto di essere
approfondito dal punto di vista della conoscenza storica e delle sue
possibili proiezioni future. Ma quel bisogno va vissuto con spirito
critico, impedendo che le utopie si trasformino in pietrificate e
pericolose ideologie come è avvenuto con il Terrore nella Rivoluzione
francese e poi con le utopie totalitarie del Novecento e le utopie
religiose dei fondamentalisti dei nostri giorni: salvandone sempre il
carattere valoriale, al servizio della felicità dell’uomo, come voleva
del resto Tommaso Moro.
IL PANE CROCEVIA DI CULTURA Giovedì 6 ottobre 2016, ore 9.30 Seminario Vescovile di Mazara del Vallo
Fra tutti i beni commestibili il pane è quello che possiede uno
speciale statuto, una straordinaria densità simbolica. Millenario
compagno dell’uomo e permanente oggetto di desiderio e di fatica, seme
fecondo di forza vitale, sul pane è possibile leggere come in un
palinsesto la storia e la cultura dei popoli del Mediterraneo. Da questo
convincimento muove la tavola rotonda che intende discutere del valore
materiale e simbolico associato alla preparazione e al consumo del pane,
cibo elementare alla base delle culture alimentari di popoli diversi e
pertanto segno eccellente di comunicazione e di scambio, di congiunzione
e di alleanze. Nel suo nome vogliamo far dialogare le opposte rive del
Mediterraneo, e in particolare gli uomini e le donne del Maghreb
immigrati a Mazara e gli abitanti della città, insieme impegnati
all’interno di un laboratorio a produrre il pane secondo le rispettive
tecniche e nelle forme tradizionali.
Nel 1975 Comune e
Provincia, secondo i dettami di legge, nominarono il Consiglio
d'Amministrazione dell'ospedale, che aveva un nome monarchico,
omaggio al “re soldato” che aveva voluto il fascismo e firmato le
leggi razziali. Tra i consiglieri, indicato dal partito, c'ero
anch'io.
Il paese, da quando era
arrivato l'oro nero, era cresciuto a dismisura e disordinatamente: da
ventimila abitanti era passato a ottanta mila; ma non era diventato
una città, piuttosto una caotica conurbazione. Era cresciuto, e di
molto, anche l'ospedale, per far fronte ai bisogni, ed anche quella
crescita non aveva seguito criteri di razionalità, benché a
governarla, per molti anni, non fossero stati i “politici”, ma
anticipando gli usi degli anni a venire, un uomo solo, un funzionario
dell'amministrazione. Al tempo si chiamava
commissario, non “manager” come adesso, ma maneggiava quattrini e
gestiva le “risorse umane” ed era uomo di fiducia dei politici
che lo avevano nominato.
Il funzionario era “cosa nostra”, cioè
godeva della fiducia del clan politico dominante nella sanità di
quella provincia di feudi e di miniere e in particolare del capoclan,
che veniva da un paese del vallone. Costui, laureato in medicina, era deputato e sindaco di lungo corso;
proprio in quegli anni era stato Sottosegretario di Stato alla
Sanità. Il commissario dell'ospedale era cosa sua e proveniva da un
altro, più grande, paese minerario e mafioso, ove il boss era un
certo Peppe, organizzatore di omicidi eccellenti perfino nella
capitale isolana, dove agiva con la copertura di un impiego nell'ente
minerario.
Quel Peppe avrebbe conosciuto l'attenzione di un grande
scrittore e una certa fama nazionale, quando, fatto ammazzare da una
cosca rivale, ebbe funerali davvero solenni, con la partecipazione di
monsignori, sottosegretari, deputati nazionali e regionali,
senatori, notai, grandi avvocati e luminari della medicina.
Fatto sta che negli anni
del commissario l'organico dell'ospedale si arricchì di “amici
degli amici” e di “parenti dei parenti”. Tra di loro il
centralinista cieco, un portiere invalido, portantini, infermieri,
funzionari, impiegati, tre o quattro medici, tra i quali il direttore
sanitario, imparentato col celebre Peppe.
Il paesone ov'era allocato l'ospedale non aveva tradizioni
mafiose autoctone: c'era tanta delinquenza, anche violenta, ma non un
organizzato e sistematico controllo del territorio ed una scientifica
infiltrazione dei pubblici poteri. Fu in quegli anni che vi furono i
primi attentati, prevalentemente dimostrativi, di carattere
propriamente mafioso; dopo ci sarebbe stata una vera e propria
mattanza tra cosche rivali. Di questo so poco, ero già andato via,
ma conservo il sospetto che l'Ospedale fosse uno strumento di
penetrazione.
Nei venti mesi che fui
nel consiglio di amministrazione scoprii, senza neanche troppo
impegnarmi a cercare, alcune magagne emblematiche. Vigeva l'uso, per
far prima, di assegnare i piccoli appalti con il sistema della
trattativa privata, chiedendo i preventivi ad almeno tre ditte. In
realtà li si chiedeva tutti a una sola ditta, quella predestinata
all'affare, che provvedeva a fare arrivare con la propria offerta
quelle di altre ditte amiche. Nessuna prova purtroppo, solo
confidenze del tipo “qui lo dico e qui lo nego”, accompagnate dal
“se non fai così, non lavori”. Si scelse di ricorrere alle gare
pubbliche di appalto anche per spese piccole, ma non sono certo che
il problema fosse risolto.
Altra voce fondata
riguardava il reparto di Otorino, che prevedeva turni infermieristici
notturni, ma non molto impegnativi, trattandosi generalmente di
interventi per adenoidi e tonsille. Seppi poi che un paio di
infermiere, piuttosto bellocce, arrotondavano prostituendosi in
reparto. Il portiere invalido, con un passato burrascoso, faceva
entrare le automobili dei clienti fidati e facoltosi: è molto
verosimile che l'uomo partecipasse agli utili e temo che ci fosse
qualche complicità poliziesca, pantere che senza apparenti ragioni
nelle notti giuste tranquillamente irrompevano nell'ospedale e
tranquillamente ne sortivano. Dopo un inutile esposto, denunciai la
cosa sui giornali: forse il mercimonio ospedaliero ebbe termine e il
traffico si spostò altrove.
Alla fine arrivò anche
un'inchiesta giudiziaria, con intercettazioni telefoniche. Alcuni
proprietari e professionisti del luogo, incluso uno dei primari del
nosocomio, avevano subito tentativi di estorsione: le richieste di
pagamento del pizzo provenivano dal centralino dell'ospedale, nelle
ore di servizio del cieco del vallone.
Da http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2016/09/lospedale-e-cosa-nostra-sll.html
Desnuda eres tan simple como una de tus manos,
lisa, terrestre, mínima, redonda, transparente,
tienes líneas de luna, caminos de manzana,
desnuda eres delgada como el trigo desnudo.Desnuda eres azul como la noche en Cuba,
tienes enredaderas y estrellas en el pelo,
desnuda eres enorme y amarilla
como el verano en una iglesia de oro.Desnuda eres pequeña como una de tus uñas,
curva, sutil, rosada hasta que nace el día
y te metes en el subterráneo del mundocomo en un largo túnel de trajes y trabajos;
tu claridad se apaga, se viste, se deshoja
y otra vez vuelve a ser una mano desnuda.
*****
Nuda sei semplice come una tua mano,
liscia, terrestre, piccola, rotonda, trasparente,
riservi linee di luna, sentieri di mela,
nuda sei sottile come il grano nudo.Nuda sei azzurra come la notte cubana,
riservi rampicanti e stelle nei capelli,
nuda sei vasta e gialla
come l'estate in una chiesa d'oro.Nuda sei piccola come una tua unghia,
curva, sottile, rosata se nasce il giorno
quando raggiungi il mondo sotterraneonella lunga galleria di vestiti e lavori:
la tua luce si spegne, si veste, si sfoglia
torna ancora ad essere una mano nuda.
Claudio Abbado considerava l’ascolto come la
principale qualità di un essere umano. E invece voi, cari amici, non
sapete più ascoltarvi, nè incontrarvi. Io vi ho dedicato delle messe,
l’arte della fuga, il Clavicembalo ben temperato, definito dal
critico tedesco Hans von Bülow, come «l’Antico Testamento della musica
per strumenti a tastiera», dove ho messo a confronto le voci più diverse
tra loro facendole cantare simultaneamente, senza creare conflitti, e
insegnando ai giovani la possibilità e la bellezza del dialogo. Perché
dove ci si ascolta non c’è il pericolo di guerra. E, invece, dove non
c’è cultura, dove non c’è bellezza e manca quel ponte inesauribile di
luce che si basa sull’armonia e l’amicizia tra i popoli, nascono gli
egoismi e tutti i conflitti che lacerano il nostro mondo.
Nelle vostre scuole non vi preoccupate di insegnare la musica, avete
sostituito i valori fondanti che distinguono l’essere umano da un
umanoide, con quelli dei social network. Preferite non avere
contatto gli uni con gli altri e nascondervi dietro le mura dei vostri
computer, ma la vera amicizia, la vera Cultura è ben altra cosa. Basta
ascoltare le mie invenzioni, le mie fughe per capire quant’è
bello fare andare d’accordo contemporaneamente più realtà diverse. La
musica ci insegna questo, l’arte delle muse ama le differenze. È inutile
che erigiate muri perché ogni muro che viene costruito elimina un
possibile ponte di luce e di fratellanza.
La salvezza sta in un mondo dove tutti possono dire la loro opinione
ed esprimere le proprie differenze. I vostri muri finiranno per
imprigionarvi ancora di più. Vi prego di ascoltare un vecchio uomo di
quasi trecento anni che vuole illuminarvi sugli aspetti della polifonia,
poiché soltanto in una società polifonica avremo la possibilità di
arrivare alla completa comprensione. Perché ove non c’è comprensione,
non c’è cultura, non c’è armonia tutto finisce, tutto viene sostituito
da finti valori, falsi miti, commercio spudorato non proiettato allo
spirito.
Cari fratelli, vi prego, ascolate le Sinfonie, l’arte della fuga, quell’emblema della fratellanza che è il Clavicembalo ben temperato,
dove le note vengono letteralmente temperate perché siano l’una a
favore dell’altra e dove tutti possano esprimere la propria diversità
senza compromettere la libertà e senza dare sfogo a inutili ostentazioni
che risucchieranno in modo violento tutto ciò che ci ha reso grandi.
Cari fratelli italiani, guardate al vostro passato, guardate a
Leonardo Da Vinci, a Michelangelo, a Cimabue, ad Antonio Vivaldi,
Benedetto Marcello, Claudio Monteverdi. Questi sono i vostri eroi. Mi
dispiace vedervi emozionati di fronte a manfestazioni che non dicono
nulla di nuovo, spesso confondete la vera musica con umori stentati ed
ossessionati, scambiate le canzonette con i capolavori; eleggete a
vostri eroi, calciatori e piloti, sebbene la vera cultura stia nelle
vostre radici. Siate fieri di ciò che i vostri avi hanno creato e
cercate di farne tesoro. Questo quanto vi dice un vecchio nonno di nome
Johann Sebastian Bach, amante della cucina, delle donne, del vino, della
bellezza, un affettuoso nonno col parruccone bianco che vi vuole bene,
ma allo stesso tempo ha bisogno che crediate in tutto quello che noi
prima di voi e per voi abbiamo creato.
Un mio interprete orientale di nome Ramin Bahrami, qualche anno fa ha
sostituito Facebook con FaceBach e mi ha fatto un grande dono: in
quell’occasione più di undicimila persone da tutto il mondo sono venute
nella magnifica città di Firenze per omaggiare la mia musica, e oltre
cinquantamila persone hanno ascoltato in streaming le
manifestazioni che passavano a Firenze nel religioso tempio della
bellezza del Palazzo dei Cinquecento, e in altri luoghi della città come
cinema, piazze e caffè. Per tre giorni si parlava della mia musica.
E la musica è un eccezionale strumento di aggregazione dei popoli. In
particolare la musica polifonica ci dà la possibilità di avere vedute
melodiche orizzontali. Ma che cos’è la polifonia? È quel dono che solo
la musica colta può farci, è quell’arte dove puoi far parlare
contemporaneamente più voci. Mentre se due persone parlano
contemporaneamente c’è cacofonia, un disastro totale, come avviene
spesso nei talk-show politici, nella polifonia invece non c’è mai
il rischio che il messaggio possa essere confuso o oscurato dalla
mancanza di chiarezza. La musica rende tutto questo possibile e per
questo vi dono le mie invenzioni, educandovi alla sublime arte della
composizione. Un mio grande erede, Ludwig van Beethoven, antesignano del
Nuovo Testamento della musica, ha detto che non dovrei chiamarmi
Bach (in tedesco: ruscello) bensì «Meer» (mare), riferendosi alla
straripante abbondanza e varietà delle mie composizioni.
L’augurio che faccio all’umanità è quello di recuperare la propria
fantasia e la libertà, che nasce solo dove c’è il bello. E auguro a
tutti di riscoprire il fuoco sacro per ritornare a risplendere con la
musica, con la cultura e, solo in questo modo, realizzare un mondo
davvero armonioso e pacificato.